Rassegna stampa 19 febbraio

 

Giustizia: questione immigrati, "buco nero" della democrazia

di Giusto Catania

 

Liberazione, 19 febbraio 2009

 

Lampedusa è una falsa emergenza. Anzi, è una emergenza costruita per amplificare il clima di ostilità nei confronti degli stranieri, per attuare le politiche xenofobe e razziste previste dal pacchetto sicurezza, per agitare gli istinti etnocentrici della base elettorale della Lega Nord, per fomentare un clima da caccia alle streghe in tutto il Paese.

Lampedusa è l’altra faccia della medaglia delle ronde padane, dei decreti anti-rumeni, del costante clima di criminalizzazione dei migranti che sta caratterizzando la politica italiana.

Quello che è avvenuto ieri dentro il centro di identificazione ed espulsione di contrada Imbriacola era ampiamente prevedibile e i tentativi di suicidio dei giorni scorsi erano un campanello d’allarme che, colpevolmente, i responsabili della struttura hanno minimizzato, etichettandoli come sceneggiate, messe in scena di una banda di tunisini senza scrupoli che aveva voglia di attirare l’attenzione.

Abbiamo perfino detto, dopo aver visitato il centro, che ci sarebbe potuto scappare il morto. E ieri ci siamo andati vicini. La tensione dei migranti, rinchiusi nella lampedusana trappola per topi, è determinata dalla mancanza di informazioni sulle modalità e sui tempi di trattenimento, dall’assenza di assistenza legale, dal sovraffollamento, dalle condizioni di accoglienza disumane e degradanti, dalla militarizzazione della struttura.

Ieri è stata sfiorata la tragedia e il responsabile, morale e politico, di questa situazione è il ministro degli Interni, Roberto Maroni, che ha deciso, impunemente, di imprigionare migliaia di persone malgrado da un mese a Lampedusa non ci sono sbarchi. O meglio, nonostante da trenta giorni, a causa del maltempo, non vengono avvistate, a decine di miglia dalla costa, imbarcazioni cariche di migranti da portare a Lampedusa.

Trasformando il centro di prima accoglienza (Cpa) dell’isola in un centro di identificazione ed espulsione (Cie) si è reso esplicito l’obiettivo propagandistico del governo: impedire la partenza dei migranti da Lampedusa verso le campagne o le fabbriche del Continente, trasformando l’isola in un carcere a cielo aperto, in un luogo di detenzione permanente lontano dagli sguardi indiscreti dell’opinione pubblica.

Il raggiungimento di tale obiettivo è praticabile solo se Berlusconi e Maroni saranno in grado di conquistare il consenso dei lampedusani che già sentono rimbombare sonore promesse per migliorare il sistema di collegamento con l’isola, per costruire scuole e presidi sanitari, avviare corsi di formazioni professionale, elargire denaro ai pescatori, riempire di polizia e carabinieri gli alberghi anche nei mesi invernali.

Ma il governo non ha fatto i conti con l’indignazione dei cittadini lampedusani, con lo spirito democratico e l’umanità di uomini e donne che conoscono bene il significato dell’accoglienza.

Nell’immaginario collettivo Lampedusa è accostata a orde di migranti che approdano sulle spiagge, il centro di identificazione ed espulsione dell’isola è visto come un luogo di violazione sistematica dei diritti fondamentali, un buco nero della democrazia dove vengono praticate torture e sevizie.

Questa immagine sta danneggiando un’isola che vive prevalentemente di turismo e che non intende essere succube della propaganda leghista che agita lo spettro dell’invasione dei barbari e che vuole snaturare la vocazione naturale di Lampedusa.

Il governo sta agitando gli animi, ha militarizzato l’isola tanto che, negli ultimi giorni, è aumentata la tensione tra cittadini e forze dell’ordine che hanno perfino picchiato per strada un lampedusano colpevole di avere le caratteristiche somatiche di un migrante.

La partita è ancora aperta e davanti all’indignazione dei cittadini di Lampedusa, che non vogliono essere complici di barbarie, e dell’opinione pubblica, che guarda con grande preoccupazione alla violazione dei diritti umani, il governo sembra fare orecchio da mercante.

Noi dobbiamo rilanciare la nostra battaglia di civiltà per chiudere tutti i centri di detenzioni per migranti in Italia e in Europa, per ribadire il principio che non si può privare della libertà individuale persone che non hanno commesso alcun reato. Bisogna ribadire la nostra contrarietà ad una Europa fortezza che alimenta la xenofobia.

Ma nello stesso tempo dobbiamo chiedere con forza di liberare Lampedusa da questa artefatta emergenza. Bisogna immediatamente trasferire i migranti in altre strutture, avviare le pratiche per i richiedenti asilo, accogliere i minori in luoghi adeguati e verificare tutte le cause di ricongiungimento familiare.

La situazione di Lampedusa non può continuare ad essere affrontata sbraitando, in modo animalesco, contro i cosiddetti clandestini che vengono trattati come polli da batteria.

A meno che non si voglia alimentare il sentimento di ostilità contro i criminali i quali bruciano le strutture di uno Stato caritatevole che si premura ad offrire gratuitamente vitto e alloggio in attesa di ripristinare la cosiddetta legalità con dei legittimi provvedimenti di espulsione... e magari, nel frattempo, potremmo pure sperare che ci scappi il morto.

Giustizia: solo la certezza della pena può battere la criminalità

di Ermanno Marocco (Direttore de Il Sestante)

 

Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2009

 

L’arresto dei due sospetti autori delle violenze fisiche e sessuali perpetrate ai danni dei due ragazzini romani rassicura tutti almeno su un fatto: l’azione delle forze di polizia italiane si dimostra efficace, rapida e determinata. Un’azione competente e sorretta dalla piena e coraggiosa volontà delle vittime, dalla cooperazione con organi di polizia stranieri (romeni), dal sostegno unanime delle forze politiche, tutte.

Le successive notizie, quelle relative all’identità degli autori, alla loro abituale occupazione, al loro rapporto con la giustizia italiana, all’azione di contrasto dell’intero sistema giudiziario e legislativo invece ci allarmano e ci consentono però di capire dove sia il vero nodo della battaglia contro la nuova e crudelissima criminalità.

Il più giovane autore del misfatto, reo confesso, è un clandestino, senza fissa dimora, dedito a lavoretti saltuari, a furti, e secondo il decreto Prodi approvato la primavera scorsa, può essere espulso dal nostro territorio nazionale. In realtà Loyos Istocosa, cittadino comunitario romeno, era stato espulso dal prefetto di Roma ma il tribunale di Bologna, dove era stato fermato, aveva annullato il provvedimento ritenendo non validi i motivi dell’allontanamento.

Una prima considerazione: la legislazione che regola la permanenza nel nostro territorio di cittadini stranieri è frutto di decreti legislativi non coerenti tra di loro e la definizione del "reato" o della "infrazione amministrativa"è assolutamente incerta. Questo genera un disordine assoluto del quale siamo tutti vittime, in primis i tutori e i garanti della legalità, i quali operano in una situazione di confusione che elide la loro azione. Altro fattore gravissimo riguarda l’identità del cittadino straniero che oggi può dichiarare identità diverse quasi impunemente, vanificando l’azione di contrasto delle forze di polizia. Se la dichiarazione di identità falsa fosse duramente perseguita, e magari immediatamente sancita con la carcerazione, sicuramente uno degli ostacoli all’azione investigativa e giudiziaria sarebbe rimosso.

Altro punto ormai chiaro è che l’insieme delle regole che garantiscono l’inquisito, ma anche il reo confesso, hanno reso difficile la punizione certa e rapida dei reati. Il delinquente abituale, cioè la persona senza identità, senza fissa dimora, senza lavoro, dedito continuamente al crimine, sa che probabilmente sarà prima o poi catturato, ma che difficilmente verrà incarcerato, e quasi sicuramente non sconterà pienamente la sua pena. Delinquere, in Italia, è diventato conveniente per chi rischierebbe, nel proprio Paese e per reati analoghi, pene dure e assolutamente certe. Mesi fa, durante una trasmissione televisiva che metteva a confronto la giustizia italiana con quella romena, un dirigente di polizia romeno ha sintetizzato benissimo la situazione: per lo stesso reato le pene nei due Paesi sono simili, la differenza è che in Romania il condannato viene subito incarcerato e sconta sicuramente tutta la sua pena. Magari, per una rapina a mano armata con violenza sulle persone, quindici anni di punizione in galera, tutti scontati fino all’ultimo mese. Il funzionario lasciava intendere che quindi delinquere in Italia era ovviamente molto più conveniente, che delinquere nel paese d’origine. Occorre quindi riorganizzare l’apparato legislativo intorno a due principi fondamentali: semplicità e oggettività delle norme che regolano l’azione di contrasto e di prevenzione dell’azione criminale, certezza e valore punitivo della pena. E qui sicuramente non c’è assolutamente convergenza di opinioni e capacità di visione d’insieme. Mettere ordine nella nostra legislazione significa ragionare, abbandonare posizioni ideali e ideologiche consolidate, saper prendere atto della nuova realtà e umilmente riconoscere l’inadeguatezza delle norme varate negli ultimi anni da tutti i governi che si sono succeduti. Riaffermare il significato della pena carceraria come punizione e non solo come momento di rieducazione e reinserimento significa interrompere un processo culturale che ha unito idealmente tutti gli schieramenti. Abbiamo bisogno di una galera più umana, più rispettosa delle condizioni di vita e di riscatto degli incarcerati, ma che deve anche essere comunque un luogo e un tempo di punizione, di risarcimento nei confronti della società e delle vittime. Per i criminali di professione deve significare anche un consistente periodo di allontanamento dal loro ambiente abituale, dalla loro rete di complicità, dalla possibilità di delinquere nuovamente. Per mettere mano a una riforma efficace e utile occorre quindi non utilizzare il tema della sicurezza come clava elettorale nei confronti dell’avversario, ma significa elaborare, magari anche insieme, le migliori soluzioni. Le misure in discussione in questi giorni paiono, invece, ancora una volta più attente al loro valore mediatico che all’effettuale necessità di un cambiamento radicale. Più improntate alla "vendetta" che alla ricostruzione di un quadro legislativo utile. Più attente a soddisfare un’opinione pubblica esasperata e magari ad assecondare alcuni tra gli istinti più primordiali e irrazionali: la giustizia fai da te, l’azione diretta del cittadino organizzato in ronde spesso ai confini della legalità.

Sempre ieri, un’altra notizia positiva è giunta da Torino: dopo mesi di serrate indagini i carabinieri hanno sgominato una banda di spacciatori di droga. La banda è stata filmata e sono state registrate 160 cessioni di droga che inchiodano i dieci pusher arrestati e il loro capobanda. A queste indagini hanno collaborato i cittadini del quartiere, compresi molti extracomunitari, che hanno fornito utili informazioni sui movimenti degli spacciatori e dei loro "clienti". La zona infestata dal commercio illegale è stata così liberata e ora i magistrati potranno applicare la legge e impedire per molto tempo ai criminali colti in fragrante di tornare in libertà. Magari celebrando celermente il processo e non concedendo ovviamente nessuna libertà provvisoria agli spacciatori. Le modalità con cui sono state svolte le indagini, la cooperazione tra procura, forze dell’ordine, cittadini, possono suggerire ai legislatori e al governo utili indicazioni per riformare l’attuale sistema e rendere più efficace l’azione degli investigatori. Ricordando che l’indagine di Torino ha registrato una vittima: il carabiniere Carmelo Ganuzza, morto giovedì scorso sulla sua auto civetta, mentre controllava la zona dello spaccio, travolto da un’auto guidata, ad alta velocità e senza rispettare la precedenza, da un giovane sotto gli effetti della droga. L’autore del crimine è stato denunciato a piede libero e gli è stata ritirata la patente. Provocare la morte di una persona a causa di una guida fuori legge è un crimine grave, passibile di arresto e condanna immediata o un’infrazione da scontare con pochi mesi di condanna? Chiarezza sulla gravità del crimine e certezza della pena tornano a essere le condizioni per combattere la criminalità, in tutte le sue manifestazioni.

