Rassegna stampa 6 ottobre

 

Giustizia: società impaurita, la tolleranza fa perdere consensi

di Ilvo Diamanti

 

La Repubblica, 6 ottobre 2008

 

Il contagio razzista ha coinvolto l’Italia. Perlomeno: nel linguaggio pubblico. Fino a ieri l’altro era un tabù. Ora, invece, le autorità religiose e politiche ne parlano esplicitamente. Il Papa, il presidente della Repubblica e perfino quello della Camera, Gianfranco Fini. Leader di destra. Perfino il sindaco di Roma, Alemanno, che ha espresso le scuse della città a un cittadino cinese, malmenato nei giorni scorsi da un gruppo di bulletti. Dunque, il tabù si è rotto.

Oggi a denunciare il razzismo degli italiani non sono esclusivamente i "soliti noti". Sinistra radicale, no global, cattolici solidali. Giornali come il Manifesto e Famiglia Cristiana. Ma ciò solleva il rischio opposto. Scivolare dalla drammatizzazione alla banalizzazione. "Allarme siam razzisti?" No, se intendiamo definire, in questo modo, l’orientamento e il comportamento degli italiani. O meglio: il razzismo c’è, in Italia, come nel resto d’Europa. Dove gli episodi di intolleranza sono numerosi e violenti, anche più che da noi. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Belgio, in Spagna. D’altronde, l’importanza del fenomeno è sottolineato dai successi elettorali di formazioni politiche di impronta apertamente xenofoba. Da ultimo, in Austria, una settimana fa. La reticenza è, dunque, pericolosa, quanto la generalizzazione. Tanto più, il sensazionalismo, che sposta il fenomeno al centro dei talk show e nei titoli di prima pagina.

D’altronde, gli episodi di razzismo, probabilmente, esistevano anche prima, (sempre troppo) numerosi. Ma non se ne parlava, perché le vittime, per prime, preferivano tacere. Come è avvenuto, in passato, per le violenze sessuali sulle donne e sui minori. Ora invece il clima è cambiato e gli episodi di razzismo sembrano moltiplicarsi, anche perché - più di ieri - sono riconosciuti come tali e denunciati. Anche se, di fronte alle ripetute aggressioni ai danni di stranieri e rom, è diffusa la tendenza a sostenere che "il razzismo non c’entra".

Oppure a giustificarle: conseguenze della "legittima furia popolare" (come ha osservato Gad Lerner, su questo giornale). Invece, il razzismo c’è. La tentazione di costruire barriere fra noi e gli altri, in base a fondamenti in-fondati e in-dimostrabili. Come l’idea stessa di "razza", d’altronde. Il razzismo c’è. Allontanarlo da noi con un gesto di fastidio, non aiuta ad affrontarlo. Il razzismo esiste: in Italia come altrove. La storia e l’esperienza non rendono immuni neppure la Germania, l’Austria o la Francia.

Tuttavia, il confronto su base europea mostra come in Italia l’allarme sollevato dagli immigrati sia fra i più elevati. Il più alto, in assoluto, fra i paesi della vecchia Europa. Come emerge, chiaramente, dall’indagine europea curata da Demos, La Polis e Pragma (in collaborazione con Intesa Sanpaolo). In particolare, l’Italia è il paese dove l’allarme suscitato dagli stranieri è più forte, relativamente alla sicurezza e all’ordine pubblico, come denuncia una persona su due. In paese dove, al tempo stesso, i "pregiudizi positivi" si attestano su livelli più bassi. Meno della metà della popolazione accetta l’immagine degli immigrati come "risorsa dello sviluppo" oppure "fattore di apertura culturale".

L’Italia, in particolare, è il paese in cui tutti gli indici di allarme son cresciuti maggiormente, negli ultimi anni. Come se qualcosa avesse abbassato le nostre difese, le nostre inibizioni. Alimentando la nostra paura. Madre del razzismo, come ha scritto Zygmunt Bauman nei giorni scorsi sulla Repubblica. Il razzismo, allora, forse non è un’emergenza, come ha sostenuto ieri il ministro Maroni. Ma lo è sicuramente la xenofobia. Letteralmente: la "paura dello straniero".

Che ha diverse cause, comprensibili, e che vanno comprese, se la vogliamo contrastare. Una su tutte: la distanza fra rappresentazione e realtà. La realtà è che ci siamo trasformati in un paese di immigrazione, dopo che per oltre un secolo è avvenuto il contrario. In poco più di un decennio il peso degli immigrati è passato dallo 0 virgola al 5-6% della popolazione. In alcune aree, soprattutto nel Nordest e nelle province più produttive del Nord, questa misura è doppia, talora tripla. In dieci anni o poco più abbiamo raggiunto e superato paesi in cui questi processi hanno storia e tradizione assai più lunghe.

Abbiamo "il primato dell’immigrazione veloce", come hanno scritto i demografi Billari e Dalla Zuanna, in un recente saggio ("La rivoluzione nella culla", Università Bocconi Editore). La realtà è che ci siamo adattati altrettanto in fretta. Non siamo stati travolti. In particolare, le zone dove si registrano i maggiori indici di integrazione (come sottolinea il periodico rapporto della Caritas) sono proprio quelle dove l’immigrazione ha assunto proporzioni più ampie. Il Veneto, la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia. Fra le province: Bergamo, Treviso, Vicenza. Dove, cioè, la Lega è più forte. Ma la rappresentazione è opposta, perché proprio qui la "paura dell’altro" è più elevata.

In altri termini: abbiamo accolto e integrato milioni di stranieri perché ne abbiamo bisogno, dal punto di vista economico, dell’assistenza, ma anche della demografia. Ma si stenta ad ammetterlo, ad accettarlo. In parte, è inevitabile. Flussi di stranieri tanto ampi e tanto rapidi generano inquietudine. Soprattutto se non sono regolati da politiche adeguate (sociali e urbane), a livello locale. Se si "permette" la concentrazione degli stranieri in ampie periferie degradate.

La paura, tuttavia, è alimentata dall’uso politico dell’immigrazione. Dal fatto che la paura degli immigrati e dei rom "paga". In termini elettorali e di consenso. La stessa legislazione riflette questo sentimento. Si preoccupa di rassicurare assecondando la diffidenza. Promette di "arginare" gli stranieri alle frontiere. Oppure di regolarne i flussi, in base a quote irrealistiche. Con l’esito che gli stranieri continuano ad entrare, lasciando dietro sé una scia di morte che non emoziona quasi nessuno. E quando sono in Italia diventano "clandestini". Per legge. Per la stessa ragione, si irrigidiscono le restrizioni agli istituti che rafforzano l’integrazione. Primo fra tutti: i ricongiungimenti familiari. Così gli stranieri diventano viandanti di passaggio. "Altri" da cui difendersi.

Invece di promuovere un modello - magari involontario - che ci ha permesso di "sopportare" e, anzi, di integrare flussi di immigrati così imponenti in così poco tempo, ci si affretta a negare l’evidenza. Si indossa la maschera più dura. Perché la faccia tollerante non è di moda. Fa perdere consensi. Per contrastare il razzismo, si dovrebbe, quindi, combattere la paura. Invece, viene lasciata crescere in modo incontrollato. E molti, troppi, la coltivano. Questa pianta dai frutti avvelenati, che cresce nel giardino di casa nostra.

 

Sicurezza e lavoro i temi più caldi

 

L’Italia è tornata ad essere la "penisola della paura". Il VI rapporto su Immigrazione e cittadinanza in Europa, curato da Demos - La Polis - Pragma per Intesa Sanpaolo, sembra riportarci indietro di quasi 10 anni. I risultati dell’indagine, di cui Repubblica offre un’anteprima, delineano una società inquieta di fronte al fenomeno dell’immigrazione. Dopo una fase di parziale riassorbimento, l’allarme è tornato sui livelli del 1999. Anzi, li ha superati. Tanto da riproporre la specificità dell’Italia in Europa.

Sicurezza e lavoro: attorno a queste due dimensioni tende a svilupparsi la "paura dello straniero". Solo in seconda battuta entrano in gioco fattori di matrice religiosa e culturale. Se circoscriviamo l’analisi ai quattro paesi dell’Europa occidentale inclusi nell’indagine, l’Italia è il contesto dove la paura generata dalla presenza straniera tocca i massimi livelli. Già nel 1999, il peso di quanti associavano immigrazione e criminalità aveva raggiunto il 46%: il dato più alto su scala continentale. Nella fase successiva, l’atteggiamento degli italiani si è prima "normalizzato", per poi subire una nuova inversione di rotta. Oltre il 50%, nell’autunno del 2007, afferma di vedere negli immigrati un pericolo per la sicurezza, e la rilevazione più recente fa segnare un valore di poco inferiore (45%, nel 2008). La "geografia sociale" della xenofobia trova i suoi punti di maggiore intensità fra i lavoratori autonomi e le casalinghe, nelle regioni del Centro-Sud, fra gli elettori del PdL e della Lega.

Anche nel Regno Unito la preoccupazione si presenta elevata (37%), mentre è più contenuta in Francia (22%) e Germania (29%). A differenza di quanto avviene in Italia, negli altri paesi l’immigrazione suscita allarme soprattutto per motivi legati all’occupazione. Il tema è particolarmente sentito nel Regno Unito, dove il 48% dei cittadini vede l’immigrato come un concorrente per il posto di lavoro, ma anche in Francia (26%) e Germania (36%). Parallelamente, in Italia è più limitata la quota di persone che valuta in modo positivo il contributo dell’immigrazione, come risorsa per l’economia e l’apertura culturale: circa il 45%, mentre negli altri tre paesi oscilla fra il 50% e il 70%.

Giustizia: la sicurezza, la paura e… il "coraggio della civiltà"

di Michele Nardelli

 

www.unimondo.org, 6 ottobre 2008

 

Avere timore per un futuro incerto, laddove processi di portata mondiale investono le nostre vite quotidiane, è più che comprensibile. L’interdipendenza investe il nostro presente di cittadini (perché ogni persona responsabile si chiede ragione di quel che accade), ma anche di lavoratori (o di giovani che vivono nella precarietà), di consumatori, di risparmiatori e così via. E c’è motivo di preoccupazione, specie se ci interroghiamo sul mondo che andremo a consegnare alle generazioni che verranno dopo di noi. Per questo è importante non chiudere gli occhi di fronte ai problemi, comprese le paure, ma chiederci di continuo quali potrebbero essere le soluzioni più responsabili per darvi risposta.

Quel che invece non si dovrebbe fare è spostare altrove il problema ("non nel mio giardino"), oppure dire semplicemente dei "No", pensando che in questo modo possiamo stare tranquilli. Perché non è così che funziona e perché questo è un atteggiamento da irresponsabili.

