|
Giustizia: Bauman; globalizzazione si suicida, lo Stato l’aiuta Intervista a Zygmunt Bauman di Susanna Marietti
www.linkontro.info, 13 ottobre 2008
La crisi dei mercati finanziari è una crisi globale e nazionale. È una crisi che mette in discussione il sistema capitalistico nel suo complesso e le abitudini più radicate dei singoli cittadini. Una finanza e un’economia slegate dalla produttività e dal mondo del lavoro, che tuttavia hanno avuto l’ambizione di guidare i processi politici e di arrivare perfino a valutare i lavori delle amministrazioni statali e locali. La crisi di oggi è stata giudicata paragonabile a quella del 1929. Qualcuno l’ha definita ancora più grave. Ne abbiamo parlato con Zygmunt Bauman.
Professor Bauman, lei afferma che la sola autentica soluzione alla situazione attuale consista nell’andare alle radici del problema. Cosa intende dire con ciò? Si riferisce a un cambiamento culturale globale o a misure politiche specifiche? L’attuale panico del credito offre una straordinaria dimostrazione di cosa in politica dovrebbe significare, ma spesso non significa, andare alle radici. L’odierno credit crunch non è una conseguenza del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del loro incredibile successo, pienamente prevedibile sebbene per molti inaspettato: successo nell’aver trasformato un’enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una razza di debitori. Debitori per sempre, dal momento che la condizione di essere in debito è stata resa auto-perpetuante, e altri debiti vengono indicati come l’unica soluzione realistica ai debiti pregressi. Incorrere in tale condizione debitoria è recentemente diventato facile come non mai nella storia umana, mentre uscirvi non è mai stato così difficile. Chiunque può diventare un debitore, e milioni di altri che non potrebbero e non dovrebbero essere attirati dall’indebitamento sono già stati allettati e sedotti da esso. E così come la scomparsa di gente scalza significa problemi per le industrie di scarpe, allo stesso modo la scomparsa di gente senza debiti significa disastro per l’industria del prestito. La famosa previsione di Rosa Luxemburg si è avverata ancora una volta: comportandosi come un serpente che si morde la coda, il capitalismo si è di nuovo pericolosamente avvicinato al suicidio involontario con il portare a esaurimento le nuove terre vergini da sfruttare.
E come si è reagito a tutto questo? La reazione fino ad ora - di effetto, e perfino rivoluzionaria, come può sembrare una volta trattata nei titoli dei media e nel parlare sloganistico dei politici - è stata: ne vogliamo ancora. Un tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente meritevoli di credito, così che il business di prestare e prendere in prestito, di indebitarsi e rimanere indebitato, potesse tornare alla normalità. Il welfare state per i ricchi - che diversamente dal suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori uso - è stato riportato negli showroom dalle stanze di servizio dove erano stati temporaneamente relegati i suoi uffici per evitare spiacevoli paragoni (ma non il welfare state per i non-ricchi: per loro continua certo a valere la categorica affermazione di John Mc Cain secondo cui "non è dovere del governo tirar fuori dai guai e ricompensare chi si comporta in maniera irresponsabile", New York Times, 28 marzo 2008).
Lo Stato ha dovuto gonfiare i muscoli, secondo una sua espressione. I muscoli statali, a lungo non utilizzati a tal fine, sono stati di nuovo pubblicamente gonfiati, stavolta per continuare quel gioco in cui il gonfiarli è sentito come offensivo eppure - disgustosamente - inevitabile, un gioco che curiosamente non può sopportare che lo Stato gonfi i muscoli ma non può sopravvivere senza che lo faccia. Si noti che il governo americano è entrato in azione solo dopo che i giocatori di serie A di quel gioco che è il libero mercato e la libera circolazione di capitali hanno avuto esperienza diretta della tendenza suicida della rampante globalizzazione e della deregolamentazione su vasta scala dei mercati finanziari globali. Si noti anche che tutte le misure che sono state poi intraprese dalle autorità federali - improvvisamente e in netta contraddizione con tutte le loro precedenti professioni di fede - mirano a salvare l’alto e potente dalla catastrofe che esse hanno potuto verificare sul basso e debole, e mirano a permettergli di ristabilirsi dai presenti e futuri singhiozzi e giocare al gioco della globalizzazione con ancor più vigore, determinazione e profitto.
Il welfare state per i ricchi di cui parlava prima. Chi è stato aiutato da queste misure? Esse sono state introdotte per salvare gli squali, non i pesciolini di cui questi si nutrono. E, una volta rassicurati e rinforzati, gli squali sono le ultime creature che chiedono limiti alla caccia nelle acque globali. Per dirla con la colorita espressione del Financial Times del 20/21 settembre, "i mercati globali hanno ruggito la loro approvazione" della linea d’azione americana, che nella sobria valutazione di questo giornale significa "permettere alle banche di tamponare le proprie perdite, ricapitalizzare e rimettersi in affari". Non per cambiare i modelli operativi delle banche, bensì per metterle in condizione, una volta di più, di seguirli, sperando ora di poter essere sottratte alle conseguenze della loro avidità, con la quale sarebbe stato auspicabile (e immaginosamente esigibile) che avessero fatto i conti basandosi sui propri (insufficienti, come trapela ora) mezzi e secondo il proprio (sbagliato, come trapela ora) giudizio. Come ha detto Alistair Darling, responsabile della politica finanziaria britannica, a Sky News l’8 ottobre, dopo il mercoledì nero: "noi vogliamo essere sicuri di far ripartire il sistema".
Un sistema sbagliato nella sua interezza, che produce all’uomo sofferenza? Quel che è allegramente e scioccamente dimenticato è che le modalità dell’umana sofferenza sono determinate da come gli uomini vivono. Le radici della sofferenza lamentata oggi, come le radici di ogni male sociale, affondano in profondità nel nostro modo di vivere, grazie alla nostra abitudine - attentamente coltivata e ora assai radicata - di ricorrere al credito al consumo ogni qualvolta c’è un problema da affrontare o una difficoltà da superare. La vita a credito è attraente quanto forse nessuna altra droga, e di certo dà ancor più assuefazione di molti tranquillanti in vendita. Ma decenni di copiosa fornitura di una qualche droga non possono che condurre a un trauma nel momento in cui essa si interrompe. Ci viene oggi proposta una scappatoia apparentemente facile dallo shock che affligge sia il tossicodipendente che lo spacciatore di droga: riprendere la fornitura di droga, possibilmente in modo regolare.