Giustizia: perché il "serial criminale" deve rimanere in carcere

di Bruno Tinti (Procuratore presso il Tribunale di Torino)

 

La Stampa, 19 febbraio 2009

 

Per spiegare le infinite possibilità di evitare il carcere offerte ai condannati per reati anche gravi, racconto spesso una storiella: come si può ammazzare la moglie e non fare nemmeno un giorno di prigione. Mettendo in fila tutti gli sconti di pena, i permessi, le libertà vigilate, le liberazioni anticipate previste dalla legge, succede che le pene inflitte dai giudici alla fine del processo sono nei fatti almeno dimezzate e spesso annullate.

La legge prevede la possibilità di lavorare all’esterno del carcere dopo 5 anni di pena effettivamente scontata (10 per gli ergastolani); 45 giorni di permesso premio ogni anno dopo almeno un quarto di pena effettivamente scontata (10 anni per gli ergastolani); quando restano solo 3 anni da scontare (e per tutte le pene inferiori a 3 anni), l’affidamento in prova al servizio sociale: il condannato sta fuori del carcere e racconta all’assistente sociale come si sta comportando; gli arresti domiciliari per un massimo di 2 anni (la cosa è un po’ più articolata ma questa è la parte che c’interessa); la liberazione anticipata (la famosa legge Gozzini): uno sconto di 45 giorni ogni 6 mesi; quindi, in realtà, 1 anno sono 9 mesi, 4 anni sono 3 anni, 10 anni sono 7 e mezzo. Tutto questo si cumula, e così si capisce perché in prigione ci stanno poche persone e per poco tempo.

Fanno eccezione terroristi e mafiosi, schiavisti e sequestratori di persona a scopo di estorsione, associati a delinquere per contrabbando e stupefacenti: per loro niente benefici a meno che non si pentano e collaborino con la giustizia. Però la Gozzini resta applicabile a tutti, che collaborino o no: basta che in carcere non si comportino male.

Adesso questa straordinaria severità (si chiama certezza della pena) sarà applicata anche agli stupratori, ed è proprio una buona cosa. Se scomodiamo i principi generali e ci chiediamo perché alcuni condannati debbono essere trattati peggio di altri (il che potrebbe sembrare ingiusto), la risposta è che si tratta di persone certamente pericolose: il mafioso e il terrorista, finché restano tali, aderiscono ad associazioni antagoniste dello Stato; e le persone condannate per gli altri reati che impediscono di godere dei benefici carcerari sono considerate a forte rischio di reiterazione: l’esperienza insegna che molto probabilmente commetteranno altri reati della stessa specie.

Questo punto è molto importante. La maggiore severità non dipende dalla particolare gravità del reato; per questo c’è già la pena prevista dalla legge: più il reato è grave, più la pena è alta. Se così non fosse, tanto varrebbe introdurre, per alcuni reati, pene di specie diversa, per esempio la tortura, il che in un Paese civile non si fa.

Sicché impedire agli stupratori di uscire dal carcere prima di aver scontato la pena, come si fa con i mafiosi, i terroristi ecc., non dipende dal fatto che il reato da loro commesso è grave (certo lo è); serve per garantirsi, nei limiti del possibile, che non stuprino ancora. Tutto bene? Sì, per quanto riguarda la certezza che gli stupratori se ne stiano in prigione quanto gli tocca (ma resta la Gozzini). No, per quanto riguarda il fatto che questo regime finalmente giusto non è stato applicato a tutte le altre categorie di delinquenti presunti seriali.

La Giustizia spende un sacco di soldi per far funzionare i Casellari Giudiziari: gli uffici che aggiornano i certificati penali. Sarebbe bene trarne una qualche utilità. Se una persona è stata condannata più volte per rapina, furto, truffa, guida in stato d’ebbrezza o sotto l’influsso di stupefacenti, omicidio colposo commesso perché ubriaco o drogato, se insomma la previsione che commetterà altri reati dello stesso tipo è fondata, visto che continua a commetterne; per quale motivo non deve essere assoggettata allo stesso regime oggi previsto per gli stupratori? Forse che le vittime di questi reati non hanno diritto alla stessa tutela di una persona violentata?

Naturalmente a questo punto si apre un problema: che ne facciamo degli amministratori pubblici condannati per corruzione? E degli imprenditori condannati per falso in bilancio e bancarotta? Anche questo tipo di delinquenti provoca dei bei danni; sembrano meno gravi perché non sono sanguinosi, colpiscono tanta gente tutta insieme e quindi senza volto; e, soprattutto, sono un po’ sdoganati dai fulgidi esempi della classe dirigente.

Però chi ti rapina una volta ti porta via il portafoglio o il contenuto della cassa; ma chi fa fallire una società in cui hai investito i tuoi risparmi ti porta via tutto; e chi aggiunge al prezzo dell’appalto la sua tangente impoverisce tutto il Paese. Forse anche per questa gente dovrebbe valere il principio per il quale, accertato che si tratta di soggetti pericolosi, è bene garantirsi che non ne combinino altre. Proprio come per gli stupratori. Eh, magari. Mi accontenterei che non venissero eletti in Parlamento.

Giustizia: l’espulsione inflazionata, che rimane solo sulla carta

di Francesca Radula

 

Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2009

 

Prendiamo un ipotetico Paese con inflazione a tre cifre in cui girano tanti soldi, troppi, che possono essere distrutti, cioè strappati, senza problema perché non hanno alcun valore. Il sistema va in tilt perché la carta non raggiunge il suo scopo.

Un esempio "scolastico" utilizzato, con un po’ di esagerazione, per spiegare che cosa sta accadendo con i decreti di espulsione emessi quotidianamente, come la cronaca insegna, da quasi tutte le prefetture d’Italia nei confronti dei cittadini stranieri extracomunitari, I quali, molte volte, strappano i decreti e continuano la vita (irregolare) di prima.

Destinatari di un provvedimento di espulsione possono essere, secondo la Bossi-Fini, tutte le persone irregolari, cioè senza permesso di soggiorno, che in Italia sono tantissime (da 650mila fino a un milione, dicono le stime). I controlli si sono intensificati e i decreti di espulsione aumentano: sono talmente tanti che il Viminale ha perso il conto o semplicemente non vuole che i numeri siano noti.

Conoscerli, però, permetterebbe di stabilire con esattezza qual è la distanza tra il numero di irregolari che girano (e a volte lavorano) con un decreto di espulsione in tasca e il numero (esiguo) di espulsioni realizzate che sono limitate a poche migliaia. La distanza esiste, è grande, e più che percepita ormai dai cittadini.

Perché, allora, tutti questi decreti restano sulla carta? Il provvedimento prefettizio che decreta l’espulsione immediata dello straniero (clandestino) e dispone che sia accompagnato alla frontiera a mezzo della forza pubblica può non avere seguito per tanti motivi: lo straniero non si fa riconoscere ed è privo di documenti, non ci sono macchine per i trasferimenti, non ci sono posti liberi nei Cie sparsi per l’Italia (da Lampedusa a Gorizia ci sono al momento più di 14mila clandestini) oppure non ci sono i due agenti di polizia che devono trasportare il cittadino straniero, mancano, i fondi per sostenere i costi dell’operazione. "Difficoltà quotidiane", raccontano nelle questure.

Difficoltà quotidiane ad applicare la Bossi-Fini, che prevede il "rimpatrio coattivo" dello straniero, e che hanno spinto il legislatore a prevedere, insieme alla notifica del decreto di espulsione, la comunicazione di un invito a lasciare il territorio nazionale entro un termine tassativo di cinque giorni dalla data di consegna del foglio.

Lo straniero che esce dall’Ufficio immigrazione della Questura con in mano quattro o cinque pagine redatte in italiano e in una lingua straniera (solitamente inglese, francese o spagnolo) in tanti casi getta i fogli (come la carta straccia della metafora) e nei restanti casi si rivolge a un avvocato per impugnare il decreto di espulsione davanti al giudice di pace. Naturalmente, lo straniero espulso continua a lavorare, guida la macchina (a prescindere da un’abilitazione alla guida valida in Italia) con il rischio, quasi certo, di essere nuovamente fermato.

In questa ipotesi scatta il fermo dello straniero, una nottata in cella, e poi davanti al giudice penale che convalida l’arresto, procede con rito direttissimo, condanna lo straniero a una pena detentiva. Ci sono molte probabilità che a fine mattinata del giorno dopo lo straniero sia nuovamente libero, con un decreto di espulsione pienamente efficace, una sentenza di condanna e, infine, un invito a recarsi in Questura (ai sensi dell’articolo 650 Codice penale), per regolarizzare la sua posizione amministrativa in Italia. Cioè per essere nuovamente espulso. Difficilmente lo straniero si presenterà in Questura considerato che è meglio pagare (forse) una sanzione pecuniaria piuttosto che rischiare di essere rimpatriato verso il proprio paese.

Decreti di espulsione "inflazionati", quindi. Certo, la macchina che ne prevede il perfezionamento è costosa (ogni rimpatrio coatto costa diverse centinaia di euro) e viaggia senza un traguardo preciso perché prende di mira il grande pubblico degli "irregolari" senza poter fare alcuna distinzione tra gli stranieri clandestini che hanno un (potenziale) contratto di lavoro e quelli che possono rappresentare un pericolo concreto. Un pericolo ormai più che percepito da tutti i cittadini.

Giustizia: non possiamo mettere in carcere tutti i "clandestini"!

di Luca Fazzo

 

Il Giornale, 19 febbraio 2009

 

"Ogni giorno, a ogni udienza, vengono portati davanti a ognuno di noi almeno quattro stranieri accusati di avere violato le leggi sull’immigrazione. Vogliono dire, nella sola città di Milano, 240 stranieri al mese. Dovremmo tenerli tutti in carcere, nell’eventualità che uno di loro una volta scarcerato commetta un crimine più grave? Credo che non si possa pretendere questo. Sia perché non ci sarebbe dove metterli. Sia perché sarebbero più degli spacciatori di droga che finiscono in carcere nello stesso periodo, e questo francamente non mi parrebbe giusto". Ilaria Simi de Burgis è un giudice lontano da vocazioni barricadiere. Ma con il meccanismo infernale delle espulsioni che restano sulla carta fa i conti ogni giorno, nelle aule del tribunale di Milano. La sua spiegazione di quel che accade in quelle aule è semplice.

 

E voi cosa fate?

"Se accerto che l’espulsione era legittima e non dimostrano di avere avuto un buon motivo per non andarsene, convalidiamo l’arresto. A volte accade che un’espulsione sia annullata perché non era stata tradotta in una lingua comprensibile allo straniero. Se invece convalidiamo l’arresto, subito dopo li liberiamo, perché il loro reato consente quasi sempre la sospensione condizionale. E io non posso tenere in carcere uno che al momento del processo sarà sicuramente liberato. A quel momento tornano liberi. Quando arriva il giorno del processo, spesso non si presentano neppure. Nel frattempo, tutto questo meccanismo inutile è servito soltanto a fare statistiche di polizia e a far guadagnare un po’ di soldi all’avvocato d’ufficio, che è quasi sempre pagato dallo Stato".

 

E con i romeni come vi comportate?

"I romeni sono cittadini comunitari e quindi godono di tutele particolari. Ciò non toglie che siano stranieri, e che se sono condannati per un altro reato il giudice possa in determinati casi disporre che al termine della pena siano espulsi dall’Italia. Ma in questo caso l’espulsione è una pena accessoria, e quindi in caso di patteggiamento non viene inflitta".

 

Le vostre aule sono piene di recidivi. Tutta gente che ha patteggiato?

"Molti patteggiano. Ma ci sono anche casi in cui l’espulsione non viene inflitta. E casi in cui rimane sulla carta".

Giustizia: intercettazioni e carcere per i giornalisti, Pdl diviso

di Enrico Paoli

 

Libero, 19 febbraio 2009

 

I giornalisti sul piede di guerra, compresi quelli eletti in parlamento, come ha testimoniato ieri su "Libero" Giancarlo Lehner, deputato del Pdl e editorialista. Il gruppo parlamentare del Pdl spaccato in due e quelli del Pd pronti a presentare un contro-emendamento.

E così la norma introdotta nel disegno di legge sulle intercettazioni, che prevede il carcere per i giornalisti che pubblicano le conversazioni per le quali sia stata ordinata la distruzione o l’archiviazione, sta creando non pochi problemi alla maggioranza. Il dissenso, ampio e nemmeno tanto velato, è emerso durante la riunione della commissione Cultura di Montecitorio chiamata a dare il parere sul provvedimento del governo, atteso in Aula a Montecitorio per lunedì prossimo.