Dichiarare "il mio stile di vita non è negoziabile" significa dire, dato il carattere limitato delle risorse, che non c’è posto per tutti sulla faccia della terra; sentenziare "no alle moschee" significa negare ad altri cittadini il diritto umano fondamentale alla preghiera; legiferare "le case prima ai trentini" significa negare a chi è nato sotto Borghetto il diritto ad un tetto dove costruirsi un’esistenza dignitosa con la propria famiglia; negare il diritto di unione per le coppie di fatto (eterosessuali come di altri orientamenti sessuali) significa rendere obbligatorio, e non più una libera scelta, il matrimonio; dire "no alle micro-aree per i sinti", significa negare a queste persone (molte delle quali sono nate e vissute a Trento da diverse generazioni) un luogo in cui mettere la propria roulotte avendo un minimo di acqua, luce e gas ed ai bambini di frequentare più serenamente la scuola (proviene da un luogo di serenità e non di concentramento), agli anziani di avere un luogo un po’ accogliente in cui trascorrere quel che gli resta da vivere.

Dietro a tutti questi "No" c’è in realtà una grande ipocrisia. Quella di non aver il coraggio di dire esplicitamente quel che in realtà si pensa, ovvero che queste persone dovrebbero scomparire dalla nostra vista perché indesiderate. Ci aveva già provato qualcuno nel secolo scorso, tanto che per primi nei lager ci finirono i malati psichici, poi i portatori di handicap, seguiti dagli omosessuali, le persone di colore, gli intellettuali scomodi, dagli zingari ed infine dagli ebrei.

Non c’è pertanto da stupirsi che l’effetto di tutti questi "No" sia la proliferazione di ideologie e comportamenti che s’ispirano al nazismo, quello esibito delle teste rasate, dei picchiatori di ogni diversità, dei siti internet che inneggiano all’olocausto; e di quello più nascosto ed ipocrita che si nasconde appunto dietro ai "No" e che esprime un rifiuto ignorante e nichilista verso ogni diversità, verso il valore del sapere e della parola, verso il tradizionale cosmopolitismo delle città. Non per caso le guerre moderne (all’insegna dello scontro di civiltà) si accaniscono contro i luoghi della storia e della cultura, le biblioteche nazionali, i cimiteri, i ponti.

Dire invece dei "Sì", sì al diritto di vivere in primo luogo, ma anche di pregare per chi ha fede, o di avere un’istruzione e una casa, vuol dire in primo luogo "farsi carico". Non negare che esistono dei problemi e nemmeno che si possa aver paura (perché la marginalità sociale e l’ignoranza sono spesso alla base di comportamenti asociali e talvolta criminali), ma saperli affrontare in quanto tali, riconoscendoli ed affrontandoli responsabilmente. Distinguendo in primo luogo il comportamento individuale da quello di una comunità nel suo complesso, ma anche non mettendo la testa sotto la sabbia rispetto a fenomeni di esclusione sempre più diffusi, sia che siano a qualche migliaio di chilometri dalle nostre vite che dietro l’angolo di casa nostra o sul pianerottolo di fronte; spesso preferiamo non sapere e non conoscere, nascosti dietro la nostra ipocrisia. Quella stessa ipocrisia che faceva chiudere gli occhi a tante persone per bene quando nei camini dei campi andavano in fumo milioni di esistenze senza che ciò provocasse l’indignazione delle comunità che vivevano a ridosso di quell’orrore. Hannah Arendt ci ha ammonito su tutto ciò e su un’altra cosa spesso inconfessabile, la banalità del male, ma non sembra che abbiamo imparato granché.

Non è solo il problema, intollerabile e perseguibile penalmente, di chi inneggia al nazismo o al primato della razza. È lo sdoganamento culturale e politico di questi personaggi che ci deve preoccupare, che nei fatti porta alla legittimazione dell’aggressione e della violenza. È quel fare spallucce dicendo che ci sono cose ben più gravi (cosa ad esempio?) che ci dovrebbe far riflettere.

Forse non porterà consenso, ma credo che oggi dobbiamo essere in tanti ad affermare il diritto alla vita e alla dignità delle persone. Per questo dobbiamo dire tanti "Sì". "Sì" al diritto alla preghiera per ogni credo religioso, sì al riconoscimento delle culture altre ed al loro incontro con esse. Sì al diritto di voto nelle elezioni amministrative per chi vive e lavora in un territorio contribuendo al pari degli altri cittadini a costruire benessere collettivo. Sì, infine, alle micro-aree per i sinti come ha avuto il coraggio di dire il Comune di Trento di fronte al sovraffollamento inumano del campo nomadi. È il coraggio della civiltà, contro l’aggressività che invece produce emarginazione e paura.

Giustizia: gli immigrati verso l’integrazione, nonostante tutto

di Giuseppe De Rita

 

Corriere della Sera, 6 ottobre 2008

 

Alcuni ripetuti episodi di insofferenze e di violenza nei confronti di stranieri e di immigrati hanno nelle ultime settimane dato spazio a due fenomeni d’opinione collettiva molto frequenti in Italia. Da un lato la messa in fila e in evidenza mediatica di tali episodi ha fatto pensare che di evento in evento si possa arrivare a un grande avvento, quello del razzismo come nuova grande malattia italiana; e conseguentemente si è scatenata la sequela di dichiarazioni di segnalazione e denuncia del pericolo; di dialettica culturale e di scontro politico; di riaffermazione dei principi di civile convivenza che ha nei secoli contraddistinto la nostra società.

Per carità, abbiamo il dovere di aver paura del razzismo e di riproporre atteggiamenti e comportamenti di adeguata nobiltà. Ma non si sfugge all’impressione che vi sia un notevole scollamento fra le polemiche in corso, con inevitabile loro calor bianco, e la più fisiologica e silenziosa evoluzione del modo in cui si fa quotidianamente integrazione di immigrati nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali italiane.

Ogni società fa integrazione attraverso lo sfruttamento delle proprie componenti socio-economiche dominanti: la Germania attraverso la grande impresa, quella che ha metabolizzato senza traumi milioni e milioni di turchi; la Gran Bretagna attraverso i mille percorsi di una multiculturalità ricevuta in eredità dai trascorsi imperiali; la Francia attraverso una regolazione assistenzialista a forte e nota tradizione statalista. Noi facciamo integrazione utilizzando anche inconsciamente le tre grandi componenti del modello italiano: facciamo integrazione nella piccola e piccolissima impresa dove gli immigrati trovano un clima relativamente sereno e parametri di responsabilizzazione personale tanto che non a caso, imitandoci, corrono anche l’avventura imprenditoriale; facciamo integrazione nelle famiglie, dove milioni di collaboratori domestici e di badanti entrano lentamente nella dinamica sociale quotidiana; facciamo integrazione nelle piccole città, nei paesi, nei borghi, dove milioni di immigrati trovano un alto tasso di socializzazione collettiva e sperimentano un adeguato tasso di controllo sociale.

Qualcuno ha parlato in proposito di integrazione "morbida" certo un po’ esagerando specialmente se si ricorda che dai tre processi sopra citati restano fuori due inquietanti realtà: quella delle grandi città e delle loro periferie nella cui anomia senza socializzazione si intrecciano pericolosamente la devianza degli immigrati e l’aggressività di bulli e teppisti indigeni; e quella delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza.

Ma è proprio su queste due sorgenti di inquietudine e pericolo che vanno focalizzate attenzione e impegno senza dimenticate che esse andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato; e senza soprattutto cedere alla diffusa attuale tentazione di ragionare su una generale "deriva razzistica".

È questa tentazione naturale per chi vive di drammatizzazioni sovrastrutturali (mediatiche o politiche che siano); ed è una tentazione doverosa per chi deve ricordare grandi principi di civiltà collettiva; ma è una tentazione che ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui senza clamori si fa integrazione sociale di immigrati, processi e percorsi inadatti certo all’enfatizzazione mediatica e alla cultura degli eventi, ma incardinati saldamente in quella forza della lunga durata che ci ha sempre accompagnato nel tempo.

Giustizia: Napolitano; contro razzismo responsabilità comune

 

Redattore Sociale - Dire, 6 ottobre 2008

 

"Il valore supremo che deve guidare, come ci dicono l’insegnamento e l’impegno della Chiesa, è il rispetto della dignità umana, in tutte le sue forme e in tutti i luoghi". È Quanto ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al termine del colloquio, avvenuto al Quirinale, con Papa Benedetto XVI, durante il quale i due hanno toccato il tema del razzismo alla luce dei recenti episodi di violenza verso immigrati in diverse città italiane. Per Napolitano "il rispetto della dignità umana" implica "più che mai anche la coscienza e la pratica della solidarietà, cui non possono restare estranee, anche dinanzi alle questioni più complesse, come quella delle migrazioni verso l’Europa, le responsabilità e le scelte dei governi". Il Capo dello Stato parla di "rispetto della dignità umana se tradotto nella grande conquista del "superamento del razzismo", citando una frase di recente pronunciata da Castel Gandolfo da Benedetto XVI, e sottolinea l’allarme "per il registrarsi in diversi paesi di manifestazioni preoccupanti, mentre nulla può giustificare il disprezzo e la discriminazione razziale".

E dunque, conclude Napolitano, "rispetto a rischi e fenomeni di oscuramento di valori fondamentali, quello della dignità umana che insieme ad altri, che noi sentiamo di trovarci di fronte, come il santo Padre ha detto, ha un’emergenza educativa anche nel nostro Paese". Infine il Capo dello Stato sottolinea: "Superare quell’emergenza è nostra comune responsabilità, su diversi terreni, se siamo convinti che si debba suscitare nel mondo di oggi una grande ripresa di tensione ideale e morale. Non vediamo forse persino negli avvenimenti che stanno scuotendo le fondamenta dello sviluppo mondiale i guasti di una corrosiva caduta nell’etica dell’economia e nella politica".

Giustizia: Maroni; nessuna emergenza razzismo, solo episodi

di Alberto Custodero

 

La Repubblica, 6 ottobre 2008

 

"Non penso che in Italia ci sia un’emergenza razzismo". Il ministro dell’Interno Roberto Maroni, sembra replicare, pur senza mai citarlo, al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che sabato, durante il colloquio con Benedetto XVI al Quirinale, aveva parlato di "manifestazioni preoccupanti", sostenendo che "nulla" giustifica "la discriminazione razziale". Maroni annuncia anche la costituzione parte civile del Viminale contro Amina Sheikh Said, la donna somala che, venerdì, accusò la polizia di essere stata vittima all’aeroporto di Ciampino di un episodio di "razzismo".

Ma a 24 ore dall’allarme intolleranza razziale lanciato da Napolitano (che ha invocato col Vaticano l’esigenza d’un lavoro congiunto per il "superamento del razzismo"), è un ministro della Lega Nord - il partito che ha fatto della guerra ai clandestini e all’islamismo il proprio cavallo di battaglia elettorale - a gettare acqua sul fuoco sulla polemica razzismo. Polemica non nata per caso, ma divampata dopo gli ultimi gravi episodi di cronaca, dall’operaio pestato a Roma da alcuni minorenni perché cinese al diciannovenne originario del Burkina Faso ucciso a sprangate a Milano.

