Rassegna stampa 25 ottobre

 

Giustizia: meglio un innocente dentro che un colpevole fuori?!

 

Redattore Sociale - Dire, 25 ottobre 2008

 

"Per il 60% degli italiani meglio un innocente in carcere che un colpevole fuori". Davide Mosso (commissione carcere camera penale "Vittorio Chiusano" di Torino) cita i dati di una recente indagine e commenta la situazione attuale delle carceri: "Le politiche attuali si commentano da sole".

Nella prima giornata del convegno "Quale pena, quale carcere quali alternative", che proseguirà nelle giornate di sabato e domenica, è intervenuto Davide Mosso, commissione carcere Camera Penale "Vittorio Chiusano", sul tema "Dalla legge Simeone ai pacchetti sicurezza". "Un’indagine condotta in questi giorni ha rivelato che il 60% degli italiani preferisce sapere di un innocente in carcere, che non di un colpevole fuori" ha esordito Mosso, che ha citato i numeri delle presenze in carcere, prima e dopo l’indulto e una riflessione sulle leggi attuate in questi anni.

"Oggi le persone in carcere sono circa 57.000, prima dell’indulto erano 61.000, al 31 dicembre 2006, dopo l’indulto, erano 39.000" ha spiegato e ha citato un intervento del collega Massimo Pavarini, che nel novembre 2004 predisse che le carceri sarebbero state sempre più affollate, con più stranieri, più custodie cautelari e con più tossicodipendenti. Nel dimostrare la "profeticità" di queste affermazioni e la poca efficienza di alcune leggi di questi anni, Mosso ha evidenziato i dati relativi al capoluogo piemontese: nel 2006 (ma con l’effetto Olimpiade) furono 6.444 gli arrestati e fermati, di cui 1.311 italiani e circa 5.000 stranieri. Su 6.544, 3.295 (circa il 50%) vennero processati in direttissima. Quanti per la bossi-Fini? 2.054, circa il 60% (di 3.295) . Nel 2007, arrestati sono stati 6.522, 1.584 italiani,4.983 stranieri, 3.528 processati per direttissima, 1.356 per la Bossi Fini, che quindi non ha portato risultati nell’arginare la pericolosità sociale, ma criminalizza la presenza di chi è irregolarmente sul territorio, magari persone che lavorano, come operai o badanti.

"Anche la Cirielli e la Fini-Giovanardi - ha affermato Mosso - hanno contribuito all’aumento delle persone in carcere. Nel 2005, prima della Cirielli, la percentuale fra persone definitive e in custodia cautelare era del 62% definitive e 38% cautelare. Oggi siamo al 43% definitive, 55% cautelare". Dati estremamente significativi: "ogni politica penitenziaria è fatta verso chi sconta una pena definitiva e non di chi è in custodia cautelare. Su 57.000 persone in carcere in questo momento, ce ne sono 30.000 in custodia cautelare: le politiche attuali si commentano da sole".

L’avvocato ha citato ancora il numero dei tossicodipendenti presenti nelle nostre prigioni: al 31 dicembre 2007 in Italia sono 15.000, quindi il 30% del totale. Non c’è bisogno di nuove leggi, ha spiegato. "Semplicemente andrebbero applicate quelle in corso in modo corretto", rivelando come la Fini Giovanardi, ad esempio, riprenda degli articoli di più di 30 anni fa che prevedevano la presa in carico del tossicodipendente, la cura e la riabilitazione.

Giustizia: chi ha deciso che il sovraffollamento è "tollerabile"?

 

Redattore Sociale - Dire, 25 ottobre 2008

 

Olivieri: "63.568 posti tollerabili? Così si dimentica la questione umana". L’analisi critica di Emiliana Olivieri, componente di giunta Unione Camere Penali Italiane: "La capienza è di 43.262 posti, quindi sarebbero 20 mila i cosiddetti "tollerabili". Che idea abbiamo della pena?".

"Quale pena, quale carcere, quali alternative". Si è tenuto ieri mattina il convegno promosso dalla Camera penale del Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta, in collaborazione con le Camere penali della provincia di Alessandria e di Novara, presso il palazzo di Giustizia "Bruno Caccia" di Torino. Si è discusso della situazione delle carceri: dal sovraffollamento all’effetto dell’indulto, dalla legislazione alle eventuali soluzioni. Argomento della mattinata "La carcerazione cancerogena", introdotta da Emiliana Olivieri, componente di giunta Unione Camere Penali Italiane. "I problemi legati al carcere - ha sottolineato - per noi non sono solo argomenti di oggi, ma di sempre: questioni umane e non solo legislative".

"L’emergenza non dà buone soluzioni, ma solo risposte emotive, che creano solo altri problemi". In apertura del dibattito, è stato presentato il quadro della situazione attuale delle carceri, che oggi fotografa una situazione di presenze simile a quella precedente all’indulto, avendo cancellato la sperata "normalizzazione". Le ragioni? "L’utilizzo indiscriminato della custodia cautelare - ha sottolineato Olivieri - con carceri dove gran parte della popolazione detenuta è in attesa di giudizio. Un ordinamento penitenziario penalizzato dalla ex Cirielli; poi la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi e pericolosi discorsi di modifica della legge Gozzini, "inspiegabili", ha insistito Olivieri, dato che tutte le statistiche provano che la recidiva, il reingresso in carcere, è legata molto spesso a persone che non hanno goduto di nessun beneficio. Coloro che invece ne hanno goduto hanno una bassissima recidiva, attorno al 6%".

"Il ministro Alfano ha detto che 1 detenuto su 4 è fuori dal carcere dopo 3 giorni, l’ha chiamato effetto porta girevole. Sono parole rassicuranti?", si è chiesta ancora Olivieri, ponendo dei quesiti attorno ai dati della popolazione carceraria. "La capienza delle carceri è fissata a 43.262 posti, ma si è individuato un numero di cosiddetti tollerabili di 63.568, una differenza di 20 mila persone. Che idea abbiamo della pena, del carcere? Al 13 ottobre 2008 hanno dormito nelle carceri 57.087 detenuti, cioè 14 mila detenuti sono nella fascia del tollerabile. Cosa significa tollerabilità?. "Dietro ogni sentenza - ha concluso - c’è una persona".

Giustizia: Osapp; Ministro Alfano continua a raccontare favole

 

Il Velino, 25 ottobre 2008

 

"Il ministro della Giustizia Alfano dimentica che è la massima espressione gerarchica della quarta Forza di Polizia del Paese, di cui sembra ignorare articolazioni e assetti di comando". Lo dichiara Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp) a proposito della lettera che il ministro ha inviato ieri al Corriere della sera.

"Come dimentica - prosegue Beneduci - che i Direttori d’istituto, i maggiori responsabili del disastro, non sono incardinati nella Polizia Penitenziaria. Nella lettera si racconta di una condizione già nota, quasi a voler giustificare un quadro già di per sé grave: che le carceri sono vecchie, che si provvederà a finanziare nuovi posti letto, sempre insufficienti però, che si rimpatrieranno i detenuti stranieri e che si provvederà a rendere tecnologico il controllo di chi è in detenzione domiciliare. Il ministro indugia su ciò che dice oramai da 6 mesi, senza avere la benché minima consapevolezza che i fondi alle politiche penitenziarie sono stati tagliati per oltre il 50 per cento, che le trattative con gli Stati Stranieri non decollano, che il braccialetto elettronico non è sicuro ed è troppo costoso".