Il parere non è stato votato e la Commissione si riunirà nuovamente oggi. Una mossa per dilatare i tempi, in modo da trovare la soluzione per uscire dalle sabbie mobili in cui rischia di finire il governo.

Il relatore di maggioranza, il deputato del Pdl Giorgio Lainati, non esclude che "nel parere possano essere espresse perplessità su un’opzione così radicale", come quella del carcere, introdotta con l’approvazione in Commissione dell’emendamento presentato da Debora Bergamini, deputata del Pdl. "I dubbi sono arrivati da autorevoli parlamentari del centrodestra", ha precisato.

Uno su tutti, l’ex direttore del Resto del Carlino, Giancarlo Mazzuca. Ma anche Emerenzio Barbieri e l’aennino Fabio Granata, l’azzurro Riccardo Mazzoni. "C’è molta preoccupazione intorno a questa norma. Il dissenso nel Pdl è ampio, dobbiamo valutare il da farsi in sede politica". E la deputata azzurra Gabriella Caducei non ha escluso che "si possa valutare un ripensamento".

Insomma il grido d’allarme lanciato da Libero, e la chiamata alle armi del sindacato dei giornalisti, la Fnsi ha organizzato per martedì un’iniziativa di protesta assieme all’Ordine dei giornalisti, all’Unione cronisti italiani e con la partecipazione della Fieg, ha indotto la maggioranza a fare marcia indietro.

Contrario alla norma sul carcere anche il Partito democratico, fortemente critico sul divieto di pubblicazione degli atti di indagini e le multe agli editori. Ricardo Franco Levi, esponente del Pd, ha annunciato la presentazione di un parere di minoranza sul ddl intercettazioni.

"Sono norme che vanno contro i principi basilari della democrazia liberale, tra cui centrale è il diritto ad informare e ad essere informati". Levi ha sottolineato, in particolare, la "gravità" della norma che introduce multe salatissime per gli editori.

"Vuol dire che gli editori saranno nelle condizioni, per evitare il fallimento, di controllare la natura delle notizie, un compito che in genere spetta ai direttori. La distinzione tra editore e direttore è la base su cui si regge la libertà dell’informazione in Italia, una cosa riconosciuta da più di 100 anni".

Giustizia: intercettazioni; più che una "stretta", un grande bluff

di Alessandra Ricciardi

 

Italia Oggi, 19 febbraio 2009

 

Altro che ammazza-intercettazioni. La riforma Alfano taglierà il traffico registrato al massimo del 20% rispetto all’attuale andamento. E dunque, detto in altri termini, con le nuove regole i magistrati potranno fare l’80% delle registrazioni telefoniche, telematiche e ambientali che hanno disposto fino ad oggi.

A mettere a nudo il bluff del taglio delle intercettazioni è il Servizio Bilancio della Camera, che ha passato al vaglio - sotto il profilo finanziario - il disegno di legge 1415, il provvedimento messo a punto dal ministro della giustizia, Angelino Alfano. La nuova regolamentazione dell’uso investigativo delle registrazioni segrete ha anche lo scopo di ridurre la spesa che lo stato finora ha sostenuto per questa voce, ha più volte ribadito Alfano.

Una spesa che ancora oggi non presenta profili di assoluta certezza nella sua quantificazione. Secondo una rilevazione fatta dal ministero di via Arenula, ricordano i tecnici della camera nel dossier messo a punto per la commissione giustizia che ha in discussione il ddl, i costi relativi a intercettazioni e noleggio apparati, come annotati dalle procure della repubblica nell’anno 2007, ammonterebbero complessivamente a circa 224 milioni annui.

Ed è sul fronte dell’eliminazione del ricorso al noleggio degli apparati di intercettazione, segnala il Servizio Bilancio, che si avrebbe il risparmio più grosso, "importo stimato prudenzialmente, per difetto, in circa 140 milioni di euro annui".

La ricetta si chiama internalizzazione del servizio: l’inverso insomma di quanto fatto in questi anni di continue esternalizzazioni di servizi pubblici. Tagliati gli appalti esterni, si investirà sulle sedi e sulla loro informatizzazione che consentirà di utilizzare al meglio le risorse interne della giustizia italiana. Sull’altro fronte, quello dell’abbattimento dei costi derivante dalle limitazioni delle autorizzazioni alle intercettazioni, invece, ben poca roba: "importo stimato, prudenzialmente, in circa 40 milioni di euro, pari al 20% del costo totale odierno delle intercettazioni".

Il restante 80% di costi, e registrazioni, si prevede ci sia ancora. Attualmente il sistema del grande fratello coinvolge circa 166 uffici di procura. La riforma prevede l’istituzione di centri di intercettazione su base distrettuale per un numero massimo di 26 strutture, mentre le operazioni di ascolto potranno essere effettuate attraverso impianti installati presso le procure, ovvero presso i servizi di polizia giudiziari a ciò delegati.

Al momento, secondo la relazione allegata al provvedimento, risulterebbero già informatizzati 71 uffici di procura, con la copertura del 60% dei bersagli. Per la creazione dei nuovi centri di ascolto, serviranno innanzitutto locali idonei all’interno dei quali installare le attrezzature: almeno 100 metri quadrati ciascuno, nei quali collocare anche una sala server.

Tra canoni di locazione dei nuovi locali, acquisizione dei server (si prevede il ricorso alla locazione finanziaria per 5 anni) e delle postazioni informatiche per l’ascolto, software adeguati e manutenzione, la spesa per il 2009 dovrebbe essere di 19,3 milioni di euro.

Una spesa abbondantemente coperta dalle riduzioni di spesa. Stimabili in circa 180 milioni. Per i tecnici di Gianfranco Fini, il governo dovrebbe chiarire, invece, se tra le uscite imputate al capitolo funzionamento delle strutture siano ricomprese o meno le eventuali spese dovute ai gestori dei servizi di telefonia.

Giustizia: Alfano; carcere ai giornalisti, valuterà il Parlamento

 

Quotidiano Nazionale, 19 febbraio 2009

 

Il ministro precisa: "L’emendamento che introduce il carcere è di proposta parlamentare, è stato approvato in commissione, non senza contrasti, con voci contrarie anche da esponenti del Pdl"

Sul carcere ai giornalisti che pubblicheranno intercettazioni che devono essere distrutte "ci affidiamo alla libera valutazione del Parlamento", ha detto il guardasigilli Angelino Alfano, intervistato da Giuliano Ferrara nella trasmissione di Radio24 "Parliamo con l’elefante".

"Avevamo proposto un emendamento che aveva eliminato la previsione del carcere per i giornalisti - ha ricordato Alfano - avevamo puntato più sulle sanzioni pecuniarie agli editori, e non ci sono stati riconoscimenti nei nostri confronti. L’emendamento che introduce il carcere è di proposta parlamentare, è stato approvato in commissione, non senza contrasti, con voci contrarie anche da esponenti del Pdl".

Il ministro ha voluto sottolineare che l’emendamento sul carcere ai cronisti non contiene "un generico riferimento, ma si riferisce alla possibilità di punire chiunque contribuisca a pubblicare intercettazioni che il giudice ha detto che devono essere distrutte. Pubblicarle, dunque, sarebbe un’azione platealmente illegale. Si fa un gran parlare della Costituzione e non si cita mai l’articolo 15, che tutela la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni".

Alfano ha poi osservato che nel nostro codice di procedura penale attualmente in vigore si legge che "le intercettazioni sono ammesse quando risultino assolutamente indispensabili alla prosecuzione delle indagini". E sollecitato da Giuliano Ferrara, che ricordava come per la cattura dei romeni ritenuti responsabili dello stupro avvenuto la scorsa settimana al parco della Caffarella a Roma non siano state utilizzate, nel corso dell’indagine, intercettazioni, il guardasigilli ha sottolineato la bontà dei "metodi tradizionali con cui le forze dell’ordine fanno il loro lavoro, non sempre attraverso lo spioncino, la cuffia nelle orecchie, di fronte a due romeni furbi che non accendono mai il telefonino".

Il governo non ha intenzione "di limitare i poteri di alcuno, vogliamo proteggere i cittadini dalla criminalità e renderli uguale davanti alla legge", continua Angelino Alfano. "Il nostro obiettivo di fondo è la parità tra accusa e difesa perché se non c’è equidistanza tra giudice e pm ne risente il cittadino. Stiamo provando a fare tutto ciò che il centrodestra, da quindici anni, cerca di realizzare: avere una giustizia che funzioni, la parità tra accusa e difesa, norme efficaci per processi più rapidi, nuove carceri, una riforma costituzionale per un giusto processo e smaltire il carico di processi pendenti civili".

A proposito del processo civile, il guardasigilli ha sottolineato che "tra sei giorni il Senato tratterà e approverà il disegno di legge" varato dal Governo e già approvato alla Camera, che ha come obiettivo "accelerare i tempi nei processi". Alfano è anche tornato a parlare delle nuove competenze della polizia giudiziaria, previste nel Ddl sul processo penale, che ha avuto l’ok del Consiglio dei Ministri all’inizio di febbraio: "l’individuazione della notizia di reato compete alla polizia giudiziaria - ha rilevato Alfano - e il pm poi valuta se tale notizia è in grado di reggere al processo. Così ha funzionato dal ‘48 fino all’89 e tornare a quel modello è efficace per contrastare il crimine".

Giustizia: "ronde" nel decreto, a Roma vigileranno nei parchi

di Antonio De Florio

 

Il Messaggero, 19 febbraio 2009

 

Il ministro Maroni non esclude che le ronde dei cittadini volontari siano regolate per decreto, domani, in Consiglio dei ministri assieme alle altre misure anti-stupro (niente arresti domiciliari a chi è accusato delle violenze ed ergastolo in caso di morte della vittima).

Dopo le stop del Quirinale, le associazioni di volontari sul territorio, rimodulate rigorosamente, possono trovare spazio nel provvedimento d’urgenza. E Roma, in qualche modo fa da apripista con il progetto affidato dal sindaco Alemanno all’ex prefetto Mori.

Si tratta di gruppi di volontari, particolarmente qualificati come carabinieri, vigili e pompieri in pensione che veglieranno a partire da marzo su 15 parchi della capitale. I loro turni, che termineranno con l’orario di chiusura dei parchi, saranno di quattro ore e il rimborso spese dovrebbe ammontare a 220 euro al mese. Ai gruppi di volontari il compito di segnalare "alle autorità o alle forze dell’ordine situazioni di illegalità o di degrado". A chi gli parla di ronde, il sindaco Gianni Alemanno risponde che in realtà di tratta del contrario: "L’obiettivo è quello di frenare la giustizia fai da te, coinvolgendo i cittadini che aiuteranno le forze dell’ordine".

Delle ronde ha parlato ieri anche Maroni, rispondendo Question time alla Camera. I gruppi di cittadini già esistono, premette il ministro, e il compito del Parlamento e del governo è quello di regolarle per impedire abusi. "Credo che il moltiplicarsi di iniziative spontanee di questo tipo - sono le sue parole - debba indurre il governo e il parlamento a regolare il fenomeno, per stabilire quali siano i confini e i termini entro cui questa attività si possa svolgere, sotto il controllo del prefetto, della polizia e del sindaco".

E aggiunge: "Se lo faremo e, credo, che sia giusto farlo, potremmo impedire gli abusi che qualcuno denuncia su questo tipo di attività". Maroni ha poi elencato le città in cui sono già organizzati pattugliamenti da parte di cittadini: "Nei comuni di Padova, Venezia, Firenze, dove sono segnalate ronde di cittadini extracomunitari regolari contro venditori abusivi sotto il coordinamento del comune". Il ministro cita anche le parole del sindaco di Bari Michele Emiliano (Pd), che a proposito delle ronde ha detto: non capisco cosa ci sia di male, si tratta di cittadini che si rendono utili alla collettività, applicando un principio di solidarietà".

Nel decreto costituirà un’aggravante la violenza sessuale commessa nei confronti di un minore di 16 anni (attualmente l’aggravante c’è se la vittima ha meno di 14 anni). Il provvedimento prevede fondi per le forze dell’ordine (cento milioni) e 2000 nuovi agenti, accogliendo anche le norme che già sono state predisposte per i disegni di legge contro lo stalking e la violenza sessuale.

