L'opinione dei detenuti

 

La salute in carcere, un diritto poco tutelato

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 14 gennaio 2008

 

In questi ultimi mesi sembra stia per essere completata una riforma, iniziata quasi dieci anni fa, che prevede il passaggio della gestione della sanità in carcere dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale. Sperare nel completamento di questa riforma significa sperare che la salute delle persone detenute sia un diritto pienamente riconosciuto e tutelato. Eppure, le testimonianze che riportiamo spiegano invece che il carcere è ancora un luogo in cui si sconta la pena con una serie infinita di piccole pene aggiuntive: dalla difficoltà a curarsi un dente, al disagio di diventare "fumatori per forza", allo stato di abbandono psicologico che porta le persone in galera a suicidarsi con percentuali molto più alte che nel mondo "libero".

 

Prevenire i suicidi in carcere dovrebbe essere possibile

 

Il suicidio credo sia un attimo in cui il buio ti travolge, e non ti fa razionalmente capire cosa stia succedendo: io in carcere a volte ho passato quell’attimo, poi la ragione torna a riprendere il suo posto, e non si arriva più ad un gesto cosi estremo. Nel "mondo libero" però ci sono più opportunità di recupero del proprio raziocinio, per il semplice fatto che qualunque sia la disgrazia che capita, le persone hanno almeno un forte ambiente sociale e famigliare che fa da scudo e protegge.

Io in carcere ci sto vivendo e anche se "a spezzoni" vi ho trascorso gli ultimi trent’anni, cosi ho avuto modo di vedere molte vite spegnersi dietro quel gesto irrazionale del suicidio. Ho visto ragazzi, ma anche adulti stremati nel fisico e nella mente per la gravità del reato commesso, ho visto gente prendere elevatissime condanne, e vivere in quel limbo di mancanza di raziocinio che spinge a gesti estremi, ho vissuto sulla mia pelle la realtà della morte di una persona cara e il fatto di non voler accettare che un padre sopravviva al proprio figlio. Più di una persona non è riuscita a "rientrare" da quella perdita totale di equilibrio e razionalità, qualcuna per fortuna ha poi ritrovato un minimo di desiderio di vivere.

Ma raramente ho visto le istituzioni delle carceri dove sono stato attivarsi per prendere in carico davvero le persone, attraverso psicologi e personale competente, e dare loro assistenza e sostegno, eppure non mi possono dire che non si sono accorti del loro star male. Perfino a me, semianalfabeta in materia di psicologia, spesso queste situazioni si sono presentate chiarissime. Io sono consapevole che in carcere le persone sono più fragili perché non hanno neppure la protezione della famiglia e degli amici, ma allo stesso tempo sono convinto che chi deve sorvegliare ha le sue responsabilità: la sorveglianza di persone private della libertà dovrebbe infatti prevedere un costante lavoro di recupero sociale e di salvaguardia della vita umana. Certo ci sono episodi che nessuno può realmente prevenire, ma ce ne sono altri, forse troppi, che si potevano evitare, e non credo che sia impossibile immaginare un’attenzione diversa per le persone detenute che manifestano un disagio particolare.

Mi chiedo se è giusto che tante persone muoiano in galera in una società che orgogliosamente si vanta di aver presentato all’ONU la moratoria contro la pena di morte, così lodevole sotto il profilo umanitario. E mi domando anche se non sia il caso che chi si batte contro la pena di morte cominci a indignarsi e a chiedere a gran voce che si faccia di più perché in carcere si muoia un po’ meno. O forse è meglio lasciare le cose come stanno, tanto, chi può scandalizzarsi se si suicida un detenuto, cioè un emarginato dalla società? alla fine non se ne accorge quasi nessuno, se non i suoi stessi famigliari.

 

Maurizio Bertani

 

Quando mi sono tolto un dente da solo

 

Sono in carcere da anni e ho visto quasi ovunque, in giro per le galere, che il problema delle cure dentistiche è drammatico, e anche qui non mi ci è voluto molto per capire quanto lunghi sono i tempi d’attesa. Circa quattro mesi fa, al mio compagno di cella ha cominciato a far male un dente. Come da regolamento, si è prenotato per la visita medica dal dentista, ed è stato inserito in una lunga lista d’attesa: è così che funziona in carcere perché, nonostante siamo più di cinquecento detenuti, certo non c’è un dentista che visiti quotidianamente.

Sono passati mesi e il mio compagno di cella ancora nessuno lo aveva chiamato per visitarlo, e il dente gli faceva sempre più male. Prendeva medicine ogni giorno per il dolore. Per me invece il problema è iniziato una settimana fa, all’improvviso ha cominciato anche a me a far male un dente. Non sapevo cosa fare, il dolore non mi dava tregua e soluzioni non ne vedevo. Il dente si muoveva un po’, e allora ho deciso di risolvere il problema da solo, ho preso un filo, l’ho legato bene al dente e poi ho cominciato a tirarlo giù. Il dolore era insopportabile. All’inizio ho pensato di rinunciare, e nel frattempo il mio compagno di cella mi ha detto di lasciar stare quella pazzia perché prima o poi mi avrebbero chiamato per una visita. Prima o poi? Questa cosa mi ha spaventato, ho immaginato mesi e mesi di attesa. Allora ho chiuso gli occhi, ho preso coraggio e ho tirato con tutta la forza che avevo senza pensare più al dolore. Il dente è venuto via senza problemi, senza nessuna emorragia.

Adesso il mio compagno di cella, dopo tante sofferenze, finalmente è stato chiamato dal dentista, che gli ha già devitalizzato il dente e a giorni glielo otturerà. Lui ha avuto più pazienza di me, nonostante i quattro mesi di attesa, di dolore, di notti insonni in cui piangeva tenendomi sveglio, ha resistito senza fare pazzie. Mentre io ho scoperto di non avere tutta quella capacità di resistere al dolore fisico e di fronte alla mia impotenza, con la consapevolezza che dalla mia cella non avrei potuto fare nulla per interrompere tutta quella sofferenza, me lo sono tolto da solo, e adesso dovrei pagare centinaia di euro, che non ho, per mettermi un dente nuovo.

 

Dritan Iberisha

 

Detenuto non fumatore: specie in via di estinzione

 

Sono un detenuto non fumatore, non ho mai fumato, nella mia famiglia non fuma nessuno. Ora sto espiando la mia pena, dove non era incluso il danno di essere soggetto al fumo passivo tutti i giorni, e a tutte le ore del giorno e della notte. La legge tutela i non fumatori, da quando in tanti si sono resi conto che i fumatori se ne fregavano di tutto e di tutti. Una corretta educazione ci dovrebbe ricordare che gli altri ed anche noi stessi esistiamo prima di tutto come persone da rispettare, ma se questo rispetto c’è poco fuori, in carcere c’è ancora meno. Purtroppo in galera io ho perso tutte le mie battaglie per vedere tutelata la mia salute: non esistono infatti spazi realmente liberi dal fumo, fumano tutti. Le giustificazioni secondo me non reggono, anche se è vero che la detenzione comporta un continuo stato di stress, e spesso di ansia forte che ti prende quando a casa hai qualcuno che sta male e non puoi fare niente. Problemi di ogni tipo ne abbiamo tutti in gran quantità, ma dovremmo almeno cercare di conviverci e non imporre a nessuno le conseguenze delle nostre scelte. Invece nessuno si interessa dei non fumatori, e pure l’istituzione fa ben poco per tutelare i diritti di chi non vuole aggiungere, alla sua condizione di disagio, anche i rischi del fumo passivo. Questo rappresenta un esempio di discriminazione avallata da tutti nel silenzio generale.

L’egoismo, l’arroganza, il menefreghismo trionfano, in una situazione di convivenza poco civile. Di civile infatti non c’è nulla nel lasciare sparse ovunque migliaia di cicche spente, filtri maleodoranti, cenere in ogni angolo. Questa è la realtà quotidiana, e chi non fuma subisce, e se qualche volta uno cerca di far capire che la situazione è pesante, viene preso per pazzo.

Non la pensa così il mio compagno di cella, Marco, che ha smesso di fumare per paura di morire. Era in cella in un altro carcere, gli è mancato improvvisamente il respiro, gli girava la testa. Subito non ha capito molto, ma quando era intubato in ospedale tutto gli è apparso chiarissimo, ha pensato ai quattro figli piccoli, alla moglie, al fatto che non valeva la pena morire a meno di quarant’anni. Ora ha uno stent coronarico, si cura, cerca di riprendersi la sua vita senza fumo, alle volte dopo due anni pensa ancora alla sigaretta, ne fumava due-tre pacchetti al giorno, e in più come me respirava tutto il fumo di centinaia di persone che vivono in spazi ristretti e malsani come le galere. Spiegare che migliaia di persone muoiono ogni anno in Italia per il fumo pare forse inutile in un luogo, dove la salute è tutt’altro che rispettata, ma anche se sembra una battaglia persa, io continuo a farla e a sperare che questi anni di carcerazione non mi rovinino del tutto la salute.

 

Daniele Barosco

 

 

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