Sulla stessa linea di Maroni il ministro della Cultura Sandro Bondi ("il popolo italiano è contro il razzismo"). E il presidente del Senato, Renato Schifani, che non crede che "nel nostro Paese esista il razzismo: non può esistere perché non è nel nostro Dna". "Altra questione - aggiunge la seconda carica dello Stato - è il pericolo di frange "dormienti" che si sono risvegliate con episodi gravi come quello dell’omicidio della signora Reggiani.

Di fronte a episodi di questo tipo, la parte sana del Paese ha reagito positivamente, una parte massimalista ha reagito in maniera xenofoba. Fenomeni di questo tipo vanno condannati, tenuti sotto controllo. E combattuti con la stessa unità delle forze politiche che si è registrata nella lotta alla mafia".

Ma è da Maroni che arriva la risposta più diretta alla preoccupazione del Capo dello Stato condivisa peraltro dal presidente della Camera, Gianfranco Fini (che ha ricordato l’idea di costituire un osservatorio a Motecitorio sul razzismo), e dal leader del Pd, Walter Veltroni. Se il titolare del Viminale nega l’emergenza razzismo, ammette, tuttavia, l’esistenza di "episodi che vanno colpiti". Ma secondo il ministro esistono anche le "montature", che "vanno colpite allo stesso modo".

A questo proposito cita il caso di Amina Said Sheikh, che ha denunciato di essere stata "vittima di un episodio di razzismo da parte della polizia", che l’ha "spogliata e umiliata in dogana" per perquisirla. Maroni ha difeso a spada tratta le forze dell’ordine. "È una clamorosa montatura - ha tuonato - che non c’entra nulla col razzismo".

"Anzi - aggiunge il ministro - è tutto il contrario: la polizia ha applicato con rigore la legge. Per questo motivo è stata presentata un querela contro questa signora, alla quale io aggiungerò una richiesta di danni, costituendomi, come ministero, parte civile. Non si può permettere che si infanghi la polizia accusandola di comportamenti razzisti".

I tentativi di Maroni e Schifani di negare l’esistenza di un’ emergenza razzismo non placano le polemiche politiche. Per Marco Minniti, del Pd, "sbaglia Maroni a sottovalutare i rischi del diffondersi di sentimenti intolleranti che sono insiti nella sequenza di atti criminali delle ultime settimane". "Fa ancora più male - ribadisce l’ex viceministro dell’Interno - a non raccogliere l’invito del presidente della Camera che ha proposto un osservatorio parlamentare su questi episodi". Gli fa eco Paolo Ferrero, segretario del Prc, che critica "le minimizzazioni della vergognosa ondata di razzismo e xenofobia in atto".

E ricorda che "è stato il governo Berlusconi ad impedire le politiche di inclusione bloccando il Fondo per le politiche di integrazione di 100 milioni di euro stanziati per il 2008 dal governo Prodi". Alla dichiarazione di Maurizio Gasparri, di An, che dice di credere più alla parola dei poliziotti che a quella "di una donna somala", risponde, ironico, Pino Sgobio, del Pdci: "E poi ci si chiede perché in Italia avvengono episodi di razzismo?".

 

Cinese aggredito: Alemanno gli porta le scuse di Roma

 

"Abbiamo portato alla vittima le scuse della città di Roma per quello che è successo e gli abbiamo garantito che tutti i responsabili saranno puniti". È quanto afferma il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che sabato scorso al Policlinico di Tor Vergata ha visitato Tong Hong-shen, il cittadino cinese di 36 anni aggredito giovedì a Tor Bella Monaca da una baby-gang composta da sei ragazzi della zona. Accompagnato dall’ambasciatore cinese Sun Yuxi e dal comandante dell’VIII gruppo dei vigili urbani Antonio Di Maggio, il primo cittadino si è fermato per circa trenta minuti nella stanza dove è ricoverato il giovane, sottoposto ieri ad intervento chirurgico per la riduzione della frattura del setto nasale: "Ci siamo impegnati con l’ambasciatore a incontrare la comunità cinese per poter valutare insieme tutte le proposte e le idee per sconfiggere l’intolleranza e fare in modo che ci sia la migliore integrazione tra la comunità cinese e la città di Roma".

Alemanno, quindi, promette: "forniremo alla famiglia dell’aggredito tutto il sostegno per risolvere qualsiasi problema di carattere sociale. Il paziente sarà dimesso probabilmente lunedì e dopo qualche giorno di riposo lo aiuteremo a inserirsi nel mondo del lavoro". Dal canto suo, l’ambasciatore confessa di essere "rimasto molto meravigliato da quello che è successo e da tutta questa faccenda. L’ambasciata cinese s’impegna a lavorare con il Comune di Roma per trattare adeguatamente questa faccenda".

 

Pd: il razzismo tema manifestazione 25 ottobre

 

"La questione della lotta al razzismo diventi uno dei temi centrali della manifestazione nazionale di Roma del 25 ottobre". È l’appello contenuto in una lettera aperta al segretario del Partito democratico, Walter Veltroni, inviata da intellettuali e politici al leader democratico. Firmano l’appello Aldo Bonomi, Gad Lerner, Ferzan Ozpetek, Nando Dalla Chiesa, Mario Scialoja, Livia Turco, Moni Ovadia, Giuliano Amato, Marco Baliani, Marcella Lucidi, Cristina Comencini, Tullia Zevi, Piero Terracina, Luigina di Liegro e Amara Lakhous.

La manifestazione del 25 ottobre promossa dal Partito democratico ha come slogan "Salva l’Italia". "È una parola d’ordine impegnativa accompagnata da una serie di temi che riguardano la vita dei cittadini, la qualità delle istituzioni, la solidità della convivenza civile- si legge nella lettera- i fatti di queste settimane confermano le preoccupazioni e l’allarme proprio attorno a queste questioni". Nel giro di pochi giorni "abbiamo visto moltiplicarsi gli episodi di intolleranza, di razzismo, di xenofobia. Abbiamo visto le aggressioni, gli insulti, i pestaggi a morte. Abbiamo visto persino la terribile strage di Castel Volturno, in cui la sanguinaria aggressività della criminalità organizzata e i drammatici problemi dell’immigrazione si sono mescolati in maniera esplosiva".

Noi, scrivono i firmatari dell’appello a Veltroni, "crediamo che questa sia ormai esplicitamente una delle emergenze di questo paese e che per affrontarla serva una iniziativa civile, politica e culturale tanto più forte perché dal governo non arrivano risposte ma spesso sottovalutazioni e silenzi". Questo, concludono, "ci spinge a dire che aderiamo alla manifestazione del 25 indicando questo tema della concreta lotta al razzismo e insieme della necessità di serie politiche per l’integrazione come una delle questioni centrali".

Giustizia: Berlusconi; fare graffiti diventerà reato, per decreto

 

Corriere della Sera, 6 ottobre 2008

 

Decretazione senza quartiere. In tutti i campi. Perché "soltanto attraverso i decreti legge è possibile il cambiamento". Non è la prima volta che il premier lo dice, anzi. Ma ieri sera, concludendo la festa del Popolo della libertà in corso a Milano, Silvio Berlusconi è apparso più determinato che mai.

E anzi, ha annunciato che adotterà la procedura d’urgenza anche per sanzionare i graffitari, coloro che devastano il volto delle città armati di bombolette spray. "Non è possibile - ha tuonato il premier - che ancora ci siano certi comportamenti: sporcare i luoghi pubblici deve diventare un reato. Sull’argomento presenterò un ddl al prossimo Consiglio dei ministri di venerdì a Napoli". Il premier sembra fermarsi e invece riprende indignato: "Bisogna farla finita con i cosiddetti graffiti perché in alcune nostre città non sembra di stare in Europa ma in Africa".

Vittorio Sgarbi, da Salemi, coglie la palla al balzo. A suo tempo, aveva organizzato a Milano una mostra assai discussa proprio sulla Street art: "Va bene il decreto - esordisce -, purché Berlusconi lo faccia scrivere a me". Il critico-sindaco passa a descrivere l’ossatura del provvedimento: "Primo: tutti i palazzi costruiti fino al 1960 sono edifici che non devono in alcun modo essere sfiorati. Massima severità".

Punto due? "Quelli degli anni successivi rappresentano l’Italia deturpata dalla speculazione economica ed edilizia. In questo caso, l’intervento dei graffitisti rende gradevole persino ciò che è il frutto di quella stagione". E dunque, le amministrazioni dovrebbero stipulare con i graffitisti una sorta di concordato: "Pagarli per bonificare i luoghi dell’orrore suburbano. Luoghi che non possono che migliorare".

Sgarbi cita Basquiat e Keith Haring, ricorda che anche loro "provenivano dalla strada". E conclude con questa immagine: "Il taglio su una tela bianca, è Fontana. Se invece il taglio lo faccio su un Caravaggio, è un crimine".

A stretto giro, arriva anche la risposta di Filippo Penati, il presidente della Provincia di Milano eletto dal centrosinistra: "Le iniziative per tenere in ordine la città vanno tutte bene, e non sarò certo io a dire che non servono. Eppure, continuiamo a vedere un atteggiamento schizofrenico: il ministro dell’Interno Maroni non fa che ribadire la necessità di assegnare più poteri ai sindaci. Oggi, scopriamo che anche su un argomento che è assolutamente da sindaci e comunque da amministratori locali, il governo si metterà a decretare". Ma Filippo Penati ha qualcosa d’altro sullo stomaco: "E poi, francamente, a Milano avremmo sperato che il premier arrivasse con il decreto per l’Expo firmato".

Ma alla serata finale della festa Pdl c’è anche Fabrizio De Pasquale, che è il presidente dell’associazione nazionale anti graffiti. Il quale, naturalmente, esulta: "Come avevamo già avuto modo di constatare, il presidente Berlusconi sembra aver preso di petto la questione".

Secondo De Pasquale, "i graffiti producono un danno economico imponente. Secondo una stima per difetto, per ripulire tutti i graffiti dagli edifici italiani sarebbero necessari non meno di 750 milioni di euro". Ma già così, tags e scarabocchi costano "alle amministrazioni pubbliche e alle municipalizzate all’incirca 80 milioni di euro l’anno". Il peggio, secondo De Pasquale, è che tanto danno viene prodotto "da una ridottissima minoranza di persone. Che fino a questo momento hanno potuto tuttavia contare su un’assoluta impunità".

Giustizia: il ddl sulle detenute madri presentato in Parlamento

 

Adnkronos, 6 ottobre 2008

 

Approda in Parlamento un nuovo disegno di legge a tutela dei figli delle madri detenute costretti per un ingiusto destino alla prigionia forzata. Il nuovo testo che ricalca la proposta di legge presentata nella scorsa legislatura dall’on. Enrico Buemi porta ora la firma dei senatori del Pd Donatella Poretti e Marco Perduca e mira alla la realizzazione di case-famiglia protette, o l’individuazione di strutture analoghe.

Tra i punti cardine del testo, la previsione che la madre detenuta potrà accompagnare il figlio al pronto soccorso o in ospedale quando ne abbia bisogno. Un diritto che appare scontato, soprattutto perché riguarda i piccoli che non abbiano varcato la soglia del terzo anno d’età. Per una migliore tutela della sfera psico-affettiva e dello sviluppo del bambino, inoltre, si stabilisce un nuovo limite di età del figlio, ossia dieci anni anziché tre, per la convivenza con la madre in custodia cautelare o in esecuzione della pena presso una casa-famiglia protetta.