"Nel frattempo però - spiega il segretario dell’Osapp - si getta fumo negli occhi, ed è curioso che per fare ciò il Guardasigilli si permetta di coinvolgere i direttori, le questure, i comandi dei carabinieri e le prefetture, senza pertanto tener conto del fatto che chi lavora in carcere, a stretto rapporto con il detenuto, sono i 42.000 poliziotti penitenziari. Come ribadiamo o il ministro è consapevole della situazione grave, a cui però sa benissimo che con questa manovra non potrà mai dare sollievo, o la storiellina gliela racconta qualcun altro all’interno del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nel primo caso si ripete la tecnica del al lupo al lupo, già sperimentata con l’indulto del ministro Mastella, nel secondo caso, e per questo motivo più grave, Alfano dimostra un livello d’ingenuità disarmante. Intanto i Poliziotti Penitenziari spariscono dalle iniziative enunciate, come anche le situazioni scandalose emerse nei giorni scorsi, ci riferiamo a Monza, a San Vittore o a Le Vallette su cui il titolare della Giustizia si è guardato bene dal dire qualcosa".

"Stupisce, forse non più di tanto, che di fronte a tutto quello che sta accadendo sul territorio, e che questo sindacato ha avuto il coraggio di denunciare, i Provveditori e i direttori rimangano comodamente ai loro posti. Ma forse gli ingenui - conclude Beneduci - siamo noi a pensare che un ministro possa provvedere nei confronti di coloro che considera utili, e forse indispensabili, per le Riforme che da oltre 6 mesi ci propone come abituale ritornello".

Giustizia: indagine sui ricoverati in Opg; l'80% ha psicosi gravi

 

www.aipsimed.org, 25 ottobre 2008

 

Hanno in media 41 anni, sono quasi tutti uomini (1.195 contro 87 donne) per lo più celibi (900 contro 125 coniugati), hanno un basso livello di istruzione e quasi la metà si è resa colpevole di un omicidio. In media rimangono internati per tre anni e oltre l’80% dei casi sono affetti da psicosi gravi, come la schizofrenia. Ma vi è anche un 20% che è ricoverato per reati minori. Sono i dati contenuti nella ricerca di "Anatomia degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani".

La ricerca, prodotta dall’ufficio studi e ricerche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), è stata curata e presentata ieri mattina dallo psichiatra Vittorino Andreoli.

Al 12 marzo di quest'anno, data di rilevamento, risultavano 1.282 i pazienti ricoverati nei sei Opg italiani (Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere, l’unico che ospita donne, Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Aversa, Reggio Emilia). Gli Opg - è stato sottolineato nel corso della presentazione del volume, sono gli unici "manicomi" sopravvissuti alla riforma della legge Basaglia (legge 180) che nel 1978 ha chiuso gli ospedali psichiatrici ordinari.

Essi dipendono dal ministero della Giustizia e non da quello della Salute. "Dalla mia esperienza - ha detto Andreoli - ho potuto verificare che la psichiatria non ha bisogno di manicomi e che è possibile, attraverso strutture operative e psichiatri motivati, che anche la legge 180 funziona. Certo costa di più, ma questo non può essere un limite".

Andreoli ha quindi avanzato una sua proposta: pensare, ha spiegato, a piccole strutture diffuse sul territorio, a base regionale o interregionale, in rapporto con i servizi psichiatrici territoriali, intese anche come luoghi di studio del comportamento criminale.

La ricerca ha analizzato in particolare chi sono le persone ricoverate negli ospedali psichiatrici giudiziari italiani, quale la diagnosi clinica, quale la tipologia della pericolosità sociale, basandosi sul rilevamento capillare "persona per persona della popolazione internata".

Chi sono - L’età media è di 41,5 anni "età superiore - ha sottolineato Andreoli - all’età media della popolazione psichiatrica italiana. Il 30% ha una licenza elementare, il 46,5% ha un diploma di scuola media inferiore. La metà, prima del ricovero era disoccupato o nullafacente. Il maggior numero arriva da regioni come la Lombardia (144), Campania (176), Sicilia (191). La permanenza media negli Opg è di 36,33 mesi.

In generale, 23,2% è risultato ricoverato da meno di 6 mesi e il 57% da meno di due anni, il 6,6% supera i 10 anni di permanenza. "Non è vero - ha quindi sottolineato Andreoli - che gli Opg sono una sorta di stazioni cimiteriali".

Reati - Il 75% degli internati si è reso colpevole di reati contro la persona; di questi il 45,7% sono omicidi, seguono le lesioni personali (8,5%), i maltrattamenti, la violenza sessuale, gli atti di libidine per il 9,1%. Il 13,9% è invece rappresentato da reati contro la proprietà. Rapine e furto concorrono per il 12,2%. In generale, sottolinea la ricerca, per l’80% si tratta di reati gravi e per il 20% reati minori "con casi sporadici che sembrano assolutamente sproporzionati con il manicomio giudiziario".

Disturbi psichiatrici - Per l’84% circa si tratta di disturbi schizofrenici (37,3%), disturbi psicotici (23,9%), e disturbi della personalità (14,8%). Poco più del 65% riguarda invece i disturbi dell’umore, quelli dell’ansia e quelli correlati all’alcol. Vi sono però anche 52 casi, sottolinea la ricerca, circa il 4% dell’intera popolazione, senza una diagnosi possibile. Si tratta in altre parole di casi "dubbi" o che non sono classificabili psichiatricamente.

Giustizia: fratellini di Gravina; il magistrato "attacca" la polizia

di Giusi Fasano

 

Corriere della Sera, 25 ottobre 2008

 

"La verità è che quei bambini non riposeranno mai veramente in pace. E sa perché? Perché è la loro storia che non avrà mai pace. C’è troppo veleno attorno a ogni protagonista, a ogni passaggio, a ogni angolino di quella storia". Era marzo e Rino Vendola, l’allora sindaco di Gravina, aveva visto lontano. In tutti questi mesi la memoria di Ciccio e Tore - i fratellini di Gravina morti di ferite e stenti, di paura e di buio nella "casa dalle cento stanze" - non è mai stata rispolverata per una stretta di mano, per un rancore dimenticato. Sempre accuse, livori, malignità. Veleno, appunto.

Che ha fatto di questa inchiesta una corsa a ostacoli, un fallimento nel quale alla fine hanno perso tutti. Sempre scontri, più o meno feroci. L’ultimo è di pochi giorni fa: procura contro squadra mobile. Stavolta è stato il pubblico ministero Antonino Lupo ad aprire le "ostilità" con le sue 19 pagine scritte per chiedere al gip Giulia Romanazzi di archiviare l’inchiesta su Filippo Pappalardi, il padre di Ciccio e Tore (accusato prima di aver ucciso e nascosto i figli e poi del solo "abbandono seguito da morte").

"Quest’ufficio ritiene che gli elementi sin qui raccolti non sarebbero sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio" conclude Lupo. E giustifica le sue convinzioni precedenti: scrive che dopo la scomparsa dei bambini (il 5 giugno 2006) lui decise di arrestare Pappalardi (il 27 novembre 2007 per sequestro, omicidio volontario e occultamento di cadaveri) convinto della sua colpevolezza anche dal ritardo con il quale l’uomo aveva avvisato gli inquirenti di aver saputo una cosa fondamentale, cioè che i suoi figli, quando furono visti l’ultima sera, stavano giocando nella piazza delle Quattro fontane (non lontana dalla casa in cui furono poi trovati morti).