Torniamo dunque alla domanda iniziale: la scappatoia non basta, bisogna andare alla radice del problema? Andare alla radice del problema - il quale problema, senza che ci fosse la volontà dei principali attori politici, è stato oggi fatto uscire dal segreto e portato alla pubblica attenzione - è l’unica soluzione che abbia qualche possibilità di essere adeguata all’enormità di esso e di sopravvivere all’intensa, per quanto relativamente breve, agonia dell’astinenza. Ma non può trattarsi di una soluzione immediata. Ci vuole più pensiero, più azione e più tempo che per un febbrile tentativo di ricapitalizzare le banche che prestano denaro e promuovono debiti, rendendo i loro debitori di nuovo (per quanto?) meritevoli di credito e rinnovando, invece di prosciugare, quelle sorgenti dalle quali, se le cose ‘vanno benè, germinano contemporaneamente i favolosi profitti delle banche e la miseria dei loro debitori. Non c’è impresa politica radicale che consista in una soluzione immediata. Misure che si pretendono immediatamente efficaci sono generalmente finalizzate ad attenuare, di solito in via temporanea, una crisi, a ripulire dalle ‘anormalità’ e a ristabilire le ‘normalità’. Le soluzioni immediate, per quanto straordinarie e audaci, sono generalmente conservatrici, mirando a ristabilire lo status quo. Per questo esse quasi mai arrivano nei pressi delle radici del problema, né gli impediscono di ritornare a oltranza. Piuttosto, conservano il problema per un futuro non troppo lontano.
La società occidentale sta diventando sempre più povera. Qual è il ruolo avuto dal credito nel nasconderlo alla gente e farle mettere la testa sotto la sabbia? Non so se, come dice lei, la società occidentale stia diventando più povera, ma so che, come ancora dice lei, la facilità del vivere a credito impedisce una seria riflessione su quanto siamo ricchi o quanto siamo poveri. C’è voluta un’enorme catastrofe, un panico mondiale come quello che leggiamo su tutti i giornali per farci svegliare dai sogni, tornare sobri, farci capire la verità e farci scendere dal mondo virtuale alla vita reale. Facilità del vivere a credito significa che soddisfare la generale possibilità, l’attrazione, l’incoraggiamento, l’inclinazione a vivere al di là dei propri mezzi diventa tanto più accessibile. Data questa facilità, è difficile - se non impossibile - calcolare i nostri veri mezzi. I debiti che ci rendono più poveri possono venir scambiati facilmente per arricchimento, fintanto che possiamo permetterci gli interessi sui prestiti. Possiamo così commettere la pazzia e l’errore di vivere al di là dei nostri mezzi convinti che stiamo andando per il meglio e che stiamo facendo gli interessi nostri e della nostra famiglia. Possiamo commettere questa pazzia e questo errore senza sensi di colpa, senza rammarichi, senza scrupoli.
Fino a quando… Fino a quando il momento della verità non piomba su di noi sotto forma di disastro finanziario: fatture e affitti non pagati, ufficiali giudiziari che ci bussano alla porta, banche che si riprendono le nostre case e via dicendo. Come il Faust di Goethe, vogliamo che la bellezza dell’istante duri per sempre. I crediti delle banche ci cullano nella meravigliosa convinzione che così sarà. E ci svegliamo dall’illusione solo quando siamo ormai sulla soglia dell’inferno. Giustizia: perché il Pm deve "cercare" una notizia di reato… di Bruno Tinti (Procuratore Aggiunto a Torino)
La Stampa, 13 ottobre 2008
Il commento di Luciano Violante sui due pm che hanno avuto l’ardire di "cercare" autonomamente una notizia di reato e che per questo sono sottoposti a procedimento disciplinare mi preoccupa molto: cerco di spiegare le ragioni di questa preoccupazione. Non senza ragione la Costituzione prevede (art. 109) che la magistratura dispone direttamente della polizia giudiziaria. Se non fosse possibile per il pm ordinarle di fare le indagini, tutte le indagini che egli ritiene opportune, la sua attività sarebbe condizionata da possibili inerzie o rifiuti. Naturalmente, perché il pm possa dare ordini alla polizia, è necessario che esista un procedimento penale; se questo non c’è, manca il presupposto per indagare e dunque per dare ordini alla polizia. Ora, non è affatto detto che la polizia (nel termine sono compresi polizia di Stato, carabinieri, guardia di finanza ecc.) sia sempre attenta e sollecita nel trasmettere notizie di reato alla procura, che poi potrà assumere la direzione delle indagini e cominciare a dare ordini; in molti casi potrebbe non farlo. E non perché la polizia non sia piena di bravissime e onestissime persone; ma perché, a differenza dei magistrati, la polizia non è autonoma né indipendente. Ha superiori gerarchici. E, alla fine della catena di comando, ci sono i ministri, e quindi il governo. E se il ministro dell’Interno ordina al prefetto che ordina al questore che ordina al dirigente che ordina al maresciallo e via così, allora c’è poco da fare. E il ministro dell’Interno, in certi casi, ordina, ordina molto.
Se la polizia non dice nulla
Nel 1980 Torino fu occupata dai lavoratori della Fiat scesi in sciopero, incitati da Enrico Berlinguer, allora leader del Pci, a occupare la fabbrica. C’erano picchetti ai cancelli degli stabilimenti e agli operai e impiegati che volevano entrare veniva impedito di farlo. Spesso gli scioperanti minacciavano e picchiavano. Di tutto questo polizia, carabinieri, vigili urbani parevano non rendersi conto: nessuna denuncia arrivava in procura; nessun reato veniva commesso. Insomma, nessuno ci diceva niente. In procura però arrivavano i referti medici degli operai pestati ai posti di blocco; c’era virtuosamente scritto che erano caduti da un muro di cinta oppure che erano inciampati mentre entravano in fabbrica. Riferimenti allo sciopero, ai picchetti, ai cortei: nessuno. Così ci attivammo noi e fui io a essere delegato dal capo (che era Bruno Caccia) a fare questa indagine. Mi misi a interrogare i sorveglianti di tutti gli stabilimenti bloccati (che però secondo polizia e carabinieri bloccati non erano) e identificai un po’ di gente che venne imputata per violenza privata, lesioni, minacce ecc. Feci anche qualche altra indagine, ma il succo è questo. Problema: noi "prendemmo" notizia di questi reati "cercandoli" o "constatandoli"? E, soprattutto, perché la polizia, che ha il compito istituzionale di "cercare" i reati, non ci aveva detto nulla? E se noi non avessimo a nostra volta "cercato"?