Per chi commette il reato di stalking è mantenuta la norma contenuta nel disegno di legge (approvato già alla Camera e prossimamente al Senato), che stabilisce il carcere da sei mesi a quattro anni. Quanto alle cosiddette ronde, la formulazione che si sta mettendo a punto parla di cittadini, associati tra loro, che potranno sorvegliare le strade contro eventuali pericoli di violenza sessuale. Le condizioni sono che non devono essere armati ed essere autorizzati dalle autorità locali.

Giustizia: l’ex ministro Bianco; subito la riforma della Polizia

 

Il Tempo, 19 febbraio 2009

 

È stato sindaco. È stato ministro dell’Interno. Conosce i problemi della sicurezza. Enzo Bianco, oggi senatore e membro della Commissione Affari costituzionali del Senato interviene nel dibattito.

"Quello della sicurezza continua a essere un tema centrale nell’opinione pubblica del Paese. I cittadini reclamano maggiore serenità. E non la esigono solo durante la campagna elettorale ma la reclamano 365 giorni tutti gli anni: la sicurezza non si garantisce con gli spot e neanche con le corsie preferenziali. Critico severamente il governo Berlusconi perché ha avuto un rilevante consenso dall’opinione pubblica per garantire più sicurezza, ma in questi primi mesi ha imboccato la strada delle scorciatoie piuttosto che quella delle riforme necessarie".

 

Cosa intende per scorciatoie?

"Hanno fatto la voce grossa sull’immigrazione. Hanno fatto un decreto legge, hanno introdotto il reato di immigrazione clandestina. Hanno provato ad alzare senza limiti la permanenza nei centri di identificazione. Non abbiamo avuto mai tanti sbarchi clandestini come in questi mesi. Un fenomeno così complesso e così delicato come quello dell’immigrazione va governato con politiche serie collaborando con i Paesi da dove partono i flussi di clandestini. Con azioni che vanno fatte principalmente in questi Paesi. Anche con severità. E poi la trovata dei militari. Confermo l’apprezzamento per loro. Vengo da una terra, la Sicilia dove i militari sono stati ampiamente utilizzati. Ma era un momento di emergenza. Era il periodo delle stragi: con 20mila militari si è potuta fare un’operazione di militarizzazione del territorio come reclamava una situazione assolutamente eccezionale. Questo palliativo di 3.000, 5.000 militari su tutto il territorio nazionale in venti città con compiti marginali rischia di essere solo un effetto-annuncio".

 

Perché sostiene questo?

"Nella mia città, Catania, piuttosto che a Roma l’ho visto con i miei occhi. A parte i pochi militari utilizzati a presidio di ambasciate, quando vedo militari a passeggio, direi portati a passeggio da un poliziotto o un carabiniere, solo per farsi vedere, mi dà l’idea dello spreco. E faccio un rapido calcolo. Quanti uomini in più potremmo avere sulle strade se i soldi spesi per pagare i militari li utilizzassimo per pagare lo straordinario e raddoppiare le pattuglie dei carabinieri e della polizia in giro nelle nostre città".

 

E quindi?

"Nei prossimi tre anni, all’inizio del 2012, noi avremmo a legislazione invariata, circa 70mila uomini delle forze di polizia in meno sul territorio nazionale per effetto del blocco del turnover. Non c’è più la leva che garantiva un’aliquota per la polizia e per l’Arma. Cresce velocemente l’età media dei poliziotti e dei carabinieri in servizio e una volta compiuti i 50 anni, svolge sempre una funziona e utilissima, ma meno operativa. Oggi in questa condizione noi ci permettiamo il lusso di non mettere mano a una riforma organica della pubblica sicurezza che ha ormai 28 anni. È stata una buona legge, ma ora quel modello dimostra tutti i suoi limiti".

 

Qualche esempio?

"Gli italiani lo sanno quanti forze svolgono funzioni di sicurezza in mare? Ci sono le motovedette della Guardia di Finanza. Le motovedette dei carabinieri, di altro tipo e di altro modello, perché ognuno acquista ciò che più è loro congeniale. Poi ci sono quelle della Polizia di Stato, delle Capitaneria di Porto, della Marina militare. Ci sono i mezzi della Polizia penitenziaria perché per fare la traduzioni dei detenuti su un’isola non è che si chiama la motovedetta dei carabinieri: bisogna utilizzare quella della Polizia penitenziaria. E poi, udite udite, anche il Corpo forestale dello Stato. In Sardegna ha il compito di vigilare le coste. Così per Zannone e le Isole pontine. Ciascuno con i suoi meccanici, con la sua gestione del personale. La stessa cosa per gli elicotteri. Insomma, uno spreco senza precedenti. Ognuno di questi corpi ha la sua amministrazione, la sua gestione dell’apparato. Ognuno di questi Corpi ha la sua banda. Sono cose pittoresche ma un migliaio di uomini che partecipano a bande e fanfare dei corpi di polizia. Mettere mano a una riforma seria e organica della pubblica sicurezza è doveroso. Una riforma che dobbiamo fare con spirito bipartisan".

 

Come fare una tale riforma?

"Con lo stesso atteggiamento col quale nella scorsa legislatura abbiamo votato quasi all’unanimità la riforma dei servizi segreti. Si è fatta una riforma. Non il massimo, ma sicuramente dignitosa e l’Italia ora è attrezzata in modo adeguato. La stessa cosa penso si possa fare per la pubblica sicurezza. C’è bisogno di coraggio e di avere la volontà combattere le corporazioni che sono potentissime e che in Italia bloccano ogni riforma".

 

Tentativi sono stati fatti anche in passato di ottimizzare le forze di polizia con scarsi risultati. Oggi su quali basi partire?

"Occorre partire dall’alto. Si deve pensare a un modello di pubblica sicurezza affidata a un solo ministro. Non è possibile che il ministro dell’Interno sia politicamente responsabile della sicurezza, ma in realtà da lui dipende una parte dell’apparato delle forze di polizia. La Guardia di Finanza dipende dal ministro dell’Economia, i carabinieri almeno in parte da quello della Difesa. È necessario affermare la responsabilità. Poi bisogna che ci sia un organismo di Direzione unitaria. Immagino vari modelli, non mi innamoro di uno o dell’altro. Un direttore della Pubblica sicurezza che sia anche capo della polizia va bene nell’attuale sistema. Ma se deve "dirigere" occorre cambiare. Si può scegliere il modello dello Stato maggiore della Difesa in cui in Direttore della sicurezza sia a turno uno dei capi delle forze di polizia. Si può scegliere da fuori. Si deve sostituire la parola coordinamento che appartiene a un’Italia che non c’è più. L’Italia delle indecisioni, delle non assunzioni di responsabilità. Si sostituisca a queste lacune la parola Direzione. Abbiamo bisogno di uno che diriga e che sia sopra ordinato rispetto agli altri. Sul modello francese".

 

E come risolvere le duplicazioni di compiti?

"Non voglio penalizzare nessuno. Le specializzazioni possono essere scelte su vari modelli organizzativi, ma non è possibile che due o tre Corpi di polizia facciano la medesima cosa. Questo duplica, triplica i costi e in questo momento non possiamo permetterci di non utilizzare al meglio le risorse sul territorio. Non intervenire è irresponsabile. E offro queste considerazioni alla maggioranza con spirito costruttivo. Bisogna avere il coraggio di agire drasticamente. Non si possono fare duplicazioni di funzioni. Non è possibile che le centrali operative non siano interconnesse. Da ministro dell’Interno ho inaugurato decine di centrali operative interconnesse. Quante di queste sono operative oggi? Non sono pessimista, ma dico che saranno pochissime".

 

Cosa fare per invertire la tendenza?

"Utilizzare i prossimi quattro anni. C’è un consenso molto vasto. C’è un gruppo di ex ministri dell’Interno, da Cossiga ad Amato, Pisanu, Scajola, io: tutti abbiamo un’opinione su molte cose convergente. Utilizziamo questo momento per fare una riforma con coraggio. I risultati non si avranno l’indomani mattina, ma eviteremo che il 2012 ci colga impreparati".

 

Il prossimo passo?

"Ho già lanciato al Senato l’idea che è stata accolta dopo questi ultimi provvedimenti che stiamo affrontando. Apriamo un’indagine parlamentare: 60 giorni, ascolteremo tutti. Forze di polizia, esperti allo scopo di monitorare le sensibilità sulla possibile riforma. Non vogliamo fare una riforma contro nessuno ma neanche un riforma che abbia pregiudizi e tabù. Abbia una sola cosa in mente: l’interesse dei cittadini ad avere più poliziotti per strada, pagati meglio, addestrati e formati in modo professionale".

 

Lei pensa a un unico Corpo di polizia?

"Ritengo che l’idea di avere un unico Corpo di polizia non sia ancora matura in Italia. Realistico pensare a due corpi di polizia a competenza generale e gli altri rigidamente nella loro specifica materia. Con compiti ben ripartiti anche tra polizia e carabinieri. Un modello più efficiente. Se fra tre anni avremo 70mila poliziotti in meno e questo ordinamento, per l’Italia sarà un disastro. Lo possiamo evitare con un po’ di buon senso e di coraggio. E senza spot pubblicitari".

Giustizia: i funzionari di polizia penitenziaria, contro i direttori

 

Comunicato Stampa, 19 febbraio 2009

 

È quanto emerge dalla nota odierna inviata al Ministero della Giustizia Angelino Alfano ed al Capo dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta dalla tre Associazioni di categoria dei Funzionari del Corpo di Polizia Penitenziaria Anfu - Anfap - Ardopp.

Sotto accusa i contenuti di una nota di Enrico Sbriglia, Segretario Nazionale del Sindacato dei direttori di carcere Sidipe, inviata agli stessi destinatari il 18 febbraio scorso e nella quale sono evidenti delle umilianti sottolineature in danno degli appartenenti ai ruoli direttivi del Corpo, denunciano i tre segretari nazionali Mariano Salvatore (Anfu), Silvio Gallo (Anfap) e Costanzo Sacco (Ardopp).

Molto dura la posizione assunta dai Funzionari della Polizia penitenziaria: Il sig. Sbriglia, quale espressione di "una classe" dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria, quella dei dirigenti amministrativi - direttori penitenziari, inquadrati improvvisamente dirigenti statali grazie ad una "Legge ad hoc", e non certo sulle base di procedure concorsuali selettive come avviene in tutte le Amministrazione statali, non ha perso occasione, ancora una volta, per spendersi contro "la classe" dirigente del Corpo di Polizia Penitenziaria, costituita dal ruolo dei commissari del Corpo, e non certo da figure amministrative ad esso estranee, per limitarne le funzioni unicamente "all’interno degli istituti carcerari". Non vorremmo considerare l’ipotesi che la preoccupazione del sig. Sbriglia sia dettata dalla profonda crisi di identità e di leadership che da tempo attanaglia "i dirigenti penitenziari", incapaci e impossibilitati a presentarsi come validi interlocutori dei cittadini e del governo, per una seria politica della sicurezza; una classe dirigente arroccata sulle proprie posizioni di teorici, più che artefici, di quel trattamento che, proprio a causa della loro utopia, ha sempre stentato a trovare pratiche e realistiche attuazioni: una posizione, quella dei dirigenti penitenziari, spesso protesa ad ostacolare la funzione di polizia dei "dirigenti del Corpo", proprio a causa di quella incapacità a cui si faceva cenno poc’anzi.

Non possiamo non ricordare a costoro proseguono nella loro lettera Anfu - Anfap - Ardopp che l’importanza e il peso politico del nostro Dipartimento sono determinate proprio dal fatto che amministra una Forza di Polizia che conta quarantacinquemila uomini, non certo perché ci sono quattrocento dirigenti amministrativi della carriera penitenziaria. Perché il sig. Sbriglia non inizia a preoccuparsi, come tutti i direttori penitenziari, di assicurare che le pena abbia una reale ed effettiva funzione rieducativa, avvicinandosi alle problematiche dei ristretti, piuttosto che ricercare all’interno delle funzioni di polizia, che non gli appartengono, la propria ragione di esistenza professionale?

