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Giustizia: è emergenza per suicidi e ritardo nel "piano carceri"
Il Tempo, 11 gennaio 2010
Lo scorso anno si è chiuso con ben 72 suicidi dietro le sbarre e oltre 170 morti. Tra loro anche il caso di Stefano Cucchi che ha acceso i riflettori su una realtà troppo spesso sottovalutata. Sucidi anche tra gli agenti della polizia penitenziaria anche loro troppo spesso dimenticati. Le condizioni di vita negli istituti di pena italiane sono a parere di tutti, insostenibili. E lo dimostrano i continui episodi drammatici che si ripetono da Nord a Sud della Penisola. Dopo i quattro suicidi già consumatisi in questo inizio d’anno, un detenuto ha tentato di togliersi la vita ieri sera nel carcere di Marassi a Genova ingerendo i detersivi che aveva in uso nella cella. Lo ha denunciato Fabio Pagani, della Uil Pa, spiegando che l’uomo, A. W., 32 anni, marocchino, è stato soccorso dal personale e trasportato in infermeria per le cure del caso ma ha rifiutato la lavanda gastrica. "Rientrato in cella - ha spiegato Pagani - si è cosparso del gas liquido della bomboletta e ha cercato di darsi fuoco ma il tempestivo e coraggioso intervento degli agenti penitenziari ha impedito che si realizzasse l’insano proposito". I sindacati sono preoccupati per l’escalation di episodi violenti: dalle aggressioni al personale a quelli di autolesionismo. L’emergenza carceri è al primo posto dell’agenda del governo ma è la prima voce a essere rinviata. Ne sa qualcosa il Direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, nominato lo scorso anno commissario straordinario per le carceri. Ionta, una carriera da magistrato in prima linea e blindato per via delle sue inchieste sul terrorismo, nell’aprile 2009, precisamente il 27 aprile, presentò al ministro della Giustizia Alfano e quindi al governo, un dettagliato piano di ristrutturazione e ammodernamento per gli istituti di pena italiani. A oggi poco o niente è stato fatto. E le celle scoppiano: aumentano i detenuti in attesa di giudizio e il personale è sempre più scarso. Mancano all’appello tremila agenti. Nelle carceri italiane ci sono 64.406 detenuti, di cui circa il 37% sono stranieri, mentre la capienza regolamentare è di 44.066 posti. I numeri del Dap, aggiornati allo scorso 4 gennaio, riferiscono di una situazione di drammatico sovraffollamento, testimoniata anche dai quattro suicidi in cella in appena otto giorni. Seppure la capienza tollerabile delle carceri sia stata portata a 66.563 posti grazie a una serie di interventi di ristrutturazione compiuti nel 2009, le carceri letteralmente scoppiano. Tra oggi e domani Ionta incontrerà i suoi più stretti collaboratori e i vertici dell’Amministrazione per affrontare il problema dei suicidi in carcere. Oggi pomeriggio è convocata una riunione alla Camera per la discussione, tra l’altro, di alcune mozioni sulle carceri. Giustizia: Unicost; troppi detenuti suicidi, il Csm apra pratica
Adnkronos, 11 gennaio 2010
Sono troppi suicidi in carcere. Per questo il Csm deve aprire una pratica per la "tutela dei diritti dei detenuti". Lo chiedono al Csm i consiglieri togati di Unicost. A renderlo noto, il consigliere Fabio Roia, che ha inoltrato la richiesta presso la Sesta e la Settima Commissione del Csm. "I recenti suicidi di due detenuti a Sulmona e a Verona - spiega Roia - ripropongono il problema, che tende invero ad aggravarsi per il costante aumento della popolazione carceraria, delle condizioni di vita e della tutela dei diritti dei soggetti sottoposti al regime detentivo. Numerose sono le denunce, anche di natura politica, presentate da diversi soggetti istituzionali che professionalmente interagiscano con gli istituti penitenziari". "Nel nostro sistema ordinamentale - prosegue il togato di Unicost - la magistratura di sorveglianza è preposta al controllo dell’esecuzione della pena ed ha compiti di vigilanza sull’organizzazione del servizio carcerario dovendosi in ciò ricomprendere anche l’aspetto relazionale fra detenuti e fra questi e il loro quotidiano di vita rappresentato soprattutto dalle condizioni ambientali. Il Csm deve farsi carico, al di là dei compiti di formazione e di sensibilizzazione dei magistrati di sorveglianza che già sono positivamente realizzati nell’ambito della nona commissione referente, della effettività della realizzazione della osservazione giurisdizionale nei luoghi di detenzione". A tal fine, conclude, "si chiede l’apertura di una apposita pratica, da assegnarsi alle commissioni Sesta e Settima, che abbia come necessario passaggio istruttorio l’audizione di tutti i Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza per effettuare una seria indagine sulla situazione attuale dei diritti dei detenuti rapportati alla situazione delle carceri italiane". Giustizia: carceri allo sbando c’è bisogno d’un pensiero nuovo di Rosa Alba Casella (Direttrice Casa Circondariale di Forlì)
Corriere Cesenate, 11 gennaio 2010
Il Presidente della Repubblica nel discorso di fine anno ha ricordato che nelle carceri sovraffollate del nostro paese "non si vive decentemente, si è esposti a rischi ed abusi e di certo non ci si rieduca". Poche e semplici parole, che descrivono in modo molto eloquente la realtà degli istituti penitenziari in cui sono reclusi oltre 65.000 detenuti su 44.000 posti disponibili, ammassati in due o in tre per cella, spesso di dimensioni inferiori a quelle previste (9 mq per ciascun detenuto) e chiusi 20 ore su 24: una discarica che raccoglie quelle fasce di popolazione di cui la società opulenta non riesce o non vuole farsi carico, cioè immigrati, tossicodipendenti, poveri, disoccupati. Il sovraffollamento, che secondo la Corte Europea dei diritti dell’uomo equivale a trattamento disumano, incide negativamente non solo sulle condizioni di vita dei detenuti, ma anche sulla funzione rieducativa che la pena detentiva dovrebbe avere. La limitazione degli spazi vitali, infatti, aumenta innanzitutto la frustrazione e l’aggressività verso se stessi e verso gli altri e in definitiva la chiusura verso gli interventi trattamentali. In secondo luogo aumenta il rischio del contagio criminale per effetto della coabitazione forzata, che spesso può comportare la convivenza tra il recidivo e il giovane alla prima esperienza detentiva: è, infatti, impossibile la separazione dei detenuti a seconda dell’età, del crimine commesso, dello stato di salute e della posizione processuale, pur raccomandata dalla legislazione internazionale. In