Gli ordini del governo
Beh, è ovvio che noi "cercammo". È ovvio che polizia e carabinieri non ci trasmettevano denunce perché questi erano gli ordini del governo di allora (ricordo ancora una telefonata che sorpresi tra un capitano e un colonnello; il povero capitano, facendo la faccia imbarazzata a causa della mia presenza - mi guardai bene dall’allontanarmi - diceva: ho capito signor colonnello, olio tra le parti signor colonnello, non esacerbiamo gli animi signor colonnello, non è il momento delle denunce signor colonnello). Infine, è ovvio che, se non avessimo "cercato", la storia di quei fatti (che furono importanti nel panorama complessivo dei rapporti sindacato-impresa) sarebbe stata diversa e comunque non conforme a legalità. Fin dai primi Anni 90, Raffaele Guariniello ha creato l’Osservatorio per i tumori derivanti da malattie professionali; lo gestisce lui, delegando la polizia alle dipendenze della procura; raccolgono notizie, incrociano dati, dividono le patologie per settori di lavoro, per fabbriche, per zone. E poi aprono processi per omicidi sul lavoro plurimi. Ne hanno aperti tantissimi. Cosa fa allora questo (eccezionale) pm? "Cerca" o "constata"? E come mai è necessario (e lo è da 20 anni) che gli omicidi colposi sul lavoro siano "cercati" dalla procura? Dove stanno gli organi istituzionalmente incaricati di "cercare"? Ecco a cosa serve l’art. 330 del Codice di procedura penale: a consentire alla magistratura (prima alle procure e poi ai tribunali) di conoscere e giudicare tutte le illegalità: tutte, non solo quelle che la classe dirigente del Paese accetta che vengano perseguite. Alla fine la domanda è sempre la stessa: che prezzo si è disposti a pagare per assicurare l’impunità a questa classe? Giustizia: contro il lodo Alfano raccolte più di 250mila firme
Adnkronos, 13 ottobre 2008
"Un risultato straordinario. In una sola giornata, sono state raccolte più di 250mila firme. Vuol dire che c’è una parte del Paese, non minoritaria, sensibile alla chiamata in piazza sui temi della legalità. Siamo certi che, procedendo con questo ritmo, l’obiettivo del milione di firme sarà raggiunto quanto prima. Un risultato importante anche in vista della decisione che la Corte Costituzionale dovrà assumere". Lo dichiara in una nota Massimo Donadi, capogruppo di Italia dei Valori alla Camera.
Alfano: difenderemo il lodo in piazza (La Sicilia)
Una carezza e un pugno. È la risposta del Guardasigilli, Alfano, ai cittadini radunati attorno ai gazebo allestiti in tutt’Italia dall’Idv per promuovere la consultazione popolare anti-lodo. La carezza è il tono morbido con cui il ministro commenta la manifestazione di piazza Navona: "Il referendum è un esercizio di democrazia e uno strumento che noi apprezziamo e stimiamo", dice a margine dell’assemblea dell’Aiga (Associazione Italiana Giovani Avvocati) interpellato sull’iniziativa dell’Idv duramente criticata dall’intero centrodestra. Poi sferra il destro, a difesa della norma che porta il suo nome: "Difenderemo in piazza il lodo perché noi pensiamo di aver fatto una legge giusta nell’interesse del Paese". Alfano mostra i muscoli, così come ha fatto nei giorni scorsi Berlusconi, mettendo in campo l’ipotesi di una grande manifestazione del centrodestra. Ma a decidere del lodo Alfano saranno, almeno in prima battuta, i giudici della Consulta che, fra qualche mese (più o meno a febbraio dell’anno prossimo), dovranno esprimersi sulla costituzionalità del provvedimento. La parola d’ordine del governo è "andare avanti". Giustizia: Carnevale sarà Primo Presidente della Cassazione? di Liana Milella
La Repubblica, 13 ottobre 2008
E adesso c’è un record anche per le leggi ad personam. Anzi: doppio record. Stessa persona come beneficiario e stesso governo. Sempre Berlusconi, of course. E con un "graziato" di tutto rispetto, Corrado Carnevale, la toga che fu nota come "l’ammazzasentenze", per via dei processi di mafia che annullava dalla Suprema corte per vizi formali. Che osò perfino dare del "cretino" a Giovanni Falcone, perché "certi morti io non li rispetto". Ma Carnevale è nel cuore della destra. Gli fecero una leggina ad hoc nel 2003, per ripescarlo dalla pensione dov’era finito quale imputato in un processo per mafia, gliene rifanno una per consentirgli di concorrere all’unico incarico che desidera, il posto di primo presidente della Cassazione. Ci arriverà alla veneranda età di 80 anni, ci potrà restare fino ai suoi 83, anche se i colleghi vanno in pensione a 75. Appena ieri, a Taormina, davanti ai giovani avvocati, il Guardasigilli Alfano ha vantato i meriti del Csm perché "svecchia" i capi degli uffici. Ma per Carnevale, l’unico che si è vantato d’essere l’ispiratore della prima norma a suo favore, ben venga un’eccezione. Lodo Alfano, lodo Consolo, lodo Geronzi. Eccoci al lodo Carnevale. Partorito giovedì 9 ottobre, al Senato. Infilato nel decreto legge che dà più soldi ai magistrati in marcia verso le sedi disagiate. Lo propone Luigi Compagna, docente di dottrine politiche, d’origini repubblicane, oggi forzista. A leggerla, la minuscola norma pro-Carnevale, è incomprensibile, ma significa tanto. Dice così: "L’articolo 36 del decreto legislativo 5 aprile 2006 n.160, come modificato dall’articolo 2 comma 8 della legge 30 luglio 2007 n. 111, è abrogato". Vuol dire: la disposizione dell’ordinamento giudiziario dell’ex Guardasigilli Clemente Mastella (2007) per cui, chi fu graziato nel 2004 e ottenne la ricostruzione della carriera non può ottenere posti di vertice oltre i 75 anni, "è abrogata". La Mastella cancellava la Castelli che invece non poneva limiti d’età. Ora si torna indietro. E si dà via libera a Carnevale. In aula, la proposta di Compagna ottiene il placet del governo per bocca del sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, ex toga di Unicost candidata da Berlusconi. L’opposizione, stavolta (e non come per il lodo Geronzi), reagisce. Il democratico Felice Casson chiede il voto elettronico. Su 271 presenti, 159 sono a favore, 111 contro. Dice l’ex pm di Venezia: "La maggioranza aveva proposto la norma in commissione, ma il governo era contrario. Poi rieccola in aula. Io e Gerardo D’Ambrosio ne abbiamo ragionato e il nostro è stato un no convinto". Due leggine in cinque anni. La prima ripescò Carnevale dalla pensione, dov’era finito per via del processo per concorso in associazione mafiosa che gli aveva mosso la procura di Gian Carlo Caselli. Fu assolto nel 2002. L’anno dopo ecco un comma nella Finanziaria per restituire onore e carriera ai dipendenti pubblici, toghe comprese, finite nelle maglie della giustizia ma uscitene illese. Non solo possono tornare in servizio, ma recuperare pure gli anni persi sforando l’età pensionabile. Un dl del 2004 fa di più e consente ai reintegrati di ottenere un posto in sovrannumero. Al Csm si scatena la guerra. Parte il ricorso alla Consulta perché la legge incide sui poteri del Consiglio. La Corte lo boccia. Il braccio di ferro prosegue, il Csm stoppa Carnevale che ricorre al Tar e al Consiglio di Stato. Dove vince. In un drammatica seduta, finita 11 a 10, in cui anche la sinistra si divide, "l’ammazzasentenze" ottiene il posto di presidente di sezione civile della Suprema corte. Commenta: "È un atto dovuto". La sua unica aspirazione è conosciuta da tutti. Diventare primo presidente. Con la leggina fresca di voto (e se la Camera la conferma) ce la farà. L’attuale capo, Vincenzo Carbone, va in pensione a metà del 2010. Lui avrà 80 anni, potrà ridire, "sono il più anziano". Al Csm sono basiti. Ezia Maccora, ex presidente di Md della commissione per i capi degli uffici, che ha fatto del ringiovanimento della dirigenza uno degli obiettivi del suo lavoro, commenta: "A Taormina ho sentito Alfano apprezzare il nostro sforzo per fare nomine basate su capacità e merito. Questa norma invece va in direzione opposta e consente a un magistrato in età molto avanzata di concorrere ugualmente". Ma per lui ogni strappo è possibile. Giustizia: la Francia non estraderà l'ex "Br" Marina Petrella
Corriere della Sera, 13 ottobre 2008
No all’estradizione in Italia di Marina Petrella, ex membro delle Brigate Rosse, attualmente detenuta in Francia. Il presidente Nicolas Sarkozy ha deciso di non applicare il decreto sulla sua estradizione per "ragioni umanitarie", come ha comunicato l’avvocato della Petrella, Irene Terrel. L’ex brigatista era già stata avvista mercoledì pomeriggio da Carla Bruni, durante una visita in ospedale della moglie del capo dello Stato francese. Estradizione - Un decreto del governo francese dello scorso 3 giugno, autorizzava l’estradizione verso l’Italia, dove una sentenza del 1992 condannava Petrella all’ergastolo per omicidio. Un comitato di sostenitori dell’ex brigatista, ora 54enne, aveva domandato al presidente francese Sarkozy l’applicazione della "clausola umanitaria" prevista dalla convenzione sull’estradizione franco-italiana del 1957. Marina Petrella aveva depositato un ricorso al Consiglio di Stato contro il decreto che autorizza la sua estradizione. Il ricorso sarà esaminato mercoledì alle 14.00 dalla seconda e settima sotto-sezione riunite. Ex dirigente della colonna romana delle Br, rifugiatasi in Francia dal 1993, Marina Petrella è stata arrestata nell’agosto del 2007 a Val-d’Oise, dove lavorava come assistente sociale. Il suo stato fisico e mentale non ha cessato di peggiorare per un anno e l’ex brigatista è restata in carcere fino a quando la Corte d’appello di Versailles ha autorizzato da agosto la libertà sotto controllo giudiziario per permetterle di ricevere delle cure senza essere detenuta. Marina Petrella è ricoverata presso l’ospedale parigino Sainte-Anne, dove è nutrita attraverso un sondino che consente "la sua sopravvivenza con un’alimentazione minima", secondo la Lega dei Diritti dell’Uomo. Avvisata da Carla Bruni - Petrella è stata avvisata già mercoledì pomeriggio della decisione di Sarkozy dalla moglie del presidente francese, Carla Bruni, la quale, insieme alla sorella regista e attrice Valeria Bruni Tedeschi, è andata all’ospedale Sainte-Anne a Parigi a trovarla. Lo ha detto la première dame al quotidiano francese Libération, che lo riporta nel proprio sito online. L’incontro è durato mezz’ora. "Alla fine del nostro incontro, le ho chiesto di cercare di alimentarsi di nuovo, almeno di ricominciare a bere", ha detto la Bruni a Libération: "Non si poteva lasciar morire questa donna, la situazione era diventata intollerabile, pericolosa". Polemiche - Intanto in Italia scoppiano le polemiche dopo la decisione di Parigi. La principale associazione delle vittime del terrorismo ha criticato la decisione, mentre i parenti delle vittime l’hanno definita "inaccettabile". "Le vittime sono contro la vendetta, ma noi siamo rispettosi della giustizia. C’è stata una condanna e va eseguita. Che penserebbero i francesi in una situazione contraria?", ha dichiarato il presidente dell’Aiviter, Roberto della Rocca. Petrella "potrebbe essere curata bene nelle strutture italiane", ha aggiunto. Della Rocca si è detto dispiaciuto che le autorità francesi "non rispettino le convenzioni internazionali", aggiungendo che per quanto se ne sa "la prescrizione per omicidio non esiste". "L’Italia non ha mai torturato nessuno. Non capisco perché l’estradizione sia un simile problema. Lo stato di salute di Marina Petrella può di fatto essere seguito dall’Italia. Non deve andare per forza in prigione. La sua estradizione è una decisione giusta", ha affermato da parte sua la figlia del sindacalista Guido Rossa, Sabina, il cui padre è stato ucciso il 24 gennaio 1979 da un commando delle Br a Genova. "Non fermeremo mai il capitolo del terrorismo con simili decisioni", ha sottolineato.