"Questo ufficio aveva ritenuto che tale colpevole ritardo del Pappalardi avesse contribuito a sviare le indagini", che l’uomo l’avesse fatto "nel tentativo di rendere più difficile la ricostruzione dei fatti". In realtà non ci fu nessun "colpevole ritardo". "È stato un banale errore dell’ufficiale di polizia giudiziaria che sotto il verbale di Pappalardi ha scritto 17 agosto invece che 17 giugno" ha rettificato poi la questura con una nota ufficiale. Ma al pm non basta. Per Lupo tutto questo "getta una pesante ombra sull’operato della polizia". Di più: "È singolare che fra centinaia di atti questo sia l’unico verbale la cui data sia stata erroneamente riportata".

Il magistrato trascrive anche parte dell’interrogatorio dell’indagato e annota: "Le incalzati richieste del pm (sulla data, ndr) si interrompono per l’intervento del dirigente della squadra mobile (Luigi Liguori, ndr) che pone domande su un argomento totalmente diverso". In sostanza ogni parola di Lupo serve a scaricare responsabilità sulla questura: la polizia convinta della colpevolezza di Pappalardi, avrebbe tirato dritto per la sua strada fino a falsificare quell’atto e nell’interrogatorio dell’indagato il dirigente Liguori avrebbe cercato di coprire tutto cambiando argomento.

"Qui ciascuno fa il suo lavoro con l’onestà di sempre e io non la voglio aprire questa guerra" premette il questore, Vincenzo Speranza. "Qui c’è gente oculata, che conosce bene gli atti. Quando sarà il momento sapremo bene come rispondere punto su punto. Io non faccio polemiche a vanvera " dice. Lui non vuole confermarlo ma i suoi uomini anticipano un passaggio della guerra che verrà: hanno rispolverato i filmati degli interrogatori, tanto per cominciare.

E in quello sott’accusa non è il capo della mobile ma lo stesso Lupo a "porre domande su un argomento totalmente diverso ". "E allora come la mettiamo?" chiedono. "Come la mettiamo?" si erano chiesti a giugno i consiglieri della prima commissione del Csm esaminando il fascicolo d’inchiesta aperto da una lettera con la quale il dottor Lupo lamentava le "ingerenze" del suo capo, il procuratore Emilio Marzano, nell’inchiesta di Gravina.

Era successo che Marzano aveva autorizzato alcuni interrogatori ("in assoluta buona fede") mentre il suo sostituto era assente ("mi sono sentito scavalcato"). L’ipotesi che la Commissione ritenne più verosimile per quella lite fu che i due non erano d’accordo sui tempi per scarcerare Pappalardi (rimasto in carcere per molti giorni anche dopo il ritrovamento dei bambini). In procura c’è chi dice che la miccia sempre accesa sul caso Pappalardi ha pesato sulla bocciatura di Marzano (presto andrà in pensione) alla guida della procura generale di Bari.

I riflettori di questa storia velenosa hanno illuminato spesso lo scontro più spietato: fra Pappalardi e la sua ex moglie Rosa Carlucci, la madre di Ciccio e Tore. Denunce, controdenunce, ricorsi, perfino la lite finale sul luogo dove seppellire i due piccoli. Lui ha preteso Gravina, lei avrebbe voluto Mesagne (dove ha casa, vicino Brindisi) e alla fine si è arresa accusandolo di aver fatto "il padre-padrone fino in fondo". Oggi Rosa e il suo avvocato, Danilo Penna, presenteranno al gip l’opposizione alla richiesta di archiviazione. "Io non mi fermo - giura lei -. Se il gip archivierà lo stesso io andrò a bussare ad altre porte. Andrò fino alla Corte di Giustizia europea. Qualcuno deve dirmi chi è responsabile della morte dei miei bambini".

Giustizia: politica "vietata" ai giudici? il Csm va alla Consulta

di Dino Martirano

 

Corriere della Sera, 25 ottobre 2008

 

Non è manifestamente infondata la verifica costituzionale della legge Castelli che, dal 1996, configura come illeciti disciplinari perseguibili d’ufficio l’iscrizione dei magistrati ai partiti e la loro "partecipazione continuativa" alle attività delle forze politiche.

La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, chiamata a giudicare l’ex pm di Napoli Luigi Bobbio (divenuto presidente provinciale di An a Napoli dopo un mandato al Senato), ha quindi accolto la richiesta dell’incolpato bloccando poi il "processo" in attesa della decisione della Consulta.

Spiega il relatore, Giuseppe Maria Berruti: "La norma sembra individuare una proibizione assoluta di partecipazione dei magistrati alla vita dei partiti, mentre la Costituzione consente solo la limitazione di questo diritto". Ma il divieto di iscrizione ai partiti, sembra chiedere il Csm, riguarda tutti i magistrati, compresi quelli fuori ruolo?

L’ex pm Bobbio è fuori ruolo dal 2001, dall’anno in cui fu eletto al Senato, e ha continuato a rimanere in aspettativa anche al termine della XTV legislatura quando andò a collaborare con il vice presidente della Camera Giorgia Meloni. L’entrata in vigore del decreto legislativo 109/2006 (lo strumento attuativo della riforma Castelli) ha poi colto l’ex pm. nonché ex senatore come "segretario provinciale" di An: ed è a questo punto che la Procura generale della Cassazione ha avviato l’azione disciplinare.

Così l’ex pm Bobbio viene colpito da una sorta di legge del contrappasso. Fu lui a presentare in aula a Palazzo Madama un emendamento (poi mai approvato) che vietava ai magistrati l’iscrizione ai partiti e ai movimenti che perseguono finalità politiche. Ma Bobbio oggi si sente colpito ingiustamente: "Nessuna norma vieta a un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni di essere assessore, ad esempio, nello stesso comune in cui esercita l’attività di togato. Un giudice che lavora a Napoli può essere assessore a Napoli e uno che lavora a Torino se viene nominato assessore a Napoli può addirittura chiedere il trasferimento in quella città". Tutto questo, però, la riforma Castelli non Io aveva affrontato.

Giustizia: nord-est; è allarme per usura e infiltrazioni mafiose

di Claudio Pasqualetto

 

Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2008

 

Un segnale diretto è arrivato solo qualche settimana fa sull’asse Padova-Venezia, dove una famiglia mafiosa siciliana si apprestava ad avviare un fiorente business fra turismo ed industria. Ma campanelli d’allarme magari meno evidenti si avvertono ormai da anni. Così Unindustria Treviso e la Fondazione Bellisario hanno deciso di uscire allo scoperto avviando un confronto concreto, aperto ieri da un convegno, su economia e criminalità.

"Sarebbe dannoso ignorare il problema - dice Alessandro Vardanega, presidente di Unindustria Treviso - sicuramente è indispensabile adottare subito le contromisure più adatte per evitare ogni rischio. Il Nordest è un terreno ideale per questo tipo di criminalità. È una zona manifestamente ricca, dove le attività d’impresa di ogni tipo si moltiplicano e si trova esattamente al centro della nuova Europa. Un’area, poi, con un’economia ad alto tasso di globalizzazione e quindi ancora più esposta". "Non abbiamo fenomeni evidenti di racket o di usura- aggiunge - ma sicuramente siamo ad altissimo rischio e se vogliamo rimanere competitivi e mantenere tutto il nostro appeal dobbiamo garantire il più elevato livello di sicurezza".