terzo luogo riduce gli spazi fruibili per le attività culturali, ricreative e sportive, oltre che le opportunità lavorative. Il carcere attuale è quindi il fallimento di quello disegnato dalla legislazione vigente. Piuttosto che finalizzato alla rieducazione, così come prevede l’art. 27 della Costituzione, imprime un marchio indelebile e olia il meccanismo della porta girevole, che ben illustrano le statistiche sulla recidiva: il detenuto, infatti, provato fisicamente e psicologicamente, privo di lavoro e degli affetti, dopo anni di inattività viene rimesso in libertà come un essere diventato superfluo e destinato quindi a tornare in carcere. Non a caso Bauman sostiene che per un ex detenuto il rientro alla società è quasi impossibile e il ritorno in galera quasi certo. Negli ultimi mesi dell’anno si è parlato di piano-carceri per aumentare il numero dei posti disponibili, addirittura di carceri-galleggianti. Alcune storie di detenuti hanno conquistato le cronache, ma poco o troppo poco si è detto delle condizioni di vita dei ristretti, che il cardinale Tettamanzi ha di recente definito "uno squallore intollerabile". Eppure questo carcere sembra l’unica risposta possibile alla richiesta sempre maggiore di sicurezza sociale. Anche se ammala: alcuni studi in materia dimostrano che la detenzione prolungata provoca psicosi, nevrosi, allucinazioni. Anche se dall’inizio del 2009 a oggi i morti all’interno sono stati 175, di cui 72 per suicidio; anche se gli atti di autolesionismo su cui, peraltro, non ci sono statistiche, sono spesso il solo mezzo di comunicazione con l’esterno di chi è rimasto senza voce. Quanti sosterrebbero la carcerazione se sapessero che un detenuto costa 148 euro al giorno? Se sapessero che la disperazione in galera porta ad una percentuale di suicidi più alta che all’esterno? Quanti sarebbero disposti a rivedere i propositi di vendetta se conoscessero l’impatto della detenzione sulla famiglia ed i figli? Il problema non è scegliere tra la sicurezza sociale e la rieducazione: le statistiche dimostrano che il livello di carcerazione non dipende dai tassi di criminalità, ma da fattori sociali, culturali, economici e politici. La politica di criminalizzazione, che dimentica la solidarietà sociale, l’integrazione, la comprensione e asseconda l’individualismo, l’esclusione e la coercizione non risolve i problemi della sicurezza, come dimostra l’esperienza degli Usa. È necessario che la pena mantenga la finalità rieducativa per dare a chi ha sbagliato una seconda possibilità. Perché in ogni uomo c’è un lato oscuro che costituisce parte integrante della propria personalità, di cui prendere coscienza per controllarlo. Perché i sistemi repressivi scatenano i peggiori istinti dell’uomo, quali aggressività, rabbia, odio e vendetta, violenza e spietatezza e il dolore evitabile, anche se legale, inflitto per forza, difficilmente rende migliore l’uomo (Martini). Perché le statistiche dimostrano che se la pena viene espiata sul territorio, sotto il controllo del servizio sociale, vicino alla famiglia i tassi di recidiva si riducono (19% ). C’è bisogno di un pensiero nuovo rispetto a quello per antinomie che si escludono a vicenda: il bene e il male, i buoni ed i cattivi, noi e loro, in cui gli opposti non si escludono a vicenda, ma come poli di un tutto unitario si condizionino reciprocamente. Giustizia: Vitali (Pdl); intervenire su intollerabile affollamento
Ansa, 11 gennaio 2010
"L’aggressione subita da un agente della polizia penitenziaria nel carcere di Taranto nella giornata di ieri, ripropone, ove ve ne fosse bisogno e ancora una volta, l’intollerabile situazione all’interno delle nostre carceri". Lo afferma l’on. Luigi Vitali, responsabile nazionale dell’ordinamento penitenziario del Pdl intervenuto sulla questione del sovraffollamento delle carceri italiane, all’indomani dell’episodio avvenuto nell’istituto penitenziario di Taranto in cui è rimasto ferito un assistente della polizia penitenziaria. "Il governo, nell’ultima finanziaria, ha stanziato 500 milioni di euro per l’edilizia penitenziaria - ricorda Vitali - e ha autorizzato la straordinaria assunzione di 2000 agenti di polizia penitenziaria. Si può fare e si deve fare di più. Ed il dibattito che si aprirà domani alla Camera dei Deputati sulle mozioni presentate dai vari gruppi sulla situazione delle nostre prigioni, sarà sicuramente l’occasione per formulare proposte affinché il governo si impegni ulteriormente nel fronteggiare questa emergenza". Giustizia: Orlando (Idv); no a violazione diritto salute detenuti
Apcom, 11 gennaio 2010
Da gennaio cominciano le audizioni della Commissione parlamentare sugli errori sanitari in relazione all`inchiesta sulla salute dei detenuti: "Suicidi, aggressioni, mancata assistenza: basta violazioni del diritto alla salute dei detenuti", avverte il presidente della Commissione Leoluca Orlando. "In un Paese civile il diritto alla salute è diritto costituzionalmente garantito per tutti", dichiara Orlando in una nota, aggiungendo: "Anche a seguito di ripetute denunciate violazioni di tale diritto dei detenuti, come testimoniano da un lato il crescente numero di suicidi; dall`altro la mancata assistenza in caso di malattie anche gravi; da ultimo, infine, le dirette aggressioni e violenze subite dagli stessi detenuti (basti pensare al caso Cucchi), la Commissione parlamentare di inchiesta che presiedo ha deliberato una specifica attività di inchiesta proprio con riferimento a Diritto alla salute e Sistema penitenziario". "Mercoledì prossimo 13 gennaio l`ufficio di presidenza della Commissione - annuncia Orlando - stabilirà il programma delle audizioni per tale attività di inchiesta, già deliberata alla fine di novembre, sul diritto alla salute dei detenuti" E la prima audizione interesserà i responsabili del Dipartimento di Amministrazione penitenziaria e le rappresentanze sindacali di polizia penitenziaria. Giustizia: carcere duro al boss Vincenzo Stranieri per un libro
Corriere del Mezzogiorno, 11 gennaio 2010