Nella speranza che alla presente "risposta" agli attacchi gratuiti e strumentali del segretario nazionale del Sidipe, le SSLL. diano la giusta considerazione, in quanto espressione del forte disagio professionale vissuto dai Funzionari di Polizia Penitenziaria, di cui Loro sono la massima espressione gerarchica e funzionale, i responsabili delle sottoscriventi Associazioni, con l’occasione, chiedono di essere al più presto convocati dal Ministro della Giustizia e dal Capo del Dap Ionta, onde evidenziare le necessità, ormai non più differibili, di una profonda rivisitazione degli ordinamenti dei ruoli direttivi del Corpo, e delle "funzioni" che la Polizia Penitenziaria deve essere chiamata a svolgere al servizio dell’Amministrazione penitenziaria, del governo e dei cittadini.

Giustizia: Osapp; le "ronde" le facciamo noi, ma per protestare

 

Il Velino, 19 febbraio 2009

 

Se certe indiscrezioni, trapelate oggi suoi maggiori quotidiani nazionali, fossero confermate, ci troveremo proprio al capolinea". Lo afferma Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Polizia penitenziaria) a proposito dell’intenzione di questo governo di predisporre, con il decreto antistupri, uno stanziamento straordinario per l’assunzione di uomini delle forze dell’ordine, stanziamento che non comprenderebbe la Polizia penitenziaria.

A noi l’esecutivo ha assicurato la costruzione di nuove carceri, con un piano che ancora non vede la luce, e alle altre forze dell’ordine, invece, quei mezzi e quelle risorse che il ministro Alfano sa bene mancare anche al nostro Corpo di polizia, ma per cui non intende davvero muoversi. Si parla tanto di ronde e di pattuglie, e di un decreto legge che contingenze dell’ultimo momento stanno riportando in auge, anche per la disastrosa sconfitta del centrosinistra alle amministrative sarde.

A questo punto siamo pronti a tutto se il Guardasigilli non ascolterà il nostro grido di allarme, non ci induca nessuno, soprattutto chi ci governa - conclude Beneduci - ad arrivare al punto di organizzarci in ‘rondè, in gruppi autogestiti, come li chiama qualcun altro, per protestare per i nostri diritti sacrosanti".

Lettere: psicologa in carcere, a 3 ore l’anno per ogni detenuto

di Carla Fineschi

 

La Repubblica, 19 febbraio 2009

 

Sono precaria ultraventennale. Come tanti psicologi penitenziari, in tale situazione dal 1982, anno in cui il Ministero di Giustizia ha selezionato, attraverso titoli e colloqui, degli esperti in psicologia, che avrebbero dovuto esplicare l’osservazione ed il trattamento del detenuto.

Sappiamo infatti, dalla nostra Costituzione, che la detenzione non dovrebbe essere solo punitiva, ma anche rieducativa. Con l’amministrazione penitenziaria abbiamo un accordo (unilaterale) che non prevede ferie e malattia, a 17,63 euro lorde all’ora, senza un numero fisso di ore mensile.

Per capire di quale lavoro si tratta dico solo che tra la popolazione carceraria il suicidio è 21 volte di più della popolazione nazionale. Viene richiesto loro di valutare, all’ingresso del detenuto, di fare relazioni scientifiche sulla personalità, di sostenerli nei momenti di difficoltà, di tamponare qualsiasi emergenza di disagio psicologico.

Per tutte queste attività, quando va bene ci sono 3 ore all’anno per detenuto, il più delle volte di meno. Dal 1982 i vari governi dicono che non ci sono fondi; una mia collega è andata in pensione a 65 anni, senza aver mai avuto diritto a ferie e malattie, e non avrà nemmeno la pensione. Se un privato facesse lo stesso, cosa farebbe lo Stato?

Pisa: grazie alla provincia, in carcere riapre lo sportello lavoro

 

Il Tirreno, 19 febbraio 2009

 

Uno sportello informativo all’interno del carcere di Pisa, con il compito di indirizzare i detenuti in vista del loro reinserimento nel mondo del lavoro, una volta terminato il periodo di reclusione. L’esperienza, già testata dal 2002 al 2005 e frutto di un’iniziativa congiunta tra la Casa Circondariale e la Provincia, sarà ripresa dall’inizio della prossima settimana, come spiegano i rappresentanti delle due istituzioni: per il Don Bosco il direttore Vittorio Cerri e per l’amministrazione provinciale l’assessore alle politiche per l’occupazione Anna Romei, insieme all’assessore al sociale Manola Guazzini.

"Il servizio al carcere - spiegano gli amministratori - ha l’obiettivo di dare a coloro che stanno scontando una pena strumenti di orientamento utili a facilitarne, con il ritorno in libertà, l’accesso a percorsi di formazione e al mercato professionale, indirizzandoli verso la piena reintegrazione nella comunità".

Lo sportello - con sede all’interno del Don Bosco e operativo con cadenza quindicinale, ogni mercoledì mattina dalle 9,30 alle 11,30 - vedrà lavorare in stretta sinergia operatori della struttura penitenziaria e personale del Centro per l’Impiego, appositamente selezionato per svolgere questo compito. "Oltre ad avviare con il carcere uno scambio continuo di informazioni sui dati del mercato occupazionale - prosegue Romei - si valuterà in prospettiva la possibilità di promuovere anche specifiche attività di avvicinamento al lavoro per detenuti (tirocini formativi, esperienze professionali, corsi di formazione), in integrazione con gli analoghi servizi del privato sociale già strutturati e avviati sul territorio".

Anche se, con i nuovi indirizzi che stanno venendo da Roma sul fronte delle politiche del lavoro, sarà sempre più difficile reperire i necessari finanziamenti per questo tipo di attività. La riapertura dello sportello lavoro, aggiunge l’assessore Guazzini, "si colloca nel contesto del progetto "Colmare le distanze", volto a facilitare l’inclusione sociale di detenuti ed ex detenuti". Si tratta di una più ampia iniziativa, che si avvale di specifici finanziamenti della Regione, e che si svolge in collaborazione con un nutrito insieme di soggetti: l’Uepe (Ufficio esecuzioni penale esterne) di Lucca e Pisa; il carcere San Giorgio e la Provincia di Lucca; le Società della Salute della zona Pisa e dell’Alta Valdicecina; la Casa di reclusione di Volterra; le cooperative sociali La Mongolfiera (di Lucca) e Il Ponte (di Pisa).

Per Vittorio Cerri "il lavoro è il centro dei trattamenti che possono essere fatti a favore dei detenuti e il principale strumento di contrasto al crimine: il carcere non è certamente un ufficio di collocamento, ma può indicare un’alternativa alla strada una volta terminato il periodo di reclusione; e avere un’occupazione è la più forte delle risposte che possiamo dare".

Nuoro: ristrutturazione, e i detenuti sfollati dormono sui tavoli

 

La Nuova Sardegna, 19 febbraio 2009

 

Celle senz’acqua calda e, in alcuni casi, senza letti, al punto da costringere i nuovi arrivati a giacigli di fortuna: tavoli, per esempio. La prima fase dello sfollamento dei detenuti da Badu e Carros a Mamone ha provocato disagi agli ospiti arrivati alla casa di reclusione all’aperto. Ieri sedici detenuti del carcere di Nuoro hanno lasciato le loro celle per lo sfollamento programmato, visto che entro breve sarà chiusa la seconda sezione dove sono ospitati 142 reclusi.

La sezione dovrà essere messa norma e sottoposta a un imponente rifacimento strutturale: i detenuti sono stati lasciati a Nuoro giusto il tempo delle elezioni. Ma l’arrivo dei primi a Mamone (gli altri saranno smistati nelle diverse carceri dell’isola in base alla pena da scontare, alla provenienza geografica e alle loro condizioni di salute) ha trovato la struttura impreparata ad accoglierli. A sentire il direttore di Mamone, Gianfranco Pala, un problema che si è in gran parte risolto. "È vero che c’erano alcune cose da fare, per esempio far arrivare l’acqua calda, ma già oggi (ieri per chi legge ndr) a questo problema si è posto rimedio.

Per il resto, il corpo centrale ha due sezioni, dove saranno sistemati i nuovi arrivi, una delle quali è già pronta e in grado di accogliere 53 detenuti". Ammette, Pala, che effettivamente, tra il maltempo e i vari disguidi burocratici, non si è stati pronti ad affrontare l’arrivo degli sfollati al meglio. Secondo lui, si sarebbe però trattato di disagi minimi e comunque scongiurati in fretta. Fermo restando che per la seconda sezione bisognerà attendere almeno venti giorni prima che i lavori siano conclusi.

C’è comunque da restare perplessi su come un’operazione peraltro prevista per settimane (se non mesi) fa, e rinviata soltanto per via delle elezioni, abbia comunque sofferto di ritardi nella predisposizione logistica. Mamone sapeva benissimo dell’arrivo dei detenuti: eppure si è riusciti a far dormire qualcuno in letti improvvisati. Chissà che per l’arrivo degli altri trenta attesi per questi giorni tutto sia a posto.

Tra l’altro, è prevedibile che a Mamone arrivino reclusi da Macomer, dove si segnala il prossimo trasferimento, perché nella casa di lavoro all’aperto possono stare solo i detenuti che devono scontare un massimo di tre anni o chi ha un residuo pena minimo. Gli altri andranno altrove, innescando però il meccanismo a catena che si tradurrà in una sorta di girandola carceraria. E anche sul fronte degli agenti si annunciano trasferimento: quelli in servizio a Mamone ma da tempo distaccati a Nuoro stanno per essere richiamati indietro

Bologna: Provincia interviene su situazione di Ipm del Pratello

 

Ansa, 19 febbraio 2009

 

Sulle condizioni dell’istituto minorile di via del Pratello è stato approvato dal Consiglio provinciale di Bologna un ordine del giorno dei consiglieri Grandi (Rc), Zanotti (Sd), Torchi (Pd), Vigarani (Verdi) e Venturi (PdCi). L’odg ha ricevuto 21 voti favorevoli (Pd, Sd, Rc, PdCi, Verdi) e nove voti contrari (An-Pdl, Fi-Pdl).

Il documento fa seguito all’udienza conoscitiva, del 14 gennaio, della V Commissione consiliare con la direttrice dell’Istituto penale minorile "Siciliani", Paola Ziccone, che ha denunciato lo stato di grave abbandono in cui si trova la struttura per i fortissimi rallentamenti nel compimento dei lavori di ristrutturazione iniziati nel 2000, dovuti al ritardo dei finanziamenti. A ciò, tra l’altro, si aggiunge la segnalazione del Procuratore della Repubblica al tribunale dei minorenni dell’Emilia-Romagna sulla carenza del 60% del personale rispetto all’organico previsto.

L’odg invita il Governo "a ripristinare lo stanziamento dei fondi per l’Istituto penale assegnati nel 2008; a implementare il fondo sanitario regionale al fine di garantire la necessaria copertura finanziaria alle competenze in materia di sanità penitenziaria e quindi la conseguente copertura del personale infermieristico e medico e la consulenza psichiatrica e psicologica; ad integrare il personale di sorveglianza attualmente gravemente sotto organico; a garantire che il Dipartimento di giustizia minorile assegni le risorse necessarie per affrontare immediatamente le gravi emergenze individuali e fornisca informazioni concrete e verosimili sui tempi previsti per l’ultimazione delle ristrutturazioni in corso".

Il documento invita poi l’Azienda Usl "a monitorare periodicamente la struttura; a garantire che l’imminente fase di passaggio delle competenze sanitarie dall’amministrazione penitenziaria alla Regione avvenga nel modo più efficace e rapido possibile", e i parlamentari eletti in Emilia-Romagna ‘a farsi parte attiva presso il Parlamento e il Governo affinché si possa risolvere in tempi rapidi una situazione così preoccupante; ad adoperarsi per ottenere tutte le informazioni relative alla realizzazione dei lavori di ristrutturazione, ai loro costi e alla tempistica".

Alle istituzioni locali, infine, si chiede di "garantire la prosecuzione delle attività tuttora presenti all’interno dell’Istituto che hanno l’obiettivo di integrare l’Istituto con la Città e di dare attuazione alle finalità precipue di un istituto penale, soprattutto minorile, ovvero il recupero della persona e il suo reinserimento sociale".

Rimini: la Cgil denuncia; sovraffollamento ed agenti aggrediti

 

Corriere Adriatico, 19 febbraio 2009

 

Il carcere di Rimini sconta una carenza d’organico sia di polizia penitenziaria che di personale amministrativo. A denunciarlo la Cgil che ricorda anche la recente aggressione a due agenti avvenuta nella struttura.