Nel ddl, costituito da sei articoli, viene poi affidata al Giudice la discrezionalità per estendere, a seconda dei singoli casi, questi provvedimenti anche alle madri di figli con più di dieci anni.

Più diritti inoltre per i figli di detenute straniere: si prevede, nell’ottica di ricongiungere e assicurare continuità nella formazione del bambino, un permesso di soggiorno per i piccoli.

Tutte misure dunque che vogliono cancellare l’impatto traumatico dei piccoli con l’ambiente carcerario. Ma "non sempre si tratta di un trauma" e spesso con il "recupero del minore si può arrivare anche a quello della madre", spiega all’Adnkronos lo psicanalista Francisco Mele, che ha lavorato in Argentina in ospedali psichiatrici e istituzioni minorili e che è stato a contatto con il fenomeno delle madri detenute. Mele, che dirige il Settore Terapia Familiare del Ceis ed è docente di Sociologia della Famiglia e di Pedagogia della devianza e dell’emarginazione minorile presso l’Istituto "Progetto Uomo", sottolinea come in certi contesti delinquenziali in cui cresce il bambino l’impatto con il carcere sia diverso.

Premettendo la positività del nuovo ddl perché tutto ciò che "riguardi il bene del minore è da appoggiare", Mele sottolinea che però "occorre vedere per quale ragione la madre sia finita in carcere. È sicuramente riscontrabile un trauma nel minore quando il contesto familiare in cui viveva era sano e tranquillo" e la madre è finita in carcere per "un incidente di percorso". "Diverso è invece il discorso - spiega lo psicanalista - per i bimbi nati in un contesto delinquenziale dove la criminalità organizzata, il furto e altri reati fanno da padroni e sono la normalità". Dunque, diversi sono i modelli a cui si ispirano i piccoli, diversa è la reazione e l’incidenza nella sfera psico-affettiva. Particolarmente positiva è per Mele la previsione dell’allungamento del limite d’età del minore da 3 a 10 anni, perché attraverso un lavoro di tipo educativo e psicologico del piccolo nel contesto familiare si può aiutare la madre a cambiare.

"Da una parte - spiega l’esperto - si rinforza il sistema psico-emotivo del bimbo e dall’altra si cerca di cambiare il sistema morale di certe famiglie". Inoltre, ribadisce Mele, occorre differenziare ogni madre: "la madre infanticida - aggiunge - come fa ad accudire un figlio? Lì si deve intervenire psicologicamente. Si tratta di un lavoro terapeutico che agisce sulle emozioni perché spesso non siamo educati a gestirle. E attraverso il bimbo ci può essere il recupero anche della madre". C’è infine un ultimo punto importante da affrontare, precisa lo psicanalista: La giustizia - conclude Mele - rappresenta il "Terzo" e molti bambini crescono nella convinzione che il giudice è cattivo perché ha punito ingiustamente la madre e quindi si costruiscono un’idea sbagliata di giustizia. È proprio sul limite tra giustizia e ingiustizia che si deve lavorare per insegnare ai piccoli i giusti valori.

Sono una settantina i bambini di età inferiore a tre anni, che insieme alle loro madri vivono nelle carceri italiane. Figli di donne detenute in attesa di giudizio o in esecuzione di pena, che sono costretti a restare dietro le sbarre a causa delle norme adottate per evitare il dramma della separazione tra madre detenuta e figlio in tenera età. Dai dati del V Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, a cura dell’Associazione Antigone e presentato a Roma a luglio scorso, sarebbero 2.385 le donne detenute, 68 delle quali madri, e 70 i bambini di età inferiore ai tre anni reclusi con le mamme; mentre altre 23 donne detenute, al momento, risultavano in gravidanza.

In Europa sono 800.000 i bambini figli di genitori detenuti, 43.000 gli italiani. Gli istituti penitenziari dedicati esclusivamente alla popolazione femminile sparsi per l’Italia sono 7 e 62 le sezioni femminili situate in istituti penitenziari maschili. Le donne sul totale della popolazione carceraria incidono nei termini del 4 - 5% e di queste il 43% è rappresentato da donne straniere. La maggior parte delle donne finisce in carcere per reati come il furto, lo spaccio di sostanze stupefacenti, infrazioni della legge penale legate allo sfruttamento della prostituzione.

Le nomadi vengono incarcerate soprattutto per piccoli furti e per ragioni legate al loro stile di vita hanno difficoltà ad ottenere misure alternative al carcere, le stesse che incontrano le detenute italiane i cui reati sono legati al mondo della tossicodipendenza e per i quali è alta la recidiva.

È stata la legge 40 del 2001, riguardante le misure alternative alla detenzione "a tutela del rapporto tra detenute e figli minori", voluta dall’allora Ministro per le Pari Opportunità Anna Finocchiaro, a indicare per prima come evitare la detenzione in carcere a donne con figli minori di 10 anni. Tutte le detenute, anche se hanno commesso reati gravi, possono oggi usufruire del provvedimento ad alcune condizioni: aver scontato un terzo della pena e, nei casi di ergastolo, aver scontato almeno 15 anni.

Per essere ammesse alle misure, non ci deve essere pericolo di commettere ulteriori delitti, condizione che mal si adatta a reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti e alla prostituzione, che tipicamente presentano un alto tasso di recidiva e per cui sono incriminate la maggior parte delle detenute-madri. La normativa inoltre è stata spesso disapplicata dai giudici e presenta limiti di accesso ai benefici soprattutto per chi è in attesa di giudizio.

Le mamme straniere, in particolare, non avendo spesso un’abitazione dove scontare gli arresti domiciliari, sono costrette a tenere i bimbi in strutture di detenzione fino al compimento dei tre anni, quindi soffrire dell’ulteriore trauma della separazione. La "legge Finocchiaro", è stata però solo un punto di partenza.

"La coabitazione dei bambini nei luoghi di pena - si spiega nel nuovo ddl - travalica qualsivoglia ragionamento giuridico o posizione ideologica, e rappresenta un’aberrazione da cancellare. È consolidato in letteratura l’orientamento che, per lo sviluppo psicologico del bambino, il rapporto madre-figlio sia di primaria importanza. Privare un bambino della figura materna, in quanto figlio di una detenuta, è una violenza che contraddice la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia".

Del resto, impedire a tante detenute di vivere la propria condizione di madre fuori dagli istituti penitenziari, spiegano i firmatari del testo "è un ostacolo alla riabilitazione della donna, oltre che un impedimento perché i bambini vivano in un ambiente più confortevole del carcere e più idoneo alla loro crescita". Non è quindi opportuno, spiega il nuovo disegno di legge, per la tutela degli affetti del bambino, il "limite della legge Finocchiaro sulla convivenza con i figli, per le detenute con bimbi di età non superiore ai 3 anni; né è opportuno stabilire a priori l’età dell’indipendenza del minore dalle cure parentali, perché relativa alla soggettività di ogni bimbo. Il presente disegno di legge - si legge - pur stabilendo il tetto normativo fino a dieci anni, per una migliore tutela dello sviluppo del bambino, affida al Giudice discrezionalità per estendere questi provvedimenti anche alle madri di figli con più di dieci anni".

Giustizia: 38% dei detenuti è straniero, record in C.C. Padova

 

Ansa, 6 ottobre 2008

 

Nelle sempre più affollate carceri italiane (56.768 detenuti contro 42.992 posti) aumenta la quota di stranieri: sono 21.178 (38,31%). In testa ai 206 istituti c’è la Casa Circondariale di Padova, dove l’80% dei carcerati non sono italiani (151 su 187). A seguire, Parma (76%) e Macomer in Sardegna (74,16%). Percentuali più basse ma numeri impressionanti nelle altre carceri: a San Vittore gli stranieri sono 935 su 1.461 detenuti; a Bologna 668 su 1.046; a Regina Coeli, 596 su 971. Il trend è in continua crescita se si pensa che nel 1990 gli stranieri erano circa l’8%.

Sull’incremento ha pesato anche la legge Bossi-Fini: circa il 20% dei detenuti extracomunitari è in carcere per aver disatteso la norme anti-clandestini. Puntare su accordi bilaterali (come quello, recente, tra Italia e Romania) per trasferire 3.300 detenuti stranieri nelle carceri dei Paesi d’origine e usare il braccialetto elettronico (se la tecnologia sarà sicura) su 4.100 detenuti italiani da mandare ai domiciliari, prevedendo pene più severe in caso di evasione: queste le linee di intervento allo studio dei ministeri della Giustizia e dell’Interno.

Giustizia: denuncia detenuti nuove Br "picchiati dalle guardie"

 

Ansa, 6 ottobre 2008

 

I detenuti del processo a carico del partito comunista politico-militare, all’inizio dell’udienza di oggi, nel dibattimento in corso davanti ai giudici della prima corte d’assise di Milano, hanno denunciato un pestaggio che due di loro avrebbero subito alcuni giorni fa nel carcere romano di Rebibbia. "Non possiamo consentire che questa udienza cominci - hanno detto dalle gabbie - in quanto due di noi sono stati selvaggiamente picchiati dalla guardie". Il presidente della corte, Domenico Luigi Cerqua, non ha consentito che gli imputati proseguissero e ha invitato loro a denunciare tutto per iscritto. La corte, su richiesta dei difensori e con il parere favorevole del pm Ilda Boccassini, ha acquisito la documentazione riguardante la situazione carceraria degli imputati, detenuti in vari istituti italiani, "qualcuno anche a 1200 chilometri da Milano". Il procedimento prosegue con la testimonianza di alcuni funzionari della Digos di Torino e Milano che collaboravano alle indagini, mentre fuori dal palazzo di giustizia di Milano si sta tenendo un presidio di solidarietà con gli imputati.

Giustizia: Napoli; 30 arresti per le proteste contro le discariche

 

Ansa, 6 ottobre 2008

 

Oltre trenta persone tra ultras del Napoli ma anche due politici locali sono stati arrestati in merito agli incidenti avvenuti lo scorso gennaio a Pianura. Nella zona dove doveva sorgere una discarica ci furono incidenti per diversi giorni, bus dati alle fiamme, assalti alle forze dell’ordine e a una caserma dei vigili del fuoco.

Tra le persone coinvolte nell’inchiesta e arrestate nel corso dell’operazione ci sono anche l’assessore alla Protezione civile e ai Cimiteri del Comune di Napoli, Giorgio Nugnes e un consigliere comunale di An, Marco Nonno. La Digos coadiuvata dai carabinieri del comando provinciale di Napoli ha eseguito complessivamente 35 ordinanze di custodia cautelare: ventidue persone sono state condotte nel carcere di Poggio Reale, le altre tredici sono agli arresti domiciliari.