Sul territorio già da anni è attiva una collaborazione proprio fra Unindustria e gli enti locali per gestire unitariamente, dividendo i costi, un servizio di sorveglianza, ma i vigilantes sono solo un segmento dell’attività più complessa che va costruita. Al convegno di Treviso è arrivato Giuseppe Catanzaro, vicepresidente di Confindustria Sicilia ed imprenditore attaccato direttamente dalla mafia in una sua azienda di Agrigento. "Avete fatto grandi battaglie sulle infrastrutture - ha detto - e bisogna concepire la sicurezza esattamente come una infrastruttura, forse la più importante per dare adeguato valore alle imprese ed alla loro attività.

Oggi nel Nordest ognuno si muove per proprio conto ed ha pochissimi contatti con le forze dell’ordine o con la magistratura. È invece indispensabile ribaltare il rapporto, creare un filo diretto con le autorità dello Stato, scambiare informazioni deve diventare la normalità non l’eccezione. Solo questo può vanificare ogni tentativo di infiltrazione da parte della criminalità".

Se mafia e camorra, come ha spiegato Francesco Sidoti, docente di criminologia a L’Aquila, possono essere considerate "animali domestici", che in qualche modo conosciamo, ci sono forme dì malavita organizzata in arrivo dall’Est o dall’Asia di cui non si conosce praticamente nulla ed un Nordest così "visibile" ed attraente non può non preoccuparsene.

"Anche nel Veneto da qualche tempo - ha ricordato Riccardo Borsari, docente di diritto penale a Padova - la magistratura ha cominciato ad applicare misure pesanti come la confisca delle aziende, ma sicuramente bisogna snellire le procedure, coordinarsi a livello internazionale e rafforzare le armi a disposizione perché le imprese, soprattutto in un periodo difficile come l’attuale, possono essere facile preda di infiltrazioni criminali che partono dall’usura e dal riciclaggio per arrivare rapidamente ad inquinare anche le istituzioni".

Foggia: in sedia a rotelle, arrestato per residuo pena di 2 anni

 

www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 25 ottobre 2008

 

Nicola Perdonò, 41 anni, foggiano, è stato arrestato dalla squadra mobile per scontare un residuo di pena di 2 anni, 7 mesi e 11 giorni per spaccio di droga.

Il fatto che l’ordine di carcerazione sia stato spiccato per episodi che risalgono al marzo 1993, cioè a 15 anni fa, non sarebbe che una delle tante dimostrazioni di come la Giustizia talvolta si muova al rallenty. Ma l’arresto di Perdonò è diventato un caso perché il foggiano è costretto su una sedia a rotelle da 5 anni, in seguito ad un investimento datato 10 settembre 2003 quando rimase anche in coma per qualche giorno; ed inoltre deve spesso ricorrere alla bombola d’ossigeno per problemi respiratori.

Un uomo in queste condizioni - la squadra mobile per portarlo in carcere ha dovuto chiedere l’intervento di un’ambulanza - deve davvero rimanere detenuto in un carcere? Oppure non si possono e devono trovare soluzioni alternative? I suoi legali - gli avv. Luigi Leo e Annalisa Torre - chiedono a magistrato di sorveglianza e tribunale di sorveglianza di sospendere l’esecuzione della pena, considerate le gravi condizioni di salute di Perdonò. "Questo in attesa che la Cassazione" spiega l’avv. Leo "si pronunci sul nostro ricorso contro la decisione del Tribunale di sorveglianza di Bari che nei mesi scorsi ha rigettato tre nostre richieste: detenzione domiciliare, oppure affidamento ai servizi sociali, o come terza ipotesi rinvio dell’esecuzione dell’arresto".

Nicola Perdonò il 26 marzo del ‘93 fu arrestato con altri 10 foggiani in un blitz antidroga, in quanto accusato di rifornire di eroina "pusher" locali. In primo grado il Tribunale di Foggia gli inflisse 10 anni di reclusione, pena ridotta in appello a 4 anni e 6 mesi, con 23 mesi già scontati tra carcere e domiciliari negli anni Novanta. La vita del foggiano è cambiata il 10 settembre del 2003 quando un’auto lo ha travolto, con conseguente paralisi: da sorvegliato speciale lo si vedeva spesso accompagnato in Questura per l’obbligo di firma dalla compagna. Il 27 maggio 2004 Perdonò era stato nuovamente arrestato per traffico di eroina nel blitz "Flash" della Dda di L’Aquila, in quando accusato di essere coinvolto nella cessione di due chili di droga: era stato assolto.

Nel frattempo è diventata definitiva la condanna per lo spaccio di droga risalente al marzo del ‘93, per cui Perdonò doveva scontare una pena residua di 2 anni, 7 mesi e 11 giorni di reclusione, non potendo usufruire dell’indulto (sconta tre anni di pena) in quanto ne aveva già beneficiato per altre pendenze giudiziarie.

La difesa nei mesi scorsi aveva chiesto e ottenuto dal Tribunale di Sorveglianza la sospensione dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione, con i giudici che presero tempo per esaminare la situazione dell’imputato e la richiesta dei legali di detenzione domiciliare, o affidamento ai servizi sociali. Dopo aver chiesto informazioni alla Questura (che ha dipinto un quadro negativo di Perdonò, dicendo anche sulla scorta del parere di un medico della Polizia che "la condizione generica organica non risulta eccessivamente scadente, per la specifica condizione patologica non risulta in pericolo di vita") il Tribunale di Sorveglianza ha rigettato l’istanza difensiva e ordinato l’arresto del foggiano. Entrato in cella con la sedia a rotelle.

Milano: San Vittore; mancano carta igienica, sapone… e cibo

 

Redattore Sociale - Dire, 25 ottobre 2008

 

Giorgio Bertazzini, Garante dei diritti dei detenuti, denuncia la situazione del Terzo raggio del carcere milanese. Ed esprime apprezzamento per l’iniziativa del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di portare la situazione a conoscenza del Guardasigilli.

Presso il Terzo raggio del carcere di San Vittore sono insufficienti le forniture mensili di carta igienica e saponette, 18 persone non dispongono di un cuscino, il cibo è insufficiente. Inoltre il personale che si occupa di manutenzione ordinaria del fabbricato, accertato il cattivo funzionamento di rubinetti e sciacquoni, non è in grado di intervenire per indisponibilità di materiali e attrezzi idonei alla riparazione. È quanto emerge da una denuncia di Giorgio Bertazzini Garante dei diritti delle persone limitate nella libertà della Provincia di Milano, riferendosi all’ultimo ingresso effettuato a San Vittore il 16 ottobre.

Il Garante poi "esprime apprezzamento" per l’iniziativa del Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Pasquale Nobile De Santis, di portare a conoscenza del Guardasigilli Alfano il contenuto del rapporto della Asl di Milano sullo stato delle carceri di Milano e Monza e sulle condizioni di vita delle persone che vi sono detenute. "Si tratta di informazioni da tempo note agli addetti ai lavori che, a vario titolo, tentano di mantenere accesi i riflettori su una situazione che, tranne che nella fase immediatamente successiva al recente indulto, è da considerare strutturale", ha commentato il Garante.

Quanto al carcere di Monza, la presenza di scarafaggi è oggetto di attenzione del Garante sin dalla scorsa primavera ed è stata segnalata dal Direttore dell’istituto alla competente Asl nello scorso giugno. I materassi adagiati sul pavimento (circa 90 fino a qualche giorno fa) sono l’ennesimo epifenomeno del sovraffollamento, in crescita esponenziale.

Lodi: il direttore; che uomini vogliamo restituire alla società?

 

Il Cittadino, 25 ottobre 2008

 

Un uditorio attento e curioso ha ascoltato giovedì nel salone del ristorante Isola Caprera la dottoressa Stefania Mussio. Ospite del Lions Club Lodi Torrione, senza voler fare nessuna lezione, ha raccontato la sua idea di carcere, di detenzione, di pena e recupero.