L’episodio risale ad un paio di noti fa quando gli agenti sono stati colpiti, nell’area riservata ai trans, da un brasiliano armato di una lametta da barba. Uno dei due agenti ha riportato ferite guaribili in 15 giorni. A preoccupare, il rischio di contagio da Hiv.

 

La nota stampa della Fp Cgil

 

La Fp-Cgil, nell’esprimere solidarietà ai due agenti della polizia penitenziaria aggrediti l’altra notte all’interno della Casa Circondariale di Rimini, torna a denunciare pubblicamente le problematiche e le carenze del locale penitenziario.

La scarsa ricettività della struttura penitenziaria si traduce puntualmente in un notevole sovraffollamento della popolazione detenuta che, oltre ad essere deleteria per i reclusi, è causa di un aumento del carico di lavoro nelle sezioni e negli stessi uffici.

I dati statistici confermano nuovamente che l’Istituto di Rimini risulta essere, in Regione, quello con il maggior numero di ingressi rispetto ad altri Istituti strutturalmente superiori e di gran lunga più ampi e, se non bastasse, a causa di lavori di ristrutturazione in corso, si presenta con un numero di sezioni detentive ridotto e con un consequenziale ammassamento dei detenuti (oggi ne sono presenti circa 200 mentre ne potrebbe ospitare solo 90).

Il gran parlare propagandistico dei partiti di Governo che promettono più sicurezza per i cittadini, certezza della pena e giri di vite, in realtà non si traduce nella messa a disposizione di nuove risorse, ma in proclami autoritari, xenofobi e razzisti che producono soltanto altra violenza. Mancano invece le risorse necessarie per costruire nuove strutture, assumere il personale penitenziario che occorre, investire nella formazione e nella sicurezza.

A Rimini, all’accertata, grave insufficienza di personale di Polizia penitenziaria disponibile in sede, dovuta appunto alla mancata assegnazione di nuove risorse, si aggiungono i collocamenti a riposo, i distacchi tuttora in atto e la forte carenza di professionalità amministrative che costringe la direzione a ricorrere a circa 7 poliziotti penitenziari per garantire tali funzioni. Questo stato di cose sta favorendo un ricorso sempre maggiore all’utilizzo del lavoro straordinario e un aumento assolutamente esponenziale ed inaccettabile dei carichi di lavoro individuali, compromettendo di fatto anche l’accesso degli operatori ai diritti derivanti dalle norme contrattuali vigenti.

Allarmante, in termini di sicurezza, la situazione che si presenterà nell’Istituto riminese quando sarà terminata la fase della ristrutturazione (tre sezioni attualmente sono in ristrutturazione) e l’Istituto sarà ulteriormente soprautilizzato, mentre rimarrà invariato l’esiguo numero degli addetti per i quali sarà difficile garantire i diritti contrattuali (riposi, ferie, turni di 6 ore), l’incolumità e la sicurezza insieme a quella di tutto l’Istituto.

 

Richieste sindacali

 

La Cgil ritiene indispensabile che Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e Prap (Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria) si facciano carico del problema ed intervengano con urgenza potenziando il contingente di Polizia penitenziaria impiegato per fronteggiare il pesante aumento dei carichi di lavoro individuali. Un’altra priorità è l’assunzione di personale amministrativo che allo stato attuale e con il recente pensionamento di due unità, è quasi nullo tanto che il loro ruolo è ricoperto dal personale di Polizia Penitenziaria distolto dai compiti istituzionali. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria deve assumersi le proprie responsabilità ed adottare misure permanenti al fine di garantire l’ordine e la sicurezza nella Casa Circondariale di Rimini.

Messina: detenuti doppi di previsto, aumentano i reati sessuali

 

www.tempostretto.it, 19 febbraio 2009

 

"Tutti gli Istituti italiani" - afferma Rosario Spinelli, sindacalista della Polizia Penitenziaria - "versano in uno stato di sovraffollamento e, tra questi, quello di Mistretta e soprattutto quello di Messina. I dati recenti dimostrano che, oltre ad avere strutture fatiscenti, i due Istituti ospitano il doppio della normale ricettività prevista, rispettivamente 50 e 450.

C’è" - ha sottolineato Spinelli - "un trend in crescita esponenziale del numero dei reati: associativi mafiosi; spaccio e consumo di sostanze stupefacenti; micro-criminalità organizzata; ma soprattutto dei reati che riguardano la sfera sessuale e in particolare quelli di pedo-pornografia, diventando difficile con questi detenuti garantire loro l’incolumità attraverso la custodia separata gli uni dagli altri. Da segnalare il rapporto di forza esistente tra Poliziotti Penitenziari e detenuti, in netto svantaggio sui primi, che non ha eguali negli ambienti penitenziari".

Spinelli ha poi approfondito la situazione della Casa Circondariale di Messina: "È l’unico istituto della Sicilia e della Calabria dotato di un Centro clinico attrezzato; è destinatario d’assegnazione di detenuti affetti da svariate patologie per le quali, quando non possono essere curate nella struttura penitenziaria, i detenuti bisognevoli sono ricoverati nelle corsie presso i nosocomi della città, Policlinico Universitario, Ospedale Piemonte o Papardo, paralizzando indirettamente la serenità degli altri degenti a causa della doverosa presenza del personale incaricato al servizio di piantonamento. Sono anni che si chiede alle Direzioni delle Aziende Ospedaliere l’istituzione di appositi reparti detentivi, vani i risultati.

La condizione dei detenuti, in particolare quelli della sezione Cellulare" - ha continuato - " è tale che vi sono stipati 180 detenuti, tutti classificati di "media sicurezza", 111 dei quali, che si trovano al primo piano, da anni subiscono condizioni di vita pressoché scadenti. Le celle presentano gravi carenze igienico-sanitarie ospitando, in uno spazio di non più di 10 mq, tre detenuti con letti a castello sino al soffitto al punto che, capita di tanto in tanto, di fare la conta dei caduti durante la notte; i servizi igienici a vista, sono separati dal resto della stanza da una tendina rudimentale; l’umidità è persistente e i riscaldamenti non funzionanti".

Lamezia: l'Uil-Pa; è necessaria una nuova struttura carceraria

 

Giornale di Calabria, 19 febbraio 2009

 

Realizzare un nuovo carcere a Lamezia Terme. È quanto chiede il segretario regionale della Uilpa Penitenziari Calabria, Gennarino De Fazio, nella lettera inviata questa mattina al sindaco Gianni Speranza e all’assessore ai lavori pubblici Giuseppe Zaffina nella quale ribadisce che è "assolutamente indispensabile avviare urgenti, pragmatiche e tangibili iniziative al fine di individuare un sito e candidare fattivamente la città di Lamezia per la realizzazione di un nuovo e moderno carcere, considerato che il Governo a breve dovrà decidere i siti per la costruzione di nuove strutture penitenziarie".

Nella missiva De Fazio ricorda che il carcere di Lamezia è ospitato in una struttura nata nel 1300 come convento e successivamente riadattata ad istituto penitenziario, con una capienza di soli 30 posti. "Nonostante le ristrutturazioni che hanno interessato l’edificio nel corso degli anni ed i miglioramenti ottenuti - afferma il segretario Uilpa penitenziari - sotto il profilo logistico non ha i requisiti previsti dai moderni canoni di edilizia penitenziaria e, soprattutto, da solo non può garantire in termini di ricettività e funzionalità le risposte di cui un territorio come quello lametino necessita. Proprio per le deficienze logistiche, assai difficili, divengono le attività trattamentali a favore dei detenuti, ponendo anche evidenti limiti alla stessa finalità costituzionale della pena.

Il carcere lametino è l’unico in Calabria che non dispone neanche di un bar interno a favore dei dipendenti; inesistenti gli alloggi per il personale, persino gli automezzi del corpo di polizia penitenziaria devono essere parcheggiati al commissariato della Polizia di Stato per la mancanza di spazi nel carcere. Un territorio come quello lametino, che comprende la terza città della Calabria, e chi l’amministra pro tempore non possano farsi sfuggire l’occasione propiziata dal redigendo piano straordinario di edilizia penitenziaria.

Un nuovo carcere a Lamezia, oltre a rispondere a ragioni di coerenza giuridica in riferimento alla presenza del Tribunale, pure in ossequio al principio di territorializzazione della pena, consentirebbe a molti detenuti del comprensorio di scontare il debito con la giustizia e la collettività in prossimità della residenza delle proprie famiglie, evitando a queste ultime i costi conseguenti a lunghe trasferte per effettuare un’ora di colloquio ed allo Stato le spese connesse ai trasferimenti per le udienze e le varie esigenze giudiziarie.

Ma, soprattutto, una nuova struttura penitenziaria in città determinerebbe un considerevole incremento dell’organico della Polizia penitenziaria assegnato, aumentando la presenza di donne e uomini dello Stato a difesa della sicurezza dei cittadini. Da non trascurare - conclude De Fazio - gli ingenti riflessi che la struttura avrebbe sull’economia locale".

Rimini: a dicembre mostra con il primo "Salone della Giustizia"

 

Adnkronos, 19 febbraio 2009

 

Il processo "trasparente", nel vero senso della parola. È quello che si svolgerà al primo Salone della Giustizia, una "Cernobbio del diritto", come l’ha ribattezzato il suo promotore, il presidente della commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli, in programma a Rimini dal 3 al 6 dicembre prossimi. Trasparente perché l’aula di tribunale ricostruita in uno dei cinque padiglioni e che ospiterà un processo simulato, avrà le pareti in plexiglas.

Il Salone della Giustizia, unico nel suo genere nel mondo, è stato presentato oggi in una conferenza stampa a palazzo Giustiniani dallo stesso Berselli, alla presenza del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, dei vertici della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dei massimi rappresentanti della magistratura, dal presidente della Cassazione Vincenzo Carbone al presidente dell’Anm Luca Palamara, delle avvocature, degli ordini professionali e degli imprenditori. Presente il Cavaliere del lavoro e presidente del gruppo Gmc-Adnkronos, Giuseppe Marra.

Cinque i padiglioni, grandi come campi di calcio, di cui uno maxi, lungo 225 metri e largo 60, riservato ai mezzi speciali delle Forze dell’ordine, che porteranno elicotteri e motovedette d’altura, mezzi d’assalto dei gruppi di intervento speciali, gipponi blindati anticontrabbando, stazioni mobili e furgoni antisabotaggio, centrali d’ascolto. Persino un sommergibile, il Pluto e il cargo Mobix, oltre a scanner e robot di ultimissima generazione.

Genova: poliziotti drogati; l'inchiesta chiusa entro dieci giorni

di Graziano Cetara

 

Secolo XIX, 19 febbraio 2009

 

Il capo in persona degli "affari interni" della polizia è arrivato a Genova di prima mattina, con il suo vice, e alle 11 era già a colloquio con il procuratore capo Francesco Lalla, di fronte al questore Salvatore Presenti. Parola d’ordine "collaborazione".

Effetti immediati: nessuno. Gli ispettori del ministero dell’Interno hanno ottenuto per ora un fermo no alla richiesta di acquisire l’elenco dei poliziotti coinvolti nello scandalo, perché scoperti a fare uso di cocaina "I loro nomi sono ancora segreti - hanno spiegato Lalla e il sostituto procuratore titolare dell’inchiesta Vittorio Ranieri Miniati -Tempo dieci giorni e l’indagine sarà chiusa e quella lista sarà consegnata per i procedimenti disciplinari".

A pochi metri dal palazzo di giustizia, quegli stessi agenti sfilavano davanti ai colleghi investigatori, protagonisti dell’indagine che ha condotto dieci giorni fa all’arresto di due poliziotti, Stefano Picasso e Morgan Mele (genovesi in servizio nelle questure di Asti e Lodi, ora agli arresti domiciliari).

Gli interrogatori sono andati avanti per tutta la giornata. I testimoni ascoltati hanno ammesso e, per quanto possibile, si sono detti pronti a collaborare. Una svolta che potrebbe fornire all’inchiesta nuova linfa per ulteriori prossimi sviluppi.

