Rassegna stampa 18 febbraio

 

Giustizia: in Italia ¼ dei detenuti europei in attesa di giudizio

di Donatella Stasio

 

Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2009

 

C’è un carcere, in Italia, che batte ogni record: Poggioreale, il più affollato della penisola e di qualunque altro penitenziario d’Europa. Alla fine di gennaio c’erano 2.544 detenuti, 1.200 in più dei posti regolamentari e mille in più di quelli che le alchimie penitenziarie considerano "tollerabili". Due record, anzi tre, visto che i clienti del carcere napoletano sono quasi tutte persone in attesa di giudizio, 2.200, e, anche in questo caso, nessun carcere in Europa arriva a tanto. Del resto, Poggioreale è lo specchio del Paese. La massa degli imputati reclusi in Italia non ha eguali in nessuno dei 27 Paesi Ue, neanche in quelli che hanno più carcerati di noi: in Europa se ne contano, complessivamente, 130mila e un quarto risiede nelle nostre galere.

Giustizia lenta e, ovviamente, carceri zeppe di gente che aspetta il processo. È l’Italia dei primati negativi. La foto scattata a Bruxelles qualche giorno fa ritrae una popolazione di 605mila detenuti nelle galere europee, di cui 59.419 rinchiusi in Italia: siamo tornati ai livelli pre-indulto. Germania e Regno Unito ne hanno 20mila in più, la Spagna viaggia sui 65mila e la Francia ci tallona. Ma sul fronte dei detenuti in attesa di giudizio, siamo i primi con 30.064 presenze su 130mila censite in Europa. Secondo i dati più recenti del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), i "giudicabili" sono il 51% dei carcerati; i "definitivi" il 46% (i restanti sono gli internati negli Opg).

In Italia si fa più carcere prima del processo che dopo la condanna. L’eccesso di custodia cautelare è considerata una piaga nazionale, ma l’indignazione viaggia a corrente alternata con la voglia di carcere preventivo, come dimostra lo scandalo suscitato dagli arresti domiciliari concessi allo "stupratore di Capodanno" e l’immediata approvazione, al Senato, della norma che rende obbligatoria la custodia in carcere per gli stupratori.

Poggioreale specchio del Paese e, ovviamente, della Campania, la Regione con il maggior numero di detenuti in attesa di giudizio (4.351), seguita da Lombardia (4.272), Sicilia (3.533) e Piemonte (2.284). La palma della Regione con più detenuti in assoluto va invece alla Lombardia, con 8.109 presenze rispetto alle 7.378 della Campania e alle 7.034 della Sicilia. Tra i detenuti in attesa di giudizio, gli italiani (16.728) superano gli stranieri (13.336), che comunque sono il 38% della clientela del carcere: la più alta concentrazione, 3.572, è in Lombardia, mentre in Campania gli stranieri sono appena 910. La sovraffollata Lombardia è però la Regione più a corto di poliziotti in servizio nelle carceri: 4.211, la metà dei detenuti. Non stanno meglio Emilia-Romagna e Piemonte, mentre al Sud il rapporto agenti/detenuti sale e in Calabria è di 1 a 1.

A Poggioreale, però, ce ne sono solo 722. Allarga le braccia Cosimo Giordano, direttore di lungo corso, passato per Pianosa, Porto Azzurro, Sollicciano e approdato qui otto mesi fa. È il "sindaco" di questa cittadella nel cuore di Napoli, una bomba che potrebbe esplodere in qualsiasi momento. Anche perché ogni giorno, in queste mura fatiscenti, entrano per i colloqui dalle mille alle 1500 persone. "Mancano gli spazi, dalle sale colloqui alle stanze per la socialità. Non c’è neppure un campo sportivo", dice Giordano, riferendosi al fatto che nelle patrie galere magari non ci sono i letti, ma un campo di calcio non manca quasi mai.

La sensazione di "impotenza" è grande. Il sovraffollamento costringe ancora di più a osservare un regime di chiusura in cella per l’intera giornata, salvo due ore d’aria. Ogni detenuto si sposta solo se accompagnato da un agente. Il lavoro interno (scopini, spesini, cuochi) è scarso ed è un privilegio: chi ce l’ha, è più libero di muoversi. Lavoro all’esterno zero. D’altra parte, in Campania, su 7mila detenuti rinchiusi in 15 carceri, soltanto 6 lavorano fuori.

"Come si fa a tenere aperti, su un piano, 200 detenuti con due soli poliziotti? - osserva Giordano -. L’unica soluzione è tenerli chiusi". Ma in cella ci sono anche 14 persone. A marzo dovrebbe essere aperto un padiglione da 400 posti, ma mancano i poliziotti per gestirlo. Il sovraffollamento "manda in tilt servizi essenziali" come l’ufficio matricola e colloqui, che non ce la fa a reggere più di 500 visite giornaliere, per cui i parenti dei detenuti sono costretti a stare in fila dalle tre del mattino, fuori dal portone, per essere sicuri di entrare.

A Poggioreale i detenuti sono quasi tutti camorristi (all’esterno ci sono ben 40 clan) e si fatica a tenerli separati. Eppure non vola una mosca. Tutto gira come un orologio. Potenza della camorra? La risposta è, ovviamente, negativa. "Il personale di polizia è molto qualificato", dice Giordano e il comandante, un poliziotto robusto e dall’aria pacioccona, conferma: "Il rapporto con i detenuti è ottimale. Qui c’è tranquillità assoluta e rispetto reciproco".

Conferma anche Gennaro, uno dei pochi detenuti che lavora in carcere, come cuoco: "Poggioreale è un carcere duro. Siamo più chiusi che da altre parti, il lavoro è poco e i permessi non arrivano quasi mai. Ci sono regole da rispettare, non è che puoi fare tarantelle. L’importante - chiosa - è fare il detenuto modello".

Giustizia: dubbi sulla copertura finanziaria del "piano-carceri"

 

Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2009

 

Effetti peggiorativi sui conti pubblici potrebbero essere determinati dal Piano carceri contenuto nel disegno di legge di conversione del dl n. 207 del 30 dicembre 2008, cosiddetto Milleproroghe, all’esame della Camera.

A sollevare i dubbi sulla copertura finanziaria è il Servizio Studi della Camera secondo il quale "a fronte del piano di incremento delle infrastrutture carcerarie prefigurato dalla norma, non sono previste risorse aggiuntive, bensì l’utilizzo di risorse disponibili a legislazione vigente (le risorse stanziate per la Legge Obiettivo (Legge 443/2001) o rese disponibili dalla cassa delle ammende di cui all’art. 4 della Legge 537/1932).

Appare pertanto necessario - continuano i tecnici di Montecitorio - che sia chiarito se la finalità aggiuntiva si configuri come sostitutiva di altre attualmente previste, secondo un ordine di priorità che verrà definito, o se i tempi effettivi di utilizzo delle risorse disponibili possano registrare, in conseguenza della norma, un’accelerazione rispetto a quanto scontato negli andamenti tendenziali, con conseguenti effetti peggiorativi sui saldi."

Ricordiamo che il Piano carceri, per far fronte alla grave situazione di sovrappopolamento delle carceri, e comunque fino al 31 dicembre 2010, attribuisce al Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i poteri di commissario straordinario previsti dall’articolo 20 del DL 185/2008 anticrisi.

Il piano prevede che le opere programmate siano inserite nel programma di cui all’articolo 1, comma 1, della Legge Obiettivo, nonché, se di importo superiore a 100.000 euro, nel programma triennale previsto dall’articolo 128 del Dlgs 163/2006 (Codice degli appalti). Altra fonte di finanziamento è stata individuata nella Cassa delle Ammende che disporrebbe, ad oggi, di oltre 150 milioni di euro destinati a progetti di reinserimento dei detenuti.

Giustizia: Garante nazionale, o locale, per i diritti dei detenuti?

 

Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2009

 

Il maxiemendamento presentato dal Governo al decreto Milleproroghe, durante l’esame al Senato, ha introdotto la possibilità per i detenuti di ricevere visite non autorizzate anche dal Garante dei diritti dei detenuti che però, a livello nazionale, non esiste.

Il Servizio Studi della Camera spiega che il testo modifica la legge 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e in particolare gli articoli 18 comma 1, e 67 comma 1, prevedendo anche "il garante dei diritti dei detenuti" tra i soggetti ammessi ai colloqui e alla corrispondenza con i detenuti.

"Si segnala che, allo stato, non risulta istituita una figura nazionale, con compiti di Garante dei diritti dei detenuti - sottolineano i tecnici - a livello territoriale, invece, con apposite leggi regionali o delibere provinciali e comunali, sono stati istituiti organi di garanzia di tale natura in 9 regioni (Lazio, Campania, Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Puglia e Sicilia), 2 province (Milano e Lodi) e numerosi comuni (tra cui, capoluoghi di regione come Roma, Firenze, Torino, Bologna, e Reggio Calabria)".