Pavese, la dottoressa Mussio ha diretto le carceri di Pavia, Voghera, Alessandria e Opera. Arrivata a Lodi un anno e mezzo fa, amministra il carcere, come ha detto il presidente del Lions Nunzio Lauria, "per vocazione". "Mi lusinga sentir parlare di vocazione e non nego che è una definizione che si avvicina alla realtà - è stata la risposta della dottoressa -. Provo un profondo bisogno di giustizia, un profondo rispetto della legalità.

Mi interessa la cura dell’altro che mi ha guidato nella scelta del mio lavoro. Vorrei, per parte mia contribuire all’equilibrio della società e dare il mio apporto a costruirne una più giusta". Per parlare di carcere e pena detentiva, spiega Stefania Mussio, occorre partire da un testo fondamentale: la nostra Costituzione. All’articolo 27, infatti, il carcere viene improntato a criteri di umanità e a finalità di recupero del detenuto.

Alla base della visione della prigione che guida la direttrice Mussio c’è un assunto molto forte: "Dal carcere, piaccia o no, si esce. Sempre. O per estinzione della pena o per indulto o in forma di libertà vigilata o permessi". Un carcere da cui si esce non può che essere, conseguentemente, un carcere di recupero. "Chi lavora in carcere e per il carcere deve chiedersi: quale tipo di persone vogliamo escano? Individui recuperati, per così dire ricostruiti, o individui che ad una situazione di disagio iniziale che li ha portati a delinquere, abbiano aggiunto un’esperienza detentiva degradante e alienante?

Che tipo di uomini possono uscire se, dietro le sbarre, vengono abbandonati a se stessi? Dalla risposta a queste domande - conclude la Mussio - dipende il tipo di carcere che vogliamo creare". Questi criteri guidano la gestione del carcere di Lodi, dove concreto, anche grazie ai volontari, è l’impegno nei confronti dei detenuti. "Bisogna rispettare il ruolo del carcere come istituzione. Restituire qualcosa alla società che è stata lacerata dai delitti e dai crimini. Facendo uscire un individuo nuovo è come se la risarcissimo, almeno in parte. Il carcere chiuso non serve a nulla. Abbiamo molta letteratura che può confermarlo. Ho sempre cercato di realizzare una prigione che non aggiunge pena a pena, ma soddisfa, ove possibile un bisogno di normalità".

Bologna: teatro nel carcere minorile rischia lo stop dopo 10 anni

 

Redattore Sociale - Dire, 25 ottobre 2008

 

Finiti i fondi dell’Unione europea per un’esperienza che ha coinvolto 200 giovani detenuti in 10 anni. Il regista Paolo Billi lancia l’allarme e denuncia: "Tanti riconoscimenti ma sempre meno sostegni dalla città".

"Dieci anni di lavoro con la Compagnia del Pratello sembrano non aver futuro". Dopo un decennio di attività e con un nuovo spettacolo in programma dal 26 al 30 novembre, il teatro del carcere minorile di Bologna è in difficoltà e rischia lo stop per mancanza di finanziamenti: lo denuncia Paolo Billi, regista e "anima" del progetto educativo per i giovani detenuti.

Una delle esperienze di teatro in carcere tra le più continue anche a livello nazionale, ma che a questi aspetti non ha visto corrispondere il sostegno finanziario adeguato. L’attività iniziata nel 1998 da Billi all’interno dell’Istituto penale minorile di Bologna ha coinvolto più di 200 ragazzi, e messo in scena 15 spettacoli frutto di molti laboratori tecnici e creativi. Tutto questo non è bastato a garantire la sicurezza e la continuità dei finanziamenti indispensabili per la sopravvivenza della compagnia.

I fondi provenienti dall’Unione europea sono terminati, lasciando scoperto il 50% delle spese che dovrebbero essere coperte dalla Cassa delle ammende, l’ente del ministero della Giustizia che ha il compito di finanziare i progetti degli istituti penitenziari. La risposta ancora non è arrivata, e così al nuovo spettacolo "L’ultimo viaggio del Gulliver", in scena al carcere minorile dal 26 novembre al 30, sono venute a mancare risorse importanti. I laboratori, che precedono la messa in scena, sono passati da 9 a 3 con un drastico ridimensionamento delle ore da 620 a 270. Tagliate anche le repliche che passano da 14, degli spettacoli precedenti, a 7.

Il regista Paolo Billi dichiara amareggiato: "Dieci anni di lavoro, che sembrano non aver futuro: tanti riconoscimenti, ma sempre meno sostegni. Bologna è da sempre una città-conserva che produce organizzazione e diffusione culturale, ma ben poca cultura e tanto meno teatro e arte. Probabilmente sta arrivando il giorno, come nel lontano 1980, in cui saluterò nuovamente questa città". Nonostante le difficoltà economiche, il nuovo lavoro teatrale della Compagnia del Pratello "L’ultimo viaggio del Gulliver" andrà in scena, concludendo la trilogia dedicata all’opera di Swift. I due spettacoli precedenti sono stati realizzati sempre da Paolo Billi con i detenuti del carcere della Dozza e i ragazzi delle tre comunità di ex detenuti del minorile di Bologna. Per assistere allo spettacolo, è necessario prenotare il biglietto telefonando allo 051.551211.

Sassari: agenti del San Sebastiano pronti a scendere in piazza

 

La Nuova Sardegna, 25 ottobre 2008

 

Poliziotta penitenziaria costretta a lavorare con la divisa bagnata dopo che una detenuta le aveva fatto un gavettone. Quello raccontato dal Sappe è solo l’ultimo di uno stillicidio di dispetti e violenze denunciati dal sindacato per descrivere la situazione di disagio vissuta dal personale in servizio a San Sebastiano. Stanco di lanciare appelli che cadono nel vuoto, il sindacato lancia un ultimatum all’amministrazione penitenziaria.

"Se il 28 ottobre non riceveremo risposte - annuncia il segretario provinciale Antonio Cannas - il giorno della festa della polizia penitenziaria faremo un sit-in davanti al carcere". La protesta assumerebbe forte significato simbolico, perché attuata in concomitanza con la cerimonia organizzata nella Camera di Commercio. Una scelta, quella di un luogo esterno, che non è piaciuta ai sindacati in quanto "impedisce di fatto ai poliziotti in servizio di partecipare alla propria festa".

Antonio Cannas spiega che il sit-in potrebbe essere solo la prima di una serie di azioni clamorose, a suo parere necessarie per riaccendere i riflettori sulla casa circondariale. La lettera di messa in mora è stata spedita alla direzione della casa circondariale; al provveditore regionale e ai vertici del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria. L’ultimatum del Sappe arriva dopo che l’amministrazione penitenziaria ha rinviato al 28 ottobre un incontro chiesto dal sindacato per affrontare tutti i problemi del personale sassarese.

Il Sappe denuncia carenze di organico e una discutibile organizzazione del lavoro, non più concertata, che costringe il personale a turni massacranti per assicurare la vigilanza. Nonostante questo sforzo collettivo, scrive ancora il segretario provinciale, a San Sebastiano restano irrisolte "le gravi carenze in ordine alla sicurezza nella sezione femminile, nella portineria, nella sala regia e durante i colloqui". La goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza sarebbe l’apertura, non concertata con i sindacati, di una nuova sezione "ristrutturata ad hoc per ospitare detenuti sieropositivi".