È ufficialmente cominciata l’ispezione voluta dal capo della polizia Antonio Manganelli. L’obiettivo è quello di accertare se l’uso di cocaina sia nella questura di Genova un fenomeno diffuso e radicato e, di conseguenza, circoscriverlo. Gli agenti travolti dalla bufera, molti di origine genovese, sono tuttora in servizio in almeno cinque questure.

Lo stesso procuratore Lalla si è definito "preoccupato per il numero degli agenti coinvolti". "E interesse nostro e di tutti - ha detto - che siano presi i necessari provvedimenti". Era stato lo stesso questore Presenti a indicare la strada: "E necessario fare pulizia al più presto e punire chi ha sbagliato in modo severo".

A sbagliare, oltre ai poliziotti arrestati o coinvolti nello scandalo dei festini alla coca, secondo le segreterie provinciali di Silp Cgil - Siap, due delle principali organizzazioni di categoria, è stato anche lo stesso capo della polizia genovese. Per questo, in conclusione dì un documento durissimo diffuso ieri al termine dell’incontro con gli ispettori del ministero, i segretari sindacali hanno chiesto formalmente che il questore di Genova sia rimosso e sostituito: "L’ispezione riconosce, anche se tardivamente, la gravità della condizione organizzativa e gestionale della questura del capoluogo ligure. Si tratta di un momento fondamentale per il bene dell’immagine della polizia di Stato e per i poliziotti che ogni giorno fanno il loro dovere, misurandosi con la scarsezza di mezzi e strumenti a disposizione. Questa ispezione deve restituirci dignità".

L’ultimo caso che ha scosso la categoria e l’opinione pubblica arriva dopo una serie "preoccupante" di altri casi che hanno visto coinvolti poliziotti genovesi. I due arresti degli ispettori della Narcotici, scoperti a trafficare con parte dello stupefacente sequestrato agli spacciatori, e la cattura di un agente del reparto mobile, sorpreso a trasportare un quintale di hashish.

E poi gli scandali delle bottiglie molotov (le prove di uno dei processi relativi al G8 scomparse prima e poi distrutte), le false testimonianze (di cui l’ex questore è stato accusato insieme all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro) e le misteriose missioni in Guinea di un gruppo di agenti "a libro paga" di un misterioso imprenditore a processo a Genova per bancarotta fraudolenta.

"È necessario che la verifica venga effettuata con l’obbiettivo di capire il motivo - concludono i sindacati - per cui certi ingiustificabili e deprecabili comportamenti abbiamo trovato il modo di svilupparsi in particolare a Genova".

Immigrazione: Lampedusa; il Cie a fuoco, tragedia annunciata

 

www.unimondo.org, 19 febbraio 2009

 

La rivolta che è scoppiata questa mattina nell’ex Cpa ora trasformato in Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Lampedusa ha provocato numerosi feriti e ustionati tra gli immigrati. Nella struttura, che attualmente ospita oltre 800 immigrati in gran parte tunisini, si è sviluppato anche un incendio di vaste proporzioni (foto e video).

"Era annunciato. Non solo perché la struttura non risponde alla normativa anti-incendio stabilita dallo stesso Ministero dell’Interno, ma anche per la scelta di trasformare quello che fino a poco tempo fa era un centro di prima accoglienza e soccorso - da cui secondo il premier si poteva "uscire a bere un birra in paese" - in un Centro di identificazione ed espulsione (anche se ancora non è possibile visionare il testo del decreto istitutivo). E poi le espulsioni collettive, i rimpatri di massa nei confronti dei cittadini tunisini per i quali le domande d’asilo (un diritto soggettivo) sono considerate carta straccia" - riporta Melting Pot.

Gli enti di tutela dei rifugiati riuniti nel Tavolo Asilo si sono rivolti al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al ministro dell’Interno esprimendo "profonda preoccupazione" per quanto sta avvenendo nel centro utilizzato a partire da gennaio per decisione del ministro dell’Interno come Centro di identificazione ed espulsione (Cie).

Nella lettera le associazioni - tra cui Amnesty, Arci, Asgi, Centro Astalli, Cir e Medici senza Frontiere - denunciano "la scelta messa in atto dal Governo di concentrare a Lampedusa tutti i migranti che giungono presso le sue coste, qualunque sia la loro condizione giuridica": scelta che "ha creato nell’isola una situazione di grande e crescente tensione".

Il Tavolo Asilo chiede perciò con urgenza "che tutti i migranti siano immediatamente trasferiti in altre strutture idonee, ove siano svolte le procedure amministrative, in particolare quella di asilo" e che "l’isola di Lampedusa sia sede esclusivamente di strutture destinate al primo soccorso e all’accoglienza dei migranti".

L’Alto commissariato delle Nazioni Unite (Unhcr) per i rifugiati ha seguito la rivolta ha chiesto di "evacuare immediatamente tutti i migranti e gli operatori che si trovano nella struttura di Lampedusa in modo da evitare intossicazioni e ustioni". L’Unhcr è in contatto con il Viminale a cui ha chiesto di intervenire al più presto per evitare il peggio. La struttura è stata trasformata nelle settimane scorse da Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) in Centro di identificazione ed espulsione (Cie) provocando la protesta dei migranti e quella della popolazione.

Già nelle scorse settimane un incendio di minore entità aveva danneggiato la struttura della base Loran (prima destinazione del Cie), poi, con l’inizio dei rimpatri (ieri 107 tunisini trasferiti a Roma in attesa di espulsione), dopo che per mesi gli stessi migranti erano stati trattenuti ingiustamente ed illegalmente nell’isola prigione, le prime iniziative di protesta interna, lo sciopero della fame, fino ai tentativi di fuga avvenuti nella mattinata di oggi, che hanno comportato l’intervento delle forze di Polizia, (si parla di un isola militarizzata) il lancio di lacrimogeni, gli scontri e poi ancora il rogo appiccato probabilmente dai migranti dopo aver ammassato materassi ed altro materiale infiammabile.

Lo scorso mese gli abitanti dell’isola di Lampedusa erano stati protagonisti di una battaglia inedita e straordinaria per il loro futuro, che ha saputo coniugare il desiderio e l’ambizione di battersi per la difesa della propria terra a quella per la civiltà ed i diritti, contro la costruzione di nuovi centri e la trasformazione dell’isola in una nuova Alcatraz.

Dal mese scorso l’ampio cartello di associazioni del Tavolo Asilo ha espresso "vivissima preoccupazione per il grave e imminente rischio di estese violazioni dei diritti fondamentali dei migranti e rifugiati presenti a Lampedusa". Le associazioni - tra cui Amnesty, Arci, Asgi, Cir, Comunità di S. Egidio, Medici senza Frontiere e Save The Children - criticano soprattutto "alcune scelte del Governo italiano relative alla complessiva gestione degli arrivi di cittadini stranieri a Lampedusa".

La decisione del Ministro dell’Interno di sospendere "ogni trasferimento dei cittadini stranieri dal Centro di primo soccorso e accoglienza (Cspa) di Lampedusa verso altre strutture situate nel territorio nazionale" ha comportato che presso la struttura predisposta per poco più di 380 posti - estensibili all’occorrenza a 800/850 - al 21 gennaio venissero trattenuti oltre 1.800 immigrati con "problemi seri di sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie preoccupanti e un’allarmante promiscuità tra uomini, donne e bambini".

Immigrazione: Lampedusa; dopo la rivolta al via trasferimenti

 

Ansa, 19 febbraio 2009

 

Sono stati trasferiti nella notte 180 immigrati che si trovavano nel centro di Lampedusa. Il ponte aereo è avvenuto con due voli diretti a Gorizia e Cagliari. Per questa mattina sono previsti altri due voli sui quali dovranno essere caricate 120 persone la cui destinazione non è stata resa nota. Fra i migranti trasferiti in nottata vi sono molti tunisini che hanno preso parte alla rivolta contro poliziotti e carabinieri avvenuta ieri nel centro di identificazione ed espulsione in cui è sono state appiccate le fiamme ad un edificio.

Nella rivolta sono rimaste complessivamente ferite 24 le persone . Ventidue, tra poliziotti e carabinieri, hanno riportato contusioni provocate dagli oggetti lanciati dagli extracomunitari o sono rimasti intossicati; due immigrati sono invece ricoverati per le esalazioni del fumo sprigionate dalle fiamme. L’incendio, completamente domato, ha distrutto almeno il 60% del centro d’accoglienza.

La rivolta degli immigrati all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa è scoppiata ieri poco prima di mezzogiorno. Tutto è avvenuto al momento della distribuzione dei pasti: un gruppo di tunisini, che aveva cominciato uno sciopero della fame per protestare contro i rimpatri coatti, ha aggredito alcuni connazionali che avevano deciso di pranzare egualmente. Gli agenti di polizia e i carabinieri in servizio all’interno del Centro sono subito intervenuti per calmare gli animi.

A quel punto gli immigrati hanno scaricato la loro rabbia contro gli uomini in divisa, lanciando water, porte sradicate e pezzi di lamierino che hanno ferito alcuni agenti. Le forze dell’ordine, in assetto anti sommossa, hanno risposto facendo anche uso di manganelli e lacrimogeni. Per alcuni minuti all’interno del Centro è regnato il caos: alcuni rivoltosi, secondo la ricostruzione del questore di Agrigento Girolamo di Fazio, avrebbero tentato di fuggire, forzando il cancello d’ingresso. Altri avrebbero appiccato l’incendio che ha distrutto interamente una delle tre palazzine, dando fuoco a materassi, cuscini e altre suppellettili. Il questore ha detto che i responsabili della rivolta, una ventina di tunisini, sono già stati identificati e arrestati.

Il sindaco di Lampedusa Dino De Rubeis, dopo gli scontri di questa mattina tra gli immigrati e le forze dell’ordine all’interno del Cie sfociati in un incendio, sollecita "l’intervento del presidente del consiglio Silvio Berlusconi e la rimozione immediata del ministro Maroni, responsabile del fallimento totale dell’operazione". "Grazie all’opera svolta dal ministro - sostiene De Rubeis - si è corso il rischio che a Lampedusa potesse accadere una strage sia tra gli immigrati, sia tra le persone che lavorano all’interno del centro e tra la popolazione".

Immigrazione: al pronto soccorso il 15% in meno di clandestini

 

Vita, 19 febbraio 2009

 

Niguarda Milano: Cifre precise ancora non sono disponibili, "ma la sensazione è che al pronto soccorso dell’Ospedale Niguarda si sia registrato un calo del 15-20% negli accessi di immigrati", in seguito alle notizie dell’emendamento al pacchetto sicurezza sulle cure mediche ai clandestini. Parola del direttore del pronto soccorso, Daniele Coen, che ricorda come la struttura vanti 5mila accessi l’anno, con il 5% dei pazienti che si presentano ogni giorno costituito proprio da stranieri. Oltre ai numeri in lieve calo, comincia a diffondersi la preoccupazione, e c’è chi rinuncia alle cure o le rimanda per timore di una segnalazione. "Come nel caso di un paziente giunto nei giorni scorsi già molto grave, e poi ricoverato in rianimazione per una severa infezione con necrosi - racconta Coen - Quando gli abbiamo chiesto perché non si fosse presentato prima, ha riposto che era clandestino e aveva paura".

Policlinico e Mangiagalli Milano: È di circa il 15% il calo stimato degli accessi degli stranieri al pronto soccorso e agli ambulatori dell’ospedale Maggiore Policlinico di Milano, in seguito al via libera dell’emendamento al "pacchetto sicurezza sui clandestini". Una lieve riduzione iniziata fin dalla diffusione delle prime notizie sul provvedimento, che però non sembra aver toccato l’ospedale Mangiagalli. D’altro canto qui, nel caso si presenti una straniera irregolare in attesa di un figlio, viene fornita alla donna la documentazione per richiedere il permesso temporaneo.

San Paolo Milano: Qui il calo di accessi è notevole, repentino e recente. "Fino a tutto gennaio -spiega infatti Cesare Bernasconi, primario del Pronto soccorso dell’azienda ospedaliera San Paolo di Milano - non abbiamo verificato una diminuzione statisticamente degna di nota degli accessi di cittadini stranieri irregolari al nostro pronto soccorso, accessi che stimiamo siano valutabili nel 12-15% circa del totale. Diversa la situazione delle ultime due settimane. In questo periodo, infatti -precisa il medico- abbiamo registrato un calo degli accessi alla nostra struttura da parte di questa fascia di utenti che si aggira intorno al 50%". La struttura è in prima linea nel capoluogo lombardo nell’assistenza agli stranieri, e vanta tra l’altro un ambulatorio per le donne immigrate.