Elisabetta Zamparutti: le lettere con un giornalista del Corriere del Mezzogiorno alla base del rinnovo del 41 bis per l’ex capo della Scu. La Deputata Radicale eletta nelle liste del Partito democratico, Elisabetta Zamparutti, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, Angiolino Alfano, per chiedere chiarimenti in merito al rinnovo del regime carcerario duro (meglio noto come 41 bis) per l’ex boss della Sacra corona unita, Vincenzo Stranieri, di Manduria. La parlamentare, oltre a stigmatizzare le motivazioni di presunta pericolosità dell’ex numero due di Pino Rogoli, che negli anni, scrive, "si ripetono a mo di fotocopia" (Stranieri è sottoposto allo stesso regime da 18 anni ininterrottamente), mette in discussione "l’attendibilità" di quanto viene indicato nel decreto di proroga relativamente all’attività del giornalista del Corriere del Mezzogiorno, Nazareno Dinoi, autore di un libro, di prossima pubblicazione, sulla storia del boss con cui ha intrattenuto una lunga corrispondenza. La vicenda - In pratica l’esponente radicale sospetta che l’uscita del libro e i necessari contatti epistolari del boss con il giornalista, siano stati utilizzati come pretesto per reiterare la misura dell’isolamento. L’interrogazione contiene i passaggi della Dda riferiti al lavoro del giornalista. "Da segnalare infine - scrive il ministro - il tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale che potrebbe veicolare notizie informazioni e messaggi che il detenuto ben potrebbe articolare proprio in risposta allo schema di domande predisposto dal giornalista ed inviatogli per lettera, non consegnatali a seguito di provvedimento di non inoltro da parte del magistrato di sorveglianza di Milano in data 13 ottobre 2008". L’interrogazione - Giudicando risibili le accuse di paventata collusione tra il professionista e il detenuto, la radicale Zamparutti chiede al ministro "se non intenda accuratamente verificare che anche gli altri "dati" e "fatti" indicativi dell’attualità dei collegamenti di Stranieri con la criminalità organizzata non siano dello stesso ordine e grado di attendibilità del tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista e siano invece tali da giustificare la permanenza ancora, dopo diciassette anni, del detenuto in regime di carcere duro". Il boss Vincenzo Stranieri sta scontando 42 anni di carcere per reati non di sangue ma legati al traffico di droga e sequestro di persona, con l’aggravante dell’associazione mafiosa. Attualmente è detenuto nel supercarcere di L’Aquila, da dove attraverso i suoi avvocati ha presentato una denuncia per molestie e torture. Lettere: è così "folle" pensare a una società con meno carcere?
Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2010
È così "folle" pensare a una società con meno carcere? Questo l’interrogativo che le associazioni operanti nei cinque istituti penitenziari della regione, che aderiscono alla Conferenza Volontariato Giustizia del Friuli Venezia Giulia, hanno posto ai partecipanti al convegno "Diritti umani, uguaglianza, giustizia sociale, verso un welfare planetario" promosso dal Centro di accoglienza "E. Balducci" e dall’Ordine degli Assistenti sociali del Friuli Venezia Giulia e svoltosi lo scorso 20 settembre all’interno della Casa circondariale di Udine con una rappresentanza delle persone detenute. Una giornata che non può non essere ricordata e richiamata alla luce della condizione in cui versa il sistema penitenziario italiano. Un dato su tutti è l’incremento dei suicidi e delle morti nelle strutture penitenziarie, non poche da "accertare", e a fianco a ciò non si dimentichi anche il crescere degli atti di autolesionismo; dati che indicano il progressivo deterioramento delle condizioni di vivibilità negli istituti. Anche il nostro sistema penitenziario regionale è condizionato dal sovraffollamento, a fine settembre le persone detenute erano 858 a fronte di una capienza regolamentare complessiva di 548 posti, due istituti su tre sono al limite della vivibilità e due recenti suicidi poi hanno drammaticamente evidenziato le criticità che vive il sistema detentivo della nostra regione. Come Associazioni di volontariato non possiamo rimanere indifferenti a questa situazione se è vero che "La civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri" e avanziamo alcune circostanziate proposte alle istituzioni e ai rappresentanti politici di questa regione che non possono limitarsi alla visite nei diversi istituti durante le festività natalizie e ferragostane. Ci sembra doveroso: rendere operativa la riforma sanitaria penitenziaria in base alla quale la regione viene a garantire il diritto alla salute alle persone detenute tramite le aziende sanitarie di riferimento; potenziare la presenza dei servizi di carattere psicologico e psichiatrico garantendo in tutti gli istituti il servizio di accoglienza "nuovi giunti"; sviluppare in modo permanente attività formative ed occupazionali tese a ridurre l’inattività e l’inoperosità decisamente deleterie all’interno delle strutture penitenziarie; definire un progetto obiettivo specifico per le persone detenute tossicodipendenti che andrebbero curate più che incarcerate; prendere in carico le persone detenute straniere con la l’attivazione dei servizi di mediazione linguistica e culturale; realizzare un’accoglienza dignitosa per i familiari garantendo il diritto alle relazioni parentali e all’affettività. A questi interventi è doveroso incrementare le misure alternative alla detenzione, se si pensa che Il 64% della popolazione detenuta ha una pena inferiore ai tre anni e che queste misure sono decisamente più efficaci, rispetto alla detenzione, nel ridurre la recidiva; ciò potrebbe essere realizzato con: il lavoro esterno, non solo con il sostegno della cooperazione sociale; i lavori socialmente utili in favore della comunità e del territorio esterno (si pensi all’interessante esperienza effettuata per la manutenzione boschiva del territorio montano locale); le borse lavoro e i tirocini formativi utili a ad una qualificazione professionale; le attività di volontariato e prosociali (non pochi detenuti esprimono questa istanza piuttosto che rimanere completamente in ozio all’interno del carcere). Siamo consapevoli che le situazioni di disagio e di devianza, di microcriminalità non si possano affrontare costruendo più carceri, come peraltro prevede l’attuale compagine governativa, ma con politiche sociali, politiche di prevenzione, di educazione alla legalità, di cura del tessuto sociale e dei suoi legami, di attenzione alle vittime dei reati. In questa prospettiva non si riscoprirebbe la valenza della sicurezza sociale e non tanto della sicurezza tout court basata sulla videosorveglianza e sull’attivazione di ronde volontarie? In altri termini è folle pensare ad una società con meno carcere quando altri percorsi non detentivi permettono la riduzione della reiterazione del reato e quindi dell’insicurezza?
