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Una desolante estate in cella, in compagnia soltanto della fantasia A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 16 luglio 2007
L'estate in città dà già un'idea di abbandono, deserto, solitudine, ma l'estate in carcere è cento volte peggio: è la tristezza di una vita che diventa ancora più pesante, le zanzare da cui non ti puoi difendere, il caldo che ti opprime, i parenti che vanno in vacanza e diradano i colloqui, i volontari che entrano meno, tante attività che chiudono per una lunga pausa estiva. Allora si lavora con la fantasia, come raccontano le testimonianze di detenuti che seguono, ma la fantasia è straordinaria perché ti ritaglia degli spazi di quasi felicità, ma poi quando devi tornare a misurarti con la realtà, il confronto è desolante.
Ho sognato il mare, una donna e la libertà
Ieri sono andato ai passeggi, ho messo un asciugamano per terra e mi ci sono disteso sopra. Il cubicolo di cemento non fa passare l’aria, e i muri alti sono diventati subito roventi, a tal punto che scaldavano più del sole stesso. Il piacere di essermi preso un po' di "libertà" all'aria aperta e la sensazione di benessere all’idea di sentire il sole benefico avvolgermi coi suoi raggi, sono stati presto sostituiti dallo sconforto per quel caldo soffocante che mi aggrediva, e hanno lasciato il posto a un assillante desiderio di fuga verso la mia cella, dove la branda si trova giusto sotto la finestra e, attraverso le sbarre, a quell’ora scivola dentro un’arietta che concilia il sonno. Ma il passeggio è una trappola – sbaglierei di poco se dicessi che si tratta di un’altra galera nella galera – e ogni volta che passo attraverso il cancello stretto e poi sento la chiave girare tre volte chiudendomi l’unica via di fuga mi accorgo che in galera non ci sono spazi di libertà. Posso camminare avanti e indietro come se aspettasi l’autobus, posso passeggiare in circolo, come un animale in gabbia, oppure fermarmi e guardare i muri alti che disegnano un rettangolo di cielo, ma so per certo che non posso più uscire prima dello scadere del tempo: certo, se sto male potrei pregare di farmi tornare in cella, però l’agente aprirà il cancello soltanto nell’orario stabilito. Tuttavia, siccome io ormai conosco bene la regola, ieri non ho neppure pensato di chiedere di rientrare, e ho deciso che avrei passato le due ore di rovente cemento sognando la donna che voglio amare, la mia unica oasi di vita. Sotto il sole, disteso sull’asciugamano, ho chiuso gli occhi e ho immaginato un mare piatto, invitante, e un soffio di vento tiepido, delicato, che mandava nella mia direzione bagliori di un sole pomeridiano. Con la fantasia ho costruito questa scena vissuta anni fa, quando da piccolo osservavo i tramonti con gli occhi tristi di chi si separa da qualcosa che ama; o forse non ho mai visto un tramonto così, ma l’ho sognato talmente tante volte da convincermi che esiste nei miei ricordi d’infanzia. Certo che quella scena mi ha fatto venire in mente lei, e l’ho vista mentre passeggiava sola sul bagnasciuga, mettendo così in moto il treno dei desideri che mi conduce inevitabilmente a volerla avere vicino, qui e subito, per abbracciarla, per stringere il suo viso tra le mani e mangiarle di baci gli occhi, il naso, la bocca. Quando il rumore delle chiavi mi ha svegliato, ho dovuto combattere contro la rabbia per l’interruzione di un sogno cosi bello, ma poi mi sono ancora una volta stupito per come, anche nel posto più brutto, più arido, più disumano della terra, la prospettiva di allegri momenti di piacere passati insieme alla donna amata mi aveva cullato in un sonno dolce e trasportato in spazi meravigliosi, tra le sue braccia.
Elton Kalica
Vivo da dieci anni in un albergo di lusso?
