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Giustizia: con il "pacchetto-sicurezza", 90 modifiche ai Codici di Andrea Maria Candidi
Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2009
La sicurezza fa il pieno di nuovi reati e di ritocchi a illeciti già esistenti. In un anno, sommando il Ddl approvato la settimana scorsa alla Camera e i due decreti legge già in vigore, per ben novanta volte si è intervenuti su norme cardine dell’ordinamento, dal Codice penale al Testo Unico sull’immigrazione. Oltre a ribadire la spinta repressiva contro microcriminalità e immigrazione clandestina, il Ddl conferma lo spirito dell’intero impianto. Il tutto secondo un’impostazione che vede i sindaci in prima linea, a fianco della forza pubblica: non solo come utenti del sistema di repressione dei reati, ma titolari di compiti e poteri precisi. Ed è sfruttando questo spazio di manovra sfruttando che i sindaci hanno già emanato più di 700 ordinanze. Novanta, come la paura. O come il pacchetto sicurezza governativo, che raggiunge la soglia della cabala quanto a numero di reati nuovi di zecca o modificati. Infatti, sommando il Ddl approvato la settimana scorsa alla Camera agli altri due provvedimenti in tema di sicurezza già in vigore (Dl 92/08 e 11/09), per ben novanta volte si è intervenuti su norme cardine dell’ordinamento, dal codice penale al testo unico in materia di immigrazione.
L’evoluzione dei compiti
Il Ddl ora all’esame del Senato è infatti solo l’ultima tessera, sebbene la più estesa, di un mosaico che ha cominciato a prendere forma uh anno fa, quando il governo Berlusconi ancora in fasce approvò il decreto legge n. 92 che conteneva la prima risposta all’emergenza criminalità, e poi proseguito con il Dl 11/09, quello sullo stalking. Oltre a ribadire la spinta repressiva contro microcriminalità e immigrazione clandestina, il Ddl conferma il dna dell’intero impianto. Che vede i sindaci in prima linea, a fianco della forza pubblica. Non solo come utenti del sistema di repressione dei reati, ma titolari di compiti e poteri precisi. Vero è che il grosso della "competenza penale" dei sindaci sia attribuito con il primo provvedimento (in vigore dal 26 luglio 2008) che ne ha ampliato, innanzitutto, il potere di ordinanza. È sfruttando questo nuovo spazio che si sono moltiplicate le ordinanze. L’Anci, Associazione nazionale dei comuni, ne ha registrate quasi 700) come ad esempio quelle contro le lucciole. Un secondo strumento è stato poi messo nelle mani dei primi cittadini con il decreto legge in vigore dal 25 aprile scorso che permette ai comuni di utilizzare sistemi di videosorveglianza in luoghi pubblici o aperti al pubblico.
Dalle ronde...
Ora il cerchio si chiude con le ultime disposizioni che assegnano ulteriori poteri alle amministrazioni comunali. Il principale e più discusso dei quali riguarda la possibilità di avvalersi delle cosiddette ronde per segnalare agli organi di polizia (anche municipale) eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana o situazioni di disagio sociale. Una specificazione forse superflua, quella che limita alla "segnalazione" lo spazio di manovra, anche perché il testo unico delle leggi di ps prevede l’obbligo di intèrvento solo per i soggetti autorizzati (vale a dire gli agenti di pubblica sicurezza).
Ai "buttafuori"
Insieme alle ronde, rispuntate dopo che erano state cassate dal Dl 92, il disegno di legge tenta di riportare nei ranghi anche i "buttafuori". Gli addetti alla security dei locali di intrattenimento, come avviene per i componenti delle ronde, dovranno essere iscritti in appositi elenchi tenuti in prefettura. Qui i sindaci non entrano in gioco, ma è innegabile che la regolamentazione, nei fatti, sia un elemento di garanzia anche per loro, specialmente nel controllo delle zone ad alta concentrazione di locali aperti fino a notte inoltrata.
Immigrazione
Il personale del Comune incrocia poi anche le norme sull’immigrazione. Ad esempio, sono stati dimezzati i tempi, da un anno a sei mesi, per la cancellazione dall’anagrafe dello straniero con permesso di soggiorno scaduto. Sempre in tema di anagrafe, in caso di richiesta di iscrizione o di variazione, gli uffici competenti possono verificare le condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente abita. L’emendamento del governo ha attenuato la portata originaria della norma che, invece, prevedeva l’obbligo di controllo. Dello stesso tenore l’attribuzione ai municipi del potere, finora nelle mani delle Asl, di accertare il rispetto dei requisiti di abitabilità dell’alloggio dello straniero che chiede il ricongiungimento. Giustizia: solidali a parole, stufi e intolleranti "nel quotidiano" di Alberto Faustini
La Nuova Ferrara, 18 maggio 2009
Troppa retorica xenofoba. Firmato: Giorgio Napolitano. Una frase. Un telegramma istituzionale di tre parole che fotografa l’Italia di oggi: stiamo passando dalla cultura dell’inclusione al culto dell’esclusione. Non è un parere. È un fatto. Se uno legge cosa dice il ministro Maroni sulla necessità di dichiarare guerra all’immigrazione clandestina, tende a dargli ragione. Poi legge che l’opposizione franceschiniana paventa il ritorno delle camicie nere. E non si può non considerare che spesso si inizia così e poi si finisce chissà dove. Siamo solidali a parole. Stufi e intolleranti nel quotidiano. Tendiamo ad elogiare la badante o la colf che ci aiutano a casa e a considerare normale che al ristorante ci serva - e riflettete su questo verbo - uno straniero. Ma quando vediamo i barconi a pochi passi dalle nostre coste, siamo disorientati. La carità cristiana, la tutela dei diritti umani, anni d’accoglienza, di civiltà, di convivenza, sbattono con ferocia contro qualcosa di ancestrale: la paura del "diverso". Trasformare in reato l’ingresso irregolare nel nostro Paese risolverà il problema? Sinceramente, non lo so. So che in Italia vengono denunciate 500 mila persone all’anno. Ma so che la nostra giustizia non riesce a processarle in tempi non dico certi ma almeno decenti. E so che le nostre carceri non hanno la capacità di contenerle. Gli esperti dicono che gli immigrati, soprattutto se clandestini, sono per ovvie ragioni più pericolosi degli italiani, che in fatto di delinquenza, come noto, si difendono. Ma dicono anche che occupano solo un terzo dei posti disponibili nelle nostre carceri e che non sono quasi mai arrivati dal mare. Dunque una nave piena di persone non ci colpisce perché lassù si vive in modo disumano e si è disposti a morire pur di cercare ciò che cerchiamo tutti: una vita migliore. No, quella nave in realtà ci atterrisce perché riteniamo che a bordo ci sia il peggio della delinquenza internazionale. E qui sta il dubbio: il governo è così efficiente da dare una risposta forte e in tempi rapidi al cittadino preoccupato o ingigantisce le nostre paure? E se le cavalcasse per fare sulla nostra testa quello che gli pare, forte anche di una grancassa mediatica che fa scivolare la libertà di stampa italiana in fondo alle classifiche planetarie? Chiediamocelo. Interroghiamo le nostre coscienze. Ascoltiamo i nostri occhi. E il Parlamento trovi una linea comune. Il filo di seta che divide l’accoglienza dall’intolleranza non può avere un colore politico. E la paura non si può cavalcare solo perché ci sono le elezioni; se non altro perché in Italia si vota in continuazione. Nell’assordante silenzio dell’Europa, da noi nascono ronde che anziché placare l’inquietudine la esaltano, e "pacchetti sicurezza" pieni di incognite. Sarebbe invece auspicabile che l’Italia, questa fragile porta sul Mediterraneo, desse risposte all’avanguardia, soluzioni nuove. Venerdì sera, in un dibattito organizzato dai Verdi di Ferrara, l’ex deputato Marco Boato ha detto che viviamo in una democrazia autoritaria: le libertà formali sopravvivono, ma la democrazia è svuotata al suo interno. È in un clima come questo che si fanno leggi con la pancia e non con la testa. Giustizia: Alfano; in ddl-sicurezza stretta dura contro la mafia
Agi, 18 maggio 2009
Tre pilastri per contrastare la criminalità organizzata: l’aggressione dei patrimoni dei boss, la responsabilità delle persone giuridiche e l’utilizzo dei beni confiscati alla mafia. Sono questi "i principali binari" del "pacchetto di contrasto alla criminalità organizzata" inseriti nell’articolo del disegno di legge sulla sicurezza già approvato alla Camera e illustrato oggi in conferenza stampa a Palermo dal ministro della Giustizia Angelino Alfano. Il Guardasigilli, al termine di un incontro in prefettura con i vertici delle forze dell’ordine e col prefetto di Palermo Giancarlo Trevisone, ha illustrato le principali novità di quello che ha definito: "Il più grosso pacchetto di misure contro la mafia dai tempi di Falcone al ministero della Giustizia". Tra le norme già votate dalla Camera, Alfano ha sottolineato i nuovi poteri attribuiti al procuratore nazionale antimafia, al questore in materia di prevenzione e al prefetto "per rendere brevissimo l’intervallo tra il momento del sequestro e quello dell’assegnazione dei beni confiscati". Inoltre, ha aggiunto il ministro, è introdotta la possibilità di irrogare "misure patrimoniali applicabili indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto". Alfano ha anche parlato delle norme sulla responsabilità delle società e degli enti, sull’esclusione dalla partecipazione agli appalti pubblici delle aziende che avendo subito estorsioni non denunciano e si è anche soffermato sul 41 bis, il regime di carcere duro: "La durata massima è stata innalzata a quattro anni, da due, la proroga potrà essere biennale anziché annuale ed è stato introdotto il 391 bis che punisce fino a cinque anni chi consente a un condannato al 41 bis di comunicare con l’esterno". Alfano ha osservato come in precedenza le norme antimafia siano state "figlie delle stragi": "Noi abbiamo fatto queste leggi non sull’onda dell’emozione ma sulla rotta di ciò che ritenevamo giusto fare, e ne siamo lieti". Giustizia: il coraggio di una amnistia per gli "anni di piombo" di Piero Sansonetti
L’Altro, 18 maggio 2009
Giampiero Mughini ha raccontato ieri al Corriere della Sera (articolo di Aldo Cazzullo) i suoi ricordi e le sue riflessioni sull’uccisione del commissario Luigi Calabresi (anno 1972), Mughini all’epoca era vicino al gruppo dirigente di Lotta Continua, e quindi basa la sua ricostruzione (ipotetica) dei fatti su elementi di conoscenza personale (di abitudini, idee, rapporti, modi di comportarsi di quel periodo). Mughini avanza l’ipotesi che Sofri non sia colpevole diretto, ma che sapesse. E che conosca i nomi di chi uccise Calabresi. Tesi che già in passato aveva sostenuto. Personalmente questa ricostruzione non mi convince. Penso che Sofri sia innocente. E constato che, in ogni caso, contro di lui non sono state raccolte prove, e i processi che si sono conclusi con la sua condanna erano processi indiziari, tutti fondati sulle dichiarazioni di un pentito (non verificate e non verificabili) il quale in cambio della condanna di Adriano Sofri ha ottenuto per se la libertà dopo pochissimi mesi di prigione (pur essendo stato condannato come autore materiale dell’uccisione). Sono assolutamente convinto del principio secondo il quale in mancanza di prove non si può condannare. E credo che un certo numero dei processi che si sono svolti negli anni 80 (e in parte 90) contro gli imputati di lotta armata o di reati politici, siano stati processi "zoppi", poco convincenti, senza garanzie. Influenzati dal clima politico dell’epoca e condizionati da una legislazione speciale, basata sull’esaltazione del pentitismo, che non dava garanzie né di verità né di equanimità. Che le cose stiano così è abbastanza evidente. E ce ne accorgiamo ogni volta che le nostre autorità chiedono l’estradizione di qualcun o che fu condannato in quegli anni, con quei processi, e non la ottengono (recentissimo caso