Olga D’Antona: pietà per malattia, ma rispettare giustizia
Una decisione "inaccettabile" quella di non estradare l’ex terrorista Marina Petrella. Ma cosa ha spinto il presidente Nicolas Sarkozy a proseguire la linea della dottrina Mitterand? "Suppongo che voglia evitare il rischio di impopolarità rispetto a un ceto culturale francese che dà ancora una lettura completamente sbagliata del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta" e "che continua a colpire", ha affermato la vedova di Massimo D’Antona, giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse il 20 maggio 1999. Perché non estradarla? L’Italia, ripete, "è un paese con valori democratici". "Dal momento in cui la Francia ancora protegge molti di quei terroristi, è tempo che l’opinione pubblica francese cominci a dare una lettura corretta di quell’epoca storica", ha auspicato la deputata Pd. Che sia forse stata la malattia dell’ex brigatista rossa, ricoverata in un reparto psichiatrico dell’ospedale Sainte-Anne di Parigi, uno dei motivi che hanno contribuito alla sua mancata estradizione? "Lo Stato italiano non tortura nessuno ed è compito delle autorità competenti di questo paese prendere una decisione nel merito delle condizioni di salute della Petrella, anche in riguardo a un atteggiamento di clemenza", ha insistito D’Antona, che dice di non avere "nessuna animosità personale nei suoi confronti", ma semmai "pietà delle sue condizioni di salute". Ciò non toglie che "la giustizia e le convenzioni internazionali vanno rispettate". Per la parlamentare "il terrorismo italiano è frutto di una ideologia perversa" e "di un’analisi sociale e politica errata", che ha prodotto in questo paese drammatici lutti di persone innocenti e indifese": "Nella maggior parte dei casi, i terroristi italiani hanno ucciso vittime innocenti e indifese. Alcuni di loro nell’effettuare rapine che loro chiamano di auto-finanziamento hanno compiuto delitti efferati, alla stregua di criminali comuni", ha concluso la deputata Pd.
Bertolini: vittime senza clausola umanitaria
"La giustificazione dei motivi umanitari per non estradare in Italia la brigatista rossa Petrella condannata all’ergastolo per omicidio, sequestri e rapine, suona come una terribile beffa. Nessuna clausola umanitaria è stata invece prevista per i familiari delle vittime del terrorismo". Lo afferma Isabella Bertolini, del direttivo del Pdl alla Camera, aggiungendo "Speravamo che la dottrina Mitterrand, ancora di salvataggio per tanti criminali di sinistra, fosse definitivamente dimenticata ed accantonata. Ed invece ci eravamo sbagliati. Decisioni di questo genere, con tutto il carico di frustrazioni e rabbia che recano con sé, impediscono al nostro Paese di chiudere definitivamente la triste pagina degli anni di piombo". Per la parlamentare del Pdl, invece, "la Petrella può benissimo stare in un carcere italiano, o se necessita di cure in un ospedale italiano, così come previsto per tutti gli altri detenuti". Giustizia: mafia; arrestati i sindaci di Gioa Tauro e di Rosarno
L’Unita, 13 ottobre 2008
Concorso esterno in associazione mafiosa. È questa l’accusa che ha portato in carcere lunedì mattina, oltre che all’ex sindaco di Gioia Tauro, Giorgio Dal Torrione ed il suo vice Rosario Schiavone, anche il sindaco di Rosarno, sempre in Calabria, Carlo Martelli. Il comune di Gioia Tauro era stato sciolto per gravi infiltrazioni mafiose nello scorso mese di maggio, dopo che la commissione d’accesso inviata dal prefetto di Reggio Calabria aveva scoperto legami troppo stretti con la consorteria mafiosa della piana di Gioia Tauro. In sostanza, l’accusa sulla base della quale il consiglio comunale è stato sciolto a maggio e la giunta costretta alle dimissioni riguardavano le agevolazioni concesse all’avvocato Gioacchino Piromalli, già condannato per appartenenza al potente clan mafioso un tempo guidato dal boss Giuseppe Piromalli. La commissione Antimafia già nell’ottobre dello scorso anno, aveva già evidenziato la costituzione di una "supercosca" che consorziava i clan Molé e Promalli e tutti quelli della Piana di Gioa Tauro per impadronirsi degli appalti e degli affari legati agli investimenti per la ristrutturazione del porto di Gioa Tauro, uno dei più importanti per il traffico commerciale dell’intero Mediterraneo. Insieme ai sindaci di Gioia Tauro e di Rosarno sono finiti in manette, nelle stessa operazione della Dda, anche i due Gioacchino Piromalli, zio e nipote, considerati i nuovi e indiscussi capi dell’omonima cosca di Gioa Tauro. Dal Torrione, in carica fino al maggio scorso, a capo di una giunta di sei assessori, è stato eletto nelle fila dell’Udc a capo di una coalizione di centrodestra. Il suo braccio destro Schiavone proviene da An. La coalizione di centro sinistra uscita perdente dalle urne era capitanata dal candidato dell’Udeur Luppino. Giustizia: Sappe; siamo turbati da silenzio politici sulle carceri
Agi, 13 ottobre 2008
Donato Capace, presidente della Consulta Sicurezza (l’Organismo interforze che raggruppa i poliziotti del Sap, i penitenziari del Sappe e i forestali del Sapaf) nonché segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, oggi in visita al 48esimo Salone internazionale della nautica di Genova, torna a parlare del sovraffollamento delle carceri italiani con numeri da brivido per denunciare uno stato di criticità che non sembra sollecitare le forze politiche a interventi concreti: "Attualmente abbiamo circa 57mila persone detenute (più di 2.500 le donne e quasi 21mila gli stranieri). Gli istituti di pena nel nostro Paese potranno ospitare al massimo circa 8mila detenuti, "limite tollerabile" rispetto alla capienza regolamentare degli istituti già abbondantemente superata pari a 42.992 posti. Si pensi che alla data del 31 luglio 2006, il giorno dell’approvazione dell’indulto, avevamo nei 207 istituti penitenziari italiani 60.710 detenuti a fronte di una capienza regolamentare pari a 43.213 posti. Approvato l’indulto, esattamente un mese dopo, e cioè il 31 agosto 2006, il numero dei detenuti presenti in carcere era drasticamente sceso a 38.847 unità. E si consideri che i detenuti che materialmente uscirono dal carcere per effetto dell’indulto sono stati circa 27mila e 500, a cui bisogna aggiungere quelli che ne hanno beneficiato pur non essendo fisicamente in un penitenziario: circa 6.800 che fruivano di una misura alternativa alla detenzione, circa 200 già usciti dal carcere per