Per la Conferenza Giustizia Volontariato Friuli Venezia Giulia Padre Alberto De Nadai Maurizio Battistutta Lettere: Ilaria Cucchi a Alfano; intervenire, no all’indifferenza di Ilaria Cucchi
www.ilmegafonoquotidiano.it, 11 gennaio 2010
Ilaria Cucchi scrive ai ministri Alfano e Maroni per chiedere un intervento contro "l’indifferenza e la superficialità" che ha riscontrato nel caso del fratello Stefano. Perché "non si aspetti nell’inerzia la prossima morte indegna che una famiglia distrutta sarà costretta ad urlare a tutto il Paese". Sono Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano Cucchi. Ho letto con attenzione la relazione dell’inchiesta amministrativa del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sul decesso di mio fratello. Gli esiti di questa lunga relazione sono a mio avviso sconcertanti. Da sorella, madre, nonché cittadina di questo Paese, mi pongo queste domande che ritengo di condividere con Voi. È risultato che al momento in cui mio fratello è stato arrestato vigeva la prassi per cui gli agenti di polizia penitenziaria, pur riscontando segni di lesioni evidenti sugli arrestati che arrivavano presso le celle di sicurezza del Tribunale di Roma, non si interessavano a tali lesioni e non chiedevano immediatamente l’intervento di un medico, ma lo facevano eventualmente solo al momento della presa in consegna da parte loro dell’arrestato. Perché fra le nostre forze dell’ordine questa condotta così comune, così radicata e così ben codificata? Mi sconcerta quello che dice un agente di polizia ascoltato nel corso dell’inchiesta : "mi limitavo a chiedere informazioni anche perché non è facile lavorare con le altre forze di polizia"; lo stesso agente specifica: "questo significa che non intendevo approfondire la natura delle lesioni che constatavo perché l’arrestato era nella diretta responsabilità dei colleghi"; e poi ancora: "assumevo atteggiamento differente solo quando ritenevo che con la consegna dell’arrestato dovevo tutelarmi per eventuali questioni che potevano insorgere". Perché questo atteggiamento di non chiedere e non approfondire le cause delle lesioni degli arrestati? Cosa significa che "non è facile lavorare con le altre forze dell’ordine"? Quale verità ricorrente di cui è meglio "non impicciarsi" si cela dietro a queste non domande, a questo codificato disinteresse, a questa voluta indifferenza? Perché tutto questo "pudore" nell’approfondire la natura delle lesioni delle persone arrestate da parte delle altre forze di polizia? Perché l’intervento di un medico viene chiesto solo per tutelare l’agente cha ha in consegna l’arrestato e per salvarlo da eventuali questioni che lo possano coinvolgere personalmente? Perché - ci dice lo stesso agente citato sopra - solo oggi, "dopo i fatti in contestazione", "approfondisco la natura delle lesioni… fin dal momento dell’arrivo degli arrestati presso il reparto"? Mi domando: qual è l’esigenza primaria degli agenti di polizia con questa nuova prassi dopo la morte di mio fratello? È davvero superata la volontà e la mentalità delle forze dell’ordine di tutelare ancora e solo se stessi di fronte al disagio delle persone che hanno in custodia? Perché vale così poco lo stato di salute di un arrestato? Perché valeva così poco lo stato di salute di mio fratello? Ho letto nelle testimonianze degli agenti sentiti tutta l’indifferenza e la superficialità rispetto alla sofferenza che mio fratello manifestava mentre era in Tribunale e al successivo ingresso in carcere: perché tutti gli agenti si accorgono che sta male, tutti si rendono conto che le sue risposte sull’origine delle lesioni sono evasive o improbabili, tutti si rendono conto che Stefano ha quantomeno pudore a parlarne, ma tutti si limitano solo a "sdrammatizzare"? Mio fratello Stefano è arrivato ad affermare di fronte a due agenti che lo hanno condotto in ospedale che "i tutori dello Stato invece di garantire la tutela ai cittadini, gli avevano fatto questo", intendendo le lesioni che aveva riportato, e ha aggiunto che "non ce l’aveva con loro, ma che voleva parlare con il suo avvocato e avrebbe messo tutto in chiaro". Sapete cosa ha fatto uno dei due agenti? "Da quel momento non ho più parlato con il Cucchi, ho preso le distanze pensando che ognuno doveva rimanere al suo posto". Perché questo atteggiamento, dichiarato candidamente come fosse il migliore possibile? Perché nessuno degli appartenenti alle forze dell’ordine si è preoccupato di tranquillizzare mio fratello, di spiegargli che in questo paese moderno e civile egli avrebbe potuto denunciare chi gli aveva fatto del male, che la denuncia era un suo diritto ed era anche un loro dovere come pubblici ufficiali, che lui non avrebbe dovuto temere in alcun modo le conseguenze del racconto della verità? Perché, poi, tanti agenti sentono mio fratello fare riferimento al "suo avvocato" con cui voleva assolutamente parlare, ma alla fine a Stefano viene assegnato un difensore d’ufficio? Guarda caso nel verbale con cui mio fratello è stato consegnato dai Carabinieri alla Polizia Penitenziaria, firmato alle ore 13.30 del 16 ottobre, si indica come avvocato, anche se d’ufficio e non di fiducia, l’Avv. Stefano Maranella che all’epoca era effettivamente il legale della nostra famiglia: perché se Stefano aveva esattamente indicato il nome e il cognome dell’avvocato da cui voleva essere assistito non è mai risultata questa nomina di fiducia? Perché nessuno durante il suo ricovero al Pertini ha fatto in modo che Stefano riuscisse a parlare con il suo difensore, oppure lo ha aiutato - lui sofferente e immobilizzato a letto - a realizzare questa sua volontà? Perché valevano così poco le esigenze, le