Battisti). Come mai non l’ottengono? Perché la Francia, il Brasile, il Canada, la Gran Bretagna, la Svezia, la Spagna eccetera, eccetera sono paesi filo terroristi? Non mi pare una spiegazione ragionevole. Non la ottengono perché i processi sono considerati non affidabili. Tutto qui. Vedete bene che il problema esiste, e va affrontato seriamente. In che modo? Riprendendo la riflessione su quegli anni di fuoco, nei quali la lotta politica, in Italia, convisse con la lotta armata; e trovando il modo dì uscire definitivamente da quel clima e da quella storia. C’è un solo modo di uscire da quel clima e da quella storia. Chiudendone tutti gli strascichi giudiziari e penali. Cioè con l’amnistia. Solo l’amnistia può relegare finalmente nel passato gli anni di piombo e di conseguenza permettere l’apertura di una discussione e di una riflessione seria. Quali sono gli argomenti contro l’amnistia? In genere se ne sentono tre. Il primo è il cosiddetto "diritto dei parenti delle vittime". Il secondo è la certezza della pena e il rischio che gente che ha seminato il male non paghi per il male, la faccia franca. Il terzo è la paura che l’amnistia ci impedisca di scoprire cosa davvero è successo in quegli anni, cosa c’era dietro i delitti. Il primo argomento mi sembra che non riguardi il diritto. Riguarda semmai la politica. I parenti delle vittime non hanno il diritto dì influire sulle pene dei colpevoli (o, talvolta, dei sospetti). Hanno il diritto ad essere risarciti, aiutati, assistiti. E spesso questo diritto non viene loro riconosciuto dallo Stato, ma l’amnistia non c’entra niente. Il secondo argomento è sbagliato. Per un motivo molto semplice: la lotta armata degli anni settanta è l’unico capitolo della storia del delitto italiano che ha prodotto un numero altissimo di condanne e di pene. I ragazzi che furono coinvolti nella lotta armata, nella loro quasi totalità hanno pagato con anni e anni di galera. Non esistono altri "rami" del delitto dei quali si possa dire altrettanto. Qualcuno ha pagato per le stragi di Stato? Qualcuno per la corruzione politica? Qualcuno per le responsabilità dell’ecatombe sul lavoro? Ho fatto solo tre esempi, ì più clamorosi, ma potrei continuare. E allora è curioso che si chieda la certezza della pena per gli unici che la pena l’hanno scontata. Giusto? Il terzo argomento è il più controverso. È la famosa questione del complotto. Qual è il problema? Una parte dell’opinione pubblica italiana (specialmente di sinistra) si era convinta, negli anni scorsi, che il fenomeno della lotta armata fosse troppo grande e vasto e potente per potere essere il semplice prodotto dell’impegno diretto e un po’ delirante di alcune migliaia di giovani. E che allora dovesse essere il risultato di un complotto nazionale o internazionale. Devo dire che per molti anni anche io mi ero convinto di qualcosa del genere. Avevo sospettato che il rapimento e l’uccisione di Moro fosse una losca congiura del potere. Però poi, di fronte alla realtà, bisogna arrendersi. I colpevoli sono stati tutti arrestati, sono state raccolte tonnellate di testimonianze, prove, documenti. Sono passati 30 anni. È chiaro che non ci fu complotto. Semplicemente avevamo sottovalutato la forza della rivolta armata. E allora perché negare l’amnistia con la scusa della ricerca della verità? È chiaro che le cose stanno in modo molto diverso. La verità che ancora non conosciamo, che vorremmo conoscere, è quella sulle stragi di Stato (da piazza Fontana 1969, fino alla Stazione di Bologna 1980). Cioè su quella parte di lotta armata (di controguerriglia) che fu organizzata direttamente dalle istituzioni e dal potere e che, tra l’altro, ebbe un peso forte nella nascita - per reazione - delle brigate rosse e delle altre formazioni eversive di sinistra. Nessuno è in prigione per quelle stragi (tranne alcuni estremisti di destra per la strage di Bologna, ma moltissimi esperti ritengono che essi siano innocenti). Con questi misteri l’amnistia non c’entra niente. E probabilmente se ci si decidesse a vararla potrebbe essere un aiuto per riaprire la discussione e la ricerca su quel buco nero della storia italiana. Giustizia: le "ronde"? all’inizio si chiamavano "Camicie verdi" di Paolo Persichetti
Liberazione, 18 maggio 2009
All’inizio si chiamavano "Camicie verdi". La legalizzazione delle ronde civiche prevista nel pacchetto sicurezza, che arriva al voto oggi nell’aula della Camera blindato dal voto di fiducia, ha una genealogia ben precisa. Nel fascicolo del processo in corso a Verona, che vede sul banco degli imputati l’intero vertice della Lega nord, emergono dei documenti che dimostrano come già nel 1996 questo movimento politico avesse messo in piedi una struttura dalle "caratteristiche paramilitari", che dal nucleo iniziale di Camicie verdi era passata alla creazione di una Guardia nazionale padana evolutasi poi in una Federazione delle compagnie della guardia nazionale padana. L’inchiesta in questione è quella condotta dal pubblico ministero Guido Papalia contro i progetti di secessione portati avanti dalla Lega nord con modalità ritenute dalla magistratura illegali. Insieme al reato fine, il progetto secessionista, considerato di per sé un attentato all’articolo primo del dettato costituzionale, la magistratura ha contestato allo stato maggiore leghista anche dei reati mezzo, tra questi la messa in opera di gruppi paramilitari. Appunto la creazione di "corpi e reparti organizzati in guisa militare e dotati di "gradi e uniformi". Caratteristica che ad avviso della magistratura "al di là dell’aspetto "ideale" di usurpazione del monopolio statuale della forza, andava materialmente a turbare la tranquillità dei cittadini". Erano gli anni in cui la Lega perseguiva una strategia che rasentava l’insurrezionalismo costituente, attraverso una serie preliminare di passaggi che dovevano preparare l’evento accumulando forza sociale, consenso, organizzazione, controllo politico, culturale e "militare" del territorio. È in quel clima politico-culturale che nel 1997 un piccolo gruppo di padani combattenti, i Serenissimi, sbarcò armato in piazza san Marco a Venezia per impadronirsi del campanile. Una banda armata leghista per la Giustizia, "terroristi padani" se volessimo definirli mutuando il linguaggio comunemente usato dai leghisti contro l’estrema sinistra. Sempre dalle carte rinvenute nell’inchiesta emerge che l’organizzatore di questa struttura paramilitare altri non era che Roberto Maroni, l’attuale ministro degli Interni che aveva ricoperto questa carica già nel primo governo Berlusconi, acquisendo una professionalità e una rete di contatti e conoscenze d’apparato poi trasferiti nel fantomatico governo della repubblica federale padana in pectore. Insomma nel 1996 Maroni, che nel suo cursus honorum annovera anche la funzione di portavoce del comitato di liberazione della Padania, reclutava guardie padane e organizzava ronde. Un vecchio pallino che ora si trasforma in una realtà su scala nazionale con tutti i crismi della legalità. In una lettera del 7 ottobre 1996 l’allora portavoce del governo padano diramava le direttive per il reclutamento degli aderenti alla Federazione delle guardie nazionali padane "rette da un identico statuto". "Il governo - scriveva Maroni - ha potuto procedere in pochi giorni alla costituzione di 19 Compagnie provinciali. L’obiettivo è di arrivare alla costituzione di tutte le Compagnie provinciali (oltre 50) entro la fine di ottobre". Le nuove milizie che verranno disciplinate col voto di oggi avranno una rete ancora più capillare, su base comunale. Sempre dalle carte processuali emerge che inizialmente le milizie padane avevano ricevuto espresse indicazioni sul "possesso di porto d’armi", solo in seguito mitigato dallo statuto citato nella lettera del ministro. Un vero manifesto della contraddizione. La guardia padana "costituita in associazione pacifica e nonviolenta", ispirata al "rifiuto di ogni attività che implichi, anche indirettamente, il ricorso all’uso delle armi o della violenza", per "combattere gandhianamente le ingiustizie sociali" ricorrendo alla "disobbedienza civile e la resistenza passiva", non proponeva - come ci saremmo aspettati - la pratica del digiuno ma (articolo 3, comma g) "l’esercizio del tiro a segno come momento di pacifico riferimento storico, come attività sportiva, di svago e motivo di aggregazione sociale". La mira più della parola si addice ad un bravo rondista, come predicava Gandhi, no? Giustizia: Alfano; carceri per il 41-bis e Testo unico sulla mafia
Ansa, 18 maggio 2009
Il nuovo piano sulle carceri varato dal ministro della Giustizia prevede una riduzione delle strutture di detenzione destinate ai boss sottoposti al 41 bis e la realizzazione di nuove apposite strutture penitenziarie. Ad annunciarlo è stato lo stesso Alfano, spiegando come non verranno riaperte l’Asinara, Ponza e Pianosa, e che "le nuove norme del 41 bis sono fortissime, ed è stato fatto il massimo, proprio al limite della Costituzione". Secondo quanto spiegato dal Guardasigilli, i detenuti condannati al regime 41 bis verranno concentrati soltanto in alcune strutture altamente specializzate. "Le nuove norme sul carcere duro sono un’innovazione fortissima, il massimo di quel che poteva essere fatto rispettando la Costituzione", ha detto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, elencando le novità dell’articolo unico antimafia contenuto nel testo del ddl sicurezza approvato dalla Camera. Nel presentare il nuovo progetto sulle carceri dell’esecutivo e le norme che regolano la detenzione e l’utilizzo dei beni sequestrati ai boss, Alfano ha poi sottolineato i poteri conferiti al prefetto per rendere breve l’intervallo fra il blocco dei beni e quello dell’assegnazione ad associazioni di volontariato che combattono la mafia. "Il governo intende trasformare i tesori criminali in salvadanaio della legalità", ha aggiunto.
Mafia: norme in un Testo unico
Il ministero della Giustizia prepara un testo unico con tutte le norme antimafia e le misure di prevenzione personali e patrimoniali. "L’ufficio legislativo di via Arenula - dice il ministro Alfano, a Palermo per presentare le norme antimafia approvate dalla Camera - sta mettendo insieme tutte le norme sparse per racchiuderle in un unico testo". Alfano ha anche parlato delle nuove norme del 41 bis, definendole "fortissime, il massimo consentito dalla Costituzione". Giustizia: Radicali; in carceri rischiano di aumentare le tensioni
Agi, 18 maggio 2009
"Non so cosa potrà accadere questa estate quando la popolazione carceraria aumenterà, quando ci saranno le ferie degli agenti, quando ci sarà mancanza d’acqua come accade in alcune carceri del nostro paese". Lo sostiene Rita Bernardini, segretaria del Partito Radicale, non nascondendo le sue preoccupazioni riguardo future possibili tensioni negli istituti di pena italiani. Nel corso di una conferenza stampa al termine delle visite fatte oggi nei carceri di San Gimignano e di Siena, nell’ambito della campagna elettorale per l’Europa, la Bernardini ha sottolineato che si ripongono problemi comuni a tutte le carceri del Paese. Troppo affollamento, l’insufficiente numero di agenti di polizia penitenziaria, la carenza di altre figure professionali, la situazione dei detenuti tossicodipendenti. "Devo dire - ha aggiunto Bernardini - che miracolosamente fino ad ora i detenuti italiani nel loro complesso hanno dimostrato, così come il personale, molta responsabilità. Non so cosa potrà accadere nei prossimi mesi. Comunque viene segnalato un aumento degli atti di violenza da parte dei detenuti nei confronti degli agenti. Per non parlare dei suicidi, delle morti che non hanno spiegazioni". Giustizia: Sappe; con arrivo clandestini sarà "boom" di violenze
Il Velino, 18 maggio 2009
Donato Capece, Segretario Generale del Sappe, intervistato nella trasmissione di Klaus Davi KlausCondicio, in onda su You Tube.