l’indultino del 2003 e 250 minori". Per Capece "il confronto tra queste cifre dimostra l’occasione persa dalla classe governativa e politica quando, approvato l’indulto, non ha raccolto l’auspicio del Sappe di ripensare, allora, il carcere e adottare con urgenza rimedi di fondo al sistema penitenziario, chiesti autorevolmente più volte anche dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Parlammo di provvedimenti concreti di potenziamento dell’area penale esterna e di incremento degli organici di Polizia Penitenziaria (cui mancano più di 4mila unita rispetto all’organico previsto) cui affidare i compiti di controllo sull’esecuzione penale. Ed è proprio il silenzio della politica su questa grave criticità del Paese a sconcertarci, al di là delle dichiarazioni di intenti che però non si concretizzano in provvedimenti concreti. Governo e Parlamento non posso tralasciare ulteriormente la grave situazione penitenziaria che si registra oggi nei nostri penitenziari e devono porre l’emergenza carceraria tra le priorità di intervento, anche riservando fondi ad hoc nella Finanziaria. Lettere: "riforma della giustizia" e reinserimento di detenuti
Ristretti Orizzonti, 13 ottobre 2008
"Nessuno uccida la speranza, neppure del più feroce assassino, perché ogni uomo è una infinita possibilità!" (D.M. Turoldo) In previsione delle annunciate riforme della giustizia, ci permettiamo di riepilogare la condizione che viviamo noi che scontiamo pene lunghe nelle sezioni di alta sicurezza delle carceri italiane. Oggi, con la complicità dei media, che fermentano l’odio nei nostri confronti, niente ha più contorni nitidi e ben definiti. Contrariamente a quello che è lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione, siamo destinati a morire in carcere per effetto delle differenziazioni e dell’ostatività alla concessione dei benefici penitenziari. Differenziazioni che annullano ogni diritto e ogni eguaglianza di giustizia, perché nella pratica, il richiesto contorno investigativo sull’attuale pericolosità, viene esercitato alla stregua di una routine, da uffici di polizia che non possono che riferire fatti risalenti al passato, che di vero portano il titolo del reato e la frase uguale per tutti: "Non si esclude possa commettere altri reati". Ciò non tiene in alcun conto il giudizio degli operatori penitenziari che ci seguono e ci hanno seguiti da dieci, venti o trent’anni. Gli operatori penitenziari conoscono le relazioni di polizia ancor prima di richiederle e le usano come pretesto per astenersi dall’accertare i mutamenti interiori avvenuti durante i decenni di detenzione. Di fatto, oggi, operatori penitenziari (psicologi, educatori, assistenti sociali e criminologi) sono ridotti a lumicino e sostanzialmente non hanno alcuna voce in capitolo. Nel momento in cui il condannato rivolge un’istanza al magistrato per un beneficio, ad esempio per il permesso premio che la norma prevede come parte integrante del trattamento, non avendo effettuato realmente alcun trattamento nei decenni precedenti, viene dato in ogni caso parere contrario. Ma dare parere contrario in ogni caso al Magistrato, è come se ad una conduttura idrica si chiudesse la valvola alla sorgente. In quel caso infatti la conduttura si può dotare anche di rubinetti d’oro, ma gli utenti non si disseteranno comunque mai! Il Magistrato a sua volta, non ricevendo informazioni individualizzate riguardo ad un detenuto che non ha modo di conoscere personalmente, non potrà valutarne la maturità e finirà per negare il beneficio. Anche se non siamo titolati adire certe cose, è incontentabile che tali prassi perseguono sicuramente una gestione fallimentare, che contribuisce in larga misura ad ingolfare i tribunali dei nostri inutili continui ricorsi e rende futili le spese per gli organismi proposti alla rieducazione e persino per gli uffici di sorveglianza e dei tribunali, perché sono gli uffici di polizia che di fatto, decidono la sorte di un individuo che non vedono da decenni e dunque non conoscono. "Ma che senso hanno allora i progetti di intervento per la realizzazione di attività scolastiche, culturali, ricreative e formative all’interno delle sezioni dove scontiamo le nostre pene, se si ignora il percorso penitenziario del detenuto?". Che senso hanno quelle risorse inutilmente consumate se l’obbiettivo del reinserimento per noi nemmeno si pone e le attività assumono un carattere fittizio? Forse è solo per far sentire un detenuto un utile idiota, buono solo per garantire assunzioni e finanziamenti di ogni genere per clientelismi, lassismi e interessi corporativi, sfruttando i termini tanto decantati e poco messi in pratica "rieducazione e reinserimento"? Che tutto ciò sia in atto è un fatto incontestabile ed è dimostrato dal confronto tra le cifre spese per il reinserimento e l’inesistente numero dei detenuti effettivamente reinseriti. E se non vi sono detenuti reinseriti, a cosa servono i sociologismi e gli psicologismi degni di un’accademia bizantina, sulla rieducazione e il reinserimento del reo, se poi nella realtà la prassi, stravolge e confonde il diritto fino a far scivolare la giustizia nell’incertezza e nell’eclissi del buon senso comune? Sino a qualche anno fa, si sentiva spesso affermare che lo scopo del carcere era punire, riabilitare e reinserire; oggi, nonostante la demagogia e la vuota retorica, nessuno osa pronunziare quei principi nei nostri confronti, ritenendola una prospettiva inutile. Ma se così fosse, basterebbe abrogare l’articolo 27 della Costituzione e ripristinare la pena di morte, assumendosi la responsabilità delle proprie decisioni. Sarebbe più razionale ed onesto, perché si avrebbe più rispetto per noi e più rispetto anche delle risorse dei contribuenti che pagano le tasse per attuare gli scopi previsti dalla Costituzione, che di fatto non vengono attuati. Nel clima che viviamo, come si può parlare di rieducazione e di reinserimento se siamo persino allontanati geograficamente dal luogo di residenza dei nostri familiari e negati alla presenza dei nostri figli minori in base a burocratiche attribuzioni di pericolosità, anche quando non si trova giustificazione alcuna nella legge e nei reali comportamenti degli individui? A cosa serve questa crudele, inutile e costosa barbarie che scava un solco profondo tra noi e i nostri figli e tra noi e la società, se non a ridurci come quell’albero su cui non cade mai la pioggia, che ad un certo punto appassisce, perde