volontà e i diritti di mio fratello? Forse perché era un tossicodipendente? Altre cose emerse dalla relazione mi lasciano sconvolta. Perché durante la notte trascorsa nelle celle di sicurezza di Tor Sapienza, quando poco dopo le 5 è stata chiamata l’ambulanza, i Carabinieri non chiariscono i motivi della richiesta del soccorso sanitario né i sanitari chiedono spiegazioni ai Carabinieri, accontentandosi del riferimento ad un generico "lamentarsi" di Stefano? È normale questa superficialità nell’approccio sanitario per gli arrestati nelle celle di sicurezza? È normale che una cella di sicurezza, oltre ad essere di ridottissime dimensioni tali da entrarvi solo uno alla volta come riferito dai sanitari, sia anche al buio, illuminata solo dalla luce del corridoio? E poi il trattamento al Pertini. La relazione su questo aspetto delinea un quadro incredibile; ben otto i rimproveri del Dap: non è stato previsto nessun servizio di accoglienza; non è stato favorito il rapporto con la famiglia; non è stato favorito il contatto con il difensore; non sono stati favoriti i contatti con la comunità terapeutica; sono state aggravate le procedure per il diritto ai colloqui e alle informazioni sanitarie ai parenti, con indicazioni errate e affisse in avvisi; è mancata ogni comunicazione con la famiglia del ristretto, anche sulla notizia del decesso; è mancato ogni correttivo alla evidente incapacità di dare rapida e corretta attuazione al procedimento autorizzativo dell’incontro medici - parenti; è mancata ogni forma di coordinamento con le regole penitenziarie e dell’accoglienza, e ogni genere di verifica ispettiva sul reparto. Quante persone all’interno del Pertini si sono accorte dello stato di disagio non solo fisico ma anche psicologico di Stefano? Quante persone si sono accorte del travaglio dei genitori? Perché in sei giorni di ricovero Stefano non è stato cambiato nemmeno una volta, sebbene il personale avesse ritirato la biancheria portata da sua madre? Lo stato di disagio di Stefano era "normale" e non degno di attenzione perché "era un tossicodipendente"? Perché ben quattro medici del Pertini, convocati a rendere dichiarazioni nell’ambito dell’inchiesta del Dap, non si sono nemmeno presentati? È normale questo clima di disinteresse e indifferenza in chi opera in una struttura come il Pertini? Io non voglio in alcun modo sottovalutare la difficoltà del compito delle forze dell’ordine che so essere delicato e complesso, ma non posso non manifestare tutta la mia indignazione perché la dannata "normalità" delle lesioni sulle persone arrestate, la dannata "normalità" di non interessarsi a tali lesioni finché non diventa "affar proprio", la dannata "normalità" del disagio di una persona tossicodipendente in stato di restrizione, è una "normalità" che, quando viene percepita sistematicamente come tale, porta inevitabilmente ad una disumana, indegna e degradante indifferenza da parte di chi opera con le persone in stato di restrizione. Un’ indifferenza che uccide: di morte altrettanto disumana, indegna e degradante, come quella che ha subito il mio amato fratello. Un’indifferenza che non è degna di un Paese civile, e a cui non deve essere permesso di poter permeare nelle condotte quotidiane dei dipendenti delle nostre Istituzioni. E allora, da sorella, madre e cittadina, Vi chiedo di intervenire affinché questa "normalità" non venga più tollerata, affinché non venga dimenticato ciò che è successo a mio fratello e affinché non si aspetti nell’inerzia la prossima morte indegna che una famiglia distrutta sarà costretta ad urlare a tutto il Paese. Con fiducia e rispetto. Verona: detenuto suicida a Montorio e ora bisogna fare di più di Chiara Bazzanella
Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2010
Era in infermeria da dicembre, Giacomo Attolini, l’uomo di 49 anni che nella notte a cavallo tra il 7 e l’8 gennaio si è tolto la vita nel carcere di Montorio, facendo salire a quattro il numero delle persone che si sono uccise nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Attolini, di origine siciliane ma residente a Villafranca di Verona, su segnalazione dello psichiatra che lo aveva in cura, il mese scorso era stato trasferito in infermeria, luogo più adatto rispetto alla cella per chi, come lui, a seguito delle indagini preliminari che lo avevano accusato di violenza sessuale e omicidio premeditato della romena Andrea Sutik e di tentato omicidio del marito della stessa, aveva già dato segnali di volerla fare finita. E così è stato. Un gesto probabilmente premeditato, che si è consumato alla mezzanotte del 7 gennaio, orario in cui avviene il cambio di turno degli agenti penitenziari di controllo e durante cui si ha forse un briciolo di possibilità in più di trovare quell’attimo necessario per compiere un gesto estremo. Attolini si è impiccato alle sbarre dell’infermeria e questo nonostante sia lo psichiatra che lo aveva in cura, sia il cappellano, fossero concordi nell’aver rilevato i segnali di un qualche miglioramento. Segnali probabilmente anch’essi premeditati, per distogliere un eccesso di attenzione su di sé e poter procedere più liberamente nella decisione del suicidio. "Un suicidio direttamente collegato alla vicenda processuale", secondo il direttore del carcere di Verona, che aggiunge: "Quello della chiusura delle indagini è di per sé un momento difficile e delicato. In questo caso le accuse erano addirittura tre, di cui una per violenza sessuale. Noi abbiamo attuato tempestivamente i provvedimenti del caso ma non possiamo esimerci dall’interrogarci su cosa fare di più. Sono eventi che non possiamo accettare che accadano senza fare nulla". Quello della notte scorsa è il terzo suicidio avvenuto nel carcere di Verona negli ultimi cinque anni. Il precedente risale al 30 ottobre scorso, quando a togliersi la vita è stato il 29enne Domenico Improta. "Si tratta di gesti che non sono legati alla situazione ambientale e a particolari difficoltà interne alla struttura", continua il direttore. "Non hanno a che fare con il luogo o la mancanza di servizi sanitari, ma piuttosto dipendono da disagi interiori forti, in entrambi i casi già precedentemente manifesti". Per prestare una sempre maggiore attenzione al disagio psichico in Istituto e migliorare gli standard della qualità della vita interna, la direzione ha in programma per il 2010 una serie di "investimenti" e di lavori in rete, tra cui quello per un piano sanitario in sinergia con la Ulss locale. Inoltre è stato appena messo a punto un nuovo progetto pedagogico che presto verrà presentato alle associazioni di volontariato che lavorano a Montorio. Sulmona: detenuti protestano "alta tensione" nel supercarcere
Il Centro, 11 gennaio 2010
Resta alta la tensione nel carcere di Sulmona. Anche ieri i 200 detenuti della sezione "internati" hanno proseguito la protesta contro il sovraffollamento rifiutando il cibo. Lamentano una situazione invivibile da quando le celle, di 9 metri quadri e progettate per ospitare una sola persona, accoglie 3 letti. Contestano anche il fatto di non potere svolgere attività lavorativa, come previsto per la loro categoria: una volta scontata la pena, dovrebbero essere assegnati a un periodo di casa lavoro per un graduale reinserimento nella società. Ma solo pochi fortunati, sono impiegati in lavori all’interno del carcere. Gli altri trascorrono le loro giornate nelle celle, come tutti gli altri detenuti. "Hanno aspettato che scappassero i buoi dalla stalla per dire cose che noi affermiamo da mesi", dichiara il segretario Uil penitenziari per l’Abruzzo, Mauro Nardella, riferendosi alla denuncia del responsabile dell’area sanitaria del carcere, Fabio Federico , che è anche sindaco della città, circa il sovraffollamento e la mancanza di lavoro per i detenuti. "Sezioni costruite per ospitare 25 detenuti non possono essere trasformate in bracci per accoglierne 75" aggiunge il sindacalista. "Gli agenti sono esausti. Il lavoro è triplicato e il personale continua a diminuire. Tra poco perderemo altri 25 agenti che torneranno a lavorare nel carcere di Avezzano. E la situazione diventerà ancora più bollente con l’arrivo dell’estate quando il caldo amplificherà le condizioni di disagio all’interno delle celle". Problemi annosi che nessuno risolve e di cui si parla solo quando accadono fatti tragici come il suicidio di un detenuto o l’aggressione a un agente di polizia penitenziaria. Intanto, ieri pomeriggio si è svolta l’autopsia su Tammaro Amato il detenuto trovato senza vita giovedì scorso nella sua cella. L’esame ha confermato che il giovane, aveva solo 28 anni, è morto per asfissia. Entro 60 giorni sarà depositato l’esito degli esami tossicologici. "Erano chiari i segni di strangolamento provocati dai lacci delle scarpe che il detenuto ha usato per togliersi la vita" ha detto il medico legale, Ildo Polidori, al termine dell’esame, "anche perché il detenuto non aveva sul corpo segni che potessero far pensare a un’eventuale aggressione". I genitori di Amato, che avrebbe finito di scontare la pena nel 2011, hanno voluto che un loro legale assistesse all’autopsia. Fin dal primo momento i parenti avevano sostenuto come improbabile l’ipotesi del suicidio. "Aveva passato le feste natalizie a casa in piena allegria", hanno dichiarato, "e non aveva mai fatto pensare, neanche lontanamente, che potesse togliersi la vita, nemmeno quando ci ha lasciato per tornare in carcere". Al termine dell’autopsia la salma è stata riconsegnata ai familiari. Teramo: Uzoma può essere sepolto, ma sono in corso indagini
Il Centro, 11 gennaio 2010
La procura dà il via libera alla sepoltura di Uzoma Emeka, il detenuto nigeriano di 32 anni testimone del presunto pestaggio di un altro recluso deceduto in carcere il 18 dicembre per un tumore al cervello mai diagnosticato. Sulla sua morte la procura ha aperto un’inchiesta per fare chiarezza su eventuali ritardi nei soccorsi e sulle cure mancate. Il pm che indaga, il sostituto procuratore Roberta D’Avolio, nei prossimi giorni potrebbe decidere di disporre nuovi accertamenti medici anche su un infarto che l’uomo aveva avuto qualche mese fa in carcere. Un infarto scoperto solo con l’autopsia. Non è escluso che nelle prossime settimane il pm possa iscrivere qualcuno nel registro degli indagati. Dopo il sequestro della cartella clinica in carcere, gli investigatori hanno scoperto che una settimana prima della morte il nigeriano era stato visitato in carcere da un neurologo chiamato dal medico di guardia. Una visita al termine della quale non sarebbe stato diagnosticato nulla. Ma sulla morte di Uzoma Emeka, in carcere dal 27 giugno per droga, non indaga solo la magistratura. La commissione parlamentare di inchiesta sugli errori sanitari e i disavanzi sanitari regionali, presieduta dall’onorevole Leoluca Orlando, ha deliberato di avviare un filone di inchiesta sul diritto alla salute nelle carceri, partendo proprio dalla morte del nigeriano nel carcere di Teramo. La commissione ha richiesto una relazione all’ assessore regionale alla sanità e al direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Taranto: Sappe; aggressione a Assistente Polizia penitenziaria
Adnkronos, 11 gennaio 2010