Alfano? Non ha mai visitato un carcere
"Alfano? Fino adesso non ha mai messo piede in un carcere. Pur legiferando su carceri e giustizia è curioso che il Ministro della giustizia non abbia mai sentito l’esigenza di conoscere la materia di cui si occupa". "Con noi ha fatto delle sporadiche apparizioni, ma solo per incontrare una parte della polizia penitenziaria o per visitare qualche nuova struttura. Abbiamo incontrato il Ministro della Giustizia tre volte fino ad ora, dove ci ha illustrato il piano carceri e i progetti sulla riforma della giustizia, ma in pratica di tutte queste sue idee, oggi non c’è nulla di attuabile; è tutto programmato nel futuro. Nell’attuale non c’è nulla. Il vero problema è che oggi abbiamo superato i 62.000 detenuti e nella programmazione di questo Governo c’è la costruzione di 15 carceri leggere, sarebbe il carcere a custodia attenuata, con una spesa di circa 200 milioni di Euro. Per costruire i novi penitenziari tuttavia ci vorranno almeno 5 o 6 anni. Se siamo già a 62.000 detenuti oggi, fra 5 anni a quanti arriveremo?".
Alla parola carcere Berlusconi si fa la croce
Invitereste Berlusconi a visitare un carcere? Alla domanda di Klaus Davi, Donato Capece, Segretario Generale del Sappe, dichiara: "Certo che inviteremo il Presidente del Consiglio a visitare il carcere, anche se so che quando si parla di penitenziari si fa il segno della croce, lo ha fatto in mia presenza, ma probabilmente scherzava". Continua dicendo: "Anche il Ministro degli Interni Maroni non è mai venuto a visitare un carcere, anzi non è neanche mai passato davanti ad un istituto penitenziario, mentre la Chiesa è molto vicina al mondo carcerario grazie all’aiuto di volontari, dei cappellani, della Caritas, ecc.". "In genere i politici qui si fanno vedere solo quando viene rinchiuso qualche vip, qualche parente di casta. Certo non si interessano alle migliaia di poveracci che sono qui dentro e non fanno notizia. Attraverso il carcere cercano le luci della ribalta, delle telecamere. Cercano le luci tramite la sofferenza altrui ma che sia vip".
Mafiosi isolati in carcere? C’è videoconferenza
"Il 41bis? È molto attenuato rispetto ad una volta. Se lo si volesse applicare in maniera pressante sarebbe efficace. Purtroppo questo non avviene per una serie di questioni, una tra queste è la carenza di personale. Con un 41bis attenuato i mafiosi riescono a comunicare più facilmente con l’esterno, attraverso segnali in codice lanciati ad esempio durante le videoconferenze che vengono fatte per celebrare processi, o durante colloqui e incontri, momenti nei quali fanno passare messaggi in codice. Comunque abbiamo degli esperti che studiano questo tipo di comunicazione gestuale. Ma credere che il 41 bis isoli completamente i mafiosi è sbagliato. È efficace solo se praticato con severità".
In carcere si ricostituiscono i gruppi mafiosi
"In carcere si ricostituiscono gruppi mafiosi e cosche camorristiche. Il carcere è diventato scuola di delinquenza, si esce dai penitenziari con la laurea da delinquente abituale o professionale. Bisogna creare istituti diversificati a seconda della tipologia del detenuto oppure, nell’ambito stesso dell’istituto, non si può mettere insieme l’ergastolano con chi è stato arrestato per guida senza patente. I soggetti vanno diversificati e per questo va potenziata l’area penale esterna. Colui che commette un piccolo reato e che non crea allarme sociale o comunque che è incensurato, non va arrestato e messo in cella insieme all’ergastolano. Va inserito in un settore, in un’area riservata attraverso la quale si può recuperare e reinserire. Il carcere deve avere una speranza e deve servire a rieducare il soggetto".
Presto azioni clamorose
"Noi non ci sentiamo una forza di polizia di serie C, anzi. Ci sentiamo a pieno titolo polizia specializzata perché non facciamo ordine pubblico, ma un servizio di controllo e di vigilanza negli istituti di pena attraverso il quale garantiamo comunque sicurezza ai cittadini. Berlusconi sappia che non siamo poliziotti di serie C e che se non ascolterà le nostre richieste faremo azioni clamorose nei prossimi giorni".
Con arrivo clandestini sarà boom di violenze
"Il reato di immigrazione clandestina farà scoppiare il sistema carcere, che già adesso implode, avendo superato la pericolosa soglia di 62.000 detenuti. Se tutti gli immigrati clandestini venissero arrestati dove li metteremo? Oggi lo Stato non riesce a garantire il posto letto a chi viene arrestato e i detenuti rischiano di dormire in piedi. Siamo costretti, in alcuni istituti specialmente al nord, a far dormire i carcerati per terra sui materassi". Capece continua dicendo: "Auspicavamo, sia dal Governo Prodi sia da quello Berlusconi, una rivisitazione del sistema carcere che non c’è mai stata. Il carcere è considerato una discarica dove ci si butta dentro tutto, compreso chi commette reato per la prima volta, nonostante il reato non provochi alcun allarme sociale. Bisognerebbe potenziare le misure alternative alla detenzione, attraverso strumenti tecnologici come il braccialetto elettronico o tramite i lavori socialmente utili".
La sinistra? Ai disgraziati preferisce i salotti
"Franceschini? Bersani? D’Alema? Mai visti… la sinistra preferisce frequentare i salotti romani e i banchieri anziché frequentare e capire il dramma di chi vive qui dentro". "Abbiamo avuto solo un incontro con l’ex segretario del Pd Walter Veltroni a cui avevamo illustrato una serie di problematiche che riguardavano il penitenziario. Con Franceschini e con gli altri esponenti del Partito Democratico non abbiamo avuto nessun dialogo sul discorso politica penitenziaria. Purtroppo del carcere tutti ne parlano, pochi lo conoscono o comunque pochi lo vogliono conoscere". "Devo dire che gli sportivi sono più generosi, disponibili e altruisti dei politici. Totti ed altri esponenti del mondo del calcio sono sempre presenti negli istituti, sia a Rebibbia sia a Regina Coeli, per offrire la loro testimonianza ai detenuti, regalando palloni da calcio, magliette e pantaloncini".
Inutili nuove carceri
"Siamo contrari alla costruzione di nuove carceri, perché ce ne sono già 40, edificate con la legge del 1980 come case mandamentali, che vengono utilizzate esclusivamente come deposito o sono in completo stato di abbandono. Soldi praticamente buttati via. Bisogna avere il coraggio di trovare delle misure alternative al carcere, ormai non è più un deterrente e non fa più paura a nessuno. Bisogna lavorare sulla certezza della pena, ma, soprattutto, trovare misure alternative che facciano scontare realmente la pena. Non servono pene eclatanti, ma pene giuste e moderate che si scontino completamente, dall’inizio alla fine. Nel nostro carcere, i cittadini lo devono sapere, l’anno di 365 giorni ha durata di 9 mesi".
Meno stupri in carcere, ma è boom di Aids
"Stupri in carcere? Un fenomeno di 20 anni fa, oggi è molto attenuato e la situazione è completamente cambiata. I detenuti godono dei benefici di legge e possono uscire dal carcere grazie a dei permessi speciali". Parlando invece della diffusione del virus Hiv racconta: "certo c’è un boom tra i carcerati dovuto anche alle condizioni di promiscuità anche se è da provare che la malattia venga contratta proprio dietro le sbarre."
Gay e trans vivono in settori separati
"In carcere non c’è bullismo verso i giovani, i più deboli o gli omosessuali. I detenuti hanno una forma di rispetto tra di loro e di sudditanza verso i detenuti che, per il reato commesso, hanno più spessore rispetto ad altri. C’è rispetto reciproco - continua - gli omosessuali dichiarati vivono in settori separati, come pure i trans per evitare soprusi e violenze".
Carceri lombardi sono a rischio
"Le carceri più a rischio sono quelle lombarde in cui il 70% dei detenuti sono extracomunitari. Le regioni leggermente meno affollate sono l’Umbria e le Marche".
La Rai dovrebbe dare più attenzioni a carceri
"La Rai ha fatto poco e niente per noi. È un servizio pubblico e dovrebbe vivere da vicino la questione dei penitenziari e degli agenti che ogni giorno rischiano la vita. Ma La Rai si occupa poco di noi, mentre per esempio Maurizio Costanzo lo ha fatto con un coraggioso reality. Ci appelliamo a Paolo Garimberti e Mauro Masi perché qualcosa cambi". Friuli: Crvg; la riforma penale, prima di costruire nuove carceri
Messaggero Veneto, 18 maggio 2009
"Noi pensiamo che prima di tutto sia necessaria una riforma penale che preveda la revisione delle leggi Bossi-Fini, la ex Cirelli e la Fini-Giovanardi, leggi che continuano a rinchiudere i soliti clienti, immigrati, tossici e altri disperati con problemi psichici e sociali, riforma penitenziaria che preveda il coinvolgimento del personale penitenziario e delle forze sociali del territorio, che riconosca i diritti dei detenuti offrendo ad essi garanzie di rispetto e contempli spazi alternativi alla detenzione". Questa la priorità per affrontare il problema delle carceri in Italia, compreso quello goriziano, secondo il presidente della Conferenza Regionale volontariato e giustizia don Alberto De Nadai. "Sul tema - scrive don De Nadai in una lettera aperta - vogliamo fare delle considerazioni che forse non sono state evidenziate da chi si sta occupando della questione o, perlomeno, non sono apparse sui giornali. Considerazioni che ci consentono di capire che tipo di carcere si vuol realizzare. Un carcere esclusivamente punitivo o un carcere rieducativo e riabilitativo come prevede l’articolo 27 della Costituzione? Perché la nuova struttura dovrà corrispondere a queste scelte". "Noi volontari - continua don Alberto - facciamo parte di tutte quelle voci che si sono levate in questi anni perché il sistema penitenziario cambi in positivo per chi lo subisce, voci di operatori dentro e fuori dal carcere. Tutte queste voci assieme a quelle dei detenuti esprimono una speranza di cambiamento della struttura carceraria dove la pena detentiva dovrebbe essere l’estrema ratio e questa speranza deve essere organizzata anche nella ricerca di un nuovo edificio. In questa organizzazione non deve essere coinvolto solo il ministero di giustizia ma devono avere un peso importante anche le forze politiche, sociali, amministrative, presenti sul territorio. Nell’ottica della rieducazione, della crescita della persona detenuta e del suo reinserimento sociale, gli enti locali devono giocare un ruolo più attivo in questa complessa e difficile partita non dimenticando di ascoltare anche il volontariato penitenziario poiché è un soggetto qualificato e formato che può dare utili contributi". Lazio: il Garante; il 40% dei detenuti ha l’Epatite e il 7% l’Hiv
Ristretti Orizzonti, 18 maggio 2009