le foglie, secca le radici e diventa come legna da ardere? Ci sentiamo di affermare che nel caso di condanne lunghe o all’ergastolo, un condannato che ha scontato già dieci o quindici anni di carcere e sa di doverne scontare ancora tanti, pensa mille volte prima di tradire la fiducia concessa, essenzialmente per tre motivi: innanzitutto perché si percepisce come moralmente impegnato ne confronti dei familiari che attendono anni la possibilità di tornare a vivere una vita normale; nei confronti degli operatori e dei Magistrati che si assumono l’onere dei rischi connessi con l’onere di concederci fiducia; nei confronti dei compagni di pena che si attendono da lui il rispetto delle regole in quanto li precede nell’ottenere un beneficio. Oggi, la reale prospettiva che resta a noi ergastolani, è che la durata della pena sarà tanto più lunga quanto maggiore sarà la durata delle nostre vite, anche quando ci sentiamo maturi per una nuova condotta di vita e questo avviene mentre in Europa è stato in molti paesi abrogato e laddove è in vigore in nessun caso si scontano pene superiori in durata ai 21 anni. Noi affermiamo che ogni individuo rappresenta una storia a sé e dovrebbe conservare il diritto di potersi riscattare dal proprio passato, ed è per questo motivo che riteniamo che non hanno senso quelle norme emergenziali, introdotte in via provvisoria e riconfermate da decenni, che per effetto dell’ostatività negano ogni possibilità di riscatto dal passato. Sono norme che suddividono gli individui in base alle etichette che sono state poste su di loro annullando ogni diritto e ogni uguaglianza di giustizia. Certamente non sono norme che favoriscono chi ha scarsi mezzi economici e nemmeno chi non dispone di capacità di inganno. Anzi, finiscono per introdurre all’interno del carcere gli aspetti più deleteri della società esterna, dove il diritto è concesso, nel migliore dei casi per una situazione "di favore o di fortuito caso". Ad esempio, in tema di benefici, l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario ha cancellato per noi la speranza ancor più dopo le contraddittorie pronunzie della Corte Costituzionale, che hanno basato la costituzionalità della pena dell’ergastolo su un beneficio teorico come la liberazione condizionale, che l’articolo 4-bis di fatto nega. Ma tutto questo a quale dimensione o a quale tipo di società corrisponde? Noi, anche quando abbiamo fatto del male, quando ne diveniamo consapevoli, aspiriamo di mettere fine al male, ma non lo possiamo fare da soli. Abbiamo bisogno di chi si rende conto che capacità di capire non significa non punire, ma aiutare a reinserire nella società chi ha sbagliato. È quindi necessario e giusto aiutare chi, per effetto di tutte le lacrime versate in infiniti anni di detenzione, ha acquisito la consapevolezza reale del male arrecato ai propri familiari e ai familiari delle vittime dei propri reati, perché sono queste le consapevolezze che danno la forza di non assoggettarsi più a valori non condivisibili e alle coercizioni mentali negative. Sono queste, consapevolezze che andrebbero seriamente verificate durante la detenzione, ma il più delle volte si rimane prigionieri degli slogan mediatici e dei pregiudizi. Oggi ci sentiamo definitivamente collocati inutilmente in un non-luogo in cui ogni misura del tempo appare irrisoria e ogni senso del tempo è perduto. Anche se non siamo titolati a suggerire misure legali, noi vogliamo e sentiamo forte il bisogno di segnalare la nostra disperata e disperante condizione e in questo segnalare anche il nostro bisogno di sottostare a regole chiare e non a norme come quelle attuali, che aprono il campo a ogni genere di speculazione. Vorremo regole chiare che permettano di accedere alle misure alternative quando ci sentiamo di aver raggiunto la maturità e l’equilibrio necessari per essere in grado di non ripercorrere i sentieri sbagliati del passato. Se ci viene tolta ogni speranza per il futuro, quale ragione ci resterà per continuare a desiderare di vivere? Siamo consapevoli che nel clima politico e sociale attuale, una riforma che tenga conto di tutto ciò richiede a tutti di compiere scelte coraggiose e il superamento di tanti pregiudizi, ma da questo, a rinunciare a desiderare che si attuino leggi trasparenti, ce ne corre! Solo una democrazia costituita su un diritto dove fermezza e rigore, razionalità ed efficienza, stanno sullo stesso piano, può aspirare a realizzare il giusto equilibrio tra diritto e sicurezza. Non è indispensabile aver letto tanti libri per capire che non è negando possibilità future a chi è stato condannato per reati consumati in altre epoche che si assicura l’attuale sicurezza dei cittadini. Cogliamo l’occasione per comunicarvi che molti ergastolani il primo di dicembre 2008 inizieranno uno sciopero della fame per richiedere la certezza della pena tramite l’abolizione dell’ergastolo. Per saperne di più visitate il sito www.informacarcere.it - sezione "Mai Dire Mai"
Carmelo Musumeci e Giovanni Spada, Carcere di Spoleto Massa: detenuto 30enne in semilibertà si impicca a un albero
Il Tirreno, 13 ottobre 2008
Lo hanno trovato senza vita nel bosco di Piana di Macina, al confine tra Massa e Carrara. Angelo Lovallo, trent’anni compiuti all’inizio dell’estate, ha deciso di togliersi la vita perché esasperato dal carcere. Esasperato nonostante godesse di un permesso di semilibertà che gli permetteva di entrare e uscire dal penitenziario di via Pellegrini tutti i giorni. Esasperato per quella brutta storia che lo aveva costretto in cella, una storia di degrado nata da una tossicodipendenza devastante e da un’amicizia sbagliata. Per quella storia Angelo aveva tentato di suicidarsi già sei anni fa, poi un frate lo riportò alla voglia di vivere permettendogli pure di lasciare la natìa Potenza e di venire ai piedi delle Apuane. Doveva essere recuperato, invece ha preferito farla finita. Lovallo era finito in carcere per aver partecipato all’omicidio di Carolina Daraio, un’insegnante di 56 anni trovata morta nel 1999 nella vasca da bagno di casa sua in un vecchio palazzo nel centro di Potenza. Angelo e l’amico Vito erano stati allievi della donna quando frequentavano le scuole medie, ma con i quali era rimasta in contatto per aiutarli a venir fuori dalla droga di cui facevano uso. Una sera li aveva accolti in casa: non era la prima volta che si presentavano da lei. Solitamente andavano a chiedere un po’ di denaro, e