Rassegna stampa 16 luglio

 

Giustizia: legge sulla sicurezza promulgata, con "perplessità"

 

La Repubblica, 16 luglio 2009

 

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha promulgato la legge sulla sicurezza approvata dal Parlamento il 2 luglio scorso, ma ha inviato al premier e ai ministri interessati una lettera in cui esprime "perplessità e preoccupazioni". Il presidente esprime dubbi in particolare sul reato di clandestinità e sull’introduzione delle ronde.

Palazzo Chigi esprime "soddisfazione e apprezzamento per la promulgazione" e in un comunicato sottolinea che "le considerazioni del capo dello Stato saranno valutate attentamente" e che "si terrà conto delle notazioni e dei suggerimenti" di Napolitano "già a partire dalla prima applicazione della legge".

Una nota del Quirinale spiega che il capo dello Stato ha ritenuto "di non poter sospendere in modo particolare la entrata in vigore di norme, ampiamente condivise in sede parlamentare, volte ad assicurare un più efficace contrasto - anche sul piano patrimoniale e delle infiltrazioni nel sistema economico - delle diverse forme di criminalità organizzata".

"Suscita peraltro perplessità e preoccupazioni - prosegue la nota - l’insieme del provvedimento che, ampliatosi in modo rilevante nel corso dell’iter parlamentare, risulta ad un attento esame contenere numerose norme tra loro eterogenee, non poche delle quali prive dei necessari requisiti di organicità e sistematicità; in particolare si rileva la presenza nel testo di specifiche disposizioni di dubbia coerenza con i principi generali dell’ordinamento e del sistema penale vigente".

"Su tali criticità - conclude il comunicato del Colle - il presidente Napolitano ha ritenuto pertanto di richiamare l’attenzione del presidente del Consiglio e dei ministri dell’Interno e della Giustizia per le iniziative che riterranno di assumere, anche alla luce dei problemi che può comportare l’applicazione del provvedimento in alcune sue parti. La lettera, ampiamente argomentata, è stata inviata, per conoscenza, anche ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati".

Pertanto i dubbi del Capo dello Stato non riguardano tanto le singole norme, quanto l’impianto generale della legge, che nella sua struttura d’insieme appare incoerente rispetto "ai principi generali dell’ordinamento e del sistema penale vigente". Anzi, ha assicurato il ministro della Giustizia Angelino Alfano, Napolitano ha espresso pieno apprezzamento nei confronti di alcune norme, in particolare "l’inasprimento del carcere duro per i mafiosi, che adesso diventa durissimo, e l’inserimento di sanzioni importanti contro le infiltrazioni mafiose negli appalti e nella Pubblica Amministrazione". Pertanto, conclude Alfano, "Il presidente Napolitano ha scelto di promulgare la legge: le ragioni del promulgamento sono prevalenti sulle perplessità".

Secondo Antonio Di Pietro, il capo dello Stato avrebbe dovuto rinviare la legge alle Camere. "Esprimo profondo dolore - afferma il leader dell’Idv - per la titubanza del presidente della Repubblica nel prendere in mano la situazione e soprattutto nell’affrontare i compiti che la Costituzione gli assegna. Se è vero come è vero che Napolitano aveva dei dubbi sulla coerenza costituzionale delle norme sulla sicurezza, il suo compito era quello di rinviare il testo alle Camere. Il suo lamento dopo aver firmato il provvedimento è come un grido al vento, che ammanta di ipocrisia una legge che meritava di essere espulsa dall’ordinamento".

Rilievo analogo da parte dell’ex presidente del Senato, Marcello Pera, che parla addirittura di violazione della Costituzione da parte di Napolitano: "Le cinque pagine di perplessità e preoccupazioni espresse dal presidente della Repubblica sulla legge sulla sicurezza sono palesemente fuori dai poteri che la costituzione gli assegna. Il Presidente non può intervenire sul merito politico dei provvedimenti, per di più in modo selettivo come ha fatto in questa circostanza. Se egli ha dubbi o rilievi fondati di incostituzionalità e non intende promulgare una legge, può solo inviare un messaggio formale alla camere. Il Presidente non può neppure rivolgersi direttamente ai ministri, perché, sempre per costituzione, egli non ha alcuna responsabilità politica né essi possono prevaricare la libera volontà del parlamento", scrive Pera.

Per il Pd esprimono apprezzamento per le parole di Napolitano Marco Minniti e Lanfranco Tenaglia, rispettivamente responsabili della Sicurezza e della Giustizia del partito. "Le parole del presidente della Repubblica confermano le preoccupazioni che avevamo per lungo tempo espresso nel corso del dibattito parlamentare - affermano i due esponenti democratici - Si è invece proceduto a colpi di fiducia, anche per tacitare riserve e dissensi presenti all’interno della maggioranza. Questa iniziativa forte del presidente della Repubblica non può e non deve essere ignorata dal presidente del Consiglio e del governo". "La via maestra è che il governo assuma l’iniziativa di tornare in Parlamento per affrontare e risolvere la questione aperta dal capo dello Stato. Se il governo seguirà questa strada, non mancherà la nostra cooperazione. Nel caso contrario saremo noi a presentare appositi disegni di legge in Parlamento", concludono Minniti e Tenaglia.

Giustizia: "appunti" sul reato di clandestinità e compiti ronde

 

La Repubblica, 16 luglio 2009

 

Nella lettera di cinque pagine inviata al governo e, per conoscenza, ai presidenti delle Camere, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano punta l’indice con chiarezza contro le "rilevanti criticità" della legge sulla sicurezza, che pure promulga, afferma, per non sospendere norme che rafforzano il contrasto alla criminalità organizzata. "Il presidente della Repubblica - si legge nella lettera di Napolitano - non può restare indifferente dinanzi a dubbi di irragionevolezza e di insostenibilità che un provvedimento di rilevante complessità e evidente delicatezza solleva, per taluni aspetti, specie sul piano giuridico". In particolare, il Capo dello Stato chiede di "riflettere" sul reato di clandestinità e sul via libera alle ronde, delle quali chiede che vengano almeno definiti subito limiti e compiti.

"Ho ritenuto di non poter sospendere in modo particolare la entrata in vigore di norme - ampiamente condivise in sede parlamentare - che rafforzano il contrasto alle varie forme di criminalità organizzata sia intervenendo sul trattamento penitenziario da riservare ai detenuti più pericolosi sia introducendo più efficaci controlli e sanzioni per le condotte di infiltrazioni mafiose nelle istituzioni e nella economia legale - precisa Napolitano, confermando quanto anticipato dal ministro della Giustizia Angelino Alfano. - Non posso tuttavia fare a meno di porre alla vostra attenzione perplessità e preoccupazioni che, per diverse ragioni, la lettura del testo ha in me suscitato".

Provvedimento disomogeneo. Il presidente ricorda che questo provvedimento trae origine dal disegno di legge presentato dal governo in Senato il 3 giugno 2008, e che "dal carattere così generale e onnicomprensivo della nozione di sicurezza posta a base della legge, discendono la disomogeneità e la estemporaneità di numerose sue previsioni che privano il provvedimento di quelle caratteristiche di sistematicità e organicità che avrebbero invece dovuto caratterizzarlo".

Le due norme contestate. Due sono le norme che il Capo dello Stato critica in modo particolare, sia nella sostanza che nella formulazione: quella che introduce il reato di immigrazione clandestina e quella sulle ronde. Per quanto riguarda la prima, Napolitano fa notare che il nuovo reato "punisce non il solo ingresso, ma anche il trattenimento nel territorio dello Stato. La norma è perciò applicabile a tutti i cittadini extracomunitari illegalmente presenti nel territorio dello Stato al momento dell’entrata in vigore della legge. Il dettato normativo non consente interpretazioni diverse: allo Stato, esso apre la strada a effetti difficilmente prevedibili. In particolare, suscita in me forti perplessità la circostanza che la nuova ipotesi di trattenimento indebito non preveda la esimente della permanenza determinata da "giustificato motivo".

Non più punibile il rientro dopo espulsione. Ma c’è di più: "Le modifiche apportate dall’art. 1 comma 22 let. m. in materia di espulsione del cittadino extracomunitario irregolare, determinano - a ragione di un difettoso coordinamento normativo - il contraddittorio e paradossale effetto di non rendere più punibile (o al più punibile solo con una ammenda) la condotta del cittadino extracomunitario che fa rientro in Italia pur dopo essere stato materialmente espulso. La condotta era precedentemente punita con la reclusione da 1 a 5 anni". Dunque una norma profondamente incoerente con tutte le altre disposizioni in materia.

Incoerenza con sistema sanzionatorio. Ma i rilievi si spingono anche alle sanzioni previste e alle loro modalità di applicazione: "L’attribuzione della contravvenzione di immigrazione clandestina alla commissione del giudice di pace non mi pare poi in linea con la natura conciliativa di questi e disegna nel contempo, per il reato in questione, un "sottosistema" sanzionatorio non coerente con i principi generali dell’ordinamento e meno garantistica di quello previsto per delitto di trattenimento abusivo sottoposti alla cognizione del Tribunale. Per il nuovo reato la pena inflitto non può essere condizionalmente sospesa o "patteggiata", mentre la eventuale condanna non può essere appellata".

Ronde: stabilire subito le competenze. Questi invece i rilievi sull’istituzione delle ronde: "Essendo affidata non alla legge ma a un successivo decreto del ministro dell’Interno la determinazione degli ambiti operativi di tali disposizioni, appare urgente la definizione di detto decreto in termini di rigorosa aderenza ai limiti segnati in legge relativamente al carattere delle associazioni e al compito ad esse attribuito. Da ciò dipenderà la riduzione al minimo di allarmi e tensioni nell’applicazione della normativa in questione, anche sotto il profilo dell’aggravio che possa derivarne per gli uffici giudiziari.".

Vietare l’uso dello spray al peperoncino. Quali strumenti utilizzeranno infine queste "ronde", si chiede ancora il presidente della Repubblica? "Anche in rapporto alla innovazione sancita nei commi 40-44 dell’art. 3, va considerato il comma 32 dello stesso articolo secondo il quale - scrive sempre Napolitano - spetterà al ministro dell’Interno stabilire "le caratteristiche tecniche degli strumenti di difesa", con particolare riferimento alla nebulizzazione di un determinato principio attivo naturale, ovvero all’uso di uno spray al peperoncino. Il rischio da scongiurare è che si favorisca la delinquenza di strada o comunque si indebolisca la prescrizione che le associazioni, di cui al comma 40, debbano essere formate da "cittadini non armati". Peraltro è da rilevarsi che, stando ai principi affermati dalla giurisprudenza, il porto dello spray potrebbe restare sempre vietato a norma dell’art. 4 della legge 110/1975".