"L’unico poliziotto in servizio in questo settore - scrive Cannas - dovrebbe avere il dono dell’ubiquità, in quanto deve assicurare la vigilanza nel reparto e nell’infermeria. Il tutto senza considerare i turni notturni, quando addirittura non viene adibito alcun operatore e gli oneri della vigilanza vengono caricati agli altri reparti". A settembre il Sappe aveva denunciato questo ed altri problemi durante un sit-in in via Roma. Nel corso della manifestazione era stata denunciata la situazione invivibile nella sezione femminile.

Qui i turni vengono coperti dal personale maschile "anche perché - scrive il segretario provinciale - l’unica poliziotta è diventata oggetto di sistematiche aggressioni fisiche e verbali da parte delle detenute, che si sono rese conto della continua assenza di vigilanza. Ma nessuno prende provvedimenti". In questo clima di scontro si sarebbe verificato l’episodio del gavettone, in conseguenza del quale l’agente è stata costretta a lavorare tre ore con la divisa fradicia "perché nessun collega poteva darle il cambio".

"Siamo il sindacato più rappresentativo e abbiamo sempre rappresentato i problemi e le carenze - ricorda Cannas -. In primo luogo la dirigenza regionale, però, ha sistematicamente disdetto gli incontri una o due giorni prima della data fissata". Si è così arrivati a ridosso del 28 ottobre, vigilia della festa annuale della Polizia penitenziaria. Questa volta il Sappe non accetterà nuovi rinvii e annuncia che, se non otterrà "seri provvedimenti", trasformerà la festa della polizia penitenziaria in una protesta.

Roma: il primo laureato nel "Polo Universitario" di Rebibbia

 

Redattore Sociale - Dire, 25 ottobre 2008

 

Sarà dottore in Giurisprudenza. Percorso di studi svolto interamente all’interno dell’Istituto. Ed è stato proprio lui a lanciare nel 2005 il "gruppo universitario" della casa di reclusione. Tesi sul sistema carcerario nella Roma imperiale.

Un detenuto laureato a Rebibbia. È il primo. Si chiama Augusto Guerrieri, lunedì riceverà la laurea in Giurisprudenza, con una tesi su "Il carcere nella Roma imperiale". Guerrieri è appunto il primo detenuto che si laurea a Roma con un percorso di studi fatto interamente all’interno dell’Istituto. Ed è stato proprio lui, Guerrieri, a lanciare nel 2005 il "gruppo universitario" della Casa di Reclusione. L’intento è quello di favorire lo studio all’interno dell’istituto.

Oggi ci sono otto detenuti nel complesso Casa di reclusione, uno dei quattro istituti di Rebibbia, che risultano iscritti a regolare corsi universitari. Una decina di studenti universitari della Sapienza collabora volontariamente con i detenuti-studenti per aiutarli a svolgere le pratiche burocratiche e per tenere i rapporti con i docenti. Come è noto, infatti, i detenuti non possono accedere ad Internet e quindi per loro è preclusa la possibilità di gestire i rapporti formativi e burocratici con l’università attraverso il collegamento telematico.

Il gruppo di "universitari" si è sviluppato non a caso all’interno della Casa di Reclusione di Rebibbia perché è l’istituto più contenuto: 180 detenuti al momento attuale. Nel Nuovo Complesso le presenze sono ben più numerose. Stiamo infatti viaggiando su più di mille detenuti. Anche Rebibbia femminile è molto numeroso e anzi è già scattato l’allarme per la fine degli effetti positivi dell’indulto in quanto a svuotamento. Ora siamo di nuovo al sovraffollamento. I numeri relativamente ridotti della Casa di reclusione permettono invece anche "esperimenti positivi", come quelli dei percorsi universitari.

Biella: Osapp; detenuto aveva "piani di sicurezza" del carcere

 

Apcom, 25 ottobre 2008

 

Nel carcere di Biella, alcuni giorni fa, un detenuto è stato trovato in possesso di informazioni riservate e riguardanti le armi e i dispositivi di sicurezza della struttura: lo rende noto Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria. "Dopo i problemi di sovraffollamento che abbiamo scoperto due giorni fa a Torino - denuncia Beneduci - e lo scandalo dei 40 detenuti costretti a dormire per terra, un istituto penitenziario piemontese si trova nuovamente nell’occhio del ciclone".

Del fatto l’Osapp - spiega Beneduci - ne è venuta a conoscenza solo ieri e riguarda un detenuto "spesino", ovvero addetto alla consegna dei generi acquistati nel carcere da altri condannati, che nella propria disponibilità avrebbe avuto un documento ufficiale riguardante io piani di sicurezza del carcere. "Un registro, chiamato Modello 43, utilizzato dalla direzione del carcere e necessario a raccogliere tutte le informazioni sull’armamento individuale del personale incaricato della vigilanza, i nomi di tutti i poliziotti penitenziari per ogni turno di servizio, e qualunque elemento facile all’individuazione dell’intera mappa dei sistemi di sicurezza del carcere biellese".

L’Osapp parla di una "struttura oramai allo sbando", che ospita circa 300 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 200 reclusi, con sezioni ad alta Sicurezza che ospitano mafiosi e terroristi "che hanno fatto la storia criminale di questo nostro Paese".

Pesaro: il "Teatro delle diversità" dedicato a Franco Basaglia

 

Redattore Sociale - Dire, 25 ottobre 2008

 

Torna domani l’appuntamento con la due giorni internazionale di studi su creatività e disagio psichico promossa dall’associazione "Aenigma". Al via contemporaneamente il festival "Le Visioni del Cambiamento".

Sono dedicati a Franco Basaglia il nono convegno dei Teatri delle diversità e il terzo festival "Le visioni del cambiamento" in programma domani e domenica 26 ottobre presso il Convento S.Maria del Soccorso di Cartoceto (provincia di Pesaro-Urbino). Il convegno internazionale dei Teatri delle diversità è promosso dall’associazione culturale "Aenigma" e dalla rivista "Catarsi-Teatri delle diversità’" (diretta da Emilo Pozzi e Vito Minoia, docenti di teatro all’università di Urbino "Carlo Bo"), che dal 1996 ha inaugurato, a livello europeo, una ricerca scientifica sulle esperienze di espressione creativa con finalità artistiche e socio-terapeutiche nei territori dell’handicap, disagio psichico, carcere, tossicodipendenze e in altri settori del sociale.

Le manifestazioni del 2008, entrate in rete con altre iniziative del territorio provinciale, sono dedicate al trentennale della Legge 180. "Anche a fronte delle recenti polemiche, spesso demagogiche - spiegano gli organizzatori - il convegno offre la possibilità di avere un’idea più oggettiva e concreta della storia e della situazione attuale dell’intricato mondo delle malattie mentali. Una riflessione obbligatoria, dopo 30 anni di esperienza, nell’interesse comune di malati, famiglie e una società civile e avanzata; un incontro con persone che lavorano sul campo ogni giorno: psichiatri, registi, attori, psicomotricisti, poeti; e i veri protagonisti, i talenti altri, le persone con disagio psichico che attraverso l’arte e il teatro hanno deciso di raccontare le proprie storie: i matti, come senza mezzi termini li chiama Claudio Misculin, ricoverato nel manicomio di Trieste ai tempi di Basaglia e ora attore e regista, fondatore dell’Accademia della follia, uno degli ospiti dell’evento.