Nella novella all’articolo 67, ricordano, "si fa generico riferimento ai Garanti dei diritti dei detenuti comunque denominati", mentre la nuova norma "sembra presupporre una figura unica di garante dei diritti dei detenuti, che peraltro non esiste nel nostro ordinamento". Dunque, concludono, "sarebbe opportuno meglio chiarire l’ambito di operatività delle due disposizioni".

Giustizia: Dap; basta celle polivalenti, più spazi per i detenuti

 

Redattore Sociale - Dire, 18 febbraio 2009

 

"Basta con le celle polivalenti" dove i detenuti svolgono praticamente tutte le loro attività; "occorre "costruire più spazi per i luoghi comuni".

È quanto dice il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, intervenendo alla presentazione primo Salone della Giustizia di Rimini organizzata dal presidente della commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, a Palazzo Giustiniani.

Il capo del Dap, parlando del problema del sovraffollamento delle carceri, sottolinea che "per restituire dignità" ai detenuti è necessario "riportare le celle alla funzione di luogo di riposo e non polifunzionale, come è attualmente"

A questo proposito Ionta ricorda l’intervento del governo con il piano-carceri che, inserito con un emendamento al decreto Milleproroghe, concede poteri speciali al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per l’edilizia carceraria che "è - ribadisce Ionta - la base di partenza per le persone detenute". Quindi aggiunge: "L’ambito logistico in cui si muove la persona che sta in carcere deve essere riportato a una condizione di dignità".

Giustizia: nel decreto anti-stupri tornano le ronde e l’ergastolo

 

Corriere della Sera, 18 febbraio 2009

 

Previsto un aumento degli organici delle forze dell’ordine (circa 2.000 unità) e l’ergastolo per chi uccide la vittima.

Dopo lo stop di lunedì sera, si torna a parlare di ronde - ma con una nuova formulazione, che evidenzia il ruolo di sindaci e prefetti - nel decreto legge anti-stupri che sarà approvato venerdì prossimo. Il testo, cui lavora in primis il Viminale, insieme ai ministeri della Giustizia e delle Pari opportunità, è comunque ancora suscettibile di cambiamenti e la messa a punto proseguirà nei prossimi giorni.

Tra gli altri elementi di novità nella bozza circolata martedì, ci sarebbe anche un aumento degli organici delle forze dell’ordine (si parla di circa 2.000 unità, che non sarebbero propriamente nuovi assunti, ma volontari in ferma breve o prefissata che sono risultati idonei nei concorsi degli anni scorsi) e la previsione dell’ergastolo per chi uccide la vittime dopo la violenza sessuale (ciò che capitò a Giovanna Reggiani uccisa a Roma il 30 ottobre del 2007.

Sul via libera alle associazioni dei cittadini non armati per il controllo del territorio (le cosiddette ronde), c’erano state perplessità da parte del Quirinale, ma anche da settori della maggioranza (i ministri Ignazio La Russa e Angelino Alfano in testa), oltre che la netta contrarietà dell’opposizione. Si sarebbe così arrivati ad una nuova formulazione della misura contenuta nel disegno di legge sulla sicurezza approvato dal Senato, enfatizzando il ruolo del sindaco e del prefetto, che devono dare l’ok allo strumento e prevedendo chiaramente che il compito dei cittadini sarà soltanto quello di segnalare eventuali problemi di ordine pubblico alle forze di polizia.

Giustizia: Fini contro le ronde; sono indegne di un Paese civile

di Alberto Custodero

 

La Repubblica, 18 febbraio 2009

 

"Le ronde indegne di un Paese civile". Per Gianfranco Fini, presidente della Camera, "è inammissibile farsi giustizia da soli" se per "ronde" si pensa a cittadini che "escono e si armano con bastoni o altri tipi di armi e cercano delinquenti". In questo caso, dice Fini, siamo in presenza di "una situazione non solo illegale. Ma da condannare".

Se, invece, precisa ancora l’ex leader di An, sono "cittadini che denunciano episodi criminali alle forze dell’ordine, si tratta di un comportamento condivisibile perché è collaborativo". È ancora polemica sulle "ronde", approvate nel ddl sicurezza al Senato, ma escluse dal decreto antistupri. C’è chi, come il senatore del Pd Riccardo Milana, parla di "Far West" e chiede se "le ronde siano più vicine alla milizia di era fascista, o se siano di stampo libanese".

E, al contrario, c’è chi, come il presidente dei deputati della Lega Nord, Roberto Cota, plaude alla presa di posizione di Fini. "Condividiamo le dichiarazioni del presidente della Camera - spiega Cota - che sottoscrive in pieno il testo dell’articolo 52 del disegno di legge sulla sicurezza così come approvato dal Senato". "Il testo - aggiunge il deputato leghista - è chiaro a tutti: non si prevede l’uso delle armi, ma la collaborazione con le forze dell’ordine attraverso la segnalazione di episodi criminosi". Sul via libera alle associazioni dei cittadini non armati per il controllo del territorio, del resto, c’erano state perplessità non solo da parte del Quirinale, ma anche da settori della maggioranza, dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano.

A quello della Difesa, Ignazio La Russa, secondo cui "le ronde hanno l’efficacia del lattaio che gira il quartiere per distribuire il latte e telefona alla polizia se s’imbatte in un reato". Ieri c’è stato un incontro fra il premier e il presidente della Repubblica. Silvio Berlusconi avrebbe spiegato a Giorgio Napolitano di aver inviato, lunedì, il ministro dell’Interno Roberto Maroni per recepire i "consigli" del Colle. E a proposito di voci secondo cui le ronde potrebbero rientrare nel testo del decreto antistupri - ma con una nuova formulazione che evidenzia il ruolo di sindaci e prefetti - è stato lo stesso titolare del Viminale a precisare, attraverso il suo portavoce, che "l’ipotesi resta aperta".

"Ma - ha sottolineato il ministero dell’Interno - solo se si trova un accordo sul testo e l’intesa con l’opposizione. Per ora pensiamo a aumentare gli organici di polizia di 2000 unità". A criticare la giustizia fai da te, va detto, sono gli stessi poliziotti. Secondo il segretario dei sindacati dei funzionari di Polizia (Anfp), Enzo Letizia, "le ronde, come l’uso degli spray urticanti, rappresentano il fallimento dello Stato nella sicurezza dei cittadini".

Dopo la denuncia dell’Opera Nomadi, è stato cambiato, intanto, il regolamento di accesso ai campi nomadi romani. L’ingresso anche nelle ore notturne resta libero, fatto salvo l’obbligo di registrazione di chiunque entri.

Roma: il Tribunale di Sorveglianza rischia la paralisi sul 41-bis

 

Il Velino, 18 febbraio 2009

 

"L’attribuzione al Tribunale di Sorveglianza di Roma della competenza esclusiva sui reclami contro i provvedimenti del Ministero di Giustizia relativi a tutti i detenuti sottoposti al regime del 41 bis rischia di paralizzare una struttura già oberata dal lavoro ordinario, con rischi gravissimi per il funzionamento del sistema carcerario del Lazio".

È quanto afferma, in sostanza, il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni in una lettera indirizzata ai componenti della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. L’attribuzione al Tribunale di Sorveglianza di Roma della competenza sui reclami relativi al 41 bis (attualmente i detenuti sottoposti a tale misura sono 587 in tutta Italia), è contenuta nell’art. 39 del Disegno di Legge n. 773, relativo a "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica", già approvato al Senato. "Una norma - scrive Marroni - che suscita la preoccupazione di quanti operano negli istituti penitenziari della Regione Lazio".

"Il Tribunale di Sorveglianza - continua nella sua lettera il Garante dei detenuti del Lazio - si avvale di 12 magistrati, impegnati a tempo pieno nel seguire la mole di lavoro che gli deriva dai 14 Istituti penitenziari della regione che, attualmente, ospitano una popolazione detenuta di oltre 5400 persone, peraltro in costante crescita. Si tratta, di seguire oltre 20.000 procedimenti ogni anno". Marroni ha ricordato che al Tribunale di Sorveglianza di Roma è stata affidata anche la competenza di tutti i collaboratori di giustizia del Paese.

"È evidente - dice il Garante - che ora, con questa nuova competenza esclusiva, a soffrirne saranno i detenuti cosiddetti comuni che, in definitiva, saranno destinati a patire ulteriormente l’inevitabile lentezza dei procedimenti relativi alla certezza e flessibilità della loro pena, a causa dell’obbligatoria attenzione del Tribunale. "Da tutto questo - conclude il Garante dei detenuti - deriva la richiesta di attenzione da parte della Camera dei Deputati per far si che questa norma venga opportunamente corretta".