Giustizia: Napolitano dà voce a critiche opposizione e non solo

di Massimo Franco

 

Corriere della Sera, 16 luglio 2009

 

La promulgazione delle norme sulla sicurezza era abbastanza scontata; un po’ meno la lunga lettera spedita dal Quirinale al governo e ai presidenti delle Camere con una serie di obiezioni di fondo. Le "perplessità e preoccupazioni" espresse da Giorgio Napolitano danno voce alle critiche dell’opposizione, e non solo. Ma il capo dello Stato non vuole bloccare un disegno di legge che prevede anche un indurimento del carcere per i mafiosi; e contrasta le loro infiltrazioni nelle gare d’appalto.

L’obiettivo è piuttosto quello di mediare fra la volontà "ampiamente condivisa" della maggioranza parlamentare; e l’esigenza di impedire distorsioni e pasticci in nome della legge. D’altronde, per settimane si è discusso con asprezza sull’opportunità di definire l’immigrazione clandestina come reato; e sull’istituzione di "ronde" chiamate di fatto ad un compito di supplenza rispetto alle forze dell’ordine: provvedimenti invocati da gran parte dell’opinione pubblica, e voluti fortemente dalla Lega per il loro significato anche simbolico. Ma il modo sbrigativo con il quale sono stati perseguiti ha impedito di valutare fino in fondo gli effetti paradossali che possono avere.

Il risultato sono "norme fra loro eterogenee" e "di dubbia coerenza": un modo garbato ma netto per far capire che, una volta applicate, potrebbero provocare una gran confusione. L’analisi puntigliosa di Napolitano non riguarda tanto i profili costituzionali, ma gli effetti pratici della legge. Il presidente della Repubblica vede in alcune disposizioni un arretramento nel contrasto all’immigrazione clandestina: contraddizioni che potrebbero peggiorare il problema, invece di risolverlo. Sono indicativi il sollievo ed il rispetto con i quali il governo ha accolto il sì del Quirinale ed accettato i suoi rilievi. Palazzo Chigi fa sapere di essere soddisfatto della promulgazione; e che terrà conto delle "notazioni e dei suggerimenti" del capo dello Stato.

Si indovina la disponibilità a correggere una legge che Napolitano considera difficile anche solo da interpretare. Nelle stesse file del Pdl gli uomini vicini al presidente della Camera, Gianfranco Fini, annunciano di condividere da tempo le obiezioni del Colle. Fra l’altro, su questo continua il braccio di ferro fra alcune istituzioni europee e delle Nazioni unite, ed il governo italiano. E, seppure in modo tormentato, la Chiesa cattolica ha tentato di smarcarsi dalla legislazione sugli immigrati clandestini e le "ronde". La lettera rappresenta un richiamo esplicito e duro a riflettere sui suoi "effetti imprevedibili". Solo Antonio Di Pietro la considera una dimostrazione di "titubanza". Il leader dell’Idv sostiene che Napolitano non avrebbe dovuto firmare la legge, dal momento che la critica: quasi non capisse che i rilievi possono essere radicali proprio perché preceduti da un "sì".

Di Pietro vuole "il tanto peggio tanto meglio", lo bacchetta il Pd per attacchi ritenuti stucchevoli nella loro ripetitività. Si ostina a trasmettere l’immagine di un capo dello Stato subalterno al governo anche quando, come in questo caso, gli rivolge rilievi severi: al punto da far dire a qualcuno del Pdl che ha esagerato. Il ministro della Giustizia, Angelo Alfano, però, non esclude modifiche: benché tutti sappiano che le decisioni della maggioranza dipenderanno soprattutto dalla volontà della Lega.

Giustizia: la stessa pena, per chi ruba biscotti e per chi uccide

di Giuliano Pisapia

 

Il Manifesto, 16 luglio 2009

 

Altro che giustizia eguale per tutti! Tre anni di reclusione a un tossicodipendente di Napoli per aver rubato un pacco di biscotti (prezzo un euro e 29 centesimi); 2 anni e 8 mesi a un "ladro" di 74 anni per il furto di un etto di prosciutto. Tre anni e 6 mesi per i poliziotti che hanno ucciso a manganellate Federico Aldrovandi; sei anni per l’agente di polizia che ha spezzato la vita di Grabriele Sandri. In carcere chi viola la legge per fame; a piede libero chi tronca la vita con una violenza inaudita.

Sentenze emesse "in nome del popolo italiano", mentre la maggioranza parlamentare approvava una legge che, tra le altre nefandezze giuridiche e sociali, punisce con 5 anni di carcere i migranti che non ottemperano all’ordine di espulsione; allunga fino a 6 mesi la detenzione amministrativa; modifica (creando nuovi reati e nuove aggravanti) intere parti del codice penale. Il carcere, ne siamo sempre più convinti, deve essere l’extrema ratio.

Ma per tutti; non solo per i potenti o per chi indossa una divisa. E, invece, assistiamo, quotidianamente, a una progressiva, quasi inarrestabile, china discendente della nostra civiltà giuridica e della nostra cultura democratica. Come è possibile considerare colposo (cioè dovuto a imprudenza, negligenza o imperizia) un omicidio da parte di chi, agente di polizia, freddamente, impugna la pistola, la punta e spara mirando un ragazzo seduto in auto?

E come si può parlare di eccesso colposo in legittima difesa in un caso, come quello di Federico Aldrovandi, in cui più poliziotti hanno infierito con violenza inaudita sul suo corpo? La regressione è intollerabile. La giustizia, giorno dopo giorno, ritorna ad essere forte con i deboli e debole con i forti.

Anche altro ci deve far riflettere. Dopo la sentenza per la morte di Aldrovandi, i suoi amici e i suoi genitori si sono abbracciati; "volevo che a mio figlio fossero restituiti giustizia e dignità" ha detto il padre di Federico. Del tutto diversa la reazione degli amici di Gabriele Sandri. Insulti ai giudici; il Tribunale e le piazze trasformate in curve da stadio (violente e razziste, non quelle di una sana tifoseria).

Eppure sia Federico che "Gabbo" sono vittime della stessa violenza e di una analoga ingiustizia. Ma ben diverse sono state le reazioni. Da un lato chi, come gli amici di Federico, crede in una giustizia che non deve mai trasformarsi in vendetta; dall’altro, chi, invece, pensa alla giustizia (e alla pena) come strumento di vendetta ("gli ultras hanno voglia di vendetta", titolava ieri un autorevole quotidiano).

Una ultima considerazione, a proposito di giustizia ed eguaglianza. Forti, e del tutto condivisibili, sono state le proteste, a sinistra e nel centrosinistra, per l’approvazione del pacchetto sicurezza. Ma molti sono stati i silenzi: basti pensare, ad esempio, ai voti favorevoli, anche nel centrosinistra, alla reintroduzione del reato di "oltraggio a Pubblico Ufficiale".

Eppure bastava leggere le parole della Corte costituzionale per opporsi al ripristino di un reato che, ripetutamente, la stessa Corte aveva espressamente invitato ad eliminare dal nostro ordinamento penale, onde evitare censure in relazione a vari articoli della Costituzione, tra cui principalmente, ma non solo all’art. 3, che sancisce il principio per cui tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge. I giudici delle leggi, oltre vent’anni fa, aveva detto che tale reato era "espressione di una concezione autoritaria, non consona alla tradizione liberale italiana né a quella europea", e aveva evidenziato come "questo unicum, generato dal codice Rocco" era il prodotto della concezione dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica dell’ideologia fascista e quindi "estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana".

La Corte non si era limitata, però, a chiedere espressamente al parlamento l’eliminazione di tale fattispecie penale dal nostro codice, ma - caso rarissimo - aveva autonomamente diminuito la pena allora prevista (massimo 2 anni di reclusione). Ebbene, con il recente pacchetto sicurezza, la pena è stata addirittura aumentata (fino a tre anni di reclusione).

Ecco perché, di fonte a decisioni che contrastano con principi fondamentali di uno stato di diritto, chi crede nella giustizia non può tacere ma deve usare tutti gli strumenti della democrazia per opporsi a un abisso che ricorda un passato che speravamo definitivamente tramontato.

Giustizia: l’assassino ha la divisa? è sempre "omicidio colposo"

di Sandro Padula

 

L’Altro, 16 luglio 2009

 

Una riflessione e una proposta all'indomani della sentenza per l'agente Spaccarotella. No al fine pena mai. Ma 14 anni per gravissimo omicidio volontario sì. Prendere la mira, sparare ed uccidere una persona è un omicidio volontario, ma per i giudici diventa un omicidio colposo quando l’assassino è un pubblico ufficiale.

L’ennesima dimostrazione di questo modo schizofrenico di intendere la giustizia è la sentenza del 14 luglio con cui, per l’omicidio di Gabriele Sandri, la Corte d’Assise di Arezzo ha condannato l’agente Luigi Spaccarotella ad una pena di sei anni di detenzione.

La Corte ha infatti derubricato il reato da omicidio volontario in omicidio colposo, cercando pure di apparire "equilibrata" allorché si è presa la briga di precisare che tale omicidio colposo sarebbe avvenuto con l’aggravante della previsione del fatto.

Uccidere una persona prevedendo la possibilità di ucciderla, diciamolo a chi ha la mente libera da ogni forma di pregiudizio e dalle idiozie del codice penale monarchico-fascista ancora vigente in Italia, è di fatto un omicidio volontario. Perché allora prendere in giro l’intelligenza collettiva di coloro che amano la giustizia e la verità?

L’11 novembre del 2007 l’agente Luigi Spaccarotella ha ucciso il giovane tifoso della Lazio Gabriele Sandri nell’area di servizio di Badia Al Pino sull’A1. A distanza di alcune decine di metri prese la mira in direzione di un’autovettura di alcuni tifosi della Lazio. Di fronte a sé aveva una rete metallica e allora si mise in perpendicolare rispetto ad essa affinché i colpi non fossero troppo deviati. Fece l’esatto contrario di quello che ha sostenuto la sua difesa nel processo. Sparò ed uccise. Sapeva che le pallottole uccidono. Sapeva che poteva mandare al cimitero questo o quel ragazzo ma sparò ugualmente.

Il colpo mortale fu deviato in parte dalla rete metallica ma era indirizzato proprio verso l’autovettura in cui si trovava Gabriele Sandri. Se non fosse finito su quest’ultimo avrebbe ucciso un altro ragazzo. Tutti gli elementi concreti dimostrano scientificamente che siamo di fronte ad un omicidio volontario e in una delle rare occasioni in cui si sa esattamente chi è l’assassino e quale sia stata l’arma del delitto.

Forse l’agente Spaccarotella si trovava in uno stato di coscienza alterato, ma un agente professionale dovrebbe essere in grado di avere piena coscienza di sé durante il proprio lavoro. Oppure si sentiva legittimato a sparare, con tanto di previsione di uccidere, da un determinato clima politico-culturale.