Ad aprire i lavori del convegno sarà, nella sezione Il Laboratorio delle Idee, il professor Gianni Tibaldi in qualità di rappresentante dello Stato italiano nel gruppo di lavoro "Mentally hill/Mental health" della "United nations commission for human rights", con una relazione su "Coscienza collettiva e politica per intervenire sui disturbi mentali". A seguire, il professor Piero Ricci, docente di Linguistica generale presso l’università di Siena e segretario del Centro internazionale di semiotica e linguistica all’università di Urbino interverrà su "Le maschere di Medea, ovvero scene di infanticidio".

Un’ospite significativo, sarà il poeta e drammaturgo Giuliano Scabia, già docente al Dams di Bologna, dove ha formato numerosi studiosi e artisti, precursore delle esperienze di Teatro con alto contenuto di carattere poetico nel disagio sociale (sua, insieme al pittore Vittorio Basaglia è la celebre esperienza di "Marco Cavallo" voluta da Franco Basaglia nell’ex manicomio di Trieste nel 1973). Il suo intervento "La luce di dentro - Cavalli di luce" approfondirà una riflessione sullo spettacolo serale del 25 ottobre al Teatro Sociale di Novafeltria: "La luce di dentro- Viva Franco Basaglia" dell’Accademia della Follia con la regia dello stesso Scabia.

Nella vocazione della rivista, impegnata continuamente nell’informazione, nella ricerca e nella riflessione critica, altri ospiti da diversi paesi internazionali testimonieranno la forza del teatro nel contrastare pregiudizi e poteri forti in situazioni precarie nel mondo, come quella del razzismo e dei rifugiati (rappresentata dalla regista olandese Annet Henneman) o della lotta all’Aids nel Burkina Faso (rappresentata dal regista africano Lambert Zabré); tutti gli interessati al settore del teatro e sanità potranno seguire l’intervento di Ginevra Sanguigno, fondatrice dell’Associazione Clown One a Milano, storica collaboratrice di Patch Adams, il medico che ha deciso di curare la sofferenza indossando un naso rosso, e con lui ambasciatrice del sorriso in ogni angolo più disagiato del mondo.

Performance, incontri, aggiornamenti, con ospiti italiani e internazionali per i due giorni di convegno, daranno a loro volta solo il via alla terza edizione del Festival Internazionale dei Teatri delle Diversità "Le Visoni del Cambiamento" che quest’anno si svolgerà in diversi luoghi della provincia di Pesaro e Urbino fino al 21 novembre con la direzione artistica di Vito Minoia. Appuntamento domani con lo spettacolo "La luce di dentro. Viva Franco Basaglia" a Novafeltria. Un’interessante e toccante performance realizzata da alcune tra le persone che negli anni ‘70 avevano, con percorsi diversi, incrociato la strada di Franco Basaglia.

Si prosegue martedì 28 ottobre al Teatro La Vela di Urbino, la Compagnia O Thiasos di Roma, gruppo che propone un punto di vista altro sull’idea stessa di teatro in cui la natura diventa un partner vivo sia per gli artisti coinvolti che per il pubblico, presenterà Miti di stelle, uno spettacolo che indaga la relazione tra mitologia e natura, con la regia di Sista Bramini.

Mercoledì 29 il Teatro Aenigma, da poco reduce dal suo viaggio in Messico dove ha rappresentato l’Italia al Settimo Congresso Mondiale del Teatro Universitario, perseguendo la sua vocazione di promotore di incontri e scambi culturali internazionali, ospita presso il Teatro La Vela di Urbino Kassim Bayatly Karkoukly, regista della Compagnia di Teatro Universitario di Tripoli con lo spettacolo Mozart e Salieri, un "dramma leggero" sulla conflittualità come lo definisce lo stesso regista.

Altri numerosi appuntamenti legheranno tra loro con il filo leggero della poesia i diversi luoghi del Festival ancora tra Università di Urbino, Istituto Comprensivo Galilei, Biblioteca San Giovanni e Carcere di Pesaro. Qui tre gli appuntamenti, il 6 novembre con Il Parlamento di Ruzante per la Regia del Maestro Gianfranco de Bosio, quando un ex detenuto rientrerà in carcere come attore, il 13 novembre con la presentazione del volume "Parolèmbrugliate, parole vere per Eduardo" di Emilio Pozzi (La Compagnia dello Spacco sta allestendo in questi mesi uno spettacolo ispirato a "Napoli Milionaria" di De Filippo) e il 19 novembre con I cieli del mondo a cura di Lara Albanese, ricercatrice presso l’Osservatorio Astronomico di Arcetri e Mariano Dolci, Maestro burattinaio. Lo spettacolo sarà mostrato anche agli alunni dell’Istituto Comprensivo Galilei che potranno assistere alle magie del teatro delle ombre nel raccontare le diverse mitologie astrali del mondo.

Immigrazione: il micro-razzismo nel Belpaese dell’intolleranza

di Carlo Bonini

 

La Repubblica, 25 ottobre 2008

 

Il giorno in cui H., cittadino tunisino con regolare permesso di soggiorno, chiese di partecipare al bando comunale da sessanta licenze per taxi, scoprì che tassisti, qui da noi, si diventa solo se cittadini italiani. Il giorno in cui F. ed L., coppia nigeriana residente in Veneto, risposero a un annuncio per cuochi, scoprirono che l’albergo che li cercava, di neri non ne voleva. E "non per una questione di razzismo", gli venne detto dalla costernata direttrice della pensione, "perché in giardino, ad esempio", lavoravano "da sempre solo i pachistani".

Il giorno in cui S., deliziosa adolescente napoletana, finì nella sala d’attesa di un pediatra di base di Roma accompagnata dal padre, alto dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza, realizzò che insieme a lei attendevano soltanto bambini dal colore della pelle diverso dal suo. E ne chiese conto: "Papà, perché da quando ci siamo trasferiti a Roma siamo diventati così sfigati?".

Il Razzismo italiano è un "pensiero ordinario". Abita il pianerottolo dei condomini, le fermate dell’autobus, i tavolini dei bar, i vagoni ferroviari. "Negro", una di quelle parole ormai pronunciate con senso liberatorio nel lessico pubblico, non nelle barzellette. Volendo, da esporre sulle lavagne del menù del giorno di qualche tavola calda, per allargare a una parte degli umani il divieto di ingresso ai cani.

L’Italia Razzista è la geografia di un odio di prossimità, che nei primi dieci mesi di quest’anno ha conosciuto picchi che non ricordava almeno dal 2005. Un odio "naturale", dunque apparentemente invisibile, anche statisticamente, fino a quando non diventa fatto di sangue. Il pestaggio di un ragazzo ghanese in una caserma dei vigili urbani di Parma; il linciaggio di un cinese nella periferia orientale di Roma; il rogo di un capo nomadi nel napoletano; la morte per spranga, a Milano, di un cittadino italiano, ma con la pelle nera del Burkina Faso; l’aggressione di uno studente angolano all’uscita di una discoteca nel genovese.

Dunque, cosa si muove davvero nella pancia del Paese? Al quinto piano di Largo Chigi, 17, Roma, uffici della presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per le pari opportunità, lavora da quattro anni un ufficio voluto dall’Europa la cui esistenza, significativamente, l’Italia ignora. Si chiama "Unar" (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale). Ha un numero verde (800901010) che raccoglie una media di 10 mila segnalazioni l’anno, proteggendo l’identità di vittime e testimoni. È il database nazionale che misura la qualità e il grado della nostra febbre xenofoba. Arriva dove carabinieri e polizia non arrivano. Perché arriva dove il disprezzo per il diverso non si fa reato e resta "solo" intollerabile violenza psicologica, aggressione verbale, esclusione ingiustificata dai diritti civili.