Tra gli indagati ai domiciliari c’è anche l’assessore Nugnes mentre il consigliere Nonno è stato condotto a Poggio Reale. Sedici dei 35 arrestati sono ultras appartenenti ai "Niss" e alle "Teste Matte". Tra questi anche i capi dei due gruppi, tra i più violenti delle due curve dello stadio San Paolo. Le indagini, coordinate dalla procura di Napoli, sono durate circa nove mesi, sono state eseguite dagli agenti della questura di Napoli.

In tutto questo tempo la polizia ha visionato i filmati degli incidenti avvenuti a Pianura, foto e ascoltato testimoni. Nel corso delle indagini sono stati individuati anche gli autori delle minacce a commercianti della zona, che all’epoca dei fatti furono costretti a chiudere gli esercizi commerciali per diversi giorni. Le accuse vanno dall’associazione per delinquere, alla devastazione e interruzione di pubblico servizio. Alcuni degli arrestati sarebbero pregiudicati non legati alla camorra. Tra gli indagati vi sono anche cittadini comuni residenti a Pianura accusati di avere assaltato la polizia con sassi e bastoni nei giorni degli scontri.

Giustizia: Consulta decide su evasioni detenzione domiciliare

di Giulia Milizia

 

Diritto & Giustizia, 6 ottobre 2008

 

Detenzione domiciliare speciale ed evasione: sui termini temporali che configurano una violazione la parola passa alla Consulta.

L’ordinanza n. 30027, emessa dalla Cass. Sez. VI Pen. in data 04/07/08 e depositata il 17/07/08, affronta la questione di legittimità costituzionale relativa ai commi I ed VIII dell’art. 47 ter della L. n. 354/75, nella parte in cui non limitano la punibilità del reato di evasione ex art. 385 c.p. al solo allontanamento dal domicilio che si protragga più di dodici ore.

Infatti la Corte, affrontando il caso di una donna agli arresti domiciliari perché "madre di prole di età inferiore ai dieci anni seco convivente" che "violò l’orario di rientro nell’abitazione di soli 40 minuti", evidenzia la possibile irrilevanza del fatto penale perché al caso in specie si dovrebbe applicare, per analogia in bonam partem, la disciplina risultante dal combinato disposto degli artt. 47 quinquies e sexies, commi I, della citata legge.

Essi, de facto, favoriscono un rapporto proficuo tra la genitrice ed i suoi bambini al di fuori della detenzione carceraria. Senza contare che la criticata norma, di cui in epigrafe, esclude la contestazione del reato di evasione se l’allontanamento dal luogo presso cui si deve scontare la pena "è inferiore alle 12 ore". Perciò ogni previsione contraria violerebbe l’art. 3 Cost. ed è per questo motivo che la S.C. ha deciso di rinviare la trattazione di questo problema alla Corte Costituzionale, considerando la questione sollevata dalla ricorrente non manifestamente infondata.

Dunque sembrerebbe che il limite delle dodici ore debba essere inteso come un limite invalicabile e, di conseguenza, tutte le assenze inferiori a tale lasso di tempo, per il principio della ragionevolezza della pena, non dovrebbero essere punite, anche se le disposizioni sopra citate non prevedono alcun "trattamento sanzionatorio più benevolo in relazione alle condotte "trasgressive".

Quanto sopra trova la sua giustificazione e conferma nell’antinomia dei due regimi di detenzione domiciliare, fondati su diversi presupposti: ordinario che si può concedere a chi deve scontare "una pena (anche residua) non superiore a quattro anni" e speciale, sotto cui si può sussumere la nostra fattispecie. Questo ultimo "si può applicare per l’espiazione di pene superiori di cui all’art. 47 ter, previa verifica dell’insussistenza del pericolo della commissione di ulteriori delitti e dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena".

In attesa della pronuncia della Consulta si ricordi come questa sia una tematica di ampia portata anche per i numerosi problemi ad essa connessi, perciò è quanto mai auspicabile l’accoglimento della sollevata eccezione di incostituzionalità.

Lazio: aumentano morti in carcere, 15 da gennaio a settembre

 

Comunicato stampa, 6 ottobre 2008

 

Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: "il carcere è un mondo duro e difficile. detenuti e agenti di polizia penitenziaria hanno assoluto bisogno di un sostegno psicologico".

Aumentano i morti all’interno delle 15 carceri del Lazio: alla fine dei primi nove mesi del 2008, infatti, i decessi sono già arrivati a 13, contro gli 11 dell’interno anno 2007 e i dieci del 2006. A denunciare il dato il Garante regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni.

In base alle stime diffuse da "Ristretti Orizzonti" e rielaborate dall’Ufficio del Garante regionale dei detenuti, nelle carceri del Lazio alla fine di settembre 2008 sono morti dodici detenuti e un agente di polizia penitenziaria. Si tratta di tutti uomini: sei sono stati i suicidi (compreso l’agente di polizia penitenziaria), quattro i decessi per malattia, tre quelli da accertare o non accertati. I decessi sono avvenuti a Regina Coeli (tre), Rebibbia (cinque), Viterbo (due), Velletri e Frosinone. In tutto il 2007 i morti erano stati 11 (sei suicidi, un’overdose, tre per malattie e uno da accertare), nel 2006 dieci (nove suicidi ed uno causato da malattia).

Complessivamente, dal 1 gennaio al 15 settembre 2008 nelle carceri italiani sono morti 87 detenuti, di cui almeno 33 per suicidio. Rispetto allo stesso periodo del 2007 i suicidi sono aumentati dell’11%, il numero totale dei morti del 5%. Dal 2000 al 15 settembre 2008 i morti nelle carceri sono stati 1.303 di cui 469 suicidi.

"Questi dati dimostrano in maniera drammaticamente inequivocabile che, purtroppo in carcere si muore ancor più che in passato - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni. Muoiono i detenuti ma anche gli agenti di polizia penitenziaria; inoltre oltre a quelli per malattia, la stragrande maggioranza dei decessi è legata ai suicidi sintomo, questo, che il mondo del carcere è duro e complesso e può far apparire insuperabili i problemi quotidiani. È di questi giorni la denuncia degli psichiatri che lamentano il taglio delle ore di lavoro in carcere, circostanza, questa, che potrebbe rendere ancor più grave la situazione, già ai limiti di guardia con il sovraffollamento legato all’entrata in vigore dei provvedimenti del governo".

Trani: sciopero della fame per Segretario generale dell’Osapp

 

Il Velino, 6 ottobre 2008

 

Il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, e il vicesegretario generale Domenico Mastrulli, sono in "sciopero della fame" nel carcere di Trani per protestare contro la decisione del direttore dell’istituto di bloccare il regolare corso dell’attività del sindacato. "L’Osapp non molla! - annuncia Beneduci - Stavolta c’hanno chiuso una stanza sindacale, forzatamente e con il tacito consenso da parte degli altri sindacati, non è escluso che i contrasti aumentino e che la situazione peggiori verso un’irritazione diffusa delle nostre scelte, quindi siamo qui e protesteremo ad oltranza se sarà necessario".

"L’atto portato oggi al cuore dei diritti del personale della Polizia penitenziaria - ricorda ancora il segretario generale -, rappresenta il segnale della forte intolleranza verso le battaglie che stiamo portiamo avanti in questo territorio difficile". "L’Osapp ha subito presentato ricorso al giudice che discuterà il 17 ottobre, nel frattempo ha richiesto l’immediata sostituzione della direttrice del carcere, che anche grazie alle connivenze con la vecchia, ma ancora attuale, amministrazione centrale, ha potuto disporre in questo modo dei diritti dei lavoratori". "Dopo 16 anni di lotta a favore dei diritti delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria, un’azione gravissima e senza precedenti come questa - spiega Beneduci - deve far riflettere sulla realtà che ci troviamo davanti".

Per Beneduci "se il ministro Alfano e il capo dell’amministrazione penitenziaria intendono riformare il carcere dovranno lavorare parecchio e sodo sui diritti dei propri lavoratori". "Ricordiamo ad Alfano che il corpo della Polizia penitenziaria rappresenta il 90 per cento della forza lavoro impiegata nelle strutture penitenziarie, e come tutte le altre forze dell’ordine anche noi chiediamo forti interventi sul fronte dei diritti, contro un arretramento della politica sindacale che rispetto gli ultimi 20 anni, con questo gesto, ha veramente toccato il punto più basso". "Se l’amministrazione penitenziaria centrale vuole veramente che non si inizi a scavare sul terreno dei diritti e delle prerogative sindacali, - conclude l’Osapp - è il caso che si ridesti dal sonno profondo nel quale sembra da tempo esser caduta".

Civitavecchia: i detenuti lavoreranno a pulizia arenili cittadini

 

Il Tempo, 6 ottobre 2008

 

Parte da oggi il progetto di "istituzione tirocini occupazionali risocializzanti per detenuti ed ex", nato dall’iniziativa del delegato alle attività del Mare Andrea Pierfederici e portato a compimento dall’assessore alle Politiche sociali Fulvia Fanciulli, con finanziamenti regionali. Il progetto prevede la partecipazione di dieci detenuti e dieci ex detenuti al fine di svolgere servizi socialmente utili.

"In particolare - spiega il delegato Pierfederici - dopo un passaggio con l’assessore alle politiche ambientali Mauro Nunzi, abbiamo concordato affinché quattro di questi ragazzi siano impegnati per la pulizia degli arenili civitavecchiesi. Con l’assessore Nunzi stiamo preparando un progetto pilota che vede impegnati i quattro addetti alla pulizia degli arenili, affinché a rotazione vengano mantenute in uno stato decoroso tutte le spiagge ed arenili della nostra città. Il Sindaco Moscherini - conclude il Delegato - una volta definito l’intero piano di occupazione dei tirocinanti renderà di dominio pubblico l’intera operazione per un’operazione che potrebbe essere uno dei maggiori esempi di solidarietà sociale in questa città".

Milano: 9 milioni per danni dei writers... mettiamoli in carcere!

 

Ansa, 6 ottobre 2008

 

Vita dura per i writers milanesi. Il comune di Milano torna all’attacco e annuncia nuove misure per combattere chi imbratta. Lo fa con un nuovo alleato: il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta. Dall’inizio dell’anno la Polizia ha già colto in flagranza di reato ben 37 graffitari. Nel 2007 l’Amministrazione ha ripulito 24mila stabili privati e 742 comunali. Costo per le casse del comune e quindi dei cittadini: 9 milioni di euro.

Numeri che hanno spinto la giunta a chiedere una normativa più severa e convinto il ministro a farsene sostenitore in Parlamento. La legge attualmente in vigore prevede una multa fino a 200mila lire a querela della persona offesa. Nel disegno di legge sulla sicurezza attualmente in discussione al Senato una voce "imbrattamenti" c’è già e prevede un aggravio di pena qualora l’immobile imbrattato sia soggetto a risanamento edilizio o ambientale.

Ma il comune vuole di più. E così, anche attraverso il ministro della Funzione pubblica, chiede che vengano recepite le proprie richieste. Tra queste l’introduzione della querela d’ufficio anziché di parte, con la reclusione fino a tre mesi e una ammenda fino a 500 euro, che sale a 2000 se l’immobile è di interesse storico o artistico. Viene chiesto anche l’obbligo di ripulitura e un’azione penale più snella, con il passaggio dei procedimenti dal giudice ordinario a quello di pace.