Ad ogni modo, secondo la Costituzione della Repubblica italiana la responsabilità penale è personale. Quindi, a rigor di logica, considerando pure che per un generico omicidio volontario l’articolo 575 del codice penale prevede una pena non inferiore a 21 anni di detenzione, un omicidio volontario compiuto direttamente e per motivi futili avrebbe dovuto essere condannato col massimo della pena detentiva possibile nel nostro paese. Non con 14 anni, come aveva chiesto il Pubblico Ministero, ma semplicemente con l’ergastolo.

Finché in Italia esisterà il "fine pena mai" sembra logico che un gravissimo omicidio volontario di cui si sa esattamente chi ne è l’autore materiale sia punito con l’ergastolo.

Occorre a questo punto però una precisazione. Nel nostro paese la maggior parte degli attuali "fine pena mai" è stata condannata senza prove concrete; spesso non ha neanche ucciso materialmente ed è stata condannata all’ergastolo per "concorso morale" o per concorso ad un concreto omicidio compiuto da altre persone. In altre parole ha ricevuto condanne sulla base dei "sentito dire" dei "pentiti" (pluriomicidi a volte) e basta; non certo con prove concrete come quelle evidentissime nel caso dell’omicidio del giovane tifoso della Lazio.

Ma come, dirà qualcuno, sei favorevole all’abolizione dell’ergastolo e poi auguri il "fine pena mai" all’assassino di Gabriele Sandri?

No, le cose stanno diversamente. Non auguro a nessuno l’ergastolo, lunghe pene detentive o torture di vario ed analogo tipo. Poiché quasi tutti coloro che compiono un omicidio volontario agiscono in stato di coscienza alterato e in maniera che in gran parte risulta sovra determinata da uno specifico contesto sociale, vorrei soltanto che l’ergastolo fosse abolito e sostituito da una pena detentiva di 14 anni, come aveva chiesto il Pubblico Ministero per l’agente Spaccarotella e come grosso modo - sia pur con oscillazioni di qualche anno - succede in gran parte dei paesi dell’Unione Europea.

Risulta perciò comprensibile l’attuale rabbia dei parenti e degli amici di Gabriele, ma tutti dovremmo lottare in modo saggio contro l’ingiustizia che l’ha ucciso una seconda volta. Non serve la logica della vendetta. Occorre l’unità dei giovani tifosi delle diverse squadre di calcio, magari costituendosi parte civile nel processo di appello. Occorre l’unità nella lotta per una società libera da oppressioni e ipocrisie vecchie e nuove. Bisogna trasformare le nostre lacrime suscitate dalla duplice morte di Gabriele in lotta per una giustizia finalmente giusta, equilibrata e libertaria.

Giustizia: il presunto stupratore seriale, linciato dalla politica

di Luigi Manconi

 

www.innocentievasioni.net, 16 luglio 2009

 

Se per una ipotesi oggi inaudita, ma che non può essere esclusa in assoluto, Luca Bianchini fosse vittima di un errore giudiziario (che so? A causa di un complotto di Rupert Murdoch), il suo diritto costituzionale alla difesa sarebbe stato già irreparabilmente leso dal trattamento mediatico subito.

Basti pensare a come lo sguardo invadente delle telecamere abbia già mandato in onda su tutte le tv le pagine più private del suo supposto diario, assicurando così un imponente vantaggio alle tesi accusatorie; e a come il possesso di un "ampio materiale pornografico" sia stato presentato come prova schiacciante. Tanto varrebbe dar fuoco alle edicole.

(E tralascio la secolare disputa scientifica intorno al quesito: il consumo di pornografia è fattore incentivante o disincentivante rispetto all’esercizio della violenza sessuale?). Ma qui non si vuole insistere sullo stato desolante in cui versa, nel nostro paese, il sistema delle garanzie processuali: si vuole, piuttosto, tentare di ragionare su cosa possa dirci la vicenda dello "stupratore seriale". Innanzitutto va chiarito che l’errore di Ignazio Marino non è stato quello di utilizzare, a fini di dibattito congressuale, un episodio criminale.

No, l’errore del medico Marino è stato quello di non affrontare il "caso Bianchini" da medico, bensì da politico di professione. Un errore classico di politicismo (tentazione irresistibile in particolare, per chi ha, della politica, un’esperienza recente). Certo, è possibile - eccome - una lettura "politica" di questa crudelissima vicenda, ma su un piano radicalmente diverso, fuori dalla logica ordinaria delle lotticine di corrente e delle colluttazioni congressuali.

Da questo punto di vista devo dire di aver molto apprezzato le parole dell’assessore provinciale democratico (già Margherita), Patrizia Pristipino. Nessun tentativo di nascondersi dietro un dito, di ridimensionare la portata della conoscenza amichevole con Bianchini, di occultare la drammaticità della scoperta. Che non è la scoperta di un mascalzone che coltiva una doppia morale: un’esistenza quotidiana e una militanza politica irreprensibili e, poi, un’attività criminale fatta di corruzione e di tangenti, come tanti altri lestofanti, piccoli e grandi, della vita pubblica italiana.

Nulla di tutto ciò. Siamo in presenza, piuttosto, di una tragedia umana, che va affidata alla diagnosi (e alla terapia, semmai una terapia fosse possibile) degli specialisti della psiche. Ciò che si può dire, da profani, è che si tratta, va da sé, di una acutissima psicopatologia, espressione di un disturbo della personalità, che rimanda a un vissuto, sul quale è la medicina che in primo luogo deve pronunciarsi, una volta messo l’interessato in condizione di non nuocere ulteriormente.

Ma la vicenda dice ancora due cose importanti. La prima: se il quadro caratteriale e relazionale di Bianchini, almeno nei suoi tratti visibili, è quello descritto da quanti lo conoscevano, arriviamo appena a immaginare quali abissi dell’animo e della mente possano celarsi dietro i comportamenti abituali delle persone con le quali intratteniamo rapporti e condividiamo esperienze.

In altre parole, quanto sia fragile e incerto il concetto di normalità e come esso possa risultare semplicemente l’abito che si indossa, per consuetudine sociale, a coprire un organismo malato e profondamente sofferente. Insomma, la malattia, la patologia, la mostruosità possono essere componente ordinaria della nostra quotidianità.

Seconda considerazione: la mostruosità tende costantemente a mimetizzarsi, a cercare l’anonimato nei comportamenti collettivi e nella vita sociale. Sotto questo profilo, la politica può essere, per un verso, la maschera e per l’altro - azzardo - una sorta di tentativo di terapia da parte del soggetto affetto da patologia.

Infine, la lezione più terribile, e, insieme, istruttiva che questa vicenda ci consegna: la politica non può salvarci. La politica può essere un’attività bellissima e appassionante, capace di dare gratificazioni straordinarie e piacere quotidiano. Ma non è in alcun modo in grado di guarirci. Non può salvarci l’anima e nemmeno può cancellare la disperazione quando accade di soffrirne o ridurre il male di vivere, quand’esso ci affligge.

Se abbiamo imparato, cioè, che la politica non può dare la felicità, né quella individuale, né quella collettiva (il paradiso in terra, una società di uguali, la liberazione dal bisogno…), dobbiamo anche accettare che essa non può emanciparci dal dolore e dalla malattia. Può, nel migliore dei casi, renderci più consapevoli di tutto questo. E non è poco.

Giustizia: la "metamorfosi" del processo penale genera mostri

di Fulvio Conti

 

www.radiocarcere.com, 16 luglio 2009

 

Luca Bianchini presunto non colpevole, dopo uno sputo in un bicchiere, è diventato improvvisamente colpevole. Nessun dubbio. Inutile attendere il processo penale. Il mostro è stato assicurato alla giustizia. Un ardito sillogismo parte dalla premessa che costui era coordinatore di un circolo del Pd.

Un sillogismo il quale proverebbe che il Partito è strutturato secondo logiche lottizzatorie, le quali prescindono dalla moralità dei singoli, tanto da avere affidato un importante ruolo ad uno stupratore seriale. Sillogismo di non pregevole fattura e che si sostanzia nell’ennesima strumentalizzazione delle vicende processuali di un singolo, la colpevolezza del quale peraltro è tutta da dimostrare. La metamorfosi del processo nessuno sembra cogliere.

Nessuno si stupisce, nessuno s’indigna. Nato con il fine di accertare la sussistenza di un fatto penalmente rilevante, scopo che non riesce più a raggiungere, ha mutato funzione divenendo un diffusore di notizie riservate da usare contro l’avversario. Non sembra esistere nell’immediato strumento migliore per screditare il proprio antagonista, per costringere alle dimissioni la persona non gradita.

Poco importa se la diffusione delle notizie realizza un fatto questo sì sicuramente penalmente rilevante, il quale ad oggi è inspiegabilmente depenalizzato. Sul piedistallo si erige il diritto di cronaca, che inesorabilmente calpesta altri diritti fondamentali, quali quello ad un giusto processo ed alla riservatezza.

Giustizia: ucciso per furto di biscotti; chiesti 16 anni per i killer

 

Ansa, 16 luglio 2009

 

Sedici anni e otto mesi di reclusione per concorso in omicidio volontario aggravato dai futili motivi: è quanto ha chiesto nella sua requisitoria il Pm, Roberta Brera, nei confronti di Fausto e Daniele Cristofori, i due baristi, padre e figlio, di 51 e 31 anni, accusati di aver assassinato a colpi spranga il 19enne Abdul Guibre il 14 settembre 2008 a Milano. I due avevano inseguito e poi - secondo la ricostruzione dell’accusa - ucciso a colpi di spranga il giovane Abba perché credevano avesse rubato un pacco di biscotti. La richiesta è stata fatta, anche tenendo conto dei precedenti penali dei due imputati, nel corso dell’udienza con rito abbreviato e a porte chiuse davanti al Gup, Nicola Clivio, in corso al tribunale del capoluogo lombardo.

Giustizia: 6 detenuti in cella di 16 mq; è "trattamento inumano" 

 

Ansa, 16 luglio 2009

 

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato oggi l’Italia per aver sottoposto Izet Sulejmanovic, un cittadino della Bosnia Erzegovina, a trattamento inumano e degradante durante la sua detenzione nel carcere di Rebibbia, Roma, violando cosi l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo i giudici di Strasburgo la violazione nei confronti di Sulejmanovic è dovuta al fatto che dal 17 gennaio all’aprile del 2003 l’uomo ha dovuto dividere una cella di 16,20 metri quadri con altri cinque detenuti, riducendo così lo spazio, dove i reclusi trascorrevano circa venti ore al giorno, a 2,7 metri quadri ciascuno.