Roma: arrestati presunti autori stupro Caffarella, due romeni

 

Corriere della Sera, 18 febbraio 2009

 

Sono stati catturati i due romeni presunti autori dello stupro avvenuto la sera di San Valentino nel parco della Caffarella a Roma. Hanno 20 e 36 anni: il più giovane, Alexandru Isztoika Loyos, ha confessato nella notte ed è stato riconosciuto dalla 14enne vittima della violenza e dal fidanzato. Era stato fermato martedì sera dalla polizia in un campo nomadi abusivo a Primavalle, a Roma, grazie all’identikit basato sulla testimonianza dei due fidanzati. Nella sua tenda è stato trovato un paio di pantaloni con macchie di sangue, ora al vaglio della Scientifica. Il complice più anziano, Karol Racz, è stato preso nella notte a Livorno grazie alle indicazioni di Loyos. Voleva scappare in Spagna. Decisiva nell’intera operazione la collaborazione della polizia romena.

Martedì sera Alexandru Isztoika Loyos, che in Romania faceva il pastore, è stato portato in questura insieme a sette connazionali per accertamenti. Durante l’interrogatorio i sospetti nei suoi confronti si sono trasformati in pesanti indizi, fino alla confessione al pm, Vincenzo Barba, con conseguente provvedimento di fermo.

"Non so perché, non so come è successo, volevamo solo rapinarli, poi improvvisamente tutto è cambiato", ha detto il 20enne in un passaggio della confessione. Ha ammesso che la 14enne è stata stuprata prima da lui e poi dal complice, che avevano appena rapinato i due fidanzati. "Perché l’ho fatto? Per dispetto" ha detto ancora Loyos. Il capo della Mobile, Vittorio Rizzi, ha spiegato che "non si rendeva conto dell’accaduto".

Durante l’interrogatorio non ha pianto, apparendo impassibile e privo di rimorso. Poco prima dell’alba, intorno alle 5.30, la polizia è arrivata al complice in fuga, anche lui sottoposto a fermo. Era in un campo nomadi del Cisternino, nella campagna livornese, al confine con il comune di Collesalvetti. Karol Racz, 36 anni, è arrivato intorno alle 9.20 in Questura a Roma.

L’uomo aveva trovato rifugio nell’insediamento nella notte tra domenica e lunedì, dopo aver raggiunto Livorno in pullman, ma non ha raccontato agli abitanti del campo il motivo per cui era scappato dalla capitale. Ha scelto quell’accampamento perché in passato aveva abitato lì e lavorato come raccoglitore di materiali in ferro prima di trasferirsi a Roma, circa cinque mesi fa. Proprio i nomadi del campo hanno contribuito al fermo, confermando agli agenti che il romeno era arrivato da Roma la notte di domenica. Il blitz è stato eseguito dalle Squadre mobili della capitale e di Livorno.

"I due fermati erano soliti andare in giro per i parchi, in questo caso a scopo di rapina - ha detto Rizzi -. Il 20enne ha raccontato che avevano avvicinato la coppia per rapinarla ma che poi avevano trovato la ragazza molto carina. Da qui sarebbe nato il proposito di abusarne".

Entrambi erano già noti alle forze dell’ordine di Roma e negli archivi della Questura c’erano le loro foto segnalazioni: erano stati identificati il 24 gennaio dopo i controlli in una baraccopoli a Primavalle, seguiti allo stupro di via Andersen (e gli inquirenti non escludono che i due possano essere coinvolti anche in questa violenza).

Racz ha menomazioni a una mano indicate sia dalla 41enne stuprata in via Andersen che dalla 14enne violentata alla Caffarella. Inoltre nella notte i funzionari della Squadra mobile hanno mostrato alla 41enne una foto del romeno e lei lo ha riconosciuto. "È lui, è lui, non lo posso dimenticare" ha detto tra le lacrime. Loyos era stato anche arrestato per furto e ricettazione. A suo carico nel 2008 l’ex prefetto di Roma Carlo Mosca aveva firmato un decreto di espulsione, poi annullato da un giudice di Bologna. Racz non aveva precedenti in Italia, ma in Romania aveva scontato tre anni di carcere per furto e ricettazione, dal 1999 al 2002.

Roma: "casa protetta" per mamme con bambini da Rebibbia

 

Redattore Sociale - Dire, 18 febbraio 2009

 

La proposta del presidente del V municipio di Roma, Ivano Caradonna: " La struttura è già pronta. Potrebbe ospitare trenta persone. Appello a comune e regione perché accolgano la proposta".

"Abbiamo individuato all’interno del parco di Aguzzano un casale che potrebbe ospitare una struttura protetta, dove spostare le mamme detenute con i bambini che sono attualmente a Rebibbia. Il nostro municipio intende portare avanti questo progetto, ma facciamo appello al comune di Roma e alla regione Lazio perché accolgano la nostra proposta". Lo ha dichiarato questa mattina il presidente del V municipio di Roma Ivano Caradonna, intervenendo al convegno "Mai più bambini in carcere", organizzato dalla provincia di Roma.

"La struttura è già stata ristrutturata, grazie ai fondi derivanti dalla compensazione. Si tratta di un casale di due piani che potrebbe accogliere circa trenta persone-continua- E" necessario, però, che ci sia una condivisione politica del progetto. Il casale si trova, infatti, in un’area che è di competenza di Roma Natura, l’ente regionale che sovrintende l’area del Parco dell’Aniene. È necessario poi che ci sia la disponibilità del comune di Roma e del ministero della Giustizia, che dovrebbe gestire la struttura". "È importante modificare la legge - aggiunge Caradonna - ma mentre va avanti l’iter legislativo la struttura protetta potrebbe rappresentare una soluzione transitoria, per ospitare le mamme detenute con bambini fuori dal carcere".

Roma: Marroni; 28 bambini a Rebibbia, il massimo sarebbe 13

 

Redattore Sociale - Dire, 18 febbraio 2009

 

L’appello del garante dei detenuti del Lazio Marroni: "Lo spazio è ristretto e i piccoli si ammalano per le condizioni di sovraffollamento".

"A Rebibbia ci sono attualmente 28 minori in carcere, in una struttura che ne può ospitare al massimo13. L’ambiente non è idoneo, lo spazio è ristretto e i bambini spesso si ammalano per le condizioni di sovraffollamento che favoriscono il contagio".

È il garante regionale dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni a lanciare l’appello sulle condizioni di disagio dei minori, da 0 a 3 anni, che vivono con le madri detenute in carcere, intervenendo al convegno "Mai più bambini in carcere" organizzato dalla Provincia di Roma. "Serve una legge che metta fine a questa situazione e che consenta alle mamme di vivere fuori dai penitenziari con i propri figli - continua Marroni- Si tratta soprattutto di bambini rom, figli di detenute che hanno reiterato più volte il reato e sono soggette a pene lunghe".

"I bambini che vivono fino a 3 anni in carcere non crescono bene. A Rebibbia c’è il nido e ci sono associazioni di volontari che operano a favore dei minori ma si tratta ancora di misure insufficienti - aggiunge l’assessore alle Politiche sociali della provincia di Roma Claudio Cecchini - serve una legge che renda più accessibile il collocamento fuori dal carcere delle donne coi loro figli. Con i fondi della Provincia e della Regione si possono costruire delle case famiglia, ma prima bisogna favorire il cambiamento della legge e trovare delle strutture idonee".

Latina: 6 detenuti in 15 mq, carcere dimenticato dalla politica

di Luigi Nieri

 

www.innocentievasioni.net, 18 febbraio 2009

 

Quando si arriva presso la Casa Circondariale di Latina si ha subito l’impressione di imbattersi in un luogo di detenzione diverso dagli altri. Qui quando un consigliere regionale si presenta per una ispezione di routine viene accolto con sguardi di stupore e con quell’impreparazione tipica di chi prima non ha mai svolto simili mansioni.

In pochi hanno visitato questa struttura - ci ha raccontato il comandante di reparto - quasi sempre lo hanno fatto in prossimità di importanti tornate elettorali. Ultimamente capita di rado che politici e amministratori facciano capolino da queste parti. Sono 10 anni che visito carceri, specialmente quelle di Roma e del Lazio. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato.

Oggi dopo l’indulto e dopo le violente campagne sulla sicurezza - quasi sempre trasformatesi in campagne contro gli immigrati - il sentimento prevalente nei confronti della popolazione detenuta è quello di ostilità. Nel carcere di Latina oggi sei detenuti sono rinchiusi in una stanza di quindici metri quadrati. La conseguenza è che quasi tutti sono costretti a vivere in spazi ridottissimi e a dormire su letti a castello a tre piani. Una situazione molto pericolosa specie per i detenuti malati.

Hanno difficoltà a stare tutti e sei insieme in piedi. La capienza regolamentare di questo istituto dovrebbe essere di 86 detenuti. Oggi invece sono presenti 171 persone, di cui 138 uomini e 33 donne. Il doppio delle presenze che questo carcere può sopportare. Eppure sono passati appena tre anni dall’indulto.

Molti di questi sono immigrati, in prevalenza centroafricani, romeni, magrebini, e in attesa di giudizio. Joy (nome di fantasia), ad esempio, attende da sette mesi il suo processo. L’attende suo marito, italiano, che vive a Cagliari. Anche lei può dire che la giustizia italiana è troppo lenta. A Latina l’attività educativa è essenziale. Qui, a decine di chilometri da Roma, non ci sono le tante associazioni che operano nelle carceri della Capitale.