Secondo un’indagine epidemiologica statistica, condotta nel 2007 in 14 delle 205 carceri italiane, il 38% dei detenuti risulta affetto da infezione da Epatite C. I risultati sono stati resi noti durante la presentazione del Protocollo d’Intesa tra Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio ed Epac Onlus per garantire la sensibilizzazione e la prevenzione sul tema fra i reclusi delle 14 carceri della Regione. La firma del Protocollo d’Intesa precede di un giorno la giornata planetaria di sensibilizzazione sull’epatite, malattia che ogni anno colpisce 500 milioni di persone e ne uccide un milione e mezzo ogni anno. Nel mondo, si stima che una persona su 12 ha l’epatite B o l’epatite C ma la maggiore parte non lo sa ancora. Epac Onlus è l’unica struttura no-Profit nazionale operante nel settore informativo e di counselling per i malati di epatite che, ad oggi, ha fornito consigli e consulenze ad oltre 60.000 pazienti, familiari, operatori sanitari e cittadini. L’associazione fornisce informazioni e sostegno alle persone che vivono da vicino il problema dell’epatite e promuove campagne di educazione, informazione e prevenzione. Epac negli ultimi anni si è anche avvicinata alla ricerca finanziando quattro studi scientifici. "La situazione sanitaria nelle carceri italiane è delicata - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - soprattutto in questo momento di passaggio delle competenze sanitarie penitenziarie dal Ministero della Giustizia alle Asl che, nella maggior parte dei casi, hanno gravi disagi economici. Secondo i dati, circa il 40% dei reclusi hanno l’epatite. Noi abbiamo già avviato una campagna di prevenzione e informazione distribuendo nelle carceri oltre seimila opuscoli multilingue sulle malattie più diffuse in carcere: Hiv, Tubercolosi, Epatiti Virali e malattie psichiatriche. Grazie all’accordo con Epac Onlus, garantiremo più efficacemente il diritto alla salute dei reclusi e a migliorare le condizioni di vita nelle carceri". "In base al Protocollo d’Intesa, la nostra Associazione - ha aggiunto il presidente di EpaC Onlus Ivan Gardini - promuoverà incontri con detenuti ed operatori e metterà a disposizione materiale informativo redatto da specialisti. Da anni siamo impegnati in campagne di sensibilizzazione rivolte ai cittadini, offrendo anche pareri legali gratuiti a beneficio di chi subisce umiliazioni per il solo fatto di avere l’epatite. È importante estendere le nostre iniziative a chi è privo della libertà personale. Per questo forniremo anche contributi informativi sui diritti del malato di epatite, utili per il detenuto una volta in libertà". Nelle carceri di tutto il mondo è segnalata un’alta prevalenza di infezioni virali croniche, e in particolare di epatite cronica C, correlabile alle particolari tipologie socio-comportamentali più rappresentate tra i detenuti: tossicodipendenti per via endovenosa, senza fissa dimora, soggetti con dipendenza alcolica, malati psichiatrici. "Esistono condizioni che favoriscono la diffusione dell’infezione da Hbv e Hcv - ha detto il dottor Lorenzo Nosotti, internista epatologo dell’Istituto San Gallicano - come la concentrazione di soggetti a rischio, il sovraffollamento, l’uso comune di rasoi e tagliaunghie oltre al rischio di trasmissione sessuale con rapporti omosessuali. Un altro problema è la pratica dei tatuaggi con strumenti non sterili. Date questo premesse, da un’indagine epidemiologica in 14 carceri risulta che il 38% dei detenuti ha infezione da Hcv, mentre il 6,7% presenta infezione manifesta da Hbv (HBsAg+) e il 52,6% infezione occulta da Hbv (anti-HBc+ con HBsAg-), mentre la sieropositività per Hiv è del 7,5%". Pordenone: nuovo carcere nel piano Ionta ma incertezza resta
Messaggero Veneto, 18 maggio 2009
Il trasloco dal castello "Nel piano elaborato dal Commissario Straordinario, Franco Ionta, il nuovo carcere di Pordenone è inserito. Nelle prossime settimane approderà in commissione, per cui sono fiducioso che l’operazione si possa concludere". Pur consapevole che ci possono essere sorprese dell’ultimo minuto ("Non vorrei che risorse venissero a mancare per effetto della necessità di reperire fondi a favore della ricostruzione in Abruzzo") il deputato del Pdl, Manlio Contento, sottolinea che la strada giusta è stata imboccata. Il complesso piano di Ionta che punta ad aumentare di 18 mila posti la capienza del sistema penitenziario italiano, si sviluppa su carceri di grandi dimensioni, strutture temporanee e opere di più piccole dimensioni. Tra queste quella di Pordenone, insieme a Marsala, Pinerolo, Varese, Sciacca e alcune altre, che dovrebbe contenere 200 detenuti ciascuna, per le quali si prevede la realizzazione nel triennio 2009-2011. Per quanto concerne le risorse, che ammontano a un miliardo 116 milioni di euro, 456 milioni deriverebbero da stanziamenti dello stato di previsione di spesa del ministero della Giustizia, dal fondo unico della giustizia e dalla Cassa Ammende. Altri 660 milioni verrebbero reperiti con permute, dismissioni di immobili, rifinanziamenti e project financing. Per Pordenone una soluzione potrebbe essere quella dell’intervento finanziario della Regione come contropartita rispetto alla dismissione del castello, che verrebbe ceduto al Comune capoluogo, dal quale trarre i fondi per procedere con la realizzazione del nuovo istituto penitenziario in Comina, nell’area di via Castelfranco Veneto già individuata con variante urbanistica. Livorno: nave-prigione nel porto? la città non ne vuole sapere
Il Tirreno, 18 maggio 2009
Mette a rumore la città e il mondo portuale l’ipotesi choc contenuta in un piano con cui il governo Berlusconi punta a risolvere il sovraffollamento delle carceri senza pagare il prezzo dell’indulto: i detenuti verrebbero messi in navi-carcere, secondo l’ipotesi avanzata dal Dipartimento amministrazione penitenziarie e esaminata dal ministro Alfano. L’Ansa, che dice di essere in possesso del documento ministeriale, indica Genova e Livorno in pole position fra i porti che dovrebbero accogliere questi "penitenziari galleggianti". Il sindaco Cosimi si ribella: "È una colossale sciocchezza". Dure critiche anche dal senatore Filippi all’operato del governo. E il presidente dell’Autorità portuale, Roberto Piccini, avverte: "Nessuno ci ha chiesto documentazione o materiali per studiare realmente una ipotesi di questo tipo". È il "mare nostrum" ma vuol prenderselo qualcun altro. Siccome non bastava l’offshore 12 miglia, ecco che il governo mette in pista l’idea di risolvere il sovraffollamento delle patrie galere pensando a creare carceri galleggianti da destinare a qualche porto italiano. In pole position Livorno e Genova: parola dell’indiscrezione rilanciata dall’Ansa che riferisce di essere entrata in possesso di una relazione di 19 pagine inserita nel piano straordinario che il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), Franco Ionta, ha consegnato all’inizio del mese al ministro della giustizia Angelino Alfano. Se il porto di Genova si ribella ("siamo totalmente in disaccordo con questa scelta: Genova ha bisogno di spazi non ne ha certo a disposizione per carceri galleggianti"), anche Livorno non vede affatto di buon occhio quest’ipotesi. "Mi sembra una sciocchezza grande come una casa", dice il sindaco Alessandro Cosimi in risposta a una domanda del cronista. "Non è per niente la soluzione al problema ma vedo che non si fa altro che buttar da queste parti palloni come per vedere un po’ quel che accade: ora con la prigione-galleggiante, ieri immaginando una centrale nucleare". "Devo approfondire meglio l’argomento, - rincara Marco Filippi, senatore Pd - ma sarà meglio che anche il Guardasigilli rifletta un po’ di più su queste sortite: un’idea così è degna di un governo balneare". Già un significativo spicchio di mare viene reso off limits per le sicurezza del terminal offshore del rigassificatore, resta da capire se la nave-galera viene ipotizzata in rada (e allora si aggiungerebbe altro spazio tabù) oppure se ormeggiata a banchina (e allora porterebbe via accosti ai traffici merci e alle navi da crociera che già adesso hanno una cronica fame di spazi. "Non riesco a capire come possa essere qualcosa di più di una battuta", dice Roberto Piccini, presidente dell’Autorità portuale: "Nessuno ci ha chiesto nessun tipo di documentazione per valutare niente, e questo già la dice lunga sulla effettiva praticabilità concreta di una pensata di questo genere". Bari: a Molfetta "nave-prigione"... per il "turismo giudiziario"!
www.quindici-molfetta.it, 18 maggio 2009
Molfetta candidata ad essere sede di una delle carceri galleggianti previste dal governo Berlusconi per contenere l’aumento dei detenuti? Sarà questo il ruolo del nuovo porto fortemente voluto dal sindaco? Molfetta candidata a diventare capitale del "Turismo giudiziario"? È quanto sostiene Rifondazione comunista in un suo comunicato, intitolato "Siamo in un mare di guai": "Nel leggere i manifesti elettorali affissi per la città avevamo avuto qualche problema a capire cosa intendesse il Pdl per "turismo interattivo" - scrive Rifondazione -. Nel leggere il "Corriere della Sera" di venerdì 15 maggio 2009, pagina 23, apprendiamo che per rilanciare l’immagine della nostra città nel turismo si pensa di trasformare la città di Molfetta nella capitale del "turismo giudiziario". Molfetta non più principessa del sud ma addirittura regina!. Stando alle notizie di stampa, nei giorni scorsi il capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Franco Ionta ha presentato al governo un piano per contenere l’aumento del numero dei detenuti che prevede anche le carceri galleggianti. Ebbene tra i siti idonei per le prigioni sull’acqua figurano oltre a città come Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli, Gioia Tauro, Palermo, Bari, Ravenna e Brindisi anche la città di Molfetta. Su quella che speriamo essere solo un’ipotesi stravagante per fronteggiare il problema serio del sovraffollamento delle carceri ci sono state dure prese di posizioni da parte di associazioni e Ong come Antigone, da anni impegnata nel garantire i diritti dei cittadini detenuti, ma non sono mancate testimonianze contrarie all’idea delle carceri galleggianti nei porti italiani anche da parte degli stessi sindacati degli agenti penitenziari. Ci chiediamo se il nostro impareggiabile e infaticabile sindaco sia a conoscenza di tali notizie o se addirittura, cogliendo al balzo l’occasione di uno splendido provvedimento del suo governo, non sia stato egli stesso a candidare Molfetta e il suo porto ad essere sede di uno dei carceri da costruire nel mare in vari porti italiani. Da un sindaco che è anche senatore della maggioranza di governo ci aspettiamo una seria presa di posizione di fronte a questa notizia. Che dire di più, siamo estasiati all’idea che Molfetta e il suo mare diventino la nuova Alcatraz, immaginiamo già le decine di pullman pieni di turisti in divisa a strisce blu percorrere la nostra città, una vera e propria attrazione turistica che ridarà lustro a Molfetta. Altro che il Pulo, il Centro Storico, il Duomo, la Cattedrale, le torri, il mare...". Milano: lavoro in carcere; detenute fanno le toghe ai magistrati
Adnkronos, 18 maggio 2009