La Corte ritiene che "una tale situazione non ha potuto che provocare disagi e inconvenienti quotidiani al ricorrente, obbligato a vivere in uno spazio molto esiguo, molto inferiore alla superficie minima ritenuta adeguata dal Comitato per la prevenzione della tortura". Agli occhi della Corte, si legge nella sentenza, la mancanza "flagrante" di spazio personale di cui ha sofferto il ricorrente costituisce un trattamento inumano e degradante. La sentenza emessa oggi - diverrà definitiva tra tre mesi se né il ricorrente né il governo italiano si opporranno - è stata emessa con il voto contrario del giudice Vladimiro Zagrebelsky. Il giudice italiano, ritiene, come le autorità italiane, che il breve periodo in cui Sulejmanovic ha dovuto condividere la cella con altri 5 detenuti non è sufficiente a configurarsi come trattamento inumano e degradante, date soprattutto le buone condizioni generali della detenzione per quanto riguarda altri aspetti come la possibilità di accedere a spazi esterni e le condizioni igieniche della cella.

Giustizia: Cgil; il sistema carcerario è "al punto di non ritorno"

 

Comunicato stampa, 16 luglio 2009

 

Per tutti noi che lavoriamo ogni giorno nelle strutture penitenziarie, centrali e periferiche, Istituti e Uepe, appare del tutto chiaro come il sistema detentivo italiano sia ormai prossimo ad un punto di non ritorno, oltre al quale ci può essere soltanto il collasso del settore.

Con un numero di detenuti che ormai supera abbondantemente quello che portò i parlamentari di ogni schieramento a varare il provvedimento d’indulto, all’inizio di una stagione che nelle carceri è da sempre calda non solo per le intollerabili temperature, ognuno di noi dovrà far fronte alle proprie quotidiane e numerose emergenze privo delle necessarie risorse umane, finanziarie e perfino strumentali, nella più completa assenza di un progetto d’insieme per il sistema penitenziario.

Il cosiddetto "Piano carcere", ricco di idee creative quali le "prigioni galleggianti" o quelle "prefabbricate", è infatti un insieme di soluzioni irrealizzabili o realizzabili solo nel lungo periodo, che non porteranno alcun beneficio nell’attuale emergenza, ma che serviranno invece a saccheggiare le ingenti risorse - ad altro destinate - della "Cassa delle ammende" nonché ad aprire pericolosamente la porta all’investimento privato nel sistema detentivo.

Tutto questo in un contesto dove si vanno combattendo i diritti e le tutele faticosamente conquistati dai lavoratori in decenni di lotta sindacale, mascherando il reale intento di ridurre il costo del nostro lavoro già oggi mal pagato, sotto i reiterati insulti del ministro Brunetta.

Tra straordinari necessari e non pagati, missioni non riconosciute neanche a chi - come gli Assistenti sociali - le pratica come normale e quotidiano strumento di lavoro, negazione del confronto tra le parti, ritardo che si protrae per il rinnovo del Contratto integrativo, furto dei soldi dei lavoratori accantonati attraverso il meccanismo del Fua, impoverimento del reddito di chi ha "il privilegio" di assistere familiari ai sensi della legge 104, incostituzionale inasprimento dei controlli medici sugli assenti per malattia, l’esecutivo ha per noi ormai colmato la misura oltre ogni soglia di tollerabilità.

Invitiamo pertanto tutti voi a non accettare il tentativo di far ricadere le colpe politiche dello sfascio attuale sulle spalle dei lavoratori; vi chiediamo invece di aiutarci ad esprimere con ogni forza ed ogni mezzo, tutto il disagio di chi continua nonostante tutto ad impegnarsi per l’erogazione di un irrinunciabile servizio pubblico.

E vi chiediamo di farlo adesso per portare a conoscenza dell’intero panorama politico, del mondo dell’informazione, dell’opinione pubblica, le reali condizioni in cui si trovano il sistema penitenziario e tutti i suoi addetti. Da parte nostra intendiamo tenere insieme alle segreterie locali, agli eletti Rsu ed ai delegati di posto di lavoro, numerose assemblee sull’intero territorio nazionale per raccogliere ogni vostro suggerimento o segnalazione.

Non escludendo peraltro il ricorso a più forti ed incisive azioni di protesta quali l’indizione dello stato di agitazione di tutto il personale del settore penitenziario.

Giustizia: Ionta; assunzione di agenti e più posti per i detenuti

 

Secolo XIX, 16 luglio 2009

 

Gonfio di oltre 1.500 detenuti, il sistema carcerario ligure fa i conti con emergenze gravi. Ieri è giunto in visita il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, investito di poteri commissariali. Ionta è l’autore del piano-carceri che il Guardasigilli, Angelino Alfano, si appresta a presentare. Nei 206 istituti di pena italiani sono recluse 67.672 persone, a fronte di una capienza regolamentare poco oltre le 43 mila unità.

Un nuovo indulto non risolverebbe il problema, come dimostra il provvedimento del 2006. Lo stesso ministro Alfano, quattro giorni fa a Milano, lo ha escluso e ha annunciato che sarà "una priorità estiva l’apertura di nuove carceri". E ha promesso assunzioni nella polizia penitenziaria. Ionta, ieri a Genova per il convegno sul lavoro in carcere, e poi a Imperia in visita alla Casa Circondariale, pur rinviando la responsabilità politica al ministro, ha espresso parere contrario all’indulto.

"La prossima settimana saremo in grado di mettere a disposizione 140-150 nuovi posti detentivi nella struttura carceraria della Spezia - ha detto -. La situazione in Liguria è grave ma è del tutto simile a quella delle altre regioni italiane. L’attenzione dell’amministrazione è alta. Se sarà possibile snellire le procedure degli iter attuativi lo farò. Genova merita una soluzione all’altezza. L’amministrazione comunale individui l’area sulla quale trasferire il carcere e la sottoponga alla nostra valutazione di idoneità funzionale". E le strutture carcerarie galleggianti che sarebbero previste nel nuovo piano? "Che siano strutture stabili o galleggianti una soluzione deve essere trovata".

Alla Spezia i lavori di ristrutturazione si erano interrotti e a Savona un contenzioso tra le imprese costruttrici ha impantanato il progetto della nuova casa di pena, condannando - è la parola - i circa sessanta detenuti a restare nel carcere di Sant’Agostino, un fatiscente convento del Duecento, riattato alla bell’e meglio. Nel piano di Ionta è prevista la nuova struttura, in località Passeggi, al confine tra i Comuni di Savona e Quiliano. Potrà ospitare 250 detenuti, ma i tempi della ripresa dei lavori sono incerti.

A Imperia Ionta ha visitato la casa di pena, ultimamente alla ribalta della cronaca per due gravi episodi: l’evasione di un detenuto tunisino, Farah Ben Faical Trabelsi, 35 anni, e il suicidio di un altro recluso, Salala Dibe, anch’egli originario della Tunisia, 30 anni, che si è impiccato, il 9 luglio, con il cavo del televisore. Soccorso morente, è morto ieri. "L’evasione è un fatto gravissimo, dovuto a carenze di personale e di professionalità - ha dichiarato Ionta al termine della visita -. Stiamo svolgendo un’indagine disciplinare. Il carcere non è all’altezza. Stiamo valutando se intervenire sulla struttura".

Claudio Burlando, intervenuto al convegno col presidente della provincia di Genova, Alessandro Repetto, ha avuto un colloquio a quattr’occhi con Ionta, al quale ha illustrato le criticità del sistema penitenziario ligure. "Gli ho espresso la preoccupazione degli operatori per la situazione generale degli istituti di pena liguri e ho richiamato l’aspetto delle evasioni che si sono verificate nel carcere di Imperia. Ho anche toccato il tema della struttura di Genova-Marassi, per collocazione ma anche per qualità e quantità dei servizi, non più adeguata. È importante capire se il piano straordinario contiene una risposta anche a questo problema. Come ho detto molte volte, si tratta di una scelta urbanistica del Comune di Genova, legata anche alla volontà delle due società calcistiche. Una eventuale delocalizzazione delle carceri di Marassi potrà dare un margine di libertà in più a chi deve assumere decisioni che riguardano l’impiantistica sportiva". Ovvero, decidere il destino dello stadio Luigi Ferraris.

Lettere: vi racconto il "piccolo inferno"... nel carcere di Arezzo

 

www.radiocarcere.com, 16 luglio 2009

 

"Finalmente sono uscito dall’infermo". Questo ho pensato la scorsa settimana quando mi hanno liberato dal carcere di Arezzo. Un carcere vecchio, piccolo e sovraffollato. Vecchio, perché costruito nel 1929. Piccolo perché fatto per ospitare 65 detenuti. Sovraffollato perché noi reclusi eravamo più del doppio. Circa 130 in totale. Pochi gli italiani, una cinquantina. Il resto, stranieri.

Un piccolo inferno, quello del carcere di Arezzo, fatto di soli tre piani. Ad ogni piano si affacciano una decina di porte. Sono le porte blindate delle celle. Celle di diversa dimensione. Alcune più grandi, dette in gergo cameroni, con dentro fino a dieci detenuti e altre più piccole che ne ospitano quattro. Al di là delle dimensioni, la vita dentro quelle celle è la stessa. E uguale è il degrado.

Io stavo nella cella numero 37. Una stanzetta di circa 7 metri quadri. Al suo interno: una branda a castello da un lato e un’altra sul lato opposto. Ci vivevamo in 4 dentro quella cella. Ed era davvero poco lo spazio per muoverci, eppure noi ci rimanevamo chiusi per 20 ore al giorno. Ci mangiavamo anche dentro quella cella. Un pasto, fatto di 40 grammi di pasta, uova e insalata marcia, che consumavamo seduti sui letti.

Era orrenda la cella numero 37, come del resto tutte le altre. I muri erano senza intonaco e neri di sporcizia. Noi detenuti più volte ci siamo offerti volontari per poterli ripitturare. Abbiamo addirittura detto che pagavamo tutto noi, vernice e pennelli. Ma la direzione del carcere ci ha sempre detto di no.

Oltre ai muri anche il resto della cella era rovinato. Ad esempio la finestrella. Aveva i vetri rotti, tanto che noi li tenevano insieme con dello scotch. Ma non solo. Abbiamo dovuto vivere per più di 2 mesi con la lampadina della cella fulminata. E il carcere di Arezzo non è di certo un posto luminoso! Tutt’altro. Già nel pomeriggio faceva buio in cella e non riuscivamo a vedere nulla. Ciononostante abbiamo dovuto aspettare ben 2 mesi per avere una semplice lampadina!

Il fatto è che, non solo i detenuti, ma anche il carcere di Arezzo viene lasciato nel completo abbandono. Un giorno, tanto per intenderci, il lavandino del bagno della cella è caduto a terra. Il personale del carcere se né è fregato. E così siamo stati costretti a riparalo da soli. Avevamo chiaramente pochi mezzi a nostra disposizione e così ci siamo dovuti ingegnare. Abbiamo preso un pezzo di muro sotto la finestra e l’abbiamo usato come sostegno del lavandino. Poi abbiamo fatto un impasto con la farina e l’abbiamo usato come cemento. Per fortuna ha funzionato, ma una cosa è certa. Se aspettavamo il carcere, il lavandino restava per terra.

Ma il carcere di Arezzo è anche sporco ed è invaso da insetti e da topi. Noi cercavamo di tenere la cella pulita, ma era difficile perché non avevamo né disinfettante, né detersivo. Così spesso trovavamo delle zecche. Zecche che erano nel bagno, ma anche sotto i materassi dove dormivamo. E poi i topi che uscivano dagli scarichi, oltre agli scarafaggi che erano ovunque.

Anche fare l’ora d’aria, unico nostro svago, era un incubo. Ora d’aria che facevamo in un cortiletto di 70 mq. Uno spazio insufficiente per poter far passeggiare 130 persone. Ed infatti, per poter consentire di far camminare tutti, eravamo costretti a girare in tondo. Come dei pazzi.

Fatta l’ora d’aria, ovvero il folle girotondo, la nostra giornata era finita. Infatti nel carcere di Arezzo non c’è nulla per i detenuti. Solo una decina lavorano, mentre gli altri sono condannati all’ozio. Un ozio che diventa, giorno dopo giorno, una pena insopportabile. "Tu non vali nulla". Questa è l’unica cosa che impara un detenuto nel carcere di Arezzo. A non valere nulla. Ora io sono uscito dal quel piccolo inferno, ma spesso mi chiedo: che ne sarà delle persone che ancora oggi rinchiuse lì dentro?

 

Lettera firmata

Lettere: il carcere di Catanzaro? una vera e propria "topaia"

 

www.radiocarcere.com, 16 luglio 2009

 

Cara Radiocarcere, ho 35 anni e sono alla mia prima carcerazione. Vi scrivo per descrivervi il carcere di Siano, che è una vera e propria topaia. Si una topaia, non a caso al primo piano del carcere siamo invasi dai topi, topi grandi come gatti. Come se non bastasse siamo anche invasi dalle zanzare e questo potrebbe bastare per capire che posto è il carcere di Siano. Ma c’è altro. Salendo di un piano ci sono le cucine del carcere e lungo il corridoio prima della porta delle cucine, ci sono colonie di blatte che corrono sul pavimento e sui muri. Le docce poi sono luride da fare schifo e dentro c’è una puzza di fogna insopportabile. Se questa è la struttura del carcere di Siano non meglio va il trattamento.

Infatti qui per noi detenuti non c’è nulla, non c’è lavoro né possibilità di studiare. In altre parole nel carcere di Siano, dopo aver fatto la detenzione tra topi e blatte, ti fanno uscire dal cancello con un sacco della spazzatura dove c’è tutta la tua vita e non sai dove andare. Non hai un lavoro, nulla. Ed è così che dopo pochi mesi ritorni in carcere. Io avrò pure commesso un reato, ma vorrei solo avere un’occasione per cambiare. Sono tossicodipendente, mi sto curando e sto cercando una comunità dove poter dare un senso alla mia vita, a quello di mia moglie e di mio figlio.

 

Niky, dal carcere di Siano

Emilia Romagna: i detenuti sono il doppio dei posti disponibili

 

Redattore Sociale - Dire, 16 luglio 2009

 

Scoppiano le carceri dell’Emilia Romagna. Il sovraffollamento è del 197%, dovuto a circa 5.000 presenze negli undici penitenziari della regione mentre la capienza effettiva sarebbe di 2.500. Lo ha denunciato dai microfoni della radio bolognese "Radiocittà Fujiko" Valerio Guizzardi, responsabile regionale dell’associazione "Papillon", che si occupa dei diritti dei carcerati. Quella delle carceri è un’"ordinaria emergenza umanitaria - ha detto Guizzardi - ordinaria perché questa emergenza è in corso da anni senza che nessuno dei governi che si sono avvicendati abbia fatto qualcosa".

Guizzardi va al di là delle cifre, traducendo in pratica il sovraffollamento, che provoca una "completa illegalità del circuito carcerario" in cui "vengono disattesi i diritti umani più elementari". Ai nuovi arrivati, infatti spetterebbe "il materasso per terra" perché non ci sarebbero più brande sufficienti: "Alla Dozza di Bologna le celle sono di circa 10 metri quadrati, e di solito si sta in tre o quattro. Potete immaginare la vita infernale in questa promiscuità, dove chiusi e stretti tutto il giorno ci si fa da mangiare, si lavano i panni e se uno vuole sgranchire le gambe può farlo solo se gli altri rimangono sdraiati a letto". Secondo Guizzardi, inoltre, anche tutti i corsi e le attività che "ci sarebbero" non possono essere più operativi, e soprattutto non sarebbe neanche possibile "assicurare una decenza nell’assistenza".

Il responsabile emiliano-romagnolo di Papillon boccia la proposta del ministro Alfano circa la costruzione di nuove carceri: "Alfano mente sapendo di mentire - afferma Guizzardi -. Non c’è nessuna possibilità che l’edilizia carceraria possa essere così veloce da poter contenere un trend in entrata (su scala nazionale, ndr) di mille persone al mese". Aggiunge poi che altro punto debole del progetto sono i costi, per cui non ci sarebbe budget. Infine, "ammesso e non concesso che si riesca a costruire, non ci sarebbe l’organico necessario per gestirlo".

Per Guizzardi, un’unica strada è percorribile per migliorare la situazione attuale: "Per risolvere almeno parzialmente la questione del sovraffollamento servono immediatamente un indulto e un’amnistia di tre anni e altrettanto immediatamente una riforma della giustizia che preveda l’abolizione di tre leggi che generano carcerazione non necessaria: la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e l’ex Cirielli per quel che riguarda la recidiva".

Sicilia: i medici nei penitenziari; "il carcere è la nostra Africa"

di Angelo Torrisi

 

La Sicilia, 16 luglio 2009

 

Il carcere è la nostra Africa. È il nostro "Terzo mondo". Soprattutto in Sicilia dove esiste il più alto numero di luoghi di pena. È la terra dove alcuni diritti fondamentali dell’uomo rimangono principi astratti. Primo tra tutti il diritto alla salute.

E una tale carenza risulta ancor più grave allorché si consideri che i detenuti aumentano e con loro le malattie: quelle mentali, l’Aids, la tbc, le tossicodipendenze, le epatiti contagiosissime, con inquietante riscontro di suicidi. Le ultime cifre ci dicono che il 62% dei detenuti ha una patologia bisognevole di un intervento medico. E nella maggior parte dei casi tale categoria di ammalati è particolarmente difficile da gestire e da curare in tutta la sua globalità e con mezzi adeguati. E non sempre l’impegno dei medici e della dirigenza degli istituti penitenziari riesce a sopperire alle carenze.

Da anni una tale drammatica realtà viene denunziata senza riscontri significativi sicché adesso è emergenza nella nostra Isola dove, per di più, non viene recepita dalla Regione la riforma che risale al 1° aprile del 2008 e che trasferisce le competenze per l’assistenza sanitaria ai detenuti dal ministero della Giustizia - che la ha da sempre gestita - al ministero della Salute.

A fronte appunto di tale vuoto legislativo e normativo, l’emergenza ha raggiunto il suo culmine creando disagio, confusione e perplessità tra gli operatori sanitari anche per la conseguente incertezza delle risorse finanziarie, mentre vanno emergendo le conseguenze gravissime di talune negative innovazioni quali, a esempio, quella scomparsa di figure importanti dell’assistenza sanitaria quale quella dello psicologo.

Una tale scottante tematica ("La salute detenuta: stato dell’arte della riforma nella sanità penitenziaria") è stata materia di ampia discussione in un convegno che, organizzato dall’Assimefac, si è svolto a San Pietro Clarenza, nella Scuola di formazione del ministero di Giustizia. Dopo i saluti ai numerosi intervenuti della direttrice Milena Mormina, del presidente nazionale dell’Assimefac Venera Sambataro e del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Orazio Faramo, il dott. Maurizio Mentesana, dirigente sanitario del carcere di Bicocca, ha tratteggiato la storia della sanità penitenziaria cui ha fatto seguito la relazione del presidente della Federazione nazionale Ipasvi Annalisa Silvestro che ha messo in risalto l’importanza della figura dell’infermiere professionale nell’assistenza al paziente detenuto.

Da parte sua il consigliere Sebastiano Ardita, direttore generale del Dap, ha sottolineato che malgrado l’aumento esponenziale del numero dei detenuti in quest’ultimi anni, complicato dall’elevato turn-over, e la contemporanea riduzione delle risorse disponibili, il suo ufficio ha cercato con progetti innovativi di far fronte alle varie emergenze di carattere sanitario garantendo in tutto il territorio nazionale la salute delle persone ristrette. Di alto interesse, inoltre, sia la tavola rotonda che ha posto a confronto diverse esperienze, quali quelle di Antonino Calogero, direttore Opg Castiglione delle Stiviere, e quella di Nunziante Rosania, direttore Opg Barcellona Pozzo di Gotto, come anche la relazione sulla legge di riforma da parte del prof. Eugenio Aguglia, che ha auspicato una futura sinergica collaborazione tra le Società scientifiche e il mondo accademico su così importanti tematiche.

Sulla cura e il trattamento delle tossicodipendenze, sulla grave situazione delle comunità terapeutiche a causa dei mancati pagamenti delle rette da parte del ministero della Giustizia, sull’inquietante aumento nelle carceri delle malattie infettive e sulle tremende conseguenze della "dimenticanza da parte del legislatore della figura dello psicologo nelle carceri dove si susseguono drammaticamente suicidi e atti di auto aggressività, hanno parlato nell’ordine Sandro Libianchi, presidente del coordinamento nazionale degli operatori per la Salute nelle carceri italiane, Gioacchino Palumbo presidente Associazione Terra Promessa, Giulio Starnini del Simspe e il dott. Salvo Coco. Tutti gli intervenuti hanno convenuto sull’opportunità di un impegno comune per costruire un nuovo modello di medicina penitenziaria.

Lombardia: gli assistenti sociali degli Uepe, in stato agitazione

 

Comunicato Fp-Cgil, Cisl-Fp, Rdb, 16 luglio 2009

 

Stato di agitazione del personale penitenziario e de personale civile afferente al Comparto Ministeri

Procedure Amministrative di Conciliazione.

Le scriventi Segreterie Regionali, considerato il perdurare dello stato di grave deficit degli organici del personale degli Uffici Esecuzione Penale Esterna, nonché del personale educativo ed amministrativo, ad oggi presente sul territorio lombardo;

preso atto che le soluzioni sino ad oggi prospettate dall’Amministrazione Penitenziaria (con la sola immissione in ruolo di 69 unità di personale educativo, in tutta Italia, di cui alcune unità in Lombardia) si sono rilevate insufficienti alle necessità del sistema penitenziario, a fronte di 8592 detenuti "in vinculis" e 3000 soggetti sul territorio sottoposti a misure alternative alla detenzione, misure di sicurezza e sanzioni sostitutive;

denunciata a più riprese, la carenza di risorse finanziarie destinata agli spostamenti degli operatori sul territorio, con rimborsi dopo svariati mesi delle somme anticipate per le spese di viaggio e considerata la mancanza di assegnazione di fondi per l’approvvigionamento di cancelleria e beni di consumo in genere, strumenti imprescindibili per garantire un servizio efficace ed efficiente a tutta la collettività, in termini di prevenzione del crimine e della recidiva,

Chiedono l’attivazione delle procedure di conciliazione previste dall’art. 2, comma secondo della legge 146/90, così come modificato dalla legge 83/2000, relativamente al comparto Ministeri Penitenziario. Questa comunicazione viene inviata per conoscenza anche alla Magistratura di sorveglianza per le ovvie ricadute che l’eventuale stato di agitazione conseguente avrà sulla loro attività.

Genova: arriverà il carcere galleggiante? Ionta prende tempo

di Stefania Antonetti

 

Il Giornale, 16 luglio 2009

 

"Abbiamo bisogno di risposte, il prima possibile", lancia l’allarme il presidente della Regione Claudio Burlando che a margine dell’incontro sul lavoro penitenziario, organizzato ieri dalla Camera di Commercio di Genova, chiede di capirne di più. E le risposte sono arrivate immediatamente anche dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta: "L’area urbana della città di Genova merita un carcere all’altezza dei tempi. Bisognerà trovare una soluzione, che sia, la più ragionevole possibile. Parliamo, o di una struttura stabile, che passa naturalmente per il reperimento di un’area che sia logisticamente funzionale rispetto alle esigenze della detenzione, o anche una struttura galleggiante. Certamente non stiamo parlando di navi in disuso, o cose di questo genere. Vedremo nei prossimi giorni".

Nei "prossimi giorni", a conferma che si tratta di un discorso già avanzato e che un progetto operativo è già stato fatto, escludendo l’utilizzo di navi in disuso. "La situazione ligure è purtroppo comune a tante altre realtà nazionali - aggiunge Ionta - . La legge mi ha affidato compiti da commissario per l’edilizia e posso garantire che i miei poteri mi consentono di avere tempi più brevi rispetto al passato".

Sulla questione poi dello stadio, che vede le istituzioni - con la Regione in testa - appoggiare ufficialmente la richiesta di spostare le carceri di Marassi, liberando l’area e rendendo più fruibile le esigenze del Luigi Ferraris, lo stesso Burlando è stato cauto e molto diplomatico. "Penso che la questione dipenda dalla risposta dell’edilizia carceraria. A Genova questa vicenda ne incrocia un’altra, quella dello stadio appunto. Resta però da chiarire che la scelta ricadrà sul Comune in accordo con le società sportive. Dunque, il problema del carcere, va affrontato a prescindere dallo stadio, vista la drammatica situazione in cui versa", ha concluso il presidente Burlando.

Durante il convegno sono state inoltre affrontate tematiche diverse, ma pur sempre legate al mondo del carcere. L’incontro - moderato dal Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria di Genova Giovanni Salamone -, ha avuto l’obiettivo infatti, di sensibilizzare il mondo economico locale sul lavoro penitenziario, inteso "come opportunità", illustrandone vantaggi e opportunità. Sono state fornite informazioni sulle attività lavorative all’interno degli istituti penitenziari, ed esposti i benefici fiscali e gli sgravi contributivi. Soddisfazione è stata poi espressa da Alessandro Repetto, presidente della Provincia che ha detto: "Un lavoro molto silenzioso, ma efficace. Perché il detenuto deve avere possibilità concrete di reinserimento. Qui a Genova, c’è molta sensibilità da parte delle associazioni di volontariato, e un po’ meno a carattere sociale, dove la diffidenza predomina".

Perugia: Cgil; incredulità per apertura nuova Sezione a luglio

 

Agi, 16 luglio 2009

 

"La notizia dell’apertura della nuova sezione detentiva nel carcere di Capanne nel mese di luglio e nel bel mezzo del piano ferie del personale della Polizia penitenziaria, getta nello sconforto e nell’incredulità tutti i lavoratori del settore che già stanno fronteggiando una situazione d’emergenza al limite del collasso". È quanto affermano, in una nota, Edoardo Cardinali e Ivano Fumanti, rispettivamente coordinatore polizia penitenziaria e segretario generale Fp-Cgil Perugia.

"La già grave carenza di personale, continuamente denunciata da questa Organizzazione Sindacale - prosegue la nota -, verrebbe incrementato di sole 35 unità dal mese di ottobre, che risulterebbe insufficiente a sanare la situazione attuale, figuriamoci pensare alla gestione di un padiglione con una capienza di oltre 200 detenuti con tutte le problematiche che ciò comporta.

La Funzione Pubblica Cgil è fortemente preoccupata della situazione che verrà inevitabilmente a crearsi fin dai primi momenti dall’apertura del nuovo reparto, soprattutto per i vertiginosi aumentati carichi di lavoro a discapito del rispetto dei più elementari diritti di chi lavora, come quello di godere del riposo settimanale e delle ferie e di vedersi pagate le ore di lavoro straordinario, visto che già sono terminati i fondi per l’anno corrente".

"L’assenza di politiche organiche di questo Governo sulla detenzione genera mostruosità - si legge ancora nella nota - come l’aver deciso di aprire un padiglione detentivo in piena estate, lasciando per l’ennesima volta gli operatori penitenziari soli a se stessi, come se la sicurezza negli Istituti penitenziari riguardasse solo la Polizia penitenziaria e non tutte le istituzioni Repubblicane del nostro Paese alle quali facciamo appello per scongiurare o almeno per ritardare l’apertura del reparto di Capanne fino all’assegnazione definitiva di ulteriore personale del comparto sicurezza e di quello amministrativo". La Funzione Pubblica Cgil annuncia quindi lo stato di agitazione di tutto il personale aderente alla propria organizzazione e spiega che, contestualmente, lavorerà per recuperare un rapporto unitario per eventuali ulteriori momenti di mobilitazione che inevitabilmente si dovranno mettere in atto nei prossimi giorni".

Savona: due detenuti al lavoro, per pulire le spiagge cittadine

 

Secolo XIX, 16 luglio 2009

 

Dopo la felice esperienza del 2006 e del 2008, si realizza anche quest’anno il progetto "Detenuti al lavoro", l’iniziativa promossa dall’Assessorato ai Quartieri del Comune di Savona in collaborazione con la Casa Circondariale di Savona ed Ata e con il contributo della Fondazione Carisa "De Mari".

Il progetto è mirato a favorire il percorso di rieducazione, integrazione e recupero dei soggetti in esecuzione di pena attraverso lo svolgimento di attività di pubblica utilità volte a fornire supporto nel processo di conservazione e valorizzazione del territorio.

"È la terza volta che mi adopero per dare ai detenuti la possibilità di lavorare fuori dalla Casa Circondariale cittadina - dichiara l’assessore ai quartieri Francesco Lirosi - La prima fu nella Primavera del 2006 e la seconda nell’Estate del 2008. L’iniziativa presenta molte ricadute positive: per l’amministrazione comunale, che dimostra ancora una volta la propria volontà di lavorare al servizio di tutti i cittadini, anche quelli più deboli; per l’amministrazione carceraria, che opera con vero spirito di recupero dei detenuti; per la Fondazione Carisa, che utilizza i propri fondi per uno scopo così nobile; per la città di Savona, oggi sempre più votata al turismo, che ha la possibilità di avvalersi di ulteriori operatori impegnati nella pulizia delle spiagge; infine, cosa di gran lunga più importante, per i detenuti, che godranno di un parziale reinserimento, retribuito e garantito da copertura assicurativa, nella società civile, a contatto con altri cittadini. Avevo già incontrato in carcere gli operatori interessati, per raccomandare ogni possibile correttezza comportamentale e, posso dire, la risposta è sempre stata positiva. In sostanza, credo che questa sia l’esperienza più intensa che abbia vissuto come pubblico amministratore".

Dichiara il direttore del carcere Sant´Agostino di Savona, Nicolò Mangraviti: "Apprezzo molto l’interesse espresso dal Comune di Savona per le tematiche inerenti il reinserimento della popolazione detenuta nel tessuto sociale. Il carcere deve essere aperto al territorio, specialmente tenuto conto degli esigui spazi all’interno della struttura carceraria dedicati all’attività di recupero. Questo progetto è importante anche perché aiuta i cittadini a vedere i detenuti come soggetti che possono svolgere servizi di pubblica utilità sociale".

Il progetto è reso possibile grazie al contributo finanziario della Fondazione Carisa e dell’Assessorato comunale ai Quartieri, che forniscono ai detenuti una retribuzione e la necessaria copertura assicurativa. Anche quest’anno, i detenuti, nel numero di 2, raggiungono in totale autonomia i luoghi prescelti per svolgere, nelle ore mattutine, dal martedì al sabato, la pulizia delle spiagge cittadine: il litorale interessato è quello dal Piazzale Eroe dei Due Mondi alla scuola XXV Aprile. L’attività ha preso il via lo scorso 15 Luglio e proseguirà fino al 19 Settembre (4 giorni in più rispetto al 2008 al fine di pulire perfettamente la spiaggia in occasione dell’esibizione del 20/9 delle Frecce Tricolori).

L’attività dei detenuti è svolta in affiancamento degli operatori della Coop La Bitta, che fornisce loro vestiario e preparazione specifica per lo svolgimento dell’attività. Molto importante anche quest’anno il ruolo di Ata, che mette a disposizione dei detenuti gli strumenti di lavoro ed un tutor durante le ore di lavoro, che comunque si svolge sotto la completa responsabilità dell’autorità carceraria.

Alghero: carcere San Giovanni, troppi detenuti e pochi agenti

di Gianni Olandi

 

La Nuova Sardegna, 16 luglio 2009

 

Una nuova croce ha trovato posto dietro le possenti mura del San Giovanni di via Vittorio Emanuele. Non sarà certamente l’ultima. Il carcere ha vissuto negli ultimi decenni momenti altalenanti: dopo la chiusura dell’Asinara il San Giovanni è diventato punto di riferimento per il sistema carcerario isolano. All’epoca si partì quasi da zero, un’ampia ristrutturazione, spazi nuovi e moderni fruibili dai detenuti, un’area educativa di prim’ordine con una serie di attività di preparazione professionale, alcune durano ancora, da prendere a esempio.

Non è un caso che l’impianto veniva definito un carcere modello. Ma con i problemi di sempre del sistema carcerario e primo fra tutti quello del personale, del numero di agenti insufficienti a fare fronte ai propri compiti. Una carenza che nel corso degli anni ha costretto a cancellare molte delle attività dell’area educativa e professionale. Sono riusciti a sopravvivere soltanto i corsi dell’Istituto alberghiero. Il personale della Polizia penitenziaria è infatti indispensabile anche per questo tipo di attività di recupero e formazione destinate ai detenuti che una volta pagato il loro debito con la giustizia debbono affrontare la società esterna.

Pare che Eugenio La Ferla dovesse godere di un servizio di sorveglianza speciale e l’inchiesta interna del Carcere, e quella della Procura, dovranno ora accertare che cosa è successo effettivamente. La sorveglianza speciale la si può garantire soprattutto se c’è il personale per eseguirla. Ma al San Giovanni da tempo di parla di organici ridotti all’osso, di ferie e riposi rinviati, di un altissimo tasso di assenze per malattia, soprattutto per diagnosi da esaurimento nervoso. Negli anni scorsi un sindacato degli agenti della Polizia Penitenziaria, il Sappe, inscenò una clamorosa manifestazione davanti alle mura del San Giovanni.

E in quella occasione vennero urlati i problemi di sempre: organici ridotti all’osso, personale andato in pensione non sostituito, tensioni interne determinate anche dalla scarsità di uomini per fare fronte ai compiti di istituto. Poi i problemi della tossicodipendenza, della mancanza di strutture adeguate interne per fare fronte al fenomeno, l’arrivo di decine di extracomunitari con altri problemi, di lingua, religiosi, usi e costumi. Una conflittualità latente, sempre in agguato, a fronte della quale vengono destinate sempre meno risorse umane.

Quell’isola felice ha cominciato a denunciare battute di arresto, perfino i più convinti sull’utilità del nuovo corso hanno registrato momenti di pausa, di riflessione. Al San Giovanni forse portò male ricevere tante lodi, gli stessi detenuti di altre carceri chiedevano di essere trasferiti ad Alghero. Forse la gestione carceraria non ha bisogno di elogi, si alimenta evidentemente soltanto nel dissenso, nelle critiche, nei disagi e a volte anche nelle tragedie.

Come quella di Eugenio La Perla che indipendentemente dai proprio conti con la giustizia era sempre un essere umano, in una condizione fisica precaria e instabile, era un tossico, e quindi aveva bisogno di cure e sorveglianza adeguate. Ha avuto tempo per impiccarsi, ha liquidato i propri conti con la giustizia nella maniera più tragica, ma anche la più rapida, ma non è accettabile per una istituzione dello Stato che una persona in quelle condizioni possa appendersi alle sbarre della propria cella senza che nessuno sia in grado di impedirglielo.

Cagliari: uccise compagno cella durante lite, condanna a 6 anni

 

La Nuova Sardegna, 16 luglio 2009

 

Sei anni di carcere sono stati inflitti al detenuto algerino Nassibi Adbeljelil accusato dell’omicidio preterintenzionale di un compagno di cella a Buoncammino, Antonello Desogus, morto in carcere il 28 maggio 2008 durante una lite cominciata per un nonnulla e poi andata avanti a suon di spintoni. Il pubblico ministero Giorgio Altieri aveva chiesto quattro anni e sei mesi di reclusione, il giudice preliminare Ermengarda Ferrarese lo ha condannato a sei a conclusione del rito abbreviato (col quale si può avere una riduzione di pena fino a un terzo del massimo). Usciti di scena invece altri due detenuti accusati all’inizio di aver partecipato alla rissa in cui era morto il compagno. Le indagini hanno chiarito che non si era trattato di rissa ma di un litigio tra Nassibi e Antonello Desogus.

Torino: "Laurearsi in carcere", un progetto di Servizio Civile

 

Comunicato stampa, 16 luglio 2009

 

Scade alle ore 14.00 di lunedì 27 luglio prossimo il Bando di Servizio Civile Nazionale Volontario 2009 per 4 volontari/volontarie per il progetto dell’Università degli Studi di Torino "Laurearsi in carcere: politiche universitarie per il diritto allo studio". Possono presentare domanda le ragazze e i ragazzi di età compresa tra i 18 e i 28 anni, in possesso del diploma di scuola secondaria superiore, con preferenza/precedenza per studenti universitari/laureati. L’Università degli Studi di Torino già dal 1998 ha promosso la creazione di un Polo Universitario presso la "Casa Circondariale Lorusso e Cutugno" di Torino, al fine di garantire ai detenuti (in possesso dei requisiti previsti) il diritto allo studio universitario.

L’Ateneo, tra i primi enti ad accogliere nelle proprie strutture giovani che partecipano ai progetti di Servizio Civile, propone un progetto destinato allo sviluppo e al consolidamento delle relazioni con il mondo dell’associazionismo e del volontariato penitenziario e all’incremento dei rapporti interni ed esterni al carcere per favorire il reinserimento nella vita civile dei detenuti.

I volontari collaboreranno al supporto organizzativo delle attività didattiche e amministrative del Polo Universitario, garantendo sia un’attività di tutoraggio alla didattica nei confronti degli studenti detenuti sia un approfondimento mirato di linee e progetti di ricerca riguardanti la tematica carceraria. La durata del servizio è di 12 mesi, per un impegno di 30 ore settimanali. È previsto, oltre al vitto, un rimborso mensile di 433,80 Euro.

Libro: "Cesare Lombroso cento anni dopo"; la raccolta di saggi

di Stefano Biguzzi

 

L’Arena, 16 luglio 2009

 

Tra le solari ricorrenze di questo 2009, l’anniversario dei cento anni dalla morte di Cesare Lombroso appare avvolto da una incomprensibile quanto ingiustificabile cortina di silenzio e dimenticanza. Insieme alla mostra organizzata dall’Università di Torino, dove lo scienziato insegnò per un trentennio, un importante contributo viene dall’interessantissima e poliedrica raccolta di saggi curata da Silvano Montaldo e Paolo Tappero ("Cesare Lombroso cento anni dopo", Utet, pp. 410, curo 22).

Padre di quell’antropologia criminale dalla quale deriva la moderna criminologia, Lombroso nacque a Verona i1 6 novembre del 1835. Iscrittosi alla facoltà di medicina su suggerimento di Paolo Marzolo, l’antropologo e linguista padovano che tanto peso avrebbe avuto sulla sua formazione, si laureò a Pavia nel 1858 e l’anno seguente si arruolò volontario nell’esercito piemontese congedandosi nel 1866. Dopo essersi occupato di cretinismo, pellagra, antropometria e aver indirizzato i propri studi in ambito psicoanalitico e medico-legale, con la pubblicazione nel 1871 de "L’uomo bianco e l’uomo di colore" Lombroso pose le fondamenta di una teoria che ipotizzava un nesso tra il criminale, il selvaggio e l’uomo preistorico.

Un decisivo impulso in tal senso venne dall’autopsia del brigante Vilella e dalla scoperta nel suo cranio di una fossetta occipitale mediana che faceva pensare a un terzo lobo e dunque a uno stadio superato dell’evoluzione. II pazzo e il delinquente divenivano così il prodotto di una regressione atavica oggettivamente identificabile in ben determinati tratti fisico-somatici.

La summa di questo approccio atavistico è rappresentata da "L’uomo delinquente", opera pubblicata nel 1871 che tuttavia nelle successive edizioni, sempre più ampie e approfondite, vide l’analisi lombrosiana del crimine attribuire un influsso sempre più rilevante al contesto sociale ed alla psiche dell’individuo. Insieme alla criminologia, Lombroso approfondì anche il legame tra genio e follia spingendosi nell’ultima stagione della sua esistenza ai confini dello spiritismo e ipotizzando, in linea con la visione monista, che l’anima fosse un fluido in grado di manifestarsi in determinate, particolari condizioni.

Il volume della Utet (nel quale spicca, tra gli altri, un bellissimo contributo dello storico Umberto Levra) ricostruisce la complessa, multiforme e per certi versi contraddittoria figura dello studioso, riconoscendogli il merito di essere stato il primo a sottrarre il crimine ed il criminale alla dimensione religiosa del peccato per collocarli sotto la lente della scienza e mostrando nel contempo come la sua visione, inserita a pieno titolo nella corrente del pensiero positivista, riflettesse in tutto e per tutto i limiti di una civiltà all’apogeo che, inebriata dal proprio splendente progresso e ritenendosi perfetta, rifiutava di cercare in sé le cause del crimine preferendo di gran lunga guardare al delinquente come ad un diverso o un deviato.

Il dato che però emerge con maggior vigore è il destino paradossale toccato a Lombroso come del resto anche al positivismo, idolatria della scienza e del razionalismo che non seppe preservare l’Europa dai mostri sanguinari dei conflitti e dei totalitarismi novecenteschi. È il paradosso di un progressista illuminato, affascinato dagli ideali del nascente socialismo, che con le sue teorie offrì ai settori più biecamente reazionari della società gli strumenti ideologici per attribuire un genetico sigillo di sottosviluppo, delinquenza e diversità al povero, al diseredato, all’ ignorante non meno che al politicamente sospetto, al sovversivo, all’anarchico.

È il paradosso amaramente beffardo del discendente da una famiglia israelita che con i suoi studi sulla fisiognomica e con il suo determinismo biologico di fatto regalò al nazifascismo uno strumento mostruo-samente efficace per portare a compimento la soluzione finale del "problema" ebraico dopo averne testato l’efficacia su oppositori politici, malati di mente e altre svariate categorie di "diversi".

Ma è anche il paradosso di uno tra gli autori più letti e tradotti sul volgere dell’Ottocento e della sua repentina sparizione dalla scena culturale, spazzato via dalla reazione antipositivista; una reazione che a destra prese corpo nell’egemonia neo-idealista degli hegeliani Croce e Gentile così come nell’ostracismo cattolico verso l’impostazione materialista di teorie formulate da uno studioso laico, socialista, ebreo e massone, mentre a sinistra si materializzò nell’accusa di aver rafforzato il conservatorismo e deresponsabilizzato la società riguardo al crimine, riducendolo a prodotto di ataviche devianze.

Nonostante tutto, del pensiero lombrosiano sopravvive oggi molto più di quanto si potrebbe immaginare. I saggi raccolti da Montaldo e Tappero lo evidenziano con grande efficacia rilevando, attraverso un’ampia disamina del panorama internazionale, l’influsso esercitato dallo scienziato veronese sullo sviluppo delle dot-trine criminologiche e il fatto che l’idea di considerare lo studio del cervello nell’analisi di un soggetto criminale mantiene degli innegabili elementi di validità; un’importanza, quella delle neuroscienze nello studio dei delitti, recentemente confermata da una ricerca statunitense che avrebbe identificato un gene responsabile della predisposizione alla delinquenza.

Curiosamente (l’ennesimo paradosso?), quel che sopravvive di Lombroso nel sentire comune è l’aspetto più debole e scientificamente meno fondato delle sue teorie, ovvero la possibilità di intuire dai tratti somatici la bontà o la cattiveria, l’intelligenza o l’ottusità, l’onestà o la vocazione al crimine di un individuo. È altrettanto vero tuttavia che a vedere in giro certe facce, di politicanti e faccendieri in particolare, un pensiero assai difficile da scacciare si affaccia birichino alle nostre menti: e se il buon vecchio Cesare ci avesse visto giusto?

Immigrazione: Ue; Italia deve rispettare norme internazionali

di Ilaria Sesana

 

Avvenire, 16 luglio 2009

 

Il principio del non respingimento è scritto nel diritto internazionale. Non si possono respingere persone in Paesi dove rischiano di essere torturate o maltrattate". Lo ha ribadito il portavoce del commissario europeo alla Giustizia, Jacques Barrot, rispondendo ieri a Bruxelles a una domanda sull’argomento, all’indomani delle pesanti denunce, a carico dell’Italia, dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

La Commissione, ha precisato Michele Cercone, "sta chiedendo informazioni alle autorità italiane per vedere esattamente quali operazioni sono state attuate e come". Per quanto riguarda invece l’intero pacchetto sicurezza dell’Italia, il portavoce ha ribadito che i servizi del commissario Jacques Barrot "sono in contatto con le autorità italiane per verificarne la compatibilità con la legislazione comunitaria". Nel caso specifico del reato di immigrazione clandestina, ha aggiunto il portavoce, "è chiaro che la Commissione non ha competenze dirette".

"La scelta di introdurre o meno il crimine di immigrazione clandestina spetta agli Stati membri, fa parte della sfera del diritto penale". Pesanti le accuse lanciate martedì dall’Acnur: non solo la nave militare "Orione" avrebbe respinto in Libia 82 potenziali rifugiati politici senza accertare se questi avessero diritto di chiedere protezione umanitaria. Ma i migranti sarebbero stati oggetto di violenza al momento del trasbordo e sarebbero stati lasciati senza cibo per tutta la durata delle operazioni.

"Aver lasciato per ben 12 ore senza cibo adulti e minori, che già erano stati messi a dura prova da quattro giorni di navigazione, non può essere accettato da un paese civile". È l’accusa lanciata dalla sezione italiana di Save the children all’indomani della nota dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati in cui si accusava il governo italiano di maltrattamenti ai danni di potenziali rifugiati politici.

L’organizzazione inoltre ha espresso "grave apprensione" e ha presentato diverse richieste al governo italiano: interrompere i respingimenti verso la Libia, aprire un’inchiesta sui fatti denunciati dall’Acnur e documentare se esiste in Libia un sistema di protezione dei minori migranti. Promuovere, infine, un sistema di monitoraggio indipendente "sulla conformità delle condizioni e delle procedure di accoglienza dei migranti e in particolare dei minori" nel Paese del colonnello Gheddafi.

Preoccupazione per il destino dei sei minorenni respinti dai militari italiani (e che attualmente si trovano in un centro di detenzione libico) espressa anche dall’associazione Terres des hommes. "L’episodio riportato dall’Acnur - spiega il presidente Raffaele Salinari - è la prova che si stia verificando quello che temevamo. Nella prassi dei respingimenti non viene fatto nessun accertamento delle condizioni dei migranti, ai quali non viene offerta assistenza, nemmeno se ci sono minori".

Immigrazione: per false assunzioni di colf; pene fino a 6 anni

di Marco Ludovico

 

Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2009

 

Si chiama "Dichiarazione di attività di assistenza e di sostegno alle famiglie" ed è la definizione ufficiale della sanatoria per colf e badanti. I datori di lavoro italiani o stranieri lungo-soggiornanti (con il permesso di soggiorno da oltre 5 anni) potranno regolarizzare per ogni famiglia fino a due badanti e una colf: italiane, comunitarie o extracomunitarie. Costo del condono, un contributo forfetario di 500 euro per ogni lavoratore.

I ministri dell’Interno, Roberto Maroni, e del Welfare, Maurizio Sacconi, hanno formalizzato nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera l’emendamento al Ddl anti-crisi. La procedura può essere fatta se alla data del 30 giugno di quest’anno (non oltre) il datore di lavoro aveva alle proprie dipendenze, da almeno tre mesi, colf o badanti: in queste condizioni può fare dall’1 al 30 settembre 2009 una "dichiarazione di emersione" - e pagare i 500 euro - per regolarizzare il rapporto di lavoro con una domanda all’Inps, se si tratta di lavoratore italiano o europeo, o allo sportello dell’immigrazione per un extracomunitario. La stima ufficiosa è che aderiranno in 300mila, con un conseguente introito per l’Erario di 150 milioni.

Previsti limiti minimi di reddito per poter fare le assunzioni: 20mila euro, in caso di famiglia con una sola persona con uno stipendio, e 25 mila euro per un nucleo familiare con più persone che lavorano. L’asl o il medico di famiglia dovranno attestare i limiti di autosufficienza che giustificano l’impiego della badante. Sono esclusi gli immigrati che hanno avuto condanne penali o un decreto di espulsione per motivi di pubblica sicurezza. Il testo, poi, stabilisce pene fino a sei anni di carcere per chi presenta dichiarazioni false. Senza contare che il giudice, in questo caso, potrebbe ipotizzare per il datore di lavoro anche il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, con pene fino a quattro anni.

Nel testo, poi, si precisa che dalla data di entrata in vigore della legge e fino alla conclusione del procedimento sono sospesi i procedimenti penali e amministrativi nei confronti del datore di lavoro e del lavoratore, che riguardano la violazione delle norme sull’ingresso e soggiorno (compreso, dunque, il reato di clandestinità) e sull’impiego di lavoratori in nero.

La domanda di emersione, poi, comporta la rinuncia a un’eventuale richiesta di messa in regola con flussi 2007 e 2008: questo significa, tra l’altro, che il lavoratore non dovrà tornare nel paese d’origine per ottenere il visto. Intanto ieri il Governo ha deciso di impugnare due leggi regionali a sostegno degli stranieri varate da Marche e Toscana. Per il ministro Fitto sarebbero animate fra l’altro da "uno spirito di polemica" nei confronti della legge varata dal Parlamento.

Droghe: tossicodipendenti in carcere cifre nere di Giovanardi

di Alessio Scandurra (Fondazione Michelucci)

 

Il Manifesto, 16 luglio 2009

 

Nel presentare la Relazione 2009 al Parlamento sulle tossicodipendenze (sui dati del 2008), il sottosegretario Carlo Giovanardi ha aperto il suo intervento sul tema dei tossicodipendenti in prigione, segnalando un’ulteriore crescita di questi tra quanti entrano in carcere (+ 6% rispetto al 2007); insieme all’aumento, fra la popolazione incarcerata, di chi ha violato l’art. 73 della legge antidroga, la norma che punisce la detenzione a fini di spaccio (+3,7% rispetto al 2007).

Dopo di che, senza muovere alcuna critica di merito al Libro Bianco sugli effetti della Fini-Giovanardi preparato da Antigone, Forum Droghe e Società della Ragione per la Conferenza nazionale sulle droghe di Trieste, ha affermato incomprensibilmente che quel documento darebbe numeri a casaccio. In realtà il Libro Bianco è basato sui numeri forniti proprio da Giovanardi nella precedente relazione. Il nuovo rapporto ci dà l’opportunità di mettere a confronto il contenuto del Libro Bianco con dati aggiornati al 2008.

Quel documento segnalava anzitutto come ormai da tempo il numero di tossicodipendenti che transitano annualmente dalle carceri (24.371 nel 2007) sia così alto da superare la cifra complessiva di coloro che sono presi in carico dalle comunità terapeutiche (16.433 nel 2007). Nella relazione del 2009 scopriamo che il numero dei tossicodipendenti entrati in carcere è ancora notevolmente cresciuto: addirittura 30.528 nel 2008.

Dalla precedente relazione emergeva inoltre come fossero in leggero aumento le condanne per l’articolo 73, mentre erano in crescita impressionante i procedimenti pendenti per lo stesso reato (+31,5% dalla metà del 2006 alla fine del 2007, +93,6% per i minorenni). La relazione attuale presenta il dato delle condanne in maniera diversa, non comparabile con quello dell’anno scorso, ma conferma invece la secca crescita dei procedimenti pendenti: dal primo semestre 2005 al secondo semestre 2008 segnala un aumento del 25,2%.

Quanto alla carcerazione dei tossicodipendenti, il Libro Bianco indicava alla fine del 2007 un aumento della percentuale di persone dipendenti tra quanti entrano in carcere (+8,4% rispetto a prima dell’indulto). Oggi Giovanardi conferma questo dato, e segnala un’ulteriore importante crescita nel 2008 (+6%, +8% per i minorenni). Quanto alla percentuale di tossicodipendenti tra i detenuti presenti, si registra invece un lieve calo (-0,5%) che conferma un dato analogo a quello registrato prima dell’indulto. Resta da spiegare come ciò sia possibile: cresce in maniera impressionante il numero dei tossicodipendenti che entrano in carcere, ma non quello di chi ci resta (ma non sono certo pochi: il 27,1% dei detenuti).

E questo purtroppo non in virtù della concessione di misure alternative. Se già il Libro Bianco mostrava come il sistema delle misure alternative fosse praticamente inceppato, la nuova relazione ci dice che il numero dei tossicodipendenti in trattamento alternativo è addirittura in calo rispetto all’anno precedente. Dunque i tossicodipendenti non escono in misura alternativa. Ma allora, che fine fanno?

La realtà è che i tossicodipendenti sono ampiamente rappresentati in quella massa di disperati che passa in carcere solo pochi mesi, attendendo il proprio processo in custodia cautelare (il 54% dei detenuti in Italia è in attesa di una condanna definitiva, la percentuale più alta d’Europa); per poi subire condanne spesso di modesta entità, conseguenza dei piccoli reati commessi, ed uscire poco dopo, in attesa della successiva carcerazione.

In questi casi il ricorso al carcere non ha nessun senso, se non quello di sprofondare le persone in un circolo vizioso fatto di crescente esclusione da cui sembra impossibile uscire, come dimostrano i tassi di recidiva dei tossicodipendenti che scontano la propria pena in carcere. È un costo inutile per la collettività e un passo ulteriore verso l’esclusione di queste persone. Eppure è proprio questo il fenomeno che la Fini Giovanardi ha favorito maggiormente, aprendo le porte del carcere ad un numero sempre crescente di tossicodipendenti. Che non sia arrivata l’ora di prenderne atto e cambiare direzione?

 

 

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