San Carlo Borromeo Milano: Nessun calo di accessi, a gennaio 2009 rispetto allo stesso mese dell’anno prima, nell’ambulatorio dei codici bianchi (che dovrebbero andare dal medico di famiglia) dell’ospedale San Carlo Borromeo di Milano. "Si tratta di una struttura particolarmente gettonata dagli immigrati, in cui il 32% degli accessi è composto proprio da stranieri extracomunitari -spiega Giovanni Ruggeri, responsabile della comunicazione della struttura- Gli immigrati che non vogliono farsi riconoscere, e che dunque classifichiamo come Stp (stranieri temporaneamente presenti), rappresentano l’1,80% di questo 32%, cioè 180 persone in un mese.

Ebbene, se esaminiamo la proiezione del mese di gennaio 2009 rispetto a gennaio 2008, si registra un calo dello 0,16% degli irregolari". Dunque una riduzione minima. "Invece una certa preoccupazione c’è: molti sempre più spesso chiedono informazioni - spiega Ruggeri - vogliono sapere come si comporta l’ospedale rispetto a questa misura prevista dall’emendamento al pacchetto sicurezza. E noi - conclude - li rassicuriamo".

San Gallicano Roma: Un altro centro di riferimento è la struttura complessa di medicina preventiva delle migrazioni, del turismo e di dermatologia tropicale del San Gallicano, a cui si rivolgono circa 180 persone al giorno, di cui l’85% stranieri. Anche qui l’effetto dell’emendamento leghista è svanito in fretta. "Nei due giorni successivi al via libera del Senato c’è stata -spiega il primario della struttura, Luigi Toma- una riduzione del 10% del numero degli stranieri. Ma subito dopo, grazie anche al nostro lavoro di informazione, tutto è tornato alla normalità. Abbiamo spiegato bene a tutti che noi medici non ci sentiamo di segnalare i clandestini. Non è il nostro compito".

Policlinico Umberto I Roma: Nessuna sostanziale variazione anche al Policlinico Umberto I di Roma. Qui il numero degli stranieri che chiede soccorso sanitario è stabile sopra ai 200. Per l’esattezza 231 nei primi dieci giorni di febbraio, 269 nei primi dieci giorni di gennaio, e 222 nella prima decade di dicembre 2008. Anche riguardo i ricoveri i dati sono abbastanza allineati: 34 dal primo al dieci febbraio, 40 nei primi dieci giorni di gennaio, 34 nella prima decade dello scorso dicembre.

San Camillo Forlanini Roma: Qui a chiedere soccorso e cure sono più di 100 stranieri al giorno. Confrontando però la decade 7-17 febbraio di quest’anno con quella del 2008 si nota un leggero calo degli accessi. Se quest’anno, a varcare l’ingresso del Pronto soccorso del San Camillo sono stati infatti 111 stranieri, immigrati e non, l’anno scorso, nello stesso periodo, erano 132.

Ospedale Grassi di Ostia (Roma): Un’area della Capitale con un’alta concentrazione di immigrati è la zona del litorale romano. Significativo è quindi il dato emerso all’ospedale Grassi di Ostia dove, sostanzialmente, l’emendamento leghista non ha prodotto scossoni sul numero degli accessi di immigrati al Pronto soccorso. A parte i primi due-tre giorni dopo il sì del Senato al provvedimento.

"Dopo l’ok di Palazzo Madama" spiega il direttore sanitario Lindo Zarelli, "siamo passati da circa 35 accessi al giorno a meno di 20. Considerando sia il Pronto soccorso generale che quello ostetrico. Ma dopo un’accurata campagna di informazione sui media, e l’affissione in ospedale di cartelli e locandine, gli immigrati hanno capito che qui nessuno di loro rischiava di essere segnalato alle forze

dell’ordine".

Servizio di medicina solidale e delle migrazioni (Policlinico Tor Vergata Roma): In questa struttura, di assoluto riferimento per gli immigrati, la proposta leghista non ha prodotto nessun effetto. Almeno da un punto di vista strettamente numerico. La media degli accessi all’ambulatorio è infatti rimasta stabile: circa 50 al giorno, di cui il 70% immigrati, soprattutto donne. Qualcosa però è cambiato. "Questa proposta della Lega e il clima di intolleranza che si respira nel nostro Paese" spiega la responsabile del servizio, Lucia Ercoli, "hanno generato molta preoccupazione tra gli stranieri, clandestini e non. Molti, durante le visite, ci hanno confessato di voler abbandonare l’Italia".

Immigrazione: Anm; sottovalutato il rischio criminalità romena

 

Redattore Sociale - Dire, 19 febbraio 2009

 

"In Italia è successo che con qualche superficialità non si è valutato il rischio criminale dell’inserimento della Romania nella comunità europea". Lo ha dichiarato Giuseppe Cascini, segretario dell’Anm, intervenendo al programma "24 Mattino" su Radio 24 e parlando del fermo dei due rumeni per il caso Caffarella.

Cascini ha poi spiegato come sia possibile che uno dei due, fermato 9 volte e già espulso dal Prefetto di Roma, fosse ancora in Italia perché il tribunale di Bologna aveva rigettato il decreto di espulsione. "Non conosco le motivazioni del singolo caso - ha premesso - ma in Italia dopo il delitto Reggiani si è corsi ai ripari, di fronte all’emergenza criminalità in particolare a Roma, con strumenti legislativi e amministrativi non sempre adeguati perché assunti con fretta. Ci sono stati altri annullamenti simili perché le regole stabilite dall’Unione europea sono molto stringenti".

Il trattamento dei cittadini comunitari, ha aggiunto Cascini, "prevede per esempio il principio della presunzione d’innocenza fino a sentenza passata in giudicato. Le garanzie fondamentali non è che ci possono piacere quando riguardano alcuni e non ci piacciono quando riguardano altri. Una denuncia non basta a fare espellere una persona. Dobbiamo considerare che quel rumeno è come un italiano, con gli stessi diritti".

Immigrati: Mantovano; clandestini espulsi, o fuori da Schengen

 

Asca, 19 febbraio 2009

 

"Stiamo lavorando ad accordi con Tunisia e Libia" perché il flusso continuo di immigrazione clandestina in Italia "avrà un conclusione solo se i paesi di provenienza e di transito rispetteranno gli accordi. E se chi arriva clandestinamente viene rispedito a casa. Se vogliamo comportarci diversamente siamo fuori da Schengen".

Così, il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, intervenuto alla trasmissione Radio Anch’io dedicata alle regole dell’immigrazione in Italia. "Pare che in Italia si possa entrare solo clandestinamente - ha detto Mantovano - eppure fino ad oggi la Bossi-Fini ha fatto entrare in Italia circa 200mila extracomunitari ogni anno, collegati con un contratto di lavoro". La clandestinità, al contrario, ha detto, ha spesso sbocco nella criminalità: "Non è un caso che la stragrande maggioranza degli stranieri nelle carceri siano clandestini".

Droghe: Radicali; e ora Giovanardi se la prende con i ragazzini

 

Agenzia Radicale, 19 febbraio 2009

 

Dopo aver appreso che il sottosegretario Carlo Giovanardi ha dichiarato che nei prossimi mesi in quattro città saranno compiuti dei test antidroga su chi vuole prendere la patente o il patentino per il motorino, Giulio Manfredi (vice-presidente Comitato nazionale Radicali Italiani) ha dichiarato: "Giovanardi fa lo sbruffone prendendosela con i ragazzini e mettendo sotto i piedi la certezza del diritto. Come può pensare di imporre i test antidroga solamente in quattro città e per qualche migliaio di persone? Si creerebbe una disparità di trattamento con gli altri cittadini e i relativi provvedimenti potrebbero e dovrebbero essere impugnati davanti alla magistratura.

Sono poi fondate le osservazioni degli operatori del settore, peraltro già sollevate oltre vent’anni fa dal compianto Giancarlo Arnao: l’esame delle urine può riscontrare tracce di cannabinoidi fumati giorni, settimane o mesi prima del test. Non per nulla, da vent’anni a questa parte, tali esami sono utilizzati per perseguire e perseguitare tout court i consumatori di droghe (per la stragrande maggioranza quelli di droghe leggere), non certo per riscontrare un’intossicazione in atto, come accade, invece, per quanto riguarda i controlli sull’alcool con l’etilometro.

Rispetto al decreto sulla sicurezza in discussione questa settimana alla Camera, il governo non si smentisce: la legge Fini-Giovanardi aveva fatto di tutta l’erba un fascio, non distinguendo più fra cannabis, eroina, cocaina, ecstasy; coerentemente, le nuove misure intendono colpire la guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di stupefacenti, qualunque sia lo stupefacente consumato e qualunque sia la quantità e composizione.

Di più: le sanzioni relative agli stupefacenti sono calibrate su quelle relative al consumo massimo di alcolici; chi si è fatto uno spinello una settimana fa ed è beccato alla guida rischia un’ammenda da 2.500 a 9.000 euro e l’arresto da 3 mesi a un anno come chi si è scolato una bottiglia di superalcolico mentre era già al volante. Tutto questo con la giustizia non c’entra nulla, poiché la legge deve (diciamo dovrebbe) sanzionare con la stessa misura condotte ugualmente pericolose ma con misure diverse condotte con gradi di pericolosità diversi.".

Stati Uniti: sceriffo sotto accusa, per detenuti in mutande rosa

 

Apcom, 19 febbraio 2009

 

Uno sceriffo dell’Arizona è accusato di abuso di potere per aver riservato a duecento detenuti messicani un trattamento senza dubbio poco convenzionale: farli marciare per le vie di Phoenix, vestiti soltanto con biancheria intima rosa. Lo sceriffo Joe Arpaio, il capo delle forze di polizia della contea di Maricopa, della quale fa parte Phoenix, è ora formalmente indagato e potrebbe presto trovarsi di fronte a un’inchiesta federale per violazione dei diritti civili e per discriminazione nei confronti degli immigrati latini.

La notizia ha assunto rilevanza nazionale nel giorno della visita in Arizona del presidente americano Barack Obama, che presenterà un piano per aiutare i proprietari di casa che non riescono a pagare le rate del mutuo. Arpaio, che si autodefinisce "lo sceriffo più duro d’America", non è nuovo a iniziative controverse per pubblicizzare il pugno duro sul crimine (la notorietà è vitale per lo sceriffo di una contea, una carica elettiva negli Stati Uniti).

È sotto accusa per aver alloggiato i carcerati dentro tende nel caldo torrido dell’Arizona ed è finito sotto i riflettori dopo una controversa partecipazione al reality show "Smile... you are under arrest" (Sorridi... sei in arresto), sull’emittente filo repubblicana Fox.

Il maggiore dei grattacapi per lo "sceriffo Joe" è che per indagare sulla vicenda sono stati chiamati in causa il ministro della Giustizia Eric Holder e il ministro degli Interni Janet Napolitano, l’ex governatrice dell’Arizona.

Napolitano ha avuto rapporti amichevoli con Arpaio in passato, ma aveva espresso preoccupazione per il ricorso alla pubblica umiliazione nella lotta al crimine e ordinò la revisione del programma che consente alle forze dell’ordine locali di intervenire contro l’immigrazione illegale. Il rischio di abusi è troppo alto, specialmente nel caso di Arpaio. La settimana scorsa lo sceriffo ha costretto 200 immigrati messicani a marciare in catene attraverso le strade di Phoenix in quello che il New York Times ha definito uno "spettacolo degradante".

"La segregazione per un fatto razziale non è accettabile", ha detto uno dei giudici chiesto l’intervento di Holder e Napolitano, nel suo nuovo ruolo al governo. "Arresti mediatici e esibizionismo non possono sostituire una equa ed efficace applicazione della legge", ha aggiunto. Arpaio era già stato accusato di discriminazione razziale l’anno scorso, quando il sindaco di Phoenix, Phil Gordon, aveva richiesto un’indagine all’allora ministro della Giustizia Michael Mukasey. Questa settimana lo sceriffo ha negato in un’intervista al quotidiano locale Arizona Republic che i suoi funzionari abbiano mai agito sulla base di un fattore razziale. Ma le sue iniziative parlano da sole.

 

 

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