Nei primi nove mesi di quest’anno l’Ufficio ha accertato 247 casi di discriminazione razziale, con una progressione che, verosimilmente, pareggerà nel 2008 il picco statistico raggiunto nel 2005. Roma, gli hinterland lombardi e le principali città del Veneto si confermano le capitali dell’intolleranza. I luoghi di lavoro, gli sportelli della pubblica amministrazione, i mezzi di trasporto fotografano il perimetro privilegiato della xenofobia. Dove i cittadini dell’Est europeo contendono lo scettro di nuovi Paria ai maghrebini.

In una relazione di 48 cartelle ("La discriminazione razziale in Italia nel 2007") che nelle prossime settimane sarà consegnata alla Presidenza del Consiglio (e di cui trovate parte del dettaglio statistico in queste pagine) si legge: "Il razzismo è diffuso, vago e, spesso, non tematizzato (...) La cifra degli abusi è l’assoluta ordinarietà con cui vengono perpetrati. Gli autori sembra che si sentano pienamente legittimati nel riservare trattamenti differenziati a seconda della nazionalità, dell’etnia o del colore della pelle". Privo di ogni sovrastruttura propriamente ideologica, il razzismo italiano si fa "senso comune".

Appare impermeabile al contesto degli eventi e all’agenda politica (la curva della discriminazione, almeno sotto l’aspetto statistico, non sembra mai aver risentito in questi 4 anni di elementi che pure avrebbero potuto influenzarla, come, ad esempio, atti terroristici di matrice islamica). Procede al contrario per contagio in comunità urbane che si sentono improvvisamente deprivate di ricchezza, sicurezza, futuro, attraverso "marcatori etnici" che si alimentano di luoghi comuni o, come li definiscono gli addetti, "luoghi di specie".

Dice Antonio Giuliani, che dell’Unar è vicedirettore: "I romeni sono subentrati agli albanesi ereditandone nella percezione collettiva gli stessi e identici tratti di "genere". Che sono poi quelli con cui viene regolarmente marchiata ogni nuova comunità percepita come ostile: "Ci rubano il lavoro", "Ci rubano in casa", "Stuprano le nostre donne". Dico di più: i nomadi, che nel nostro Paese non arrivano a 400 mila e per il 50% sono cittadini italiani, sono spesso confusi con i romeni e vengono vissuti come una comunità di milioni di individui. E dico questo perché questo è esattamente quello che raccolgono i nostri operatori nel colloquio quotidiano con il Paese".

L’ordinarietà del pensiero razzista, la sua natura socialmente trasversale, e dunque la sua percepita "inoffensività" e irrilevanza ha il suo corollario nella modesta consapevolezza che, a dispetto anche dei recenti richiami del Capo dello Stato e del Pontefice, ne ha il Paese (prima ancora che la sua classe dirigente). Accade così che le statistiche del ministero dell’Interno ignorino la voce "crimini di matrice razziale", perché quella "razzista" è un’aggravante che spetta alla magistratura contestare e di cui si perde traccia nelle more dei processi penali. Accade che nei commissariati e nelle caserme dei carabinieri di periferia nelle grandi città, il termometro della pressione xenofoba si misuri non tanto nelle denunce presentate, ma in quelle che non possono essere accolte, perché "fatti non costituenti reato".

Come quella di un cittadino romeno, dirigente di azienda, che, arrivato in un aeroporto del Veneto, si vede rifiutare il noleggio dell’auto che ha regolarmente prenotato perché - spiega il gentile impiegato al bancone - il Paese da cui proviene "è in una black list" che farebbe della Romania la patria dei furti d’auto e dei rumeni un popolo di ladri. O come quella di un cittadino di un piccolo Comune del centro-Italia che si sveglia un mattino con nuovi cartelli stradali che il sindaco ha voluto per impedire "la sosta anche temporanea dei nomadi".

La xenofobia lavora tanto più in profondità quanto più si fa odio di prossimità (è il caso del maggio scorso al Pigneto). Disprezzo verso donne e uomini etnicamente diversi ma soprattutto socialmente "troppo contigui" e numericamente non più esigui. Anche qui, le statistiche più aggiornate sembrano confermare un’equazione empirica dell’intolleranza che vuole un Paese entrare in sofferenza quando la percentuale di immigrazione supera la soglia del 3 per cento della popolazione autoctona. In Italia, il Paese più vecchio (insieme al Giappone), dalla speranza di vita tra le più alte al mondo e la fecondità tra le più basse, l’indice ha già raggiunto il 6 per cento. E se hanno ragione le previsioni delle Nazioni Unite, tra vent’anni la percentuale raggiungerà il 16, con 11 milioni di cittadini stranieri residenti.

Franco Pittau, filosofo, tra i maggiori studiosi europei dei fenomeni migratori e oggi componente del comitato scientifico della Caritas che cura ogni anno il dossier sull’Immigrazione nel nostro Paese (il prossimo sarà presentato il 30 ottobre a Roma), dice: " È un cruccio che come cristiano non mi lascia più in pace. Se la storia ci impone di vivere insieme perché farci del male anziché provare a convivere? Bisogna abituare la gente a ragionare e non a gridare e a contrapporsi. Non dico che la colpa è dei giornalisti o dei politici o degli uomini di cultura o di qualche altra categoria. La colpa è di noi tutti. Rischiamo di diventare un paese incosciente che, anziché preparare la storia, cerca di frenarla.

Si può discutere di tutto, ma senza un’opposizione pregiudiziale allo straniero, a ciò che è differente e fa comodo trasformare in un capro espiatorio. Alcuni atti rasentano la cattiveria gratuita. Mi pare di essere agli albori del movimento dei lavoratori, quando la tutela contro gli infortuni, il pagamento degli assegni familiari, l’assenza dal lavoro per parto venivano ritenute pretese insensate contrarie all’ordine e al buon senso. Poi sappiamo come è andata".

Se Pittau ha ragione, se cioè sarà la Storia ad avere ragione del "pensiero ordinario", l’aria che si respira oggi dice che la strada non sarà né breve, né dritta, né indolore. I centri di ascolto dell’Unar documentano che nel nord-Est del paese sono cominciati ad apparire, con sempre maggiore frequenza, cartelli nei bar in cui si avverte che "gli immigrati non vengono serviti" (se ne è avuto conferma ancora quattro giorni fa a Padova, alle "3 botti" di via Buonarroti, che annunciava il divieto l’ingresso a "Negri, irregolari e pregiudicati"). E che nelle grandi città anche prendere un autobus può diventare occasione di pubblica umiliazione, normalmente nel silenzio dei presenti.

Come ha avuto modo di raccontare T., madre tunisina di due bambini, di 1 e 3 anni. "Dovevo prendere il pullman e, prima di salire, avevo chiesto all’autista se potevo entrare con il passeggino. Mi aveva risposto infastidito che dovevo chiuderlo. Con i due bambini in braccio non potevo e così ho promesso che lo avrei chiuso una volta salita. L’autista mi ha insultata. Mi ha gridato di tornarmene da dove venivo. E non è ripartito finché non sono scesa". T., appoggiata dall’Unar, ha fatto causa all’azienda dei trasporti. L’ha persa, perché non ha trovato uno solo dei passeggeri disposto a testimoniare. In compenso ha incontrato di nuovo il conducente che l’aveva umiliata. Dice T. che si è messo a ridere in modo minaccioso. "Prova ora a mandare un’altra lettera", le ha detto.

 

 

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