Sei donne carcerate nella struttura di Bollate hanno confezionato e venduto gli abiti al giudice Paolo Ielo e ad altri 15 colleghi. L’iniziativa ideata da Giovanna Di Rosa, magistrato di Sorveglianza di Milano. Per la prima volta i "giudicati" si mettono al servizio dei loro giudici. Sei detenute del carcere milanese di Bollate infatti, hanno confezionato e venduto le toghe al giudice Paolo Ielo e ad altri 15 neo magistrati. Così, dalle mani delle detenute verranno create le toghe che serviranno ai magistrati come "divisa" da lavoro. L’iniziativa, la prima di questo genere, è stata ideata da Giovanna Di Rosa, Magistrato di Sorveglianza di Milano, su proposta della Cooperativa Alice, che gestisce i laboratori di sartoria dei penitenziari di Bollate e S. Vittore. I magistrati si sono recati direttamente nel laboratorio della cooperativa per ordinare le toghe made in carcere; quella è stata l’occasione che ha fatto trovare faccia a faccia le detenute, oltre alle responsabili della cooperativa, con i magistrati. Ai giudici le recluse hanno raccontato la propria esperienza, alle prese con l’apprendimento della pratica sartoriale che, a loro parere, ha costituito un valido strumento di inserimento nella società. È stata anche un’occasione di confronto, sul piano umano, tra il mondo dei giudicati e quello dei giudici, molto spesso tra loro conflittuali. A ricevere la prima toga delle tante che verranno create dalle detenute milanesi, è stato il giudice Ielo, prima del suo trasferimento a Roma. Un’iniziativa del tutto singolare quella delle detenute di Bollate, ma una delle tante nella produzione made in carcere, dove la popolazione dei lavoratori-detenuti si mette al servizio della società, grazie all’aiuto offerto dalle cooperative sociali o da aziende. Sempre a Bollate, grazie alla cooperativa sociale Retech Life Onlus, i detenuti salveranno migliaia di computer dimessi da grandi aziende per poi destinarli a scuole, progetti sociali in Italia, in paesi in via di sviluppo e, in parte, al mercato dell’usato. Un’iniziativa, quella della rigenerazione dei pc, che rientra nel modello della cooperativa, un nuovo modello di impresa sociale e ambientale che si fonda sulla considerazione che il lavoro, da solo, non basta al recupero della dignità della persona e al suo pieno reinserimento nel tessuto sociale. Dal 2006, anno della sua nascita, a oggi la cooperativa, grazie all’impiego di 15 persone ha rigenerato più di 178mila apparecchiature informatiche. La cooperativa nasce infatti come modello di impresa sociale che si basa su nuovo approccio ai temi ambientali, in particolare al Raee, trasformandoli in occasioni di sviluppo e di occupazione per il personale soggetto a detenzione. Anche le detenute del carcere di Vercelli hanno messo a frutto la propria esperienza lavorativa dietro le sbarre, creando una vera e propria linea di abbigliamento chiamata ironicamente Codice a sbarre. La linea è ispirata alle divise che i detenuti indossano all’interno delle prigioni, ed è in vendita al pubblico. Le detenute del carcere di Vercelli che hanno aderito al progetto hanno seguito dei corsi di taglio e cucito e di imprenditorialità, per poter diventare delle vere e proprie manager della moda. Una buona occasione per quando usciranno dal carcere. Il progetto sociale è nato nel 2002 come proposta sulle Pari Opportunità, presentato dal Settore Politiche Sociali del Comune di Vercelli, in partenariato con il Consorzio sociale Armes, il Ministero di Giustizia, la Consigliera di Parità, e sostenuto dal Ministero del Lavoro nell’ambito della Misura e del Fondo Sociale Europeo; lo scopo, quello di promuovere iniziative imprenditoriali "innovative", come quella di pensare a qualcosa di diverso da offrire alle donne-detenute, per chi rischia di rimanere ai margini. Uno dei capi più famosi della collezione è il "pigiama special edition", da sempre icona di Codice a sbarre. I tessuti: il rigato tipico delle divise carcerarie italiane a cui si ispira liberamente. Tra le nuove iniziative della produzione made in carcere, l’inaugurazione del birrificio gestito dalla cooperativa sociale "Pausa Cafè", all’interno del carcere "Rodolfo Morandi" di Saluzzo (Cuneo), che ha dato lavoro a cinque persone, di cui tre detenuti che verranno avviati al mestiere dal mastro birraio Andrea Bertola; nei locali del penitenziario concessi in comodato d’uso gratuito dall’Amministrazione penitenziaria, è stato allestito l’impianto per la produzione di birra ad alta fermentazione: 10 ettolitri al giorno (circa 150mila bottiglie l’anno, più il confezionato in fusti), a un costo che va dai 7 euro in su e con tempi di produzione di circa un mese per la birra in fusti e altri sette giorni per quella in bottiglia. La cooperativa "Pausa Cafè" ha già avviato dal 2005 un’analoga esperienza presso la Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino: qui c’è un centro agroalimentare specializzato nella produzione di caffè e cacao. Lodi: 18 detenuti in permesso, ripuliscono le sponde dell’Adda di Rossella Mungiello
Il Cittadino, 18 maggio 2009
Il primo pensiero è al profumo dell’erba. Al verde tutt’intorno. Per qualcuno sono passati anni dall’ultima passeggiata in riva al fiume. Avrebbero faticato ininterrottamente per ore, pur di star lì fuori, ancora un po’. Erano diciotto i detenuti del carcere cittadino di via Cagnola, impegnati nella giornata di ieri nella pulizia delle rive dell’Adda, località Isolabella, ingresso Valgrassa all’interno del Parco Adda Sud. Altrettante le guardie carcerarie, un rapporto di circa uno a uno, per tenere sotto controllo l’area, non che ce ne fosse bisogno. Nessun incidente; solo sorrisi, battute, voglia di rendersi utili fuori dalle mura del carcere. Un ultimo atto inedito, quello di "Puliamo la nostra terra", manifestazione promossa dalla provincia di Lodi, che nei mesi di marzo e aprile ha già coinvolto 46 comuni e circa 400 volontari e che ha permesso di raccogliere circa 400 quintali di rifiuti abbandonati. Perché per i volontari di ieri l’impegno valeva doppio: per l’ambiente e per se stessi, come a dire "anche noi abbiamo qualcosa da dare alla città". Un pullman della polizia penitenziaria ha portato i volontari che hanno accettato di partecipare fin nei pressi della Cascina Barbina; una volta a terra, i detenuti si sono avvicinati a quel pezzo di città che è stato loro assegnato. E così loro che quotidianamente hanno solo una cella, un cortile, una sala colloqui, si sono ritrovati davanti alla bellezza delle rive nostrane in una giornata di sole accanto alle guardie ecologiche volontarie, alla polizia provinciale, ai volontari dell’Associazione Loscarcere. Ad attenderli anche un gruppo di fotografi e le telecamere della Rai; perché la richiesta di aderire alla giornata provinciale, partita dalla direzione della casa circondariale di Lodi, è un segnale importante per il reinserimento graduale in società. "È una giornata molto positiva, qualifica un nuovo grado di partecipazione alla vita della città - commentava ieri mattina Stefania Mussio, direttrice dell’istituto di via Cagnola - : i detenuti non devono non devono essere considerati persone da escludere, ma da includere. Ogni volta che ne hanno avuto occasione, hanno mostrato tutta la loro voglia di impegnarsi e anche oggi stanno facendo altrettanto, affrontando una visibilità che per qualcuno può essere scomoda". L’emozione della libertà non è stata l’unica della giornata. All’ora di pranzo, i detenuti sono stati raggiunti dai loro familiari, per un rinfresco immerso nel verde offerto dalla Provincia. Il "raccolto" sarà pesato nella giornata di oggi, ma le prime stime parlano di 70 quintali di rifiuti tra ingombranti e non. "Un’iniziativa che ha comportato uno sforzo amministrativo e burocratico non indifferente, ma che ci ha soddisfatto moltissimo - ha commentato l’assessore all’ecologia provinciale, Antonio Bagnaschi - ; da parte nostra c’è la volontà politica di riproporre quest’opportunità". Iniziativa da ripetere anche per la direttrice del carcere. "La Provincia ci ha aiutato in modo straordinario a rendere possibile questa giornata - ha detto ancora Stefania Mussio - ; speriamo che sia la prima di tante possibilità offerte ai detenuti".
La città si deve accorgere che sappiamo renderci utili
La sua famiglia oggi, non verrà, ma Salvatore è quasi alla fine del suo percorso. Ha già scontato 18 mesi di detenzione ed è agli sgoccioli. Presto sarà libero di passeggiare sull’Adda ogni volta che ne avrà voglia e magari ci verrà con i suoi figli, venticinque e ventidue anni, spiegando loro il valore della legalità. "Ho aderito immediatamente all’iniziativa - spiega con il sole negli occhi - ; spero che la città si accorga di quello che stiamo facendo: devono vedere che sappiamo renderci utili". Avere un contributo da dare, non essere considerati "rifiuti". "Un’esperienza di questo tipo è molto importante, viene rivissuta per mesi nei colloqui individuali - spiega Elena Zeni, agente di rete nella casa circondariale - ; i detenuti sono chiamati a rimettere in gioco le motivazioni della loro detenzione, il loro vissuto, l’importanza di rendersi utili, convivendo con l’emozione forte della libertà. È un’occasione importante per capire che c’è un modo di vivere bello, che ci sono delle regole che non vanno violate, per non perdere il diritto alla libertà". Per Gianni essere sulle rive dell’Adda ieri, è stato un riscatto. "Mi sembra di rimediare in qualche modo a tutti gli errori che ho commesso - spiega con i guanti ancora sulle mani - ; e poi facciamo qualcosa per l’ambiente". È dal 2000 che da Gianni fa fuori e dentro del carcere; è stato a Rebibbia, a Velletri, a Vigevano, a Varese. È qui a Lodi dal 2007 e ci starà ancora a lungo. Ha una storia processuale complicata, con diversi capi d’imputazione per reati compiuti dal 1998 al 2006. "È un po’ come quando si compra la macchina a rate - cerca di scherzare, anche se torna subito serio - : sono cosciente di quello che ho fatto, cerco di non farlo pesare. Gli sbagli si pagano e questo è anche un modo per riflettere su quello che abbiamo perso. Spero che la città impari a guardarci in modo diverso". L’ultima voce è quella di un cittadino straniero, un ragazzo albanese in attesa di giudizio definitivo. Era diretto a Bologna con un carico di droga; è stato fermato prima. "Oggi veniamo a dare il nostro contributo per pulire la città dove in qualche modo viviamo - spiega in un italiano impeccabile - ; è occasione di renderci utili, di fare qualcosa e di stare all’aria aperta. Credo che sia molto più utile che stare tra le mura del carcere". "I detenuti sono molto contenti di potersi mettere in gioco, di poter in qualche modo influire su quello che la società pensa di loro - ha commentato Raffaele Ciaramella, comandante della polizia penitenziaria - ; gli aspiranti erano tanti poi, per ovvi motivi di sicurezza, abbiamo dovuto operare una selezione basata sulla storia legale di ciascuno. Quello di oggi è comunque un numero molto importante; rappresenta un segnale positivo". Trapani: l'On. Marrocco visita carcere Marsala "San Giuliano"
www.a.marsala.it, 18 maggio 2009
Il Carcere "San Giuliano" di Trapani necessita di interventi di manutenzione straordinaria ed il settore "Mediterraneo" è sovraffollato. È quanto emerge al termine della visita tenuta dall’On. Livio Marrocco, vicepresidente della Commissione Antimafia all’Ars, accompagnato dall’Assessore Provinciale alla Legalità Baldassare Lauria, al Carcere trapanese. Ad accogliere l’On. Marrocco e l’Assessore Lauria è stato il direttore della struttura Renato Persico che ha subito tenuto un briefing sullo stato dell’arte dell’edificio. L’On. Marrocco, l’Assessore Lauria ed il direttore Persino, quindi, hanno visitato i reparti, trovando sovraffollato quello "Mediterraneo" dove è stata anche riscontrata una difficoltà di gestione. "Abbiamo anche potuto evidenziare afferma l’On. Marrocco la necessità di un aumento degli agenti in servizio, in quanto la maggior parte è prossima alla pensione. Abbiamo chiesto al direttore Persico, al quale, in ogni caso, faccio i miei complimenti per la gestione della struttura, una dettagliata relazione, ed io ho assicurato che mi farò carico di presentarla al Ministro". Infine l’On. Marrocco ringrazia pure il comandante della Polizia Penitenziaria. "Voglio sottolineare le difficoltà che vivono gli agenti - conclude l’On. Marrocco - costretti a gestire una situazione complicata dal punto di vista del personale". Modena: azione disciplinare contro magistrato di sorveglianza
La Gazzetta di Modena, 18 maggio 2009
Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha promosso un’azione disciplinare nei confronti del magistrato di sorveglianza di Modena, Angelo Martinelli, per il caso di Michelangelo D’Agostino, l’ex camorrista che il 6 luglio 2008 ha ucciso Mario Pagliari, un balneatore 64enne di Pescara, in un parco pubblico sul lungomare del capoluogo abruzzese. Proprio Martinelli aveva concesso a D’Agostino una licenza trattamentale - un permesso - a marzo 2008, mentre si trovava in stato di detenzione a Castelfranco Emilia (Modena), dove era stato trasferito da poco. L’azione disciplinare, in base a quanto si è appreso, è stata promossa per "condotta improntata a negligenza inescusabile". Un linguaggio paludato per spiegare quale deve essere il comportamento di un magistrato di sorveglianza nel concedere le licenze. Nello specifico le cose funzionano così: se il magistrato deve concedere una licenza, premio o altro, ad un detenuto, questa non può superare i 15 giorni e non è rinnovabile. Se invece il caso che tratta riguarda un internato (nello specifico D’Agostino che era nella casa di lavoro di Castelfranco), questa licenza di 15 giorni è rinnovabile di altri 15 e così via senza un limite nel caso l’internato stesso si trovi presso una comunità o abbia trovato un lavoro, come era successo per D’Agostino. Il dottor Martinelli - ma è prassi normale tra i magistrati di sorveglianza - firmò una licenza unica senza termine. Ad avviso degli ispettori inviati a Modena dal ministro Alfano subito dopo l’episodio delittuoso, Martinelli avrebbe dovuto firmare più licenze, meglio una ogni 15 giorni. Ma questo avrebbe in qualche modo fermato la mano omicida di D’Agostino? "Il mio errore è stato quello di non essere in grado di prevedere il futuro", ha dichiarato il dottor Martinelli ieri quando è stata resa nota la notizia del procedimento disciplinare. "Capisco che non è facile prevedere - ha proseguito - ma è proprio compito del Magistrato di Sorveglianza fare questo e per questo mi sento moralmente responsabile, anche se la legge non prevede responsabilità in questo senso". Il dottor Martinelli non si sottrae alle proprie eventuali responsabilità, né al provvedimento disciplinare nel cui merito non entra "in quanto non l’ho ancora letto". Del resto subito dopo l’omicidio lui stesso con grande onestà e senso di responsabilità riferendosi alla vittima di D’Agostino, dichiarò: "Mi sento moralmente colpevole del fatto che il padre di tre ragazzi sia stato ucciso. Questo me lo porterò dentro per tutta la vita". L’avvocato della famiglia Pagliari, Giuseppina D’Angelo, ritiene che in questa vicenda sia da accertare la responsabilità civile sia di Martinelli sia di quanti hanno permesso a D’Agostino di lavorare in un parco pubblico, dove ha svolto le funzioni di custode e dove ha ucciso il balneatore a colpi di pistola, sotto gli occhi di molte persone. Milano: uccisero un clochard, a giudizio due agenti della Polfer
Adnkronos, 18 maggio 2009
Il pm di Milano Isidoro Palma ha chiesto il giudizio immediato per due agenti della Polfer accusati di omicidio per avere ucciso Giuseppe Turrisi, un clochard di 58 anni, all’interno di uno degli uffici della Stazione Centrale di Milano. I fatti risalgono al 6 settembre dello scorso anno. Entrambi gli agenti erano stati arrestati il primo aprile scorso per omicidio volontario, anche se poi il tribunale del Riesame aveva concesso loro i domiciliari modificando l’accusa in omicidio preterintenzionale. I due poliziotti avevano dichiarato di essere stati aggrediti dall’uomo con un taglierino dopo che lo avevano condotto in uno dei loro uffici all’interno dello scalo ferroviario per un controllo di routine. Catanzaro: usura e estorsione, 2 agenti penitenziari a giudizio
www.amanteaonline.it, 18 maggio 2009
L’ipotesi accusatoria di cui dovranno rispondere è quella di usura ed estorsione aggravata. Vittorio Corigliano, 45 anni, di Locri, agente penitenziario e l’imprenditore di Cosenza Angelo Gencarelli, 39 anni sono stati rinviati a giudizio ieri dal gup Abigail Mellace che ha accolto la richiesta del pm Simona Rossi. Il processo per loro avrà inizio il prossimo 16 giugno. Contestualmente il gup ha accolto la richiesta di giudizio abbreviato per Giuseppe Grandinetti, anche lui agente penitenziario, 45 anni, di Nocera Torinese: il rito alternativo sarà celebrato il 26 giugno. L’inchiesta che ha coinvolto i tre imputati risale al novembre del 2004 quando, in esecuzione di un’ordinanza cautelare emessa dall’allora gip Teresa Tarantino i tre imputati finirono in arresto. Parlava di "una pesantissima e inaccettabile operazione usuraia, idonea ad annientare la capacità reattiva e di ripresa economica della vittima nonché a condurre a un vero e proprio cedimento psicologico" il giudice, nel provvedimento che portò in carcere l"agente penitenziario Corigliano, ed ai domiciliari il suo collega Grandinetti, nonché Gencarelli, i quali, secondo le accuse, avrebbero operato non in concorso fra loro, ma ciascuno per parte sua ed insieme a qualcun altro, a danno però delle medesime vittime e in diverse occasioni. I provvedimenti giunsero dopo pochi mesi di indagini, partite a seguito della denuncia di un imprenditore. Seguirono accertamenti, intercettazioni, acquisizioni di documenti, le audizioni delle presunte vittime. Per i prestiti effettuati, sempre stando alle accuse, i presunti "cravattari" avrebbero preteso interessi del 100, del 140, e persino di più del 300 per cento su base annua. Cinema: "Un prophète", nuovo "romanzo criminale" francese di Natalia Aspesi
La Repubblica, 18 maggio 2009
Gli avvocati francesi continuano a denunciare le "condizioni inumane e degradanti delle carceri, indegne di una democrazia e contrarie ai diritti dell’uomo" e intanto al Festival di Cannes presentano uno dei quattro film francesi in concorso, che racconta in 155 minuti appassionanti una nerissima storia carceraria. "Un prophète" però non è un film di denuncia o semidocumentario, nel qual caso forse avrebbe provocato sbadigli e nervosismi e il solito "che palle!", molto diffuso tra i nuovi cinefili che ritengono sorpassata la realtà. Il film di Jacques Audiard, regista già carico di premi, figlio del celebre e prolifico sceneggiatore Michel, ha provocato l’applauso più lungo e rumoroso sino ad ora, proprio perché offre al pubblico un ritorno all’infanzia cinematografica, al sempre entusiasmante genere carcerario universale, ai gangster del cinema francese anni 50 e 60, con i suoi canoni e i suoi personaggi e la sua etica più o meno virtuosa. Questo nuovo "romanzo criminale" tra le sbarre ha il suo Jean Gabin e persino il suo Alain Delon, il terribile vecchio boss dai modi bonari e violenti, Niels Arestrup, che riporta al successo il massimo cinegigionismo assomigliando persino a Ruggero Ruggeri, e lo spaesato neofita della prigione, il bel ragazzo Tahar Rahim, un giovane Tom Cruise francese di origine magrebina, 28 anni, quasi esordiente. Il regista dice che pur essendosi informato sulla vita carceraria attuale, non aveva nessuna intenzione di fare un film-verità, ma invece "quella di dimostrare come non ci sia differenza di vita e di comportamenti fuori e dentro il carcere, perché ovunque quello che contaè il potere,è l’essere dalla parte di chi comanda e non da quella di chi deve subire". Nel carcere sovraffollato dove si legge il Nice Matin, quindi si immagina non lontano da dove si svolge il Festival, si vive per bande: la più feroce e organizzata è quella corsa ("la mafia italiana da noi è meno organizzata" ha detto il regista), di cui fanno parte anche guardie e direttori, che spadroneggia contro "les arabes", quelli che se la cavano pregando nella cella-moschea. Il capo corso Cesar Luciani s’impossessa di Malik, il ragazzo solo, analfabeta, spaventato, condannato a 6 anni, e subito gli ordina: o uccidi quello là o io uccido te. Tormenti dell’anima a non finire, ma poi basta una lametta e il sangue sprizza copioso dalla giugulare del malcapitato, apparentemente arabo. La cosa passa misteriosamente liscia come fosse un suicidio e l’assassino viene ricompensato con televisore, frigorifero pieno, cassette porno, hashish e l’obbligo di lavare la biancheria dei corsi. Nei raggi del carcere c’è un gran viavai, le celle con le porte aperte paiono osterie dove ci si ritrova per giocare a carte e cenare, tramando delitti dentro e fuori. Ormai assassino, Malik decide di imparare a leggere e scrivere, come gli suggerisce il fantasma buono di quello che ha fatto fuori, e dopo tre anni, furbo e mellifluo, comincia la sua silenziosa ascesa. Il crudele e potente boss corso fa ottenere dai giudici al suo servizio la libera uscita per il ragazzo, affidandogli all’esterno complicate trattative menagerial-criminali con gang di egiziani contro gang italiane, pare per la conquista delle case da gioco illegali in Sardegna (?), mentre lui ha già trovato con un ex galeotto moribondo una sua strada per il grande spaccio. Per tradizione anche nel cinema delinquenziale non c’è delitto senza castigo: qui i delitti feroci sono parecchi ma c’è chi riesca a scansare il castigo. Pubblico contentissimo per un finale che punisce gli antipatici anziani e spettinati e premia i giovani carini, tanto anche nella realtà i fatti delittuosi fanno moda e i loro protagonisti finiscono in televisione, nuovi eroi mediatici. Dopo aver visto sei dei venti film in concorso, "Un prophète" è il primo per cui i ben informati parlano di possibile Palma d’oro, vinta l’anno scorso dal film francese "La classe", di grande valore politico, sociale e interraziale. Anche "Un prophète" ha un soggetto che potrebbe essere scambiato per politico, sociale e interrazziale, ma il film è solo cinema. Tra tante facce spaventose di neri, magrebini, corsi, francesi, musulmani e cattolici sempre impegnati a spaccarsi le ossa, a farsi spaghetti e cuscus e a masturbarsi, spicca quella gentile di Tahar Rahim, una vera scoperta, che più scende nella scala del crimine, più si fa angelica: indimenticabile il suo innocente sorriso quando per una della sue missioni delittuose sale per la prima volta su un aereo e vede il candore delle nuvole. Cinema: intervista al co-regista di "Come un uomo sulla terra" di Flore Murard-Yovanovitch
Agenzia Radicale, 18 maggio 2009
Dagmawi Yimer (Dag), etiope, è uno dei superstiti del viaggio verso l’Europa. Studente di giurisprudenza a Addis Abeba, è emigrato per motivi politici. Approdato a Lampedusa su un barcone stracolmo nel 2006, dopo mesi di sopraffazioni, multi-arresti, passaggi per vari centri di detenzione in Libia, Dag è diventato regista, per raccogliere la storia degli altri, creare una memoria, testimoniare.
Prima di approdare a Lampedusa, hai anche tu fatto questo viaggio attraverso il territorio libico? Io per fortuna sono arrivato vivo! Ma ogni volta che vedo le barche stracolme e i respingimenti in mare sto male. La mia storia è simile a quella degli altri sopravvissuti che si vedono nel film. Stipati come animali in 100 dentro container di ferro in mezzo al Sahara, in pieno sole, senza acqua, in balìa dei contrabbandieri. Alcuni muoiono di sete, altri cadono dal camion e sono abbandonati nel deserto. Ma questo è niente in confronto agli abusi e le violenze della polizia libica, che ti picchia a morte, prima ancora di chiederti il nome. Siamo passati attraverso una serie di arresti e detenzioni arbitrarie in prigioni locali, prima di finire nella peggiore: Kufrah. Lì se non sei "rivenduto" puoi marcirci tutta la vita e non è raro che le donne sposino degli sconosciuti pur di uscire da quell’inferno. È tutto un sistema organizzato di corruzione tra "passeurs", poliziotti e militari libici che sfruttano l’immigrazione clandestina come un business. Esseri umani come "merci".
