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Ci sono vittime che fanno sì che alla violenza non segua altra violenza a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 11 gennaio 2010
Sabina Rossa, figlia di Guido Rossa, operaio dell’Italsider ucciso dalle Brigate Rosse, e Olga D’Antona, moglie del giurista anche lui ucciso dai terroristi, sono intervenute di recente nella Casa di reclusione di Padova, nel corso del Congresso dell’associazione Nessuno tocchi Caino, organizzato in collaborazione con la redazione di Ristretti Orizzonti. E con la loro testimonianza hanno dimostrato quanto sia importante che vittime di reati così gravi sappiano andare oltre l’odio e chiedere una giustizia mite per gli autori di reato.
Io credo profondamente nell’uomo e nella sua possibilità di cambiare
Io sono qui anche per raccontare la mia storia personale: quello che penso oggi, quello che muove le mie azioni è infatti il risultato di un percorso, che mi ha portato ad un certo punto a ricercare un incontro e un confronto con Vincenzo Guagliardo. Vincenzo Guagliardo è stato condannato all’ergastolo ed è in carcere dal 1980, oggi è in regime di semilibertà. Il 24 gennaio del 1979 era in via Fracchia a Genova, dove io abitavo con la mia famiglia, ad aspettare mio padre, colpevole per le Brigate Rosse di aver denunciato un fiancheggiatore che svolgeva azione di propaganda nella fabbrica in cui egli stesso lavorava. Colpevole di aver scelto allora, in quel clima, quando le Brigate Rosse cercavano una legittimazione da parte della classe operaia, di aver scelto da che parte stare. Questo incontro devo dire mi ha cambiata nel profondo, quello che io sono oggi penso che sia il frutto di tante rielaborazioni di questo incontro e credo che questo incontro abbia cambiato anche lui. È l’esigenza di ottenere giustizia che le vittime in primo luogo manifestano, perché ottenere giustizia non è un fatto privato, che riguardi solo le vittime dei reati, ma è un bene collettivo che tende a ricostruire quell’ideale di comunità, quel sistema di regole, che vengono infrante quando viene commesso un atto criminoso. Dopo aver incontrato Vincenzo Guagliardo ho parlato con il giudice di sorveglianza, il giudice che deve decidere sulla sua scarcerazione, per dire che il brigatista che nel gennaio del ‘79 sparò al sindacalista Guido Rossa oggi è un’altra persona. Sono convinta di quello che dico, quando dico che questa persona oggi per quello che io ho potuto verificare merita di lasciare il carcere, e questo dopo trent’anni di reclusione. Quell’uomo invece è ancora in carcere, gli è stata infatti rifiutata per la seconda volta la richiesta di liberazione condizionale, perché non ha voluto pubblicizzare quello che è stato l’incontro con me, né si è rivolto ad altre vittime, ritenendo che la sua fosse la forma migliore per rispettarle. Io sono profondamente convinta che i parenti di una vittima non debbano decidere della sorte di chi è ritenuto colpevole, questa è, come dice anche Mario Calabresi nel suo libro "Spostando la notte più in là", un’idea inaccettabile e assurda: per i condannati è ovvio che possa esserci anche un possibile uso strumentale finalizzato unicamente all’ottenimento del beneficio, per le vittime è una pesante incombenza, della quale non hanno assolutamente bisogno e che spesso va a riaprire ferite mai rimarginate. Personalmente io rispetto chi, con riservatezza e rimanendo in silenzio, compie un proprio percorso di rieducazione e di reinserimento. Ed è in questo senso che ho ritenuto necessario presentare una proposta di legge per sostituire il "sicuro ravvedimento", richiesto dal Codice penale per concedere la liberazione condizionale, e che per molti giudici si misura proprio dal contatto diretto tra colpevoli e vittime, con una formula diversa per la quale può uscire dal carcere, nel caso degli ergastolani dopo 26 anni, chi ha tenuto un comportamento tale da far ritenere concluso positivamente il percorso rieducativo di cui all’articolo 27 della nostra Costituzione. È una proposta questa che va anche nella direzione dell’abolizione dell’ergastolo, ergastolo che di fatto, fra differenzazioni, divieti e prassi contorte, nega ogni possibilità di reinserimento anche per chi ha preso definitivamente la distanza dall’esperienza del reato, quindi nega ogni possibilità di cambiamento. Io credo profondamente nell’uomo e credo nella sua possibilità di cambiare. La mia è una proposta che va nella direzione indicata dalla nostra Costituzione, secondo cui la pena deve operare sulla base del concetto di rieducazione e di recupero del condannato.
Sabina Rossa
Il rischio di incentivare la rabbia per una giustizia negata
Io ritengo che a volte l’incontro tra Abele e Caino faccia sì che Abele senta in qualche modo di difendere Caino. Per me molte volte non è stato facile aprirmi, raccontarmi cosi come ho fatto in carcere a Padova, ma riuscire a farlo è qualcosa che ha lasciato un segno nei detenuti presenti, e sicuramente ha lasciato un segno anche in me. Io venendo qui non ho voluto preparare un discorso, ma voglio invece raccontarvi un episodio che mi è capitato di recente, quando sono stata invitata a partecipare ad una trasmissione pomeridiana, dove venivano mostrati dei filmati di casi dolorosissimi, di padri a cui erano state uccise le figlie, o anche stuprate e poi assassinate. Tra gli altri un caso in cui un padre era andato in un altro Paese, che non dava l’estradizione, praticamente a rapire il reo per portarlo nel Paese dove poteva essere condannato, insomma in tutta la trasmissione si finiva per inneggiare alla giustizia fai da te. Tra i presenti c’era un papà, io me lo ricordo quell’episodio e mi colpì molto, era precedente all’uccisione di mio marito, era una coppia recentemente sposata che percorreva l’autostrada in macchina, dei ragazzi dal cavalcavia fecero un gesto scellerato per puro divertimento, gettarono dei sassi su quella macchina e questa povera ragazza mori. In quella trasmissione c’era il padre. Io alla fine della trasmissione ho detto: esprimo una preoccupazione, perché noi rappresentando questi casi dolorosissimi di padri che non hanno avuto giustizia, inneggiando alla giustizia fai da te, dando una pessima immagine della nostra magistratura, togliendo fiducia nelle istituzioni, temo che noi non stiamo rendendo un servizio al Paese, ma stiamo piuttosto incentivando questa rabbia per una giustizia negata. Il mio fu l’ultimo intervento, quindi non ci furono repliche perché la trasmissione finiva lì. Ho ricevuto diverse telefonate di persone che mi hanno detto "Meno male che c’eri tu che hai un po’ riequilibrato una trasmissione, che era veramente disgregante per una società che deve comunque trovare delle regole di convivenza civile". Ma due giorni fa scopro che c’era una lettera aperta rivolta a me dal padre di questa ragazza, una lettera molto addolorata in cui mi diceva: in fondo noi siamo entrambi stati colpiti da azioni delittuose e mi ha molto addolorato il fatto che lei abbia giudicato male quella trasmissione, che per me era l’unico strumento per gridare la mia rabbia per una giustizia negata. Per me questa situazione è molto complicata, nel senso che non posso non sentirmi vicina a quel padre, non posso non sentire profondamente quel dolore. Io per fortuna non ho mai provato rabbia, ma credo che chi la prova, questa rabbia per una giustizia negata, viva un malessere difficilmente raccontabile. Però non mi sento nemmeno di scrivere una lettera pubblica a questa persona, io cercherò il suo indirizzo e scriverò una lettera privata, quello che voglio però è dire a quel padre quanto io capisco i suoi sentimenti, ma quanto sia importante anche che, insieme al dolore, molte vittime sentano anche il senso di responsabilità di tenere invece il tessuto sociale coeso, di far sì che poi alla violenza non segua altra violenza, all’odio non segua altro odio. Ecco, forse raccontare a quel padre esperienze come quelle di oggi in questo carcere mi aiuterà, avere dentro di me esperienze come quella del mio incontro con i detenuti di Padova mi aiuterà, e chissà che insieme noi non si riesca a portarlo qui un giorno.
Olga D’Antona
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