Si parla tanto di carceri come alberghi a cinque stelle, e forse anch’io mi trovo in uno così. Ma quel che è certo è che qui non vivo, vegeto e basta. Stamani mi sono alzato alle sei dalla branda, mi sono spostato un passo più in là, ricurvo sul lavandino mi sono fatto il caffè, poi la barba, e infine sono indietreggiato di un passo, ritornato in branda e ho acceso il televisore per guardare il telegiornale. Dovevo andare al reparto scuole, alla redazione di Ristretti Orizzonti, che è il giornale del carcere, e l’orario d’uscita è intorno alle otto e mezza. Guardo un telegiornale, due, mi stufo. Spengo il televisore e riprendo a leggere un romanzo, abbandonato la sera prima. La storia è scritta bene e mi rapisce subito, facendomi perdere il senso del tempo, e non mi accorgo che, alle nove meno dieci, sono ancora in cella, nessuno si è fatto vivo per aprirmi il cancello. L'agente lo fa alle nove, senza fretta. La redazione si trova in un’aula ricavata da tre celle. Dentro, l’aria è umida perché ci sono infiltrazioni di acqua, e poi un caldo fastidioso contribuisce a rendermi nervoso. Ma la compagnia è bella perché oltre a una quindicina di detenuti ci sono anche i volontari che ci aiutano nel lavoro della redazione, che è sempre interessante, e questo bilancia la mia tensione, e mi calma. Quando si fanno cose che hanno un senso, il tempo passa velocemente, e il grido dell’agente "Orario!" mi coglie impreparato. Sono le undici meno cinque e alle undici dobbiamo essere in cella. Insomma le mie due ore mattutine di libera uscita sono finite. Il mio compagno di cella mi saluta, poi prende la sua solita terapia, credo una pastiglia di Tavor, una di Halcion e una di Xanax, si butta in branda e infila la testa sotto il cuscino. Accendo il televisore, prendo la scodella e allungo la mano fuori dal cancello per ricevere il pranzo che mangio con disinteresse. Lavo la scodella e riprendo a leggere. Finché non sento il rumore delle chiavi, e di cancelli che si aprono. È l’una e mezzo. Si può uscire di nuovo dalla cella e andare al reparto scuole. Corro in redazione e riprendo il lavoro, con la stessa passione di prima, ma anche il tempo passa con la stessa velocità di prima, e sono già le tre, si deve tornare in cella e l’orario delle attività anche per oggi è finito. L’agente sbatte forte il cancello, dà due mandate alla porta, e corre via contento: è finito anche il suo turno di lavoro. Il mio cancello rimarrà chiuso fino all’indomani mattina, quando verso le nove un agente ritornerà ad aprirlo... Il mio compagno di cella continua a dormire, e io riprendo il mio romanzo, e faccio quello che faccio da dieci anni, in quest’albergo a cinque stelle: steso in branda, leggo e guardo la televisione.
Ernesto Doni
Spero che i colloqui all’aria aperta possano diventare realtà
Il carcere in fondo una cosa non te la può assolutamente negare, la fantasia, e con quella tu ti puoi rifugiare nel tuo mondo inventato: ed ecco che mi ritrovo a vivere una vita fatta di favolose spiagge e fantastiche feste in cui posso anche permettermi di fare il protagonista, in fondo chi me lo vieta? Nessuno! Ecco come trascorro le mie estati da carcerato: pur relegato in spazi estremamente ristretti, vago con la fantasia per i mari caraibici con le persone che amo. Cosi io divento il pirata Morgan, mio nipote Niccolò, che è il più grande, lo nomino mio secondo, Mattia fa il mozzo, poi c’è la più furba di tutti, Alessandra, lei essendo la coccola di casa non può avere un compito pesante, cosi ho pensato di nominarla cambusiera, dovrà fornirci i viveri durante le nostre scorribande per mari sconosciuti, e via tutti alla ricerca di nuove spiagge dove approdare, e mentre le risate dei bimbi mi danno un senso di pace, sento nelle orecchie una voce fuori dal coro: "Bertani, Bertani" apro gli occhi un po’ infastidito e qualcuno mi dice che devo andare a colloquio. Raccolgo il sacchetto della biancheria sporca da dare fuori, i succhi di frutta e le brioche per i bambini e mi ritrovo in una sala rumorosa dove si fa fatica a parlare, si suda e tutto è fastidioso. Chiudo gli occhi un attimo e rivedo la ciurma sulla tolda della barca nel mar dei Caraibi, poi mi arrendo alla realtà e faccio il colloquio il più serenamente possibile, evitando di lasciar trasparire il mio disagio e cercando di coccolarmi un po’ i nipoti, e la mia ora vola. Alla fine abbraccio i miei nipoti e mia moglie e li guardo andar via, e piano piano rientro nella sezione dove si trova la mia cella, ma lungo il tragitto sbircio dalle finestre e vedo molti spazi verdi, e penso che certo il mar dei Caraibi sarebbe stato sempre il migliore, ma anche quegli spazi inutilizzati avrebbero potuto farmi vivere l’ora di colloquio in modo più piacevole, magari era sempre caldo, però almeno potevo giocare un po’ con i nipoti rincorrendoli sull’erba. Mi chiedo se sarà mai possibile trascorrere un tempo, anche brevissimo, con i miei famigliari in un luogo più confortevole della sala colloqui. In qualche carcere succede, forse si può sperare che anche qui prima o poi diventeranno realtà i colloqui nell'area verde. Certo è che i miei sogni restano vivi, e così pure le mie fantasie, ma quel po’ d’erba che mi ritrovo a vedere attraverso le finestre di quel lungo corridoio rimane nei miei rimpianti.
Maurizio Bertani
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