solitamente lo ottenevano. L’ultima volta, però, era stato diverso. Le cinquantamila lire che Daraio poteva offrire non erano più sufficienti. I due ragazzi volevano di più e non hanno esitato a strangolare la loro ex insegnante pur di razziare tutto quello che c’era in casa. E alla fine non avevano nemmeno trovato granché: cinquantamila lire scarse e qualche oggetto d’oro, ma niente di prezioso. Angelo e Vito forse erano già sotto l’effetto della droga, sono andati dalla loro ex insegnante con l’intenzione di derubarla. E per potersi muovere indisturbati in casa l’avevano uccisa. Uno dei due aveva in tasca un laccio e lo aveva stretto attorno al collo della donna fino a soffocarla. Non contenti, poi, avevano sistemato il corpo nella vasca da bagno e avevano aperto l’acqua. Angelo aveva avuto la colpa di scappare e poi era stato incastrato dall’amico. Il carcere lo aveva tormentato, aveva anche tentato il suicidio. Poi la conoscenza col frate, sembrava la soluzione invece l’altra sera Lovallo l’ha fatta finita. Velletri: detenuto morì dopo botte, la famiglia sporge querela
Ansa, 13 ottobre 2008
Il 41enne Stefano Brunetti morì in carcere il mese scorso, dopo l’arresto ad Anzio. Il documento è stato depositato ieri dall’avvocato Carla Serra Il reato ipotizzato è quello di omicidio colposo. L’uomo è morto per emorragia interna. "Se, a detta dei testimoni, non aveva ferite al momento dell’arresto su una via di Nettuno - ha detto l’avvocato Serra - quelle riscontrate si possono far risalire all’arco di tempo successivo, fino al momento del ricovero. Questa è la nostra valutazione". Omicidio colposo. Questo il reato ipotizzato in una querela contro ignoti depositata ieri dall’avvocato dalla famiglia di Stefano Brunetti, il detenuto morto all’ospedale di Velletri. L’avvocato Carla Serra, già nelle scorse settimane, aveva confermato l’orientamento verso una querela annunciando che il 41enne era morto per azione traumatica. Dall’autopsia risulta che a causare la morte di Brunetti una emorragia interna a seguito di un grave danno alla milza. L’uomo aveva anche due costole fratturate. "Se, a detta dei testimoni, non aveva ferite al momento dell’arresto su una via di Nettuno - ha detto l’avvocato Serra - quelle riscontrate si possono far risalire all’arco di tempo successivo, fino al momento del ricovero. Questa è la nostra valutazione". Brunetti era stato arrestato dalla Polizia di Anzio dopo un tentativo di furto. Portato al carcere di Velletri è morto il giorno seguente in ospedale. Nuoro: interventi per migliorare il carcere di Badu e Carros
Adnkronos, 13 ottobre 2008
"Primi concreti interventi per migliorare le condizioni di vita dei detenuti all’interno della Casa circondariale di Badu e Carros sono stati disposti dalla Direzione dell’Istituto di Pena d’intesa con il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria". Lo riferisce il consigliere regionale Maria Grazia Caligaris (Ps), componente della Commissione Diritti Civili, che ha ricevuto una lettera di denuncia da un folto gruppo di detenuti. Gli interventi - precisa la Caligaris - riguardano la sostituzione dei vetri alle finestre delle celle, lavori di manutenzione all’impianto di riscaldamento e a quello idrico interno per il funzionamento delle docce, la sistemazione del campo sportivo e un’accurata disinfestazione per debellare la presenza di topi divenuta preoccupante. È auspicabile che ai lavori per fronteggiare le situazioni di emergenza e rendere agibile la struttura per l’attività sportiva, dopo un lungo periodo di blocco forzato, possano seguire decisioni per ridurre l’eccessivo numero di detenuti ed aumentare l’organico degli agenti di Polizia Penitenziaria per alleggerire i carichi di lavoro che li costringono a turni stressanti e a dover rinunciare alle ferie. C’e’ inoltre da sottolineare - conclude Caligaris - l’esigenza ormai improcrastinabile, di garantire ai detenuti malati la fruibilità di un reparto nell’ospedale San Francesco a 15 anni di distanza dalla legge che ne sancisce l’istituzione. Così si eviterebbero i trasferimenti nel centro clinico di Cagliari’. Roma: mercoledì Napolitano a festa di Polizia penitenziaria
Ansa, 13 ottobre 2008
Mercoledì prossimo la polizia penitenziaria, alla presenza del capo dello Stato Giorgio Napolitano, festeggia a Roma la propria festa nazionale, alla Scuola di formazione del personale dell’Amministrazione Penitenziaria di via di Brava. Alla cerimonia, che cade nel 191 Anniversario della fondazione del corpo, parteciperanno il ministro della Giustizia Angelino Alfano e le alte cariche dello Stato. La giornata si aprirà alle 9 con la deposizione di una corona d’alloro all’Altare della Patria, presenti Alfano e il capo del Dap, Franco Ionta. Quindi alle 11 il via alla festa, che sarà trasmessa in diretta da Rai Tre. Alle 15 ci sarà invece il cambio della Guardia d’Onore al Quirinale. E in serata alle 20 il concerto della Banda Musicale del Corpo all’Auditorium di Roma. Istituita dalla legge di riforma del 1990 (ma le sue origini storiche risalgono al 1817, la polizia penitenziaria conta circa 41.000 addetti, di cui 3500 donne, che operano nei 205 istituti penitenziari dislocati su tutto il territorio nazionale. E garantisce la sicurezza degli istituti penitenziari, partecipa alle attività di osservazione e trattamento a favore dei detenuti, esegue il servizio di traduzione e di piantonamento, oltre a svolgere funzioni di polizia giudiziaria e stradale. E’ anche presente nel settore sportivo con le Fiamme Azzurre, i cui atleti hanno partecipato con successo alle Olimpiadi di Pechino. L’Aquila: obbligo di dimora per l’ex governatore Del Turco
Ansa, 13 ottobre 2008
È tornato in libertà oggi, ma con l’obbligo di dimora, dopo tre mesi di detenzione tra carcere e arresti domiciliari, l’ex governatore della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Lo ha deciso stamani il Tribunale del Riesame dell’Aquila che si è pronunciato sui ricorsi presentati contro l’ordinanza con cui il gip di Pescara Maria Michela Di Fine aveva trasformato la detenzione in carcere in quella domiciliare. Del Turco, con altri indagati eccellenti, è coinvolto nell’inchiesta sulla sanitopoli abruzzese che il 14 luglio scorso decapitò la Giunta regionale con gli arresti di assessori, consiglieri, consulenti, oltre allo stesso Del Turco. Obbligo di dimora anche per gli altri indagati ancora ai domiciliari: si tratta di Lamberto Quarta, ex segