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Immigrati espulsi: stranieri anche nel loro paese A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti
Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 11 febbraio 2008
Espulsione: ne parliamo con gran facilità, ci sembra giusto e logico cacciare gli stranieri che hanno commesso reati, ma forse bisognerebbe avere il coraggio di fermarsi un attimo a pensare a cosa significa davvero essere sbattuti fuori dal paese, in cui si è immigrati da tanto tempo, con la prospettiva di tornare in un luogo che magari ci è diventato del tutto estraneo. La nostra Costituzione, quando dice che la pena "deve tendere alla rieducazione", intende dare alle persone che hanno commesso un reato un’altra possibilità. Allora, qualche considerazione sul fatto che gli stranieri detenuti siano tagliati fuori da questa prospettiva forse andrebbe fatta: perché ci sono stranieri che in carcere hanno fatto un percorso davvero positivo, avrebbero un lavoro e dove vivere, a volte hanno figli che non conoscono neppure il Paese d’origine delle loro famiglie, e invece niente, la legge è pressoché inesorabile. Con gli altri, molto meno con noi italiani.
Vorrei anch’io avere un futuro in questo paese
Sono un cittadino croato, e ho avuto "la fortuna" di poter lasciare il mio paese proprio nel brutto periodo in cui quasi tutto andava male e la gente si preparava per qualcosa che io non potevo neanche immaginare. Infatti, dopo pochi giorni, è scoppiata la guerra. Quando sono arrivato in Italia, grazie a mia sorella, che si era stabilita qui qualche anno prima, ho trovato un impiego in un bellissimo paesino sotto le Dolomiti. Lavorando in un albergo, con tanti sacrifici e una vita tutta di lavoro, sono riuscito ad avere il permesso di soggiorno regolare. Anche se sono passati tanti anni, mi ricordo come fosse ieri di quel periodo, della sensazione di avere raggiunto un grande traguardo perché era una cosa importantissima per il mio futuro e perché volevo essere come tutti gli altri. Ho lavorato per dieci anni di fila in perfetta regola, ma adesso, dopo aver commesso un reato, grave certo, mi ritrovo in carcere a scontare una condanna "esemplare", perdendo tante cose tra le quali anche quel pezzo di carta tanto desiderato. Praticamente, uno che finisce in carcere avendo il permesso di soggiorno regolare, dopo aver scontato la condanna non ha nessuna possibilità di rinnovare questo documento. Addirittura, nel mio caso specifico, mi trovo con scritto in sentenza "espulsione a fine pena" e con il permesso di soggiorno non valido, quindi un giorno, dopo essermi fatto tutta la carcerazione, avrò sicuramente grossi problemi se nel frattempo non cambierà qualcosa. Scoprire in carcere che il permesso non conta più niente, e non avere la possibilità di fare nulla, non è assolutamente una bella cosa. Mi sento privato della possibilità di un futuro, e a me, che sono venuto in Italia proprio per averne uno migliore, sembra una beffa. Penso che non sia giusto che uno che per anni ha lavorato sodo all’estero, e in perfetta regola, se fa un errore, per quanto pesante, venga "scaricato" dalle istituzioni, e mi sembra ancora meno giusto visto che si parla tanto di reinserimento, e di dare alle persone una seconda opportunità. Ora vivo sperando che possa cambiare qualcosa, non mi rimane altro che aspettare e… sognare.
Davor Kovac
Ritorno… dove?
Agli italiani sembra semplice dire: "Hai commesso un reato, non basta che paghi con il carcere, devi tornartene al tuo paese". Certo, in patria abbiamo le nostre famiglie, casa nostra, ma non è per niente facile la prospettiva di tornare lì. La parola "ritorno" ad un emigrato suscita molta ansia, a volte lo fa proprio spaventare, soprattutto quando ha trascorso gran parte della sua vita in un Paese che ora non lo accetta più. Mi ricordo del mio arrivo in una città europea nel 1991: ero in grande disagio e a capire le abitudini, la mentalità, il modo di vivere, il linguaggio, il ritmo di quella città ci ho messo mesi e mesi. Ma quando sei ancora un ragazzo, gli anni passano senza che tu te ne accorga: dopo nove anni la nostalgia dei miei era diventata davvero troppo forte, allora sono tornato nella mia patria. Credevo che sarei stato bene, a mio agio, felice di rivedere le persone care, e invece ho trovato tutto cambiato… dovevo imparare ogni cosa daccapo!!! Poi ho riflettuto un po’ e ho capito che ero io ad essere cambiato, la mia testa ora ragiona metà europeo e metà tunisino. Certo era una grande gioia per me abbracciare i miei e il mio fratellino, vedere il resto della mia famiglia, camminare sulla mia terra, sentire il profumo mediterraneo mischiato a quello del gelsomino, passeggiando sulla sabbia dorata in compagnia di una ragazza bella e dolce. Ma il mio cuore non si metteva in pace, mi sentivo un estraneo, dovevo tornare in Europa, era lì la mia vita, ormai sono abituato a vivere da migrante. E così, sono partito un’altra volta e al mio arrivo in Europa però ho provato la stessa sensazione: ti manca sempre qualcosa, non stai bene né di qua, né di là… Adesso mi domando sempre se ci sarà un capolinea per me, se riuscirò a fermarmi da qualche parte e a sentirmi a casa, ma mi fa soffrire l’idea che siano gli altri a dirmi che qui non posso stare, che non è sufficiente che mi sia fatto anni di galera, devo anche andarmene, tornare in un luogo in cui mi sentirei ancora più estraneo e senza identità.
Maher Gdoura
L’espulsione significa continuare a vivere da stranieri anche a casa nostra
Oggi in Italia, così come in tutto il resto dei paesi europei, compresi quelli del disastrato Est, il rapporto lavorativo è tutelato dalla legge, nel senso che nessuno può interrompere un contratto di lavoro senza una giusta causa. Le ragioni di queste garanzie si capiscono facilmente, perché tutto ciò che riguarda il benessere dello Stato, delle persone e delle loro famiglie, è fondato sul lavoro. Sull’importanza di avere un posto di lavoro stabile ne sappiamo qualcosa di più anche noi stranieri, che a causa della disoccupazione, e quindi per la mancanza di ogni prospettiva di una vita dignitosa, siamo partiti alla ricerca del lavoro in un paese economicamente più sviluppato come l’Italia. Questo per me, così come per molti miei conterranei, è successo anni e anni fa, e sembra essere passato così tanto tempo che quasi ci siamo dimenticati di essere albanesi, e in qualche modo ci sentiamo un po’ italiani. Affianco a questo sentimento di appartenenza, molti miei compagni di detenzione hanno anche la famiglia radicata in questo paese, e qualcuno ha i figli nati e cresciuti qui, che studiano e lavorano regolarmente come ogni altro cittadino italiano. E poi, la verità è che ritornare in Albania dopo quindici anni di emigrazione significa continuare a vivere da stranieri anche a casa nostra. Tuttavia qui in Italia continuiamo ad essere trattati come stranieri, cioè riceviamo un trattamento diverso non soltanto per le strade, nei negozi, negli uffici, nelle questure, nei tribunali e nelle carceri, ma anche per quel che riguarda le nostre famiglie, senza contare l’ambito lavorativo. Nonostante la famiglia e il lavoro siano tutelati dalla Costituzione, che addirittura obbliga lo Stato a promuovere le condizioni necessarie per rendere effettivi questi diritti, a fine pena tutti noi stranieri siamo destinati ad essere espulsi in applicazione di una legge che non ha alcun riguardo proprio per la famiglia che abbiamo e per il lavoro, che a volte ci siamo conquistati a fatica in un lento e difficile percorso di reinserimento. Ci sono datori di lavoro che non vorrebbero affatto licenziarci a fine pena, ma che sono costretti a farlo. E allora mi domando se quegli stranieri che scontano la pena in semilibertà e lasciano il carcere alla mattina per andare a lavorare, spesso con lavori fra i più umili, non avrebbero bisogno di sapere che c’è qualcuno che tutela i loro interessi. Tuttavia, conoscendo il distacco con cui tutta la società vede i condannati, è comprensibile per esempio che un’organizzazione sindacale o sociale non sia in grado di tutelare uno straniero che sta per essere licenziato, solo perché lo aspetta l’espulsione. Ecco perché ci sarebbe bisogno di una figura autorevole che intervenisse per sostenere che anche i detenuti stranieri hanno dei diritti, e lo facesse a tutti i livelli della macchina statale, partendo dal prefetto e dal magistrato che ordinano le espulsioni, per finire alla Corte Costituzionale che forse ha bisogno di essere chiamata in causa più spesso per adattare la Costituzione anche alle esigenze degli stranieri che sempre di più si sentono cittadini di questo paese. Abbiamo urgente bisogno di un Garante che tuteli i diritti delle persone private della libertà personale, che restano comunque persone a tutti gli effetti, anche se hanno commesso un reato.
E.C.
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