Cosa pensi dei respingimenti di migranti verso la Libia avvenuti questi giorni? La Marina e la polizia italiana hanno fatto la stessa cosa che fa la polizia libica: rimpatri forzati senza nessuna identificazione né inchiesta sullo statuto giuridico di queste persone. Nessun rifugiato è stato messo nelle condizioni di chiedere asilo politico, allorché più della metà di questi emigranti sono rifugiati, vengono da situazioni di conflitto o di repressione politica, fuggono da discriminazioni per razza e religione. Riconsegnarli a queste violazioni è terrificante. Non ci sono tante differenze con gli accadimenti della storia recente, come la Shoah e il nazismo.
Cosa pensi della gestione italiana della questione immigrazione? L’Italia non ha imparato niente dal fascismo. Gli ultimi accadimenti svelano pure la sua ipocrisia totale: come l’Europa, fa tanta propaganda sui diritti umani, ma poi consegna esseri umani a sicure violazioni e abusi in Libia, un paese che viola apertamente i diritti umani, che non ha firmato nessuna Convenzione internazionale, nemmeno quella di Ginevra! È cinismo e indifferenza totale nei confronti della sofferenza altrui. Sono però convinto che questo governo non potrebbe agire così se non ci fosse un consenso diffuso nella popolazione sulla gestione dura, a tutti costi, dei flussi migratori.
Cosa pensi dell’informazione che si è data della violazione dei diritti umani in Libia? La questione libica è oggetto di vera censura. Il nome stesso del paese è stato più volte omesso da articoli e comunicati. I giornalisti devono essere più onesti: la storia si sapeva, ma è rimasta per mesi nel silenzio. Ora esce, in un modo che non mi convince, come una contro informazione contro il ministro Maroni, ma si cancella di nuovo la vera questione: che è cosa accade in Libia e nelle carceri, dimenticate. Immigrazione: questa guerra dichiarata al "nemico migrante" di Eugenio Scalfari
La Repubblica, 18 maggio 2009
Il tema dei migranti domina su tutti gli altri l’attenzione degli italiani e delle istituzioni che li rappresentano. Se ne occupa il Parlamento, ne legifera il governo con decreti e voti di fiducia, ne discutono le forze politiche e i "media". La Chiesa si è mobilitata in forze e il presidente della Repubblica è anche lui intervenuto per condannare tentazioni di xenofobia e una retorica che si fa un vanto di chiudere la porta in faccia ad un popolo di disperati che dall’Africa e dall’Oriente tenta di raggiungere l’Europa, il continente del benessere e della gioia (così lo vedono), dei lustrini e della vita facile. Insomma Bengodi. Questo tema infiamma la campagna elettorale in corso ancor più (ed è tutto dire) del conflitto che oppone Berlusconi a sua moglie e che al di là degli aspetti privati mette in causa la credibilità del presidente del Consiglio e la sua reticenza di fronte a questioni delicatissime e tuttora rimaste senza risposta. La discussione sui barconi affollati di poveretti "senza arte né parte" secondo la definizione elegante del presidente del Consiglio, investe i problemi della sicurezza, del lavoro, della guerra tra poveri, della criminalità organizzata, ma anche l’etica, la solidarietà, la lotta contro le discriminazioni. Insomma un viluppo di problemi che non è semplice districare ma che incide direttamente sulla sensibilità e sulle legittime paure degli italiani, una volta tanto definibili come indigeni di fronte all’ondata di stranieri che si riversa sui nostri confini marittimi e terrestri. In questo clima, il governo risponde brutalmente alle critiche dell’Onu, e il ministro La Russa arriva a definire l’Unhcr un’organizzazione "disumana e criminale". D’altronde la Lega e la destra hanno fatto di questo tema il cavallo di battaglia della campagna elettorale di un anno fa, hanno scommesso sulla paura e l’hanno enfatizzata come più potevano. Dovevano dunque pagare il debito contratto con i loro elettori alla vigilia di un altro appuntamento con le urne. Di qui il "respingimento" dei barconi in alto mare, che ha tutte le caratteristiche di uno spot pubblicitario accolto con soddisfazione da una vasta platea di italiani intimoriti e incattiviti dall’arrivo dei barbari, invasori delle nostre terre e della nostra tranquillità. C’è un punto di equilibrio tra queste due opposte rappresentazioni della realtà? C’è una soluzione che salvaguardi valori e interessi che sembrano inconciliabili? Se trionfasse la ragionevolezza sull’emotività non sarebbe difficile trovare quel punto di equilibrio, ma sono molti gli ostacoli che vi si frappongono. Il primo ostacolo sta nell’interesse politico della Lega e del partito che si è dato il nome (quanto mai incongruo) di Popolo della libertà. Questo interesse mira a mantenere alto il livello di emotività di un’ampia parte del paese e se possibile ad alzarlo sempre di più. Bisogna distrarre l’opinione pubblica da altri temi incombenti e non favorevoli al governo: la crisi economica, la distruzione crescente di posti di lavoro, la perdita di competitività del sistema-Italia, il terremoto d’Abruzzo e i disagi che ne derivano e che sono ancora lontani dall’essere soddisfatti, la cicatrice tutt’altro che rimarginata della credibilità pubblico-privata del premier. Bisogna trovare un nemico esterno sul quale concentrare la rabbia della gente ed eccolo pronto, quel nemico: è il popolo dei barconi. Le guerre servono a indicare un bersaglio infiammando l’opinione pubblica patriottarda e questa è una guerra. A questo serve il "respingimento", a questo servono le ronde, a questo serve aver istituito il nuovo reato di immigrazione clandestina. In realtà il 90 per cento del popolo dei migranti entra in Italia e in Europa dai confini dell’Est europeo, l’immigrazione dal mare non supera un decimo dei flussi d’ingresso, ma respingere i barconi con la marina da guerra è molto più teatrale, fa scena, slega gli istinti xenofobi di chi assiste allo spettacolo dal proprio tinello guardando la televisione. Si dice: quella gente "senza arte né parte" è ingaggiata dalla mafia, trasportata dalla mafia, e da essa controllata; viene da noi per delinquere, ricondurli da dove sono partiti è dunque un nostro diritto, anzi un dovere verso noi stessi e verso la Comunità europea. Ma manca la prova che i migranti dei barconi siano collusi con la mafia. Vengono dai luoghi più disparati, dal Sudan, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Nigeria, dal Maghreb, dall’Africa equatoriale. Hanno attraversato boscaglie, foreste, deserti. Inseguono un sogno e affrontano la morte e le sevizie per mesi e mesi. Collusi con la mafia? Trasportati dalla mafia degli scafisti, questo sì. E poi carne da macello di tutte le violenze. E per finire anche con la nostra. Non è respingendo i barconi che la nostra sicurezza migliorerà. Non è con le ronde. Non è con la vessazione e con le denuncie. Bossi ha detto: io parlo con la gente e la gente vuole questo. è vero, Bossi parla con la gente e trova consensi. Ma si vorrebbe sapere qual è la gente con la quale parla il leader della Lega. Certo, l’emotività contro il nemico migrante si estende. è un buon segno? Non direi. è un "trend" verso il peggio. I leader politici che avessero il senso della responsabilità dovrebbero scoraggiarlo. Se invece ne godono, se si fregano le mani e alzano le dita a V come simbolo di vittoria e come fa il nostro ministro dell’Interno compiono un pessimo servizio verso l’interesse nazionale. Giorgio Napolitano, quando manifesta preoccupazione per la retorica sull’immigrazione parla proprio di questa irresponsabilità. Sarà un caso, ma il Capo dello Stato riscuote fra l’80 e il 90 per cento di consenso nazionale. Con chi parlano Bossi, Maroni, Calderoli? Quel "trend" irresponsabile e così irresponsabilmente alimentato lambisce anche persone insospettabili. Mi hanno molto stupito e preoccupato alcune recenti dichiarazioni del sindaco di Torino, uno dei leader del Partito democratico. Ha detto che respingere i barconi non viola il diritto internazionale ed ha ragione. Ha aggiunto che il "respingimento" è autorizzato dall’Unione europea e fu adottato nel 1997 da Prodi e D’Alema per bloccare il flusso migratorio dall’Albania. Ha ragione anche su questo punto ma con una piccola differenza: in Albania c’erano anche la polizia e i militari italiani, i centri di raccolta erano sotto il nostro costante controllo e non sono paragonabili con quanto accade nell’inferno dei centri di raccolta libici. Ma c’è un punto che più mi incuriosisce nelle parole di Chiamparino. Il sindaco di Torino propone di concentrare gli sbarchi verso due porti da indicare dell’Italia meridionale. Sbarchi settimanali, autorizzati a trasportare i migranti regolari o regolarizzabili. Che cosa significa regolari o regolarizzabili? Vuole dire quelli chiamati da un datore di lavoro italiano? Quelli non hanno bisogno di imbarcarsi sui barconi degli scafisti, possono prendere navi di linea e arrivare dove vogliono. Di chi sta parando Chiamparino? Qualche spiegazione sarebbe necessaria. Chi è chiamato non è clandestino. Chi è clandestino non è regolarizzabile e viene respinto in alto mare. Esiste una terza categoria "chiampariniana"? Ed anche "maroniana" e persino "berlusconiana" che noi non conosciamo? è una nostra lacuna informativa. Allora per favore colmatela. Ho letto che Maroni sta per riproporre il tema delle badanti. Pare ci siano molte badanti clandestine. La polizia le scoverà e saranno rapidamente rimpatriate. Chiamparino è d’accordo? Spiegatevi perché le vostre parole e le vostre proposte sono molto confuse. Da qualche giorno i giornali fanno anche il nome di Piero Fassino tra coloro che dissentirebbero dal segretario del Pd sul tema dell’immigrazione. Fassino è persona che dice sì oppure no con grande chiarezza; non ha in mente altro che l’interesse pubblico e non quelli di partito e di bassa politica. Perciò gli ho chiesto direttamente quale sia la sua posizione in proposito. Mi ha detto: 1) il "respingimento" è consentito dall’Unione europea. 2) Fu sperimentato con successo per stroncare il traffico di persone in provenienza dall’Albania. 3) L’Albania era sotto controllo della Nato e in particolare dell’Italia. 4) La situazione con la Libia è completamente diversa. 5) I centri di raccolta libici dovrebbero esser messi sotto controllo internazionale; riportare il popolo dei barconi in quei centri significa riconsegnarli ad un sistema di vessazioni crudeli. 6) Il governo italiano dovrebbe chiedere a quello libico un diritto di ispezione dei centri e condizionare a quel diritto l’erogazione delle risorse finanziarie che l’Italia ha promesso alla Libia. Infine Fassino ha aperto un altro capitolo che a me pare di grande importanza: qual è la politica del governo italiano verso gli immigrati regolari che da anni vivono e lavorano nel nostro paese? è una politica di accoglienza e di integrazione o invece è il suo contrario? Quella politica in realtà è un altro ostacolo enorme che si frappone al raggiungimento d’un equilibrio sull’intera questione dell’immigrazione e della sicurezza. Gli immigrati regolari sono oggi 4 milioni di persone ai quali vanno aggiunti i cittadini europei provenienti dall’Est (romeni, polacchi, ungheresi eccetera). Le previsioni sui flussi e sulla demografia ci dicono che tra dieci anni gli immigrati "regolari" saranno il 10 per cento dei residenti in Italia. Nel 2020 saranno il 15. Più o meno in tutta Europa sarà quello (e anche più) il livello degli immigrati e figli di immigrati. L’Italia, come già la Francia e la Gran Bretagna, sarà un paese multietnico, multiculturale, multireligioso. Non è un’opinione, è un fatto ed esiste già ora. Ha ragione Fassino di porre il problema: qual è la nostra politica per gestire questo fenomeno? Del resto anche Fini la pensa allo stesso modo e pone le stesse domande. Il premier ha già risposto: l’Italia non è un paese multietnico, il governo non vuole che lo diventi e non lo diventerà. Infatti le leggi in corso di approvazione ed il modo con le quali sono già preventivamente fin da ora gestite va nella direzione voluta da Berlusconi, Maroni e naturalmente Bossi. Il risultato sarà questo: l’estensione della cittadinanza sarà sempre più lenta e contrastata; l’accoglienza istituzionale incerta e insoddisfacente; i rapporti tra le comunità di immigrati e i cittadini italiani saranno di diffidenza e non di integrazione, specie nelle zone di più intensa presenza cioè nel centro nord, la parte più ricca e produttiva del paese. Questa situazione è quanto di peggio ci si prepara. Non serve a nulla inseguire su questo terreno leghisti e berluscones. A questa deriva bisogna opporsi, tutelando la sicurezza, non soffiando sulla paura, denunciando il mancato rispetto dei diritti civili nei paesi di provenienza a cominciare dalla Libia. Infine coinvolgendo l’Unione europea in una politica europea dell’immigrazione. Si può fare, però sembra un sogno ad occhi aperti. Immigrazione: La Russa contro l’Unhcr… "non conta niente" di Vincenzo Nigro