Non posso che giudicare con estrema preoccupazione l’ennesima grave aggressione ad un Assistente della Polizia Penitenziaria, avvenuta questa pomeriggio nel carcere di Taranto. Il collega - al quale esprimiamo tutta la nostra vicinanza e solidarietà - è stato violentemente aggredito da un detenuto italiano tossicodipendente, tanto da ricorrere alle cure dei sanitari che gli hanno prescritto 10 giorni di prognosi. Lo rende noto Donato Capece, Segretario generale del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Tutto questo - rileva - è gravissimo ed inaccettabile. Bisogna contrastare con fermezza questa ingiustificata violenza in danno dei rappresentati dello Stato in carcere e punire con pene esemplari chi li commette: penso ad un maggiore ricorso all’isolamento giudiziario fino a fine pena con esclusione delle attività in comune ai detenuti che aggrediscono gli agenti. Ma penso anche che si debba arrivare a definire, come sostiene da tempo il Sappe, circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi, con particolare riferimento al bisogno di destinare, a soggetti di scarsa pericolosità o che necessitano di un percorso carcerario differenziato (come i detenuti tossicodipendenti), specifici circuiti di custodia attenuata anche potenziando il ricorso alle misure alternative alla detenzione per la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale. Trento: le carceri sovraffollate una pena aggiuntiva e ingiusta di Vittorio Cristelli
Il Trentino, 11 gennaio 2010
Sarà un effetto del Natale, periodo in cui tutti sentiamo di dover essere più buoni. Ma riflette anche un’emergenza. Sto parlando dell’attenzione che in questo periodo si è accentuata attorno alla situazione in cui versano le carceri italiane, in sofferenza per sovraffollamento, che significa pena aggiuntiva e ingiusta perché non comminata da nessun tribunale. Anche questo giornale si è attivato, dedicando il servizio, curato dal collega Luca Marognoli, alle carceri di Trento dove i detenuti sono 157 a fronte di una capienza regolamentare di 99. Ben 67 di loro sono ancora in attesa di giudizio definitivo. Situazione in sé stessa intollerabile, ma che rende difficili anche le misure alternative, pur previste dalla legge. Mi preme qui ricordare che sull’argomento-carceri è uscito in data 2 dicembre scorso un documento delle Caritas diocesane del Triveneto, che ha come primo firmatario l’arcivescovo di Trento Mons. Luigi Bressan. Il documento parla di "effetti desocializzanti tipici della detenzione" e auspica quindi che il carcere non sia l’unica risposta ad ogni forma di emarginazione deviante o di reati. Propone quindi che le pene detentive siano sostituite "per coloro che hanno ricevuto condanne inferiori ai tre anni" con percorsi obbligatori sì, ma di carattere fortemente riabilitativo ed inclusivo. Misure alternative al carcere che sono già previste dalla legge. Se poi si risale alla Costituzione, anche il carcere deve essere concepito e gestito in senso riabilitativo. Così infatti recita l’art. 27 della Carta costitutiva della nostra Repubblica; "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Non mi soffermo sulla gamma delle modalità per imprimere alla pena stessa il carattere riabilitativo, anche perché altri l’hanno già fatto. Quello che mi preme qui ricuperare è lo spirito di solidarietà che ispira anche la Costituzione. E dico ricuperare perché non è scontato e men che meno universalmente condiviso. Pare anzi che prevalga la tendenza ad invocare pene più dure e da scontare fino in fondo del tipo "chiudere le celle e buttar via la chiave". Purtroppo c’è anche chi, sotto il pretesto della sicurezza, cavalca questa tendenza e accusa di "buonissimo" chi la pensa diversamente. Un modo elegante per non dire che chi è solidale con i carcerati è un illuso, non sa stare al mondo o più platealmente un cretino. Anche il documento delle Caritas diocesane del Triveneto prevede che l’opinione pubblica non sia consenziente sulle proposte di clemenza e rieducative in esso contenute. Osserva però che sono sostenute dalla fede ed esprime la consapevolezza che l’opinione pubblica, se bene informata, potrebbe non solo condividerle, ma cogliere "i vantaggi etici, sociali, rieducativi, giudiziari, trattamentali ed economici che ne deriverebbero". Non si tratta di buonismo che ignora le debolezze e la stessa capacità dell’uomo di diventare un criminale, bensì di uno sguardo lucido e con i piedi per terra. Che non esclude però la effettiva capacità di ricupero che pure esiste nell’uomo e non ne soffoca quindi la speranza. Proprio in questi giorni mi è venuto tra le mani un saggio sulla perfezione personalmente vantata e pretesa dagli altri. L’autore è il filosofo e teologo francese Maurice Bellet e il titolo è "La rabbia della perfezione". La rabbia con la quale i teorici della perfezione si scagliano contro chiunque violi il codice penale o della morale. Ma anche la rabbia contro questa pretesa da parte di chi arranca per risalire la china del baratro in cui è caduto. E Bellet approda alla concezione cristiana della perfezione. Dopo aver detto che anche i veri santi sono quelli che non si ritengono perfetti ma solo in cammino verso la perfezione, analizza il messaggio evangelico. È vero, Gesù dice: "Siate perfetti come il Padre celeste è perfetto". Ma andando a vedere come si esprime questa perfezione del Padre, si scopre che "fa scendere la pioggia sui buoni e sui cattivi e fa splendere il sole sui giusti e sugli ingiusti". La formula pedagogica poi di applicazione all’uomo, teso nello sforzo di perfezione ad imitazione del Padre è questa: "Non giudicate e non sarete giudicati". Così Maurice Bellet commenta: "Prodigioso cammino! Mi basterebbe non giudicare mio fratello perché tutte le cattiverie in me sfuggano al giudizio. Perché possa schivare il tribunale. Tutto ciò che mi perde, mi rattrista e mi spaventa, tutto sparisce in me se do all’altro il suo posto per esistere, la possibilità della parola, il cammino aperto e la speranza di essere salvo!" Lo so. Una società bene ordinata deve avere anche i suoi tribunali e i suoi istituti di pena per chi ha sbagliato fino ad essere criminale e assassino. Una pena senza speranza di ricupero però non è ammessa neanche dalla Costituzione. E una riflessione sulla propria presunta perfezione farebbe bene anche all’opinione pubblica. Genova: detenuto a Marassi tenta due volte il suicidio, salvato
Ansa, 11 gennaio 2010
Ieri sera, nel carcere genovese di Marassi, un detenuto ha tentato di togliersi la vita ingoiando il contenuto di alcuni flaconi di detersivo che aveva in uso nella cella: lo ha denunciato Fabio Pagani, della Uil-Pa, spiegando che l’uomo, un cittadino marocchino di 32 anni, è stato soccorso dal personale e portato in infermeria per le cure del caso, ma ha rifiutato la lavanda gastrica. Di più: "Rientrato in cella - ha spiegato Pagani - si è cosparso del gas liquido della bomboletta e ha cercato di darsi fuoco, ma il tempestivo e coraggioso intervento degli agenti della Penitenziaria gli ha di nuovo salvato la vita". "Dopo l’aggressione a un agente da parte di un detenuto l’altro ieri - ha fatto notare il sindacalista - questo episodio non aiuta certo a ristabilire un clima tranquillo. È del tutto evidente che il personale è sottoposto a forti tensioni e lavora in un clima di forte preoccupazione. Tutti siamo consapevoli che la situazione potrebbe irrimediabilmente degenerare da un momento all’altro e siamo altrettanto consapevoli che l’esiguità delle risorse umane e tecnologiche ci impedirebbero di gestire la situazione e tenerla sotto controllo". Lecce: inaugurata oggi sala giochi per i bambini delle detenute
Ansa, 11 gennaio 2010
Una sala per attività ludico-formative dei bambini delle detenute. L’area giochi sarà inaugurata alle ore 10.30 di oggi presso la sezione femminile della Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce. Saranno presenti Maria Rosaria Piccinni, direttrice del Carcere, Filomena D’Antini Solero, assessora alle Pari opportunità della Provincia di Lecce, Serenella Molendini, consigliera di Parità della Provincia di Lecce, Michela di Ciommo, presidente della Commissione provinciale Pari opportunità della Provincia di Lecce e le componenti, Giovanna Caretto, dirigente del liceo artistico di Lecce, e Maria Antonietta Zecca in rappresentanza del Comitato Impresa Donna Cna. La sala giochi che sarà inaugurata stamani è il risultato di un Protocollo d’intesa tra varie istituzioni. Il progetto, finanziato attraverso l’attività svolta dalla consigliera di Parità della Provincia di Lecce, si è svolto tra marzo e giugno 2009, ed è stato promosso dalla Commissione provinciale Pari opportunità. I lavori sono stati realizzati grazie alle competenze professionali degli studenti del liceo artistico "Ciardo" di Lecce, mentre il Cna ha curato i rapporti tra la casa circondariale e le varie istituzioni che hanno aderito all’iniziativa. Iran: detenuti uccisi, Parlamento chiama in causa procuratore
Apcom, 11 gennaio 2010
Una commissione parlamentare iraniana ha puntato il dito contro l’ex procuratore generale di Teheran, Said Mortazavi, per aver fatto rinchiudere alcuni manifestanti dell’opposizione in un carcere della capitale, dove poi tre di loro sono morti in seguito alle violenze subite. La prigione di Kahrizak, sud di Teheran, ha "disonorato la Repubblica islamica", ha dichiarato la commissione incaricata di indagare sugli incidenti legati alle manifestazioni di protesta contro la rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Il centro detentivo di Kahrizak è stato chiuso a luglio in base a una decisione presa dalla Guida suprema della repubblica islamica, l’ayatollah Ali Khamenei, dopo questi decessi e dopo le numerose informazioni trapelate sugli abusi e sui maltrattamenti inflitti ai detenuti. "I detenuti sono stati inviati a Kahrizak su ordine di Mortazavi", dichiara la commissione parlamentare nel suo rapporto letto in parlamento. Secondo il rapporto, 147 manifestanti arrestati il 9 luglio sono stati "detenuti quattro giorni al fianco di pericolosi criminali in condizioni difficili (....), picchiati e umiliati dai loro carcerieri". "Le autorità giudiziarie dovranno adottare delle misure severe contro tutti coloro che sono dietro questi fatti, senza alcuna riserva e senza tenere conto delle loro funzioni", aggiunge il rapporto. Attualmente sono 12 gli agenti di custodia formalmente accusati di violenze sui detenuti. L’ex procuratore generale di Teheran, 42 anni, era stato sollevato dall’incarico ad agosto. Durante i suoi sei anni in funzione, Mortazavi aveva ordinato l’arresto di numerosi giornalisti e oppositori, oltre ad ordinare la censura di diverse pubblicazioni riformiste. Perù: direttore carcere massima sicurezza ucciso su porta casa
Adnkronos, 11 gennaio 2010
Il direttore di uno dei penitenziari di massima sicurezza del Perù è stato ucciso a Lima con tre colpi al viso dai sicari. Secondo le prime informazioni, Manuel Vasquez Coronado, 57 enne direttore del carcere di Castro Castro dallo scorso settembre, è stato crivellato di colpi sulla porta di casa, nel quartiere di El Agustino. Vazquez non aveva la scorta e non è escluso che avesse ricevuto minacce di morte. Ieri l’ex comandante della polizia Ruben Rodriguez aveva assunto l’incarico di nuovo capo dell’Istituto penitenziario nazionale, l’organismo di controllo delle carceri peruviane.
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