Qui la solitudine si avverte con più forza. Colpa anche di quelle odiose schermature che impediscono a detenute e detenuti di vedere la luce del sole o semplicemente un pezzo di cielo. La colpa - ci dicono gli agenti - è dell’ubicazione della struttura, troppo a ridosso dei palazzi del quartiere. In queste celle regna il buio. Non sembra proprio essere, questa, la situazione migliore per chi dovrebbe avviare un percorso individuale per "rivedere la luce".

Un buio ancora più intenso sembra essere quello di una particolare sezione del carcere, laddove sono reclusi coloro che hanno compiuto reati sessuali. Molti di loro sono piegati su se stessi. Lo vedi dai loro volti, lividi. Per una strana coincidenza sono i soli che hanno la doccia in cella, come da regolamento. Ma in realtà la loro condizione è molto dura.

I detenuti di questa sezione oltre a vivere in isolamento, si sono inferti una punizione aggiuntiva: hanno scelto di non fare gruppo e di contrastarsi reciprocamente. La conseguenza è che ogni cella fa l’ora d’aria per conto suo. Nonostante le gravi condizioni di detenzione c’è nella Casa Circondariale un clima familiare e umano. Il direttore e il comandante, ad esempio, sono apprezzati, riconosciuti. Hanno instaurato con i detenuti un rapporto umano. E non si tratta di una cosa di poco conto. Ciò dimostra che chi opera a contatto con i detenuti spesso mostra maggiore sensibilità di chi governa.

Milano: S. Vittore è una polveriera scontri e feriti ogni giorno

di Enza Mastromatteo

 

DNews Milano, 18 febbraio 2009

 

Sovraffollamento e pochi agenti. Gli arrestati ingoiano forchette e lamette. Decine di casi ogni settimana.

Celle costruite per ospitare due detenuti e che invece contano 3 letti a castello per ogni parete. Al centro, un tavolino e due sedie scrostate. Tuguri dove per 6 persone diventa complicato addirittura stare in piedi. Strutture fatiscenti dall’aria irrespirabile, dove ogni giorno c’è un guasto alle tubature e agli impianti di riscaldamento. E dove ogni giorno, può succedere l’irreparabile. San Vittore è una polveriera pronta ad esplodere.

È la prima Casa Circondariale d’Italia con il maggior numero di situazioni di "emergenza critica": risse, tentativi di suicidi e atti di autolesionismo. Il telefono nell’ufficio della comandante Manuela Federico squilla di continuo. Dall’altra parte della cornetta c’è un ispettore che le comunica che, ancora un volta, un detenuto ha ingoiato una forchetta o che si è tagliato le vene dei polsi con una lametta. Scattano subito i soccorsi e partono nuove telefonate al pubblico ministero di turno per comunicare l’accaduto. Ecco che cosa intendono gli agenti della polizia penitenziaria per "emergenza critica". La media dei tentativi di suicidi è di 3 al giorno. Gli agenti fanno di tutto, ma prevenirli è sempre più difficile, perché esiste un abisso tra il numero dei poliziotti e quello dei detenuti: la legge ne prevede uno ogni tre, sono meno della metà.

San Vittore è stato costruito nel 1879 per contenere 800 persone. Ma al momento, dietro le sbarre di piazza Falingieri ce ne sono 1.415. Ogni giorno entrano ed escono dai 35 ai 40 detenuti. Hanno in media 25 anni, il 70 per cento sono stranieri. Ci restano tre giorni, in attesa della convalida del fermo. Oppure tre mesi, fino alla scadenza dei termini prima del rinvio a giudizio. Una volta condannati, per loro è obbligatorio il "trasloco" nelle Case di Reclusione di Opera e Bollate. Perché San Vittore è la "prima accoglienza" in attesa del processo. Ma di accogliente ha davvero poco.

I cerchi dell’inferno raccontati da Dante sono nove. A San Vittore invece ce ne sono sette. Tanti quanto il numero di reparti. Il primo è il Centro Clinico, dove c’è anche una sala operatoria per gli interventi di urgenza. Ma negli ultimi anni il bisturi si usa sempre meno: mancano i fondi per rinnovare e comprare strumenti e medicinali. Nei tre piani inferiori ci sono i detenuti con problemi di tossicodipendenza. Al’ultimo i "lavoranti": scopini, tabellieri, addetti alla mensa e alle pulizie. Il quinto reparto ospita al primo piano i "nuovi giunti". Coloro che per la prima volta varcano la soglia di in un carcere. Per loro il "battesimo" è un percorso con gli psicologi.

Si sale di un piano e si arriva all’ingresso delle celle "a rischio". Sono quelle di chi tenta il suicidio. Sono sempre le più affollate. Il sesto reparto è riservato ai "detenuti protetti". Trans, omosessuali, ex appartenenti alle forze dell’ordine, pedofili e autori di stupri e violenze in famiglia. Per loro la prigionia è doppia: non possono lasciare i corridoi del secondo piano senza essere "scortati" dalle guardie, neanche per l’ora d’aria. Potrebbero essere vittime della cosiddetta "dura legge del carcere". Per loro il nemico numero uno sono i "colleghi" detenuti. Le loro brande sono sistemate accanto alle celle del settore B, quelle di isolamento, riservate agli "indisciplinati".

Infine, nell’ultimo reparto, il settimo, ci solo le donne: quasi un centinaio, vigilate da 54 poliziotte. Per la detenute mamme con bambini, una decina in tutto, c’è una sede distaccata, denominata "Icam". La costruzione del carcere è ad anello. Al centro c’è la torre panoptica, da cui gli agenti possono guardare i quattro piani del carcere. Di solito uno contro tutti".

 

Stranieri ammassati dietro le sbarre, tra risse e odi etnici

 

"Facciamo un miracolo ogni giorno", ripetono gli agenti della polizia penitenziaria di San Vittore. Loro sono quasi 700. Il detenuti oltre il doppio. Custodi e custoditi, sono tutti prigionieri di uno stabile che cade a pezzi. Vittime ogni giorno di risse e sommosse difficili da placare. Marocchini contro albanesi. Sudamericani contro arabi. Sono sempre gli odi etnici a scatenare l’inferno. Il 70 per cento dei carcerati sono stranieri.

Hanno la pelle scura, le mani ancora sporche di coca e le braccia segnate dall’eroina. Sul volto le cicatrici della malavita. "Non si possono mettere nella stessa cella musulmani e cattolici, persone con culture completamente diverse letteralmente ammassati. Le risse sono inevitabili", spiegano gli agenti. Ma non si può fare diversamente. Ogni giorno arrivano nuovi detenuti. Si è tornati al punto di partenza, prima dell’indulto. L’impegno e gli sforzi dei poliziotti rischiano di diventare gocce nel mare.

Novara: sei detenuti in celle da tre, la situazione è al collasso

 

La Stampa, 18 febbraio 2009

 

Sono sei in celle da tre persone. Tutte senza la doccia. Riguarda anche il carcere di Novara l’allarme sul sovraffollamento delle prigioni lanciato dal Sappe, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria: "A Novara la situazione è al collasso".

In via Sforzesca i detenuti dovrebbero essere 169 e invece sono 193. Ma i numeri ingannano: sono falsati per la presenza dei 70 detenuti del 41-bis. Il sovraffollamento, infatti, non riguarda l’ala del "carcere duro" che rappresenta un istituto a sé con guardie proprie (una cinquantina di Gom) e regole diverse che ovviamente esclude la coabitazione. Cosa che invece avviene per gli altri carcerati che vivono in 4-5 e anche sei in camere predisposte per tre persone. "Il sovraffollamento è maggiore di quello che i numeri direbbero e questo comporta generali problemi di vivibilità. Insomma facciamo tutti la fine dei polli di Renzo nei "Promessi sposi", commenta la direttrice del carcere Onilde Guidi. Per le guardie, in particolare, si pongono problemi di sicurezza: sono 224 (invece che 290 come stabilito dalla pianta organica) per 120 detenuti: "Il carico di lavoro è superiore a quello che dovrebbe essere perché gli agenti sono impegnati con il doppio delle persone - commenta Silvano Cofrancesco, responsabile del Sappe -.

Una situazione aggravata da altri fattori derivanti dalle condizioni dell’edificio: nelle camere non ci sono le docce e quindi dobbiamo accompagnare i detenuti ai bagni. I rischi così aumentano. Il carcere non è vecchio ma presenta già grossi limiti strutturali".

Non c’è la palestra e le attività sportive sono relegate al campo da calcio, attualmente inagibile per il maltempo. Le attività sono circoscritte alle lezioni di scuola dell’obbligo e a un corso di grafica propedeutico alla tipografia esistente all’interno del carcere: "Prima era attiva anche una classe superiore, sezione staccata del "Mossotti", ma gli iscritti erano pochi e non valeva la pena di continuare" commenta la direttrice.

Una quarantina di detenuti lavorano in attività di pulizia, manutenzione, lavanderia e cucina: "Ma i fondi sono stati tagliati e quindi - sottolinea Guidi - le possibilità di impegno interno sono più scarse. Abbiamo suddiviso il lavoro a ore per far ruotare più persone e offrire maggiori possibilità".

I reati sono i più vari della criminalità ordinaria: le accuse ricorrenti riguardano gli stupefacenti ma ci sono anche carcerati per furti e rapine. Sono esclusi da Novara, invece, i detenuti per reati a sfondo sessuale: è necessaria un’ala apposita che li isoli dagli altri per timore di linciaggi e questo in via Sforzesca non esiste. Sono presenti, invece, settanta detenuti del cosiddetto "carcere duro". L’ala inizialmente era stata prevista per i terroristi, oggi sono soprattutto mafiosi tra cui anche Bernardo Provenzano.

La stragrande maggioranza dei detenuti ordinari è straniera: circa l’ottanta per cento, molti gli albanesi e i marocchini. "La massiccia presenza di stranieri - commenta Cofrancesco - per noi è un ulteriore elemento di difficoltà perché gestire culture, lingue e necessità differenti non è facile. Spesso poi ci sono contrasti tra etnie".

Una situazione che il rappresentante delle guardie definisce "al collasso": "Se non è ancora successo nulla di grave è grazie alla professionalità del personale - sottolinea Cofrancesco -. Però siamo stanchi. La settimana prossima partirà uno "sciopero bianco": applicheremo alla lettera il mansionario. Adesso siamo tenuti a osservare un ordine di servizio del 1980 quando l’organico era doppio".

Modena: Sappe; detenuti come sardine, 540 nel posto per 210

di Stefano Totaro

 

La Gazzetta di Modena, 18 febbraio 2009

 

Modena ha bisogno, Modena chiede rinforzi, ma il piatto piange. Il sindaco Pighi è tornato a mani vuote dalla missione a Roma per avere conferme sull’invio di forze di polizia per garantire sicurezza. Il carcere di Sant’Anna scoppia, c’è una guardia penitenziaria che deve sorvegliare ottanta detenuti, carcerati come sardine in una struttura a rischio. Soluzioni, rinforzi? Per ora nulla.

Il sindacato Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) lancia un ragionevole allarme. le cifre parlano da sole. "La capienza regolamentare dell’istituto è di 210 detenuti, con tollerabilità massima di circa 400 ristretti. Attualmente il numero dei detenuti ristretti a Sant’Anna è di 540 unità - scrivono Caruso e Miggiano, segretari provinciale e locale - un dato preoccupante per tutti coloro che vivono attivamente l’Istituto.

In particolare, è il lavoro della polizia penitenziaria che di riflesso risulta maggiormente penalizzato, aumentato a dismisura, con servizi eccessivamente ultrafaticosi, con i reparti detentivi saturi e oltremisura affollati con la presenza di circa 80 detenuti a settore, al cospetto di una sola unità di personale destinato a garantire quanto previsto dalla normativa vigente". Allarme sicurezza nel carcere, per chi ci lavora e di conseguenza allarme per la nostra città per una situazione pronta a degenerare.

"Ad essere messa seriamente in pericolo è la sicurezza dell’istituto, la sicurezza della società civile e nondimeno l’incolumità del personale di polizia penitenziaria. Il carcere di Modena è il secondo in regione per numero di detenuto ristretti (dopo L’istituto di Bologna), e dato attualmente più allarmante necessità di almeno 60 unità per far fronte alla carenza di personale.

Ancor più angosciante desta perplessità il progetto in via di approvazione riguardo alla costruzione di ulteriori reparti destinati ad ospitare la popolazione detenuta: senza uomini in divisa ma aumentando i ristretti. Molto probabilmente anche al riguardo ci sarà un chiaro lavoro di facciata delle istituzioni che destineranno alla Casa Circondariale di Modena un numero di unità di certo non confacente con le reali esigenze lavorative".

"Il Sappe chiede all’amministrazione penitenziaria e alle istituzioni locali di procedere quanto prima ad una risoluzione del problema, affinché il lavoro svolto dai poliziotti penitenziari rientri nei canoni della normalità, e che tutti considerino nella giusta maniera il lavoro di una categoria sempre bistrattata, poco avvezza a facili clamori, e ad esaltare oltremisura i soli disagi che vivono i detenuti".

"È questo un ulteriore aggravio che si ripercuote quotidianamente sui servizi della polizia penitenziaria che è impiegata oltre alla custodia dei detenuti anche in servizi di notifiche a coloro che sono posti a misure cautelari (es.: arresti domiciliari) nonché ad ulteriore aumento dei servizi di traduzione presso le autorità giudiziarie e presso altri istituti del paese.

A fronte delle problematiche indicate il Sappe adirà allo stato di agitazione e a proteste significative volte per rivendicare quanto sia dovuto e spetti di diritto alla categoria dei poliziotti penitenziari".

 

Il direttore: servono subito trenta agenti

 

"Sì, confermo. La situazione nel carcere di Sant’Anna è davvero al limite. Quando si usa l’espressione detenuti "ristretti" è proprio per indicare lo stato di estremo affollamento in spazi che mancano, che sono insufficienti. Bisogna intervenire in fretta, al più presto. Bisogna evitare che sia troppo tardi per porvi rimedio, evitare che il nostro carcere si trasformi in una polveriera".

Non nasconde preoccupazione sulla situazione in cui verte la sua struttura Paolo Madonna, direttore della casa circondariale Sant’Anna. Il dirigente conferma pressoché in tutto l’allarme lanciato dal sindacato. Si discosta solamente in una cifra, quella relativa al personale necessario a far sì che la situazione inizi a diventare accettabile, e per usare una parola di moda, sostenibile.

"Sono sessanta le unità che richiede il sindacato per far fronte all’emergenza, io ritengo invece che con l’arrivo di una trentina di agenti in più si potrebbe ovviare alla situazione attuale. In cifre, la nostra squadra vede a Sant’Anna centosettanta agenti, con varie mansioni. In realtà sono centocinquantadue quelle effettivamente in forza.

Ritengo che con trenta uomini in più e con i rientri di quei tanti che sono distaccati in altre strutture si potrebbe lavorare con più serenità, raggiungere un numero di presenze proporzionato alla situazione". "Una situazione - conclude il direttore del carcere modenese Paolo Madonna - che è davvero esplosiva e che rischia di degenerare non solo a Modena, ma in tutto il territorio nazionale. Le cifre parlano chiaro: abbiamo 60mila carcerati mentre le strutture presenti attualmente possono contenere 48mila persone". Quanto ai tempi e sulle percentuali di possibilità di un invio di rinforzi la risposta è significativa: "Ci vorrebbe la sfera di cristallo".

Pordenone: carcere rimane affollato, anche dopo trasferimenti

 

Messaggero Veneto, 18 febbraio 2009

 

Nonostante gli interventi di riduzione delle presenze, a fronte delle difficili condizioni strutturali, il carcere di Pordenone rimane sovraffollato. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, che fotografano la situazione al 31 gennaio scorso, i reclusi presenti sono 64, tutti uomini, a fronte di una capienza massima regolamentare di 53 persone.

Una situazione che è lo specchio di quanto accade nelle altre carceri della regione: a Tolmezzo sono presenti 273 detenuti, contro i 148 ammessi; a Trieste 214 contro il tetto di 155; a Udine 190 a fronte di 112 posti a disposizione. L’unica struttura in controtendenza è quella di Gorizia (26 presenti su 80 possibili) ma solo in quanto un’ala del carcere è chiusa perché c’è un serio rischio di fuga. Complessivamente in Friuli Venezia Giulia sono registrati 767 reclusi, dei quali 742 uomini e 25 donne. Una situazione denunciata ancora una volta a livello nazionale da Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe).

"Ministero della Giustizia e Governo - afferma - devono adottare con urgenza provvedimenti concreti per deflazionare le strutture penitenziarie. È davvero necessario ricostruire il sistema carcerario, a cominciare dalle espulsioni dei detenuti stranieri che sono ancora numericamente insignificanti. Ma è necessario farlo presto, in tempi rapidi. Si rendano stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi e si affidino a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale, potenziando quindi l’area penale esterna e prevedendo per coloro che hanno pene brevi da scontare l’impiego in lavori socialmente utili all’esterno del carcere con l’introduzione del sistema di controllo del braccialetto elettronico in dotazione al Corpo di polizia penitenziaria".

Treviso: doppio di detenuti, Santa Bona sempre più al collasso

 

La Tribuna di Treviso, 18 febbraio 2009

 

È di nuovo emergenza al carcere di Santa Bona dove secondo il Sappe, il sindacato di polizia penitenziaria, si è arrivati ad una situazione insostenibile: i detenuti nelle celle sono più del doppio di quanti ne potrebbe contenere. Sono 291 a fronte del 128 della capienza regolamentare prevista dal Ministero di Grazie e Giustizia. Spiega Donato Capece, responsabile del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria: "È necessario che il Governo adotti con urgenza provvedimenti concreti per le strutture penitenziarie del paese. Si pensi ad una nuova politica della pena come l’affidamento a misure alternative al carcere chi non è pericoloso socialmente; potenziando l’area penale esterna e prevedendo per coloro che hanno pene brevi da scontare l’impiego in lavori socialmente utili con l’introduzione del sistema di controllo del braccialetto elettronico".

Fermo: il carcere è "inadeguato", denuncia al giudice del lavoro

 

Il Messaggero, 18 febbraio 2009

 

Il carcere di Fermo ancora oggetto di polemiche per il suo stato di "inadeguatezza". Sotto accusa da parte del Sappe e dell’on. Ciccanti soprattutto le condizioni del muro di cinta.

Il carcere di Fermo è nella bufera. Con i suoi 67 detenuti presenti, 36 regolamentari, 35 stranieri pari al 52%, 7 imputati, e 60 condannati è finito nel mirino del sindacato della polizia penitenziaria i cui agenti sono stanchi di lavorare in un luogo considerato inadeguato. "Abbiamo interrotto i rapporti sindacali con la direzione di Fermo e sto valutando eventuali responsabilità penali da segnalare al giudice". Con queste parole Aldo Di Giacomo responsabile nazionale del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria annuncia una serie di iniziative che coinvolgono la Casa circondariale locale. Tra queste una denuncia al giudice del lavoro per condotta antisindacale. "Farò una denuncia al Tribunale del Lavoro - dice ancora Di Giacomo - appena avrò finito di acquisire tutta la documentazione che ho richiesto.

È una questione di giorni perché ho intenzione di perseguire legalmente il comandante ed il direttore del carcere di Fermo per condotta antisindacale. Ritengo che essi siano la massima espressione di come quell’amministrazione non vada gestita". Il sindacalista è fermamente intenzionato a che il direttore Eleonora Consoli e il comandante Giuseppe Coppolella rivedano le proprie scelte organizzative.

"Vi sono delle cose che non possono essere più tollerate - aggiunge Di Giacomo - non si può costringere il personale a prestare servizio su un muro di cinta inadeguato". Su questo argomento è intervenuto anche l’on. Amedeo Ciccanti che in proposito ha presentato al ministro della Giustizia un’interrogazione in cui evidenza che la situazione lavorativa della polizia carceraria fermana è drammatica ed è dovuta anche "ad un servizio di sentinella, reintrodotto, dopo un recente tentativo di evasione, svolto in condizioni di lavoro assurde, costringendo il personale a prestare servizio su un muro di cinta dichiarato inagibile da tempo, sprovvisto di vetro antiproiettile e, nel caso in cui le condizioni meteo siano avverse, l’unico riparo è un cubo di cemento con i piedi nell’acqua che, sino a qualche settimana fa causa l’abbandono, risultava una piccionaia piena di escrementi, nella totale assenza di sicurezza della legge 626 e sulla salubrità del posto di lavoro".

Ciccanti rimarca che nel carcere vi è un impianto anti-scavalcamento e anti-intrusione guasto a causa della mancata manutenzione, e chiede di sapere quale sia stato l’esito di un’ispezione nella Casa Circondariale avvenuta il 27 gennaio scorso fatta dal Provveditorato e quali provvedimenti siano stati presi per risolvere il problema. "Dopo che avrò denunciato la condizione precaria di lavoro dei colleghi nel carcere fermano - continua Di Giacomo - mi riserverò quando incontrerò il ministro della giustizia di parlare esplicitamente della condotta dirigenziale di questo carcere. È una situazione che non ha eguali in tutta Italia".

Larino (Cb): incontro su prevenzione dei suicidi tra i detenuti

 

Il Messaggero, 18 febbraio 2009

 

Il rischio suicidario in ambiente penitenziario è stato il titolo del dibattito tenutosi al carcere di Larino, una struttura penitenziaria che ha visto solamente due suicidi nell’arco di venti anni.

Una soddisfazione per il direttore Rosa La Ginestra che nel corso di questi anni continua a promuovere attività di svago per cercare di alleviare il regime della vita dietro alle sbarre. Un momento di confronto al quale hanno partecipato l’assessore regionale alle Politiche Sociali Angela Fusco Perrella, il responsabile del centro di Salute Mentale dell’Asrem di Termoli Angelo Malinconico ma anche diversi docenti dell’Università degli Studi del Molise.

A Larino attualmente a fronte di cento posti disponibili i detenuti sono arrivati a 240. Una situazione che induce la massima attenzione e il massimo impegno da parte della polizia penitenziaria che in alcune occasioni proprio a Larino è riuscita a sventare situazioni drammatiche di non ritorno.

Solo con la massima collaborazione è possibile contrastare questi fenomeni, in Molise oltre a Larino anche nelle case circondariali di Campobasso e Isernia la situazione non è poi tanto drammatica. La regione Molise recependo leggi nazionali ha stanziato quasi 150mila euro proprio per promuovere attività in favore di coloro che in carcere ci devono restare per diversi anni. In quest’ottica deve essere vista la ludoteca che permette ai detenuti in alcune occasioni di passare qualche ora in compagnia dei figli e dei congiunti.

Sono proprio queste le situazioni che la regione vuole incentivare, attività ludiche ma anche scuola e preparazione professionale attraverso attività che vengono quotidianamente svolte in carcere. Un modo per imparare anche alcune professioni che possono servire per far reintegrare gli interessati con il resto della comunità una volta che abbandoneranno le carceri.

Da quanto emerso dal dibattito il rischio suicidario sarebbe più concreto nei minuti successivi all’ingresso nelle strutture dei detenuti. Sono i primi attimi dove queste persone possono essere raggiunte dallo sconforto più totale che li potrebbe indurre a compiere questi gesti. In quest’ottica la regione ha anche costituito un gruppo di lavoro formato da rappresentanti istituzionali, professori universitari e direttori delle case circondariali.

Il problema è sempre quello dei fondi a disposizione ma si cercherà di intuire anche quelle che sono le reali esigenze di coloro che sono costretti a fare questa esperienza di vita lontano dagli affetti perché hanno commesso errori in passato. È stato costatato che il suicidio è la prima causa di morte all’interno delle carceri.

Milano: sabato apre mostra con dipinti dei detenuti di Bollate

 

Asca, 18 febbraio 2009

 

La fantasia non si spegne dietro alle sbarre di un carcere. La prova? La offriranno alle 17.30 di sabato 21 febbraio l’associazione Fedora e l’assessore alle Pari opportunità del Comune di Opera, Ileana Zacchetti, che presenteranno al Centro polifunzionale di via Gramsci un’esposizione artistica realizzata dai detenuti di Bollate.

Dipinti e oggettistica che saranno accompagnati da poesie, scritte dai partecipanti al Laboratorio di Poesia gestito da LietoColle, nuova realtà editoriale per la diffusione della poesia contemporanea. La mostra, che sarà visitabile fino al 24 febbraio, nasce dall’esperienza del Laboratorio di scrittura creativa avviato al carcere di Opera circa dieci anni fa, curato da Silvana Ceruti.

"La collaborazione a tutto campo con la Casa Circondariale di Opera - afferma il sindaco di Opera, Ettore Fusco - si allarga al progetto della struttura di Bollate a dimostrazione di quanto questa Amministrazione Comunale punti sì alla sicurezza, ma con la consapevolezza che le carceri capaci di riabilitare i detenuti producono dei cittadini con un maggiore senso civico quando questi rientrano nella società dopo avere scontato la propria pena".

Il Laboratorio di Poesia LietoColle partecipò all’iniziativa con diversi autori, e sostenne la pubblicazione del volume "Confesso che amo - parole d’amore dal carcere", la cui presentazione ufficiale avvenne nel maggio 2006 ad Opera. Saranno presenti all’inaugurazione anche Francesca Corso, assessore della Provincia di Milano, Luigi Pagano, Provveditore alle carceri lombarde, Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate, Giacinto Siciliano, direttore del carcere di Opera, Maddalena Caparbi, coordinatrice del laboratorio di poesia del carcere di Bollate. Condurranno l’incontro le esponenti dell’associazione Fedora, Diana Battaglia e Damiana Nugnes.

Libri: "L’innocenza della verità. Corso di filosofia in carcere"

 

Il Tirreno, 18 febbraio 2009

 

Pistoia. Domani, alle 18, a Lo Spazio di via dell’Ospizio - libreria, galleria, sala da tè - verrà presentato l’ultimo libro di Giuseppe Ferraro, "L’innocenza della verità. Corso di filosofia in carcere" (Filema, 2008, pp. 230, 14 euro). Alla presentazione parteciperanno, oltre all’autore, Giuliano Capecchi, dell’associazione Pantagruel, da anni impegnata nel problema carcerario attraverso il volontariato con colloqui, sostegno e attività culturali, e Alessandro Mencarelli, avvocato penalista e artista, che affianca da anni l’assistenza legale ad una sensibilità artistica che ha portato più volte in primo piano il carcere e i suoi "ospiti".

Il testo nasce dall’esperienza viva di Giuseppe Ferraro nelle carceri campane di Bellizzi e di Carinola. Per questa ragione il libro si snoda in un intreccio continuo di rimandi, tra l’esperienza vissuta e le riflessioni profonde che dalla prima scaturiscono. Si scopre presto che innocenza e carcere, entrambi termini presenti nel titolo del libro, sono un ossimoro solo apparente. Ciò che ha fatto Ferraro, e che ha saputo trasformare bene in parola scritta, è un percorso teso a riconoscere come la verità interiore, quella vera, sia sostanzialmente innocente. Il sapere è un possesso senza proprietà, occorre restituirlo a chi non lo ha avuto e ne è privo.

Con questa dichiarazione, Giuseppe Ferraro continua il suo percorso per una filosofia fuori le mura accademiche, iniziato con la Filosofia in carcere, scritto con i detenuti minori di Nisida. Come afferma lui stesso "se la filosofia si occupa di questioni estreme, allora è sui luoghi estremi che occorre portarla per capire cosa ha da dire, e se tace, se resta senza parola e non fa mondo dove non c’è mondo, bisogna lasciarla perdere come un suppellettile inutile.

È da quel giorno che sono venuto qui, quando ho cominciato a portare la filosofia fuori le mura dell’accademia. Fuori come espressione di un modo e di un metodo". Ci si imbatte così, in un libro sorprendente e illuminante, che ci accompagna in un percorso in cui emerge una critica alla struttura carceraria così com’è. Se la salute di una democrazia si misura proprio nelle sue zone di confine, e il carcere è una di queste perché è la zona dell’illegalità, allora bisogna indagarla, anziché emarginarla.

Se polis vuol dire legame tra i molti che hanno cura della stessa cosa, che scelgono di stringere legami perché la cosa di tutti sopravviva, illegale è chi non ha sentito il sentimento del legame con le regole, di un legame di verità con le regole. Legami e legalità: questo il binomio funzionante, perché la legalità è affettiva prima ancora che giuridica. Qui trova ragione di essere la filosofia: tra la psicologia e la giurisprudenza, tra la sfera privata e la sfera pubblica, essa è l’unica disciplina che racchiude la parola filìa, ovvero amore, nel senso di avere cura.

Il testo è accompagnato da esercizi tenuti dai detenuti e da lettere di alcuni di loro che testimoniano non solo il disagio, ma anche l’urgenza di cambiare la visione carceraria, perché il carcere non sia più soltanto luogo di detenzione e privazione. Giuseppe Ferraro è docente di Filosofia presso il Dipartimento di filosofia A. Aliotta dell’Università di Napoli Federico II, e al Philosophisches Seminar della Ludwigs Universitaet di Freiburg in Germania.

È autore di studi di fenomenologia, leopardiani e nietzscheiani; ha pubblicato tra l’altro La verità dell’Europa, La filosofia spiegata ai bambini e Filosofia in carcere, di questi ultimi l’uno è espressione di un’esperienza didattica svolta in un paesino "a rischio" della provincia di Caserta e l’altro di un’esperienza di didattica dei sentimenti tenuto tra i ragazzi del carcere minorile di Nisida. È attualmente impegnato anche a Roma, specificamente sull’educazione ai sentimenti.

Libri: "Lavavetri", intervista alla sorella di Giovanna Reggiani

 

Redattore Sociale - Dire, 18 febbraio 2009

 

"Dall’informazione bugie e nessun rispetto": rompe il silenzio la sorella di Giovanna Reggiani. In un’intervista nel libro "Lavavetri", Paola parla dell’insistenza dei giornalisti e della strumentalizzazione della politica. "Invece bisogna costruire, capire che ognuno ha la stessa dignità"

Dopo la scelta del silenzio, per la prima volta parla Paola Reggiani, la sorella minore di Giovanna, la donna aggredita a Roma da un cittadino romeno il 30 ottobre 2007 e morta due giorni dopo. E lo fa attraverso le pagine di un libro, "Lavavetri", di Lorenzo Guadagnucci, edito da Terre di mezzo. Un’intervista in cui Paola, che abita a Firenze ed è diacona nella Chiesa valdese, racconta la storia di quei giorni dal suo punto di vista, parlando delle bugie dell’informazione, del mancato rispetto di fronte al lutto che ha colpito la sua famiglia, della strumentalizzazione da parte della politica.

Le bugie e la falsità sono le cose che l’hanno ferita di più, dice Paola. Innanzitutto da parte dell’informazione che non ha capito la posizione della famiglia di non parlare pubblicamente. "Noi avevamo il fastidio di trovare i giornalisti sotto casa e quando dicevo loro che se ne potevano andare, loro tornavano".

E non si è trattato solo di insistenza, ma anche di strumentalizzazione, nelle varie campagne elettorali, sia a livello amministrativo che politico. "Ogni volta che si parlava di sicurezza - racconta Paola - tornava sempre il nome di mia sorella, per fortuna non la storia, ma era come una goccia che cadeva regolarmente, in determinate situazioni. Questo è ciò che più profondamente mi ha disturbato". E ancora, le visite di rappresentanza in ospedale, "situazioni di forma, ed era pesante riuscire a essere accoglienti e intanto vivere quello che stava accadendo a mia sorella".

E mentre il Consiglio dei ministri si riuniva con urgenza per emanare un decreto che permettesse l’espulsione per motivi di pubblica sicurezza di cittadini dell’Ue, la famiglia Reggiani ha scelto il silenzio, spegnendo radio e televisione. Oggi, a distanza di tempo, Paola condanna quella reazione della politica: ""Non c’è coerenza, agendo così non garantisci sicurezza a nessuno. Non dai alternative alle persone che hai cacciato dalle città, le rendi vittime a loro volta di reazioni estreme".

Allora restano solo due possibilità: la prima è costruire e non distruggere. "Non si tratta di togliere il mendicante dalla strada il giorno di Natale, ma di fare progetti finalizzati a dare dignità alle persone". L’altra è cercare la verità: "Quando c’è un castello di bugie, di menzogne, l’unica possibilità che hanno i cittadini è di smascherarle. Ci vuole il paziente lavoro di ricostruzione dei pezzi di verità. Dobbiamo smontare i meccanismi perversi della menzogna, quindi nel nostro caso andare verso i rom per parlare con loro, per mostrare che ognuno di loro è come ognuno di noi, che abbiamo la stessa dignità. Più va avanti la mistificazione della realtà, con la retorica della sicurezza, con la costruzione del nemico, più ci si deve rimboccare le maniche e smascherare le menzogne possibilmente con gesti concreti". Nei confronti delle istituzioni, invece, nessuna aspettativa: "Io non mi fido del nostro governo, che costruisce leggi ad personam. Perché dovrei aspettarmi che ci sia una giustizia? Dove? Come?".

 

Smascherare le menzogne con gesti concreti

 

Mentre in Italia si scatenava la campagna mediatica sull’immigrazione romena, indicata dai politici come pericolosa per l’ordine pubblico, a Firenze prendeva corpo un progetto di dialogo con le comunità rom arrivate dalla Romania. Succedeva all’indomani della morte di Giovanna Reggiani, aggredita a Roma da un cittadino romeno il 30 ottobre del 2007.

A portare avanti il progetto la comunità valdese, cui la famiglia Reggiani appartiene. Oggi è Paola Reggiani, sorella minore di Giovanna e diacona presso la Chiesa valdese di Firenze, a raccontare al giornalista Lorenzo Guadagnucci, dalle pagine di "Lavavetri" (edito da Terre di mezzo), quel tentativo di rispondere all’estrema violenza con l’accoglienza e il dialogo.

È stata Patrizia Barbanotti De Cecco ad avere per prima l’idea di incontrare i rom, proprio come "reazione al lutto e alla sensazione terribile che provavamo ogni volta che il nome della sorella di Paola veniva associato al discorso politico sul pacchetto sicurezza. Questo abbinamento era una costante e creava un’atmosfera inquietante, un atteggiamento repressivo nei confronti dei rom e dei cittadini romeni". Così alla comunità valdese è stata proposta l’idea di un progetto di scolarizzazione per i bambini rom romeni, "proprio perché apparivano come altre vittime del fatto terribile che era successo". La Chiesa ha accettato all’unanimità, e anche Paola si è detta d’accordo: "Da parte mia non c’è stato mai nessun pensiero contro".

Ma nel passaggio dall’idea alla realtà sono emersi i problemi. Così il progetto iniziale è fallito, ma non tramontato. Innanzitutto, il campo abusivo dell’Osmannoro, alla periferia di Firenze, scelto per il progetto, è stato trovato in totale isolamento e abbandono. "Io mi ero bevuta tutte le storie che si raccontano sui rom - racconta Patrizia - e sui loro bambini, e cioè che i genitori, anziché mandarli a scuola, preferiscono portare i figli a mendicare. È una cosa assolutamente falsa".

Ma a cui si finisce per credere acriticamente perché ripetuta all’infinito. Invece i bambini hanno voglia di andare a scuola e per farlo sono disposti a grandi sacrifici. Allora, spiega Patrizia, "si dovrà fare un discorso di sensibilizzazione non per i rom, ma per le autorità competenti, totalmente chiuse nei loro confronti". Qualche esempio da altri progetti analoghi?

Gli autisti dell’Ataf che saltano la fermata dell’autobus davanti al campo, o fanno multe ai ragazzi, "perché tanto l’abbonamento è rubato". E ancora, bambini che non sono riusciti a trovare una scuola che li accogliesse, nonostante il coinvolgimento del provveditorato.

"Alla luce di questo, il progetto iniziale era inutile. Oggi pensiamo a qualcosa di artistico da fare con gli adolescenti, per far crescere la loro autostima e permettergli di farsi conoscere per come sono realmente". Conclude Paola: "Smascherare le menzogne con gesti concerti è l’unica cosa che possiamo fare".

Immigrazione: Lampedusa; incendio devasta il Cie... 10 i feriti

 

Corriere della Sera, 18 febbraio 2009

 

Tensione a Lampedusa, dove prima incendio è divampato nel Cie e poi sono scoppiati violenti scontri tra un gruppo di immigrati e forze dell’ordine, che hanno chiamato rinforzi e usato gas lacrimogeni. Prima che la rivolta venisse sedata - come ha confermato il questore - c’è stata una decina di feriti, non gravi, sia tra gli extracomunitari, sia tra i poliziotti. Alcuni agenti sono anche rimasti intossicati. I tafferugli sono scoppiati dopo che martedì un gruppo di 300 tunisini aveva cominciato lo sciopero della fame per protesta contro il trasferimento di 107 loro connazionali a Roma, in vista del rimpatrio coatto. Nella struttura, trasformata dal Viminale da Centro di prima accoglienza e soccorso a Centro di identificazione ed espulsione, si trovano in questo momento 863 immigrati, in gran parte tunisini.

Hanno tentato la fuga - Il Cie è presidiato da polizia e carabinieri in assetto antisommossa. Secondo la polizia ad appiccare l’incendio sono stati gli stessi immigrati. Un centinaio di tunisini hanno prima cercato senza riuscirci di sfondare dall’interno i cancelli della struttura e poi hanno ammassato materassi, cuscini e carta straccia per darli alle fiamme. Una palazzina del centro è distrutta. "Abbiamo verificato se qualcuno degli extracomunitari che ha tentato di forzare il cancello del centro d’accoglienza sia riuscito a scappare, ma nell’intero perimetro esterno della struttura non sono stati rintracciati fuggitivi - ha detto il questore di Agrigento Girolamo Fazio -. La rivolta è ancora in corso e soltanto nelle prossime ore potremo sapere a quanto ammontano i danni provocati nel centro e quante sono le persone, eventualmente, rimaste ferite".

Sindaco: "colpa del governo, che ha creato un lager" - "Gli immigrati hanno dato fuoco al centro di accoglienza. Le fiamme sono arrivate a 10 metri di altezza - ha confermato il sindaco di Lampedusa Bernardino De Rubeis - e c’è una nube di fumo che minaccia anche il centro abitato e potrebbe essere tossica. In mattinata ci sono stati scontri fra forze dell’ordine e immigrati. Poi gli immigrati hanno appiccato il fuoco nella palazzina centrale e le fiamme hanno attaccato le palazzine vicine. Ci sono stati feriti". Martedì De Rubeis è stato sentito dai magistrati della Procura di Agrigento come persona informata sui fatti: "Mi hanno chiesto informazioni sui centri di accoglienza e su quello di Capo Ponente, il Cie, ma anche sul trattenimento di tunisini nel centro senza provvedimento del giudice". "La colpa è del governo che ha trasformato il centro in un lager - ha anche concluso il sindaco".

Immigrazione: Barbagli; non volevo vedere ricaduta sui reati

di Francesco Alberti

 

Corriere della Sera, 18 febbraio 2009

 

"Sì, in quegli anni andava così, non volevo vedere: c’era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i dati sull’incidenza dell’immigrazione rispetto alla criminalità. Ero condizionato dalle mie posizioni di uomo di sinistra. E quando finalmente ho cominciato a prendere atto della realtà e a scrivere che l’ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull’aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tolto il saluto".

Marzio Barbagli ha 70 anni, è professore di sociologia all’Università di Bologna, ha scritto libri importanti sul tema immigrazione e delinquenza e ha curato per il Viminale (ai tempi di Enzo Bianco e Giuliano Amato) il rapporto sullo stato della criminalità. Nel suo libro, Immigrazione e sicurezza (edito dal Mulino), fissa l’impressionante impennata di stupri compiuti dagli extracomunitari: dal 9% al 40% negli ultimi 20 anni, con romeni, marocchini e albanesi a guidare la classifica.

 

Professore, a quando risale questa specie di cecità scientifica?

"Parlo di una decina di anni fa... Ma guardi che non ero l’unico, c’erano anche altri colleghi, della mia stessa parte politica, che si rifiutavano di vedere i cambiamenti, sotto il profilo dell’ordine pubblico, che l’ondata migratoria comportava".

 

Eppure non mancavano dati e statistiche. O no?

"Certo che c’erano, ma non volevo crederci, non li cercavo nemmeno. Ho fatto il possibile per ingannare me stesso. Mi dicevo: ma no, le cifre sono sbagliate, le procedure d’analisi difettose. Era come se avessi un blocco mentale". Poi cos’è successo? "Ho capito che non erano i dati ad essere sbagliati, ma le mie ipotesi di partenza".

 

E a quel punto?

"Sono finalmente riuscito a tenere distinti i due piani: il ricercatore dall’uomo di sinistra. E ho scritto quello che la realtà mi suggeriva".

 

E alcuni suoi colleghi le hanno tolto il saluto.

"Sì, alcuni. Poi ce n’erano altri che, pur sapendo che avevo ragione, mi dicevano che quelle cose non andavano comunque scritte".

 

Lei ha avuto l’onestà e il coraggio di ammettere l’errore: pensa che a sinistra questi condizionamenti ideologici siano molto diffusi?

"Di sicuro lo sono stati. E non solo in Italia. Un gap culturale che ha costretto la sinistra ad una faticosa rincorsa, che in parte però sta avvenendo. La stessa Livio Turco, promotrice assieme a Giorgio Napolitano di una legge importante sull’immigrazione, ha ammesso che inizialmente, quando si trovò ad affrontare la questione, non fu semplice superare certi schematismi, una certa immaturità".

 

Cosa le ha insegnato questa esperienza?

"È stato un processo faticoso, ma di grande crescita. Ora sono un ricercatore. E nient’altro".

Droghe: Veneto; il narco-test, per chi vuole avere il patentino

 

Ansa, 18 febbraio 2009

 

"Il test antidroga per i minori che vogliono avere il patentino? Un’iniziativa positiva, necessaria, che speriamo possa incentivare nei giovanissimi l’assunzione di responsabilità e agire anche come deterrente all’uso di sostanze nel rispetto della loro salute e della sicurezza altrui. Chiederò, come coordinatore degli assessori regionali alle politiche sociali, a tutte le Regioni di effettuare la sperimentazione del progetto il cui protocollo formale è già in avanzata fase di studio da parte di un gruppo di lavoro tecnico a livello nazionale".

Così l’Assessore alle politiche sociali della regione Veneto Stefano Valdegamberi commenta la notizia della prossima sperimentazione a Verona, a Cagliari, Perugia, e in una città pugliese ancora da definire (Taranto o Bari) del test antidroga e antialcol che i medici di famiglia potranno effettuare sui minori che chiedono di avere il patentino per guidare il ciclomotore.

Valdegamberi ricorda che il Veneto è stata la prima Regione partner del progetto nazionale. I ragazzi - spiega Valdegamberi - vedono nello scooter un simbolo di autonomia, di libertà, di indipendenza. Bene. Ma sono troppi gli incidenti con questi mezzi causati da alterazioni dovute all’uso di sostanze psicotrope e costano troppo caro alle famiglie e alla società da tutti i punti di vista. Attualmente i medici stessi nel predisporre il certificato per il patentino si affidano all’autocertificazione del ragazzo che dichiara il non uso di droghe.

Questo non può più essere sufficiente - aggiunge l’esponente del Governo veneto - a garantire la verità della dichiarazione non solo per il minore ma neanche per lo stesso medico. Si chiederà pertanto al minore di sottoporsi a un accertamento tossicologico alla presenza dei genitori con consenso informato e con adesione volontaria.

Pensiamo e speriamo che questo sia comunque un modo per scoraggiare chi si voglia mettere alla guida di moto e motocicli avendo come abitudine e stile di vita l’uso di sostanze e l’abuso di alcol che sono condizioni incompatibili con la guida di mezzi. Domani Valdegamberi sarà a colloquio a Roma con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle dipendenze Carlo Giovanardi per parlare di questo progetto e di altri relativi alle politiche di lotta alle dipendenze.

 

 

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