La Repubblica, 18 maggio 2009
Chi è Laura Boldrini, la portavoce dell’Unhcr in Italia? "Una disumana o una criminale, nota per essere di Rifondazione comunista e per portare il cognome di un noto capo partigiano". E cos’è l’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati? "Uno degli organismi che non contano un fico secco, finché la stampa non decide che contano qualcosa". Chi pronunzia queste parole, chi sceglie l’attacco a testa bassa, è Ignazio La Russa. Il ministro della Difesa contro una funzionaria internazionale e il suo organismo di appartenenza per le polemiche sui respingimenti dei migranti verso la Libia. Il ministro sale sull’Airbus della presidenza del Consiglio a Milano, pochi minuti dopo aver lanciato la sfida più aggressiva che mai un ministro italiano abbia portato a un’agenzia dell’Onu. Reduce da una manifestazione elettorale, La Russa deve volare proprio a Tripoli, la capitale della Libia, per una riunione di ministri della Difesa del Mediterraneo. "Parlavo a un comizio, e ricordatevi che io sono coordinatore del Pdl, e non posso non occuparmi in permanenza di sicurezza", dice il ministro per provare a spiegare: e forse in queste parole c’è la ragione vera della sua furia, la sensazione che nella partita con Lega il fronte "sicurezza" vada presidiato a tutti i costi, a costo di usare parole aggressive. Ma quelli del Carroccio, intanto, incassate le recenti "vittorie" non mollano la presa. Umberto Bossi, per esempio, sull’immigrazione dice: "Non la penso come il presidente Napolitano: non ci sarà nessun problema di razzismo". La Russa, nel frattempo, continua, e se possibile aggrava il suo attacco. Della Boldrini aveva detto che "o è disumana perché pretende che teniamo i clandestini per mesi rinchiusi nei centri per poi espellerli, oppure è criminale perché vuole eludere la legge e vuole che in Italia scappino e si sparpaglino sul territorio". In aereo aggiunge un ragionamento sul possibile reato di "favoreggiamento" che non solo la Boldrini, ma tutto l’Unhcr potrebbe commettere chiedendo al governo italiano di accettare i migranti in Italia, senza respingerli in alto mare. Poi prova a dileggiare ancora l’Alto commissariato, "dell’Unhcr, non si sente parlare per mesi e per anni e poi improvvisamente diventa il centro dell’universo". E dire che in Libia La Russa avrebbe potuto incassare a mani basse il successo politico del governo Berlusconi, quello di aver convinto il colonnello Gheddafi ad applicare un accordo di riammissione chiesto nel 2006 dal ministro dell’Interno Giuliano Amato. Ma gli attacchi personali, la ridicolizzazione dell’Alto commissariato sono talmente pesanti da rendere il ministro imbarazzante per il suo governo, da ridicolizzare la posizione difesa da Berlusconi e Maroni sui rimpatri. Da Roma i capi del centrosinistra lo criticano pesantemente. Lui legge le agenzie che gli passano nella hall dell’Hotel Corynthia, risale sulla Mercedes blindata dell’ambasciatore Trupiano e col seguito se ne va a fare un giro nel suk di Tripoli. Roberta Pinotti, responsabile Difesa per il Pd, dice che "un ministro della Difesa e un governo che rispondono ai rilievi avanzati dall’Onu, dal Consiglio d’Europa, dalla Ue e dai vescovi solo con la grave irrisione e con dichiarazioni anche offensive dimostrano non certo forza, ma solo tutta la debolezza delle loro politiche". Antonio Di Pietro dice che "le sue parole sono come nel Ventennio, quando tutte le organizzazioni internazionali non contavano un fico secco". Una precisazione "tecnica" arriva dal segretario del Prc, Paolo Ferrero: "Laura Boldrini non è di Rifondazione comunista". Una certezza per le prossime ore: di sicuro l’Unhcr non lascerà indifesa la sua rappresentante in Italia. Immigrazione: Boldrini (Unhcr); dal ministro accuse infondate di Vladimiro Polchi
La Repubblica, 18 maggio 2009
Oltre seimila impiegati, 50 milioni di rifugiati assistiti, 278 uffici in 111 paesi, due premi Nobel per la Pace (nel 1954 e nel 1981). Eccola la carta d’identità dell’Unhcr: una delle principali agenzie umanitarie del mondo. La stessa che il ministro Ignazio La Russa ha liquidato ieri come "uno degli organismi che non contano un fico secco". L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati è presente in Italia fin dal 1953. L’ufficio di Roma partecipa alla procedura di determinazione dello status di rifugiato. Dal 2006, l’ufficio italiano ha ampliato le proprie competenze diventando rappresentate, oltre che per l’Italia, anche per Cipro, Grecia, Malta, Portogallo, San Marino e Santa Sede. Il portavoce in Italia è Laura Boldrini: marchigiana, laureata in legge, giornalista pubblicista, dal 98 in forza all’Unhcr, dopo aver lavorato prima alla Fao e poi al World Food Programme. Una donna "disumana o criminale", stando alle parole del ministro della Difesa. L’attacco è a sorpresa. La Boldrini preferisce non replicare: "Non ho nulla da dire, nulla da commentare", ripete a quanti la chiamano. Ma nel quartiere generale del Commissariato non si nasconde lo stupore per le accuse considerate infondate e pretestuose. Il colpo sferrato a freddo da La Russa fa male. Soprattutto perché inatteso. Basta pensare che in queste stesse ore al Viminale si sta pensando all’apertura di un tavolo tecnico tra Italia, Libia, Unione europea e Unhcr sulla questione dei respingimenti in mare. La Boldrini è poi nota per le sue posizioni moderate e talvolta fin troppo diplomatiche. Neppure era presente all’incontro di venerdì scorso tra ministro dell’Interno e delegato per l’Italia dell’Unhcr, Laurens Jolles. E allora come si spiega l’attacco? Al governo non deve essere piaciuta la fermezza dell’organismo Onu nel condannare la sua politica dei respingimenti. Piena solidarietà alla Boldrini arriva dal Consiglio italiano per i rifugiati. "Sono allibito - afferma Christopher Hein, direttore del Cir - la Boldrini è sempre stata molto attenta nelle sue dichiarazioni. Attaccarla, in quanto portavoce, significa attaccare l’Unhcr, l’organismo più grande delle Nazioni Unite, rispettato in tutto il mondo civile". E ancora: "Il governo deve aver perso la testa - sbotta Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci - e far passare Laura Boldrini come un’estremista è un paradosso. Noi infatti abbiamo spesso criticato l’Unhcr perché troppo rigido e restrittivo nei parametri di riconoscimento dei rifugiati e di concessione dell’asilo". Anche la comunità di Sant’Egidio si muove a difesa dell’Unhcr: "Con i rifugiati fanno un ottimo lavoro - spiega Paolo Ciani, uno dei responsabili immigrazione della comunità - per questo resta incomprensibile l’attacco di un ministro". Non è tutto. Per La Russa, la Boldrini sarebbe una nota esponente di Rifondazione Comunista. "La Boldrini non è iscritta al nostro partito, né mai lo è stata - replica Paolo Ferrero, segretario Prc - ormai il governo si sta avvitando in una situazione sempre più razzista e fascistoide, non accettando alcuna critica che gli viene rivolta in nome di valori di civiltà". Messico: maxi-evasione, commando armato libera 54 detenuti
Ansa, 18 maggio 2009
Un commando armato assalta il Centro di riabilitazione sociale (Cereso) di Cieneguillas e libera 54 detenuti in Messico. I detenuti stavano tutti scontando condanne per reati connessi al crimine organizzato. Lo riferiscono fonti della polizia. Le fonti hanno precisato che intorno alle 5 locali (la mezzanotte di ieri in Italia) uomini armati di fucili mitragliatori e giunti a bordo di vari fuoristrada hanno assaltato il Centro di riabilitazione sociale (Cereso) di Cieneguillas e hanno liberato i 54 detenuti, che stavano tutti scontando condanne per reati connessi al crimine organizzato. Nella zona dell’evasione è da ore in corso una massiccia caccia all’uomo per catturare i fuggiaschi: sono impegnati soldati e poliziotti, mentre sono state chiuse tutte le strade che collegano Cieneguillas a Zacatecas, capitale dello stato, e ad altre città vicine. Usa: diffuse foto torture ai detenuti che Obama vuole bloccare
Ansa, 18 maggio 2009
Sono spuntate in Australia altre foto delle torture inflitte ai detenuti in Iraq e Afghanistan dai soldati statunitensi: una mostra un prigioniero appeso nudo e a testa in giù; un’altra un prigioniero imbrattato di escrementi in un corridoio con una guardia che gli sta di fronte con fare minaccioso; in un’altra una persona è ammanettata alla cornice di una finestra con gli slip infilati in testa; in un’altra ancora i secondini minacciano di sodomizzare un detenuto con un manico di scopa. Le foto rischiano di rinfocolare le tensioni proprio nel momento in cui Barack Obama tende la mano all’Islam, alla vigilia del discorso che terrà al Cairo il 4 giugno sul piano della sua amministrazione per portare la pace in Medio Oriente. Le foto, di cui entrò in possesso la tv SBS nel 2006 sull’onda dello scandalo di Abu Ghraib, sono tra quello di cui Obama sta cercando di bloccare la pubblicazione nel timore che possano scatenare rappresaglie contro i soldati americani ancora in Afghanistan e Iraq. Svizzera: rissa tra detenuti in carcere Lugano, chiusa inchiesta
Ansa, 18 maggio 2009
La rissa scoppiata nella sezione B del carcere della Stampa di Lugano aveva provocato il ferimento di un detenuto. Ad affrontarsi diverse persone, albanesi da una parte e sudamericani dall’altra. Un episodio che ha portato ad un’inchiesta del procuratore pubblico Andrea Pagani. Andrea Pagani che, come scrive oggi il Corriere del Ticino, a giorni firmerà l’atto di accusa. La vicenda verrà discussa alle Criminali nel processo sul traffico di cocaina smantellato dall’inchiesta "Rio". Le perquisizioni alla Stampa hanno portato al rinvenimento di sei armi bianche di vario tipo e lunghezza. La vicenda verrà dibattuta dal 26 maggio durante il processo alle Criminali di Lugano riguardante il traffico di oltre 6 chili di cocaina stroncato da una vasta operazione antidroga denominata "Rio". Due delle persone coinvolte nella rissa sono tra i sei imputati rinviati a giudizio per la storia di droga. Nel dibattimento si cercherà quindi di capire i motivi che hanno portato allo scontro tra i due albanesi e due sudamericani.
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