Proposte, queste, che già rientrano nel pacchetto di ordinanze volute dal sindaco e pronte nei prossimi giorni. Nella riunione di ieri, la giunta ha deciso di costituirsi parte civile nei confronti dei due writers sorpresi il 20 luglio dagli agenti del nucleo tutela del territorio della Polizia Municipale a imbrattare i muri della scuola comunale Agnesi, fra via Baravalle e via Tabacchi. Uno di loro aveva dichiarato ai vigili di lavorare come educatore presso la Provincia di Milano. "Questa decisione dimostra la costante volontà dell’Amministrazione di proseguire una battaglia di civiltà", è il commenta del vicesindaco, Riccardo De Corato.

Roma: è processato in contumacia per un errore del computer

 

Ansa, 6 ottobre 2008

 

Per l’errore di un computer nessuno sapeva che era detenuto a Regina Coeli. Così è stato processato, a sua insaputa, e condannato per rapina. Ora la sentenza è stata annullata e l’uomo è tornato in libertà.

A determinare il caso di mala-giustizia è stato un errore del computer del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che aveva comunicato al Tribunale la scarcerazione di Marcello B. quando in realtà era in cella. I giudici della quinta sezione, gli stessi che lo avevano condannato a 2 anni e 10 mesi di reclusione, accogliendo il ricorso dell’avvocato Riccardo Radi, hanno annullato la sentenza.

"Il processo sarà rifatto - spiega l’avvocato Radi - Dopo aver dimostrato l’errore tecnologico ho provato che al momento della condanna l’uomo era detenuto e quindi rintracciabile. Ma il mio assistito non ha mai ricevuto alcuna notifica e non è mai stato accompagnato in Tribunale per poter esercitare il diritto di difendersi".

Bologna: laboratorio di sartoria per le detenute, c’è o non c’è?

 

Ristretti Orizzonti, 6 ottobre 2008

 

Non esiste la sartoria nel carcere della Dozza (La Gazzetta di Reggio, 5 ottobre 2008)

 

Non esiste nessun laboratorio di sartoria dentro il carcere di Bologna. L’Ape Malandra gira per la città vendendo i vestiti fatti dalle detenute di altri penitenziari italiani. A denunciarlo è Valentina Castaldini, consigliere comunale di Forza Italia, che riporta la testimonianza di alcuni volontari all’opera dentro la Dozza. L’iniziativa era partita in marzo a Bologna, con la convenzione firmata tra il Comune e il moving-shop Ape Malandra: la boutique all’aperto, a bordo di due Ape Car, aveva ottenuto il permesso di circolare liberamente per la città, vendendo capi di abbigliamento fabbricati dalle detenute.

Il progetto, ideato dalla stilista milanese Valeria Ferlini, dopo le esperienze positive di Milano, Roma, Cortina e Forte dei Marmi, doveva partire anche nel carcere di Bologna. Ma alla Dozza, afferma Castaldini, non c’è ombra del laboratorio di sartoria, al quale doveva partecipare anche Annamaria Franzoni, la mamma condannata per l’assassinio di Cogne. In effetti, fra i provvedimenti del Comune c’è solo la convenzione con l’Ape Malandra e il permesso di circolare per la città. Non c’è l’indicazione che il laboratorio debba avere luogo tra le mura della Dozza. Castaldini se la prende con l’assessore al Commercio, Cristina Santandrea: "Ai detenuti non si possono fare annunci non veritieri".

 

Atelier alla Dozza: darà lavoro a 60 detenute (Il Domani, 8 febbraio 2008)

 

L’alta moda entra nel carcere della Dozza dove nascerà presto un vero e proprio atelier. A portare forbici e manichini all’interno di un luogo tutt’altro che fashion è l’imprenditrice milanese Valeria Ferlini che ha già rodato l’esperienza nel carcere di San Vittore, dove una sessantina di detenute producono capi così chic da essere acquistati a Porto Cervo, Forte dei Marmi, Cortina e indossati da una stilista navigata come Donatella Versace. Con l’iniziativa di Ferlini, inoltre, la moda scende fra i comuni mortali e, abbandonando show-room e boutique, sceglie un’ape Piaggio per mettersi in mostra, optando per la vendita ambulante.

Anche il marchio che i primi di marzo vedremo "sfrecciare" su tre ruote anche nel centro storico della nostra città, in particolare nei quartieri "bene" visto che assicura l’ideatrice "i costi sono da laboratorio, non da carcere", suscita curiosità: l’Ape Malandra, vagabonda. A sposare subito l’idea e a lanciare una linea di produzione tutta bolognese è stata, prima che scoppiasse il caso sulla sua rimozione, la direttrice del carcere.

Entusiasta dell’idea imprenditoriale anche il Garante per le persone private della libertà personale, Desi Bruno che assicura che "appena si definisce la situazione del carcere partiremo" con i corsi di formazione delle aspiranti sartine. Una sessantina all’incirca e, come prevedibile, per lo più straniere. "Per loro questa potrebbe essere un’ottima opportunità per formarsi e per tornare, una volta uscite, in patria con una professionalità di cui essere fiere".

Partner dell’iniziativa è l’assessorato al commercio di Cristina Santandrea, che punterà a finanziare i corsi di formazione. Le detenute, opportunamente selezionate, che diventeranno stiliste saranno ovviamente retribuite. "È prevista una linea donna e una linea bambino - annuncia Ferlini - Una produzione per creare la quale le detenute saranno coinvolte in prima persona, dando il loro apporto di idee e di creatività".

Il progetto, già approvato da Palazzo D’Accursio, sarà presto realtà anche a Roma e Milano. E sotto le Due Torri sarà reso pubblico il calendario delle uscite del furgone Ape Malandra a breve. Plauso per la partenza del progetto anche da parte delle organizzazioni sindacali. "Il lavoro è soprattutto dignità - ricorda il segretario generale della Cisl Bologna Alessandro Alberani - All’interno del carcere sono già 134 i lavoratori, ma mai come in questo caso era stata proposta loro una mansione creativa". Alberani insiste poi "sull’importanza non solo di portare il lavoro all’interno del carcere, ma di renderlo poi visibile fuori creando quel collegamento da sempre auspicato fra la Dozza e il resto della città".

Tra le intenzioni dell’imprenditrice milanese anche quella di coinvolgere altre aziende, magari locali, nel suo progetto. Con la garanzia del successo: in soli cinque anni al San Vittore di Milano si è passati dalla produzione di 100 capi al mese agli attuali 1.500.

Sassari: corsi formazione per ex detenuti, venerdì conclusione

 

La Nuova Sardegna, 6 ottobre 2008

 

Si concluderà venerdì a Marritza, all’associazione "Giovani in cammino", in località Le Tonnare, con la consegna degli attestati di partecipazione, lo "sportello tirocini per l’inserimento al lavoro di giovani in cerca di occupazione e di categorie svantaggiate, progetto di orientamento al lavoro organizzato dalla Camera di commercio nell’ambito delle tematiche sul mercato del lavoro. Obiettivo del progetto, al suo terzo anno, era creare i presupposti per l’inserimento attraverso l’attivazione di tirocini formativi e di orientamento in azienda. Il percorso era rivolto a imprese e operatori del Sassarese e categorie svantaggiate come detenuti ed ex detenuti.

Prima di tutto sono stati individuati i settori economici in cui promuovere i tirocini, poi sono stati avviati i contatti con imprese e accordi con operatori locali. Il coinvolgimento dei destinatari è stato conseguito con seminari informativi e percorsi di formazione. In seguito gli allievi, alcuni dei quali impegnati già dallo scorso anno, si sono costituiti in una cooperativa, affacciandosi così direttamente sul mondo del lavoro.

Nel percorso di formazione, che ha avuto una durata di circa sei mesi, è stato sviluppata l’attività in modo da simulare una vera realtà produttiva artigianale, con lezioni di falegnameria e restauro, conoscenza delle attrezzature, qualità e tipologie dei materiali, lavorazione artigianale e artistica del legno.

Torino: scultura detenuta dell'Ipm vince Premio Internazionale

 

Comunicato stampa, 6 ottobre 2008

 

Una delle giovani detenute presenti all’Ipm "Ferrante Aporti" di Torino alla sezione femminile ha vinto il 1° Premio Internazionale "Giuseppe Sciacca" 7° edizione 2008 - sezione speciale denominata "Cultura della pace e tutela dei minori Francesco e Giacinta di Fatima".

Usiamo uno pseudonimo per ragioni di privacy e la vincitrice la chiamiamo con il nome di Desiré, come lei ha scelto per essere indicata alla premiazione che si è svolta il 26 settembre 2008 in Campidoglio a Roma. Facciamo qualche passo indietro: quando è arrivato il bando di concorso, Desiré ha accettato immediatamente e sostenuta dagli operatori del laboratorio di ceramica dell’Agenzia Formativa "Forcoop", Giuliana Ponti e Davide Mennella, ha creato una vera e propria opera d’arte intitolata "Rom-Materna".

La scultura è stata premiata dalla giuria che ha consegnato il riconoscimento nell’austera ed elegante sala "Giulio Cesare" in Campidoglio attorniata da tantissima gente dello spettacolo, del giornalismo, della moda, della politica e del clero. Le emozioni provate dalla ragazza sono state molteplici: dal primo volo in aereo sino ai flash dell’evento di gala, ma come sottolinea Desiré, l’orgoglio del premio ricevuto lo vede riflesso negli occhi dei suoi insegnanti.

Desiré aggiunge: "Ho partecipato al concorso non solo per il premio, ma per dimostrare agli altri che con l’impegno e la volontà si ottengono risultati e questo di oggi e il mio esempio". Ammettiamo anche noi operatori di esserci emozionati nel veder realizzato un piccolo-grande sogno di un’adolescente e di aver raggiunto un traguardo mai sperato da noi adulti.

L’accoglienza degli operatori dell’Ipm di Casal del Marmo come dell’Icf di Roma e degli autisti dell’Amministrazione che ci hanno accompagnato in tutti gli spostamenti, hanno reso questa 2 giorni un momento indimenticabile per tutti noi; ed ha aggiunto, nella memoria del "Ferrante Aporti", una nota positiva della sua storia.

Il gruppo degli educatori è orgoglioso dell’esito raggiunto, perché progetto educativo vuole anche dire interventi di cambiamento e con notevole orgoglio proclamiamo la soddisfazione raggiunta di un tale risultato.

 

L’educatrice dell’Ipm, Enrica Tibaldi

Torino: visita all’Ipm di Ministro della Giustizia del Mozambico

 

Comunicato stampa, 6 ottobre 2008

 

Martedì 30 settembre l’Istituto Penale per i Minorenni di Torino ha avuto il piacere di ospitare Mrs. Maria Benvinda Levi, Ministro della Giustizia del Mozambico che trovasi in Italia per approfondire tematiche di settore e dove ha partecipato al III Congresso internazionale dei ministri della giustizia "Dalla moratoria all’abolizione della pena capitale" tenutosi a Roma il 29 settembre e dove, nell’ambito del Progetto "Rafforzamento della Giustizia Minorile in Mozambico", col coordinamento dell’Unicri, la Ministra ha voluto conoscere ed approfondire la condizione dei minorenni negli istituti penali, la procedura penale minorile e le progettualità previste ed attuate dai servizi minorili della Giustizia del territorio piemontese.

La visita si é pertanto sviluppata dapprima attraverso un resoconto sintetico effettuato dagli operatori dell’istituto con la presenza del Magistrato di Sorveglianza del locale Tribunale per i Minorenni, circa le caratteristiche dell’utenza, i percorsi progettuali possibili per i minori e le attività e gli strumenti del trattamento in uso in istituto. La Ministra é poi stata accompagnata presso i reparti detentivi dove i ragazzi/e stavano svolgendo attività ricreative. La signora si é a lungo soffermata con i minori, mostrando una certa emozione nel condividere una situazione di sofferenza, non solo dovuta all’attuale carcerazione bensì alle difficoltà vissute dai ragazzi e correlate alle specifiche storie di vita.

Ha apprezzato in particolare l’attività trattamentale che proponiamo; chiedendo informazioni sui percorsi scolastici e professionali e gli obiettivi sottesi ad alcune attività che in quel momento i ragazzi stavano svolgendo quali la comico terapia. È rimasta favorevolmente colpita dai manufatti dei ragazzi e delle ragazze apprezzandone la creatività e la naturale bellezza dei singoli oggetti. Specie con le ragazze della sezione femminile si é fermata per comprendere meglio le caratteristiche della cultura di provenienza complimentandosi con loro per le spiccate capacità manuali che hanno.

È parsa particolarmente interessata al lavoro dell’équipe trattamentale, ai vari aspetti che caratterizzano l’intervento degli operatori ed agli aspetti collegati alle tematiche della rivisitazione del reato e l’attività riparatoria. La visita si é conclusa con i complimenti sinceri della Ministra per l’opera di cura ed attenzione che tutti gli operatori pongono nei confronti dei minori ospiti e raccogliendo esempi ed esperienze che potrà tradurre nel proprio paese in attività innovative o comunque migliorative della condizione dei minori sottoposti a procedimenti penali.

 

Il Direttore Regg., dr, Gabriella Picco

Napoli: rubate 4 autoambulanze per il trasporto dei detenuti

di Luisa Russo

 

Il Mattino, 6 ottobre 2008

 

Misterioso raid ai Camaldoli dove sono state rubate quattro ambulanze della onlus Croce San Leonardo e ora le forze dell’ordine sono in allerta poiché l’ipotesi, ovviamente, è che qualcuno voglia utilizzarle per mettere a segno qualche clamorosa azione criminale. Numerose le "Croci" adibite al trasporto degli ammalati, ma in questo caso si tratta di mezzi autorizzati anche ad entrare nelle carceri: adibiti al trasporto dei detenuti. Vane le ricerche dei camioncini (che saranno stati nascosti in qualche luogo "sicuro" già predisposto dai malviventi). La polizia è rimasta sino a tarda sera sul luogo del raid, per le indagini e i rilievi della Scientifica.

Erano le 16.30 e mezza città era davanti alle tv intenta a seguire la partita quando un commando di almeno quattro persone è arrivato in via Vicinale cupa, a Chiaiano, impadronendosi con facilità dei mezzi ch’erano parcheggiati - con le chiavi inserite e senza alcuna vigilanza - nel piazzale, in una zona isolata (vi si arriva da piazzetta Santacroce) alle spalle del Monaldi. Ieri non era giorno di lavoro per la onlus. Ad accorgersi del furto, una mezz’ora dopo, è stato il titolare, G.V.. Sul posto gli agenti dell’Upg, della Mobile (funzionario di turno, Massimo Sacco) e del commissariato di Chiaiano. I posti di blocco scattati in tutta l’area circostante non hanno dato esito. Totale il riserbo della polizia, ma c’è da vagliare un vasto raggio di ipotesi. La prima è che quelle ambulanze siano state trafugate per compiere un agguato di camorra, ma, poiché portano sulle fiancate le insegne della Croce San Leonardo, a tal fine sarebbero difficilmente impiegabili (a meno che qualcuno non le ridipinga).

Ma potrebbero essere state rubate anche per fare saltare qualche udienza oggi o domani mattina (venendo meno i mezzi per il trasporto dei detenuti ricoverati in ospedali o centri clinici): di ambulanze, la Croce San Leonardo ne gestisce undici. Altra ipotesi potrebbe essere quella di un furto a scopo estorsivo, un tentativo di "cavallo di ritorno", diciamo così, a più alto livello. Non si può escludere infine un "dispetto" di qualche concorrente - l’antagonismo è fortissimo in questo settore - oppure che i camion, una volta ridipinti e "pezzottati", possano essere immessi nel mercato della ricettazione. In ogni caso la sorveglianza è fortissima e chi ha depredato quelle ambulanze non potrà spostarsi facilmente.

Napoli: Bruno Contrada... un "blitz" per trasferirlo a Palermo

 

Agi, 6 ottobre 2008

 

Un vero e proprio blitz, definito "illegittimo" e rispetto al quale è pronta la reazione dell’interessato. Reagisce immediatamente l’avvocato Giuseppe Lipera, legale di Bruno Contrada, dopo quanto accaduto nelle prime ore del giorno. Questa mattina, intorno al 5, infatti, gli agenti di polizia penitenziaria su disposizione del giudice di sorveglianza di Napoli si erano presentati a casa della sorella di Contrada, a Varcaturo (Napoli), dove l’ex 007 del Sisde sta scontando i domiciliari, per trasferirlo a Palermo, come disposto recentemente.

L’ex 007 avrebbe dovuto prendere l’aereo alle 6.55, ma è stato colto da malore. Anche i medici hanno certificato che non può essere trasferito e tutto è stato rinviato. Adesso il difensore parla di atto illegittimo e chiede che siano i carabinieri e non la polizia penitenziaria a presentarsi la prossima volta. "Le norme stabiliscono che il detenuto Contrada - spiega infatti - può essere trasferito solo e esclusivamente con la scorta dell’arma dei carabinieri".

Peraltro, ricorda, lunedì dove recarsi al Policlinico di Napoli per ricevere un impianto della protesi dentaria; e successivamente all’ospedale Civile di Pozzuoli per essere sottoposto ad intervento chirurgico di polipoctomia. Per questo chiede che "si dia corso al trasferimento soltanto dopo gli interventi e che l’eventuale scorta, per quanto non se ne comprenda la necessità, sia curata esclusivamente dall’arma dei Carabinieri". Contrada, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, ha protestato per il trattamento: "Non sono un pacco postale, né una cosa né un animale", avrebbe detto, secondo quanto riferisce Lipera. La sorella Anna parla di "blitz, non avremmo avuto neppure il tempo di preparargli una valigia".

Massa: per la squadra "Galeotta" la prima partita è già evento

 

Il Tirreno, 6 ottobre 2008

 

Pantaloncini e maglia arancione, colore prediletto delle rivoluzioni pacifiche. Una tuta blu, indossata da chi segue la partita dalla panchina, incitando i compagni. I colori della Galeotta, il team a composizione mista (detenuti-forze dell’ordine), invadono il campo di Ricortola per il match inaugurale del campionato provinciale di terza categoria. Con l’avversario, il Marina 2005, finirà 1 a 1. Risultato che riempie di orgoglio il direttore del carcere Salvatore Iodice e il patron Lorenzo Porzano.

Il calcio d’inizio è tutto per gli amministratori locali: gli assessori Fabrizio Brizzi e Gabriella Gabrielli si avvicinano al campo, non prima di aver salutato tecnici, dirigenti ed atleti. "È un momento di grande soddisfazioni per tutti - spiegheranno - perché proietta verso l’esterno una realtà che ha assoluto bisogno di non essere emarginata".

Per il resto, sul rettangolo di gioco è battaglia vera. "Corretta e leale", afferma Corino Valeri, agente di polizia penitenziaria, chiamato ad indossare la fascia di capitano al posto di Antonio Ciervo, che il capitano lo fa pure nella vita (è il comandante dei Carabinieri di Pontremoli). I detenuti in rosa sono sei, ma ieri ce n’erano solo 3, causa infortuni e permessi. Rodolfo Maisto, ad esempio, è il factotum della Galeotta.

E anche se i suoi occhi tradiscono un piccolo velo di malinconia, è il primo a lasciarsi trasportare dalle ali della normalità. "Ho sempre amato il calcio. A Caserta, negli anni Settanta, ho fatto perfino il cronista per una radio della mia città. Ecco, sarebbe davvero bello se qualche emittente privata ci consentisse di trasmettere i commenti alle gare", afferma. Il suo libro dei sogni, rimasto bianco per troppo tempo, comincia a riempirsi.

"Il clima che si respira negli allenamenti è bellissimo", conferma mister Aldo Poggi. "Tra i ragazzi c’è grande cooperazione, rispetto e lealtà. E poi, diciamolo, il livello tecnico è buono". Per preparare il debutto stagionale, i giocatori si sono impegnati con grande sacrificio. Ed il campo li ha ripagati: l’undici arancione ha disputato un’ottima gara, florida in difesa e grintosa in attacco. Bella e un tantino sfortunata, come tutte le debuttanti: ne sono un esempio il mancato goal per palla all’incrocio dei pali e l’espulsione del portierone Roberto Grossi (ha toccato la sfera con le mani fuori dall’area).

Dopo la marcatura del Marina, nella seconda frazione, in dieci uomini, la Galeotta supera la porta di Vullo con un grande Daniele Turba. Da sottolineare l’ingresso tra i pali, per gli orange, di Daniele Bonotti, 45enne della penitenziaria. La felicità di coach Poggi ("i giocatori erano un pochino tesi per l’attenzione della stampa") si mescola a quella di Gaetano Martucci, uno dei detenuti in selezione: "Questo progetto è la dimostrazione lampante di come si possa cambiare dopo un passato sbagliato. Quando tornerò in carcere, i compagni mi chiederanno notizie sull’esordio: tra noi non si parla d’altro ormai".

Gli artefici del piccolo miracolo, Iodice, Porzano e il ds Antonio Cofrancesco, sono raggianti. Ora non ci sono più tabù: la Casa Circondariale è veramente diventata un quartiere della città.

Immigrazione: i nuovi albanesi d’Italia che non fanno più paura

di Maria Antonietta Calabrò

 

Corriere della Sera, 6 ottobre 2008

 

Diciotto anni fa l’arrivo di centinaia di migliaia di clandestini. Con loro anche criminali. Oggi sono 420 mila, più lavoro e meno reati.

In meno di vent’anni, la prima grande ondata migratoria arrivata nel nostro Paese è stata assorbita e metabolizzata. Gli albanesi, prototipo degli immigrati "cattivi e violenti", non fanno più paura. Si sono integrati, lavorano, molti sono diventati piccoli imprenditori e dopo aver fatto "fortuna" c’è chi ritorna in patria per mettere a frutto il capitale economico e professionale acquisito da noi.

È questo il quadro che emerge dalla ricerca "Gli albanesi in Italia. Conseguenze economiche e sociali dell’immigrazione" messo a punto da Caritas-Migrantes nell’ambito del progetto comunitario "Aquifalc" che ha finanziato il rapporto. "Lo si rileva dai dati sull’occupazione, sulle famiglie, sulle presenze a scuola, sugli stessi addebiti penali.

È un esempio che fa ben sperare anche per gli immigrati romeni che hanno sostituito gli albanesi al vertice delle preoccupazioni degli italiani", sostengono Franco Pittau e Antonio Ricci curatori del dossier.

Con gli albanesi, nei primi anni Novanta, l’Italia scopre di colpo di essersi trasformata da nazione di emigranti in paese di immigrazione. Il flusso inizia in un clima di accoglienza. Sia nel 1990 (circa 800 rifugiati nell’ambasciata italiana) che nel marzo del 1991 (25.000 sbarcati in diversi porti della Puglia dopo la liberalizzazione dei passaporti) questi emigrati in fuga da un paese povero, stremato da una dittatura comunista feroce durata cinquant’anni, sono ben accetti.

Ma il clima peggiora già quattro mesi dopo, in agosto, quando quasi 20.000 albanesi arrivati tutti insieme sul mercantile Vlora in cerca dell’Eldorado che avevano visto in tv, vengono rispediti a casa senza complimenti subito dopo lo sbarco. Chi non ricorda le immagini dello stadio di Bari dove vennero ammassati prima del rimpatrio forzoso? Quella nave aveva dato l’idea di una minaccia, di un’invasione, al pari del continuo andirivieni di gommoni e di scafisti che ne seguì. Ben 200.000 persone sono sbarcate sulle coste pugliesi tra il ‘91 e il 2000, secondo la stima del Consiglio italiano per le scienze sociali. E di queste meno di settemila l’anno sono state intercettate dalle forze di polizia e rimpatriate.

Cifre che hanno assicurato per molti anni all’Albania il primo posto nella graduatoria dei paesi stranieri in base alla pressione migratoria nei confronti dell’Italia. A ciò si è aggiunto un altro triste primato: nel 2000 gli albanesi sono il primo paese anche nella classifica degli stranieri denunciati per gravi reati (traffico di sostanze stupefacenti, spaccio, sfruttamento della prostituzione, stupro, omicidio), con una quota del 16,1%.

Una cifra che combinata a gravi singoli episodi di criminalità, ha fatto sì che soprattutto dove sono più presenti, al Nord e al Centro, gli albanesi fossero considerati dagli italiani tanti, troppi. E molto "cattivi". A Milano si diceva che persino gli affiliati alla ‘ndrangheta avevano timore degli albanesi. I più riescono a nascondersi nelle pieghe della nostra società per emergere in occasione delle regolarizzazioni (1995, 1998, 2002).

Altri, invece, vengono espulsi e rispediti nel loro paese, dove sta capitando di tutto: crisi finanziaria nel 1997, guerra del Kossovo nel 1999, il conflitto nella vicina Macedonia. Sanno di non essere graditi, e così gli albanesi per rimanere nella loro "terra promessa" riducono le forme di socializzazione più visibili (incluso l’associazionismo) e potenziano invece le forme di autorganizzazione su base familiare e intracomunitarie. Sono in gran parte giovani, senza lavoro, ma arrivano che già sanno parlare bene l’italiano.

È alto anche il flusso degli studenti universitari (10 mila). Sembra un arretramento, ma in realtà si rivela un’impostazione "vincente". A cavallo del 2000, la situazione cambia, e oggi, è addirittura mutata di segno. Essere albanese non equivale più ad essere criminale. Le denunce nei sette anni che vanno dal 2000 al 2006, pur essendo raddoppiata la popolazione regolare, sono inferiori a quelle presentate in tutto l’arco dei dieci anni Novanta.

E si riducono percentualmente rispetto a quelle di marocchini e romeni: così gli albanesi scivolano al terzo posto, dopo essere rimasti a lungo in testa nella hit parade del crimine straniero. Secondo il rapporto Caritas-Migrantes, oggi i reati penali (un sesto di quelli commessi da stranieri), sono addebitabili in larga misura alla criminalità organizzata albanese e non più a singoli, come dimostrano alcune fattispecie di reato, tipiche delle organizzazioni criminali (associazioni di tipo mafioso e traffico di stupefacenti). Su questo punto, però, il sociologo Marzio Barbagli è meno ottimista: "In relazione ai tassi di criminalità io sarei più prudente, anche se la Caritas sta svolgendo un lavoro importantissimo per la conoscenza del fenomeno".

Per la Direzione investigativa antimafia (Dia), inoltre, ormai la criminalità albanese si è concentrata sul traffico di droga dove svolge un ruolo da protagonista. Al tempo stesso, però, chi non delinque, cioè la stragrande maggioranza, dimostra di essersi ben integrato. "Sul luogo di lavoro l’albanese gode di buona fama: disponibile, affidabile, rispettoso dell’autorità e soprattutto disposto a lavori molto faticosi, rispettoso degli orari", spiegano ancora Ricci e Pittau.

Oggi sono circa 420 mila, seconda comunità straniera per numero di presenze. L’area di maggiore insediamento con il 33,5% è il Nord Ovest, seguono le regioni centrali (27,2%) e quelle del Nord Est (26,8%). La collettività può essere così ripartita: 216 mila occupati, 15 mila lavoratori autonomi registrati presso le Camere di commercio (un dato che dimostra la presenza di un discreto nucleo di piccoli imprenditori), 101 mila minorenni, un quinto del totale. I rimanenti 88 mila sono in Italia per motivi di famiglia o in attesa di inserimento.

È una comunità che mostra equilibrio tra uomini e donne, anche per effetto della ricomposizione dei nuclei familiari, e i più sono di giovane età, tra i 18 e i 40 anni. L’incidenza dei coniugati riguarda i due terzi della presenza ed è nettamente superiore a quella media del totale degli immigrati (+8 punti percentuali).

Sono in aumento anche i matrimoni misti che, a differenza di quanto avviene per la maggior parte delle altre collettività immigrate, coinvolgono in tre casi su 4 i maschi albanesi. Non mancano segnali positivi anche da limitati flussi di ritorno in Albania. 500 sono i casi di rimpatrio assistito dal progetto "Welcome Again". L’obiettivo: assicurare un supporto agli albanesi rimpatriati volontariamente con accompagnamento al lavoro e alla creazione di microimprese.

Droghe: al via un "Progetto nazionale per l’inclusione sociale"

 

Redattore Sociale - Dire, 6 ottobre 2008

 

Un progetto sperimentale coordinato dalla Toscana, a cui partecipa anche la Puglia con risorse aggiuntive. Obiettivo: raggiungere e includere le persone dipendenti da anni con recidive e malattie.

Non sono poche le persone tossicodipendenti che, pur essendo in trattamento presso le strutture pubbliche e private faticano a beneficiare delle cure sanitarie a causa della loro situazione di elevata emarginazione sociale. È con questo presupposto che nasce il progetto nazionale sperimentale "Budget per l’inclusione sociale di persone tossicodipendenti in trattamento, o da attrarre in trattamento, ad elevata emarginazione" finanziato con fondi statali vincolati. Al progetto che è coordinato dalla regione Toscana, partecipa la regione Puglia con risorse aggiuntive provenienti da fondi non utilizzati del Dpr 309/90.

In Puglia nel 2006, secondo i dati ufficiali, l’utenza in carico presso i servizi pubblici e privati raggiunge le 12 mila unità. Alla regione Puglia sono stati attribuiti complessivamente 96 interventi da attuare e la somma complessiva di 480 mila euro. Il budget di cura per l’inclusione ammonta per ciascun intervento a 4.800 euro per una durata media di svolgimento dell’intervento di 12 mesi e per una frequenza media di ciascuna persona coinvolta di circa 20 ore a settimana. Tra i destinatari degli interventi persone che hanno una lunga storia di dipendenza, con frequenti ricadute durante il trattamento, spesso recidivi dell’esperienza carceraria, con comorbilità psichiatrica, di frequente affetti da malattie infettive.

La giunta regionale in un recente provvedimento ha integrato la dotazione attribuita alla Regione Puglia con la somma di 200 mila euro, quale cofinanziamento regionale. Alla riuscita delle attività progettuali sovrintende un gruppo di pilotaggio costituito da istituzioni e enti del pubblico e del privato sociale.

"È un settore, quello delle dipendenze, a cui guardare con attenzione e cura - afferma l’assessore regionale alla solidarietà sociale, Elena Gentile -. Finiti i clamori degli anni ‘80 e ‘90 in cui si gridava ai tanti allarmi sociali, le dipendenze hanno sempre più assunto il volto dell’attentato alla sicurezza nazionale per essere poi dimenticate dai più. Ma il fenomeno è presente, è in crescita, assume configurazioni assai diverse, tanto da correre il rischio della "normalizzazione" nell’immaginario collettivo, e va affrontato con tutti mezzi di cui disponiamo. Quello del progetto nazionale va esattamente in questa direzione".

Myanmar: cresce numero dei dissidenti in carcere, oltre 2mila

 

Adnkronos, 6 ottobre 2008

 

Il numero dei dissidenti politici in carcere nel Myanmar è praticamente raddoppiato rispetto all’anno scorso e ha superato le 2 mila persone. Lo denuncia un rapporto diffuso dall’Associazione assistenza ai prigionieri politici della ex Birmania di Bangkok, rilevando che nelle carceri del Myanmar ci sono ora 2.123 dissidenti, rispetto ai 1.192 del giugno 2007 che risultavano da una stima delle Nazioni Unite. Un aumento che dimostra "il disprezzo della giunta militare per le Nazioni Unite, la comunità internazionale e la popolazione", rileva l’Associazione in una lettera inviata insieme alla Campaign for Burma degli Stati Uniti al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, e ai membri del Consiglio di sicurezza. Nella missiva le due organizzazioni chiedono in particolare a Ban Ki-moon di "assicurare il rilascio di tutti i detenuti politici del paese prima o durante la sua visita in Myanmar a dicembre".

Usa: la morte di un detenuto diventa video-game per reporter

 

Ansa, 6 ottobre 2008

 

La morte in carcere di un detenuto ha ispirato negli Stati Uniti un video-game. A crearlo è stata una organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani, che ha preso spunto dalla morte di Boubacar Bah, un immigrato clandestino della Guinea deceduto un anno fa in un carcere del New Jersey, per trasformare la sua vicenda in un gioco da fare su internet. I giocatori sono chiamati a trasformarsi in reporter, e sulla base delle poche informazioni che hanno a disposizione devono scoprire on-line come e perché l’immigrato è morto, per quale ragione era detenuto, dove era stato rinchiuso, addentrandosi via via in un gioco che vuole in realtà essere una esplicita denuncia di come spesso vengono trattati gli immigrati illegali nelle carceri d’America e quali sono in generale le condizioni in cui si vive in alcuni istituti penitenziari statunitensi, volutamente definiti "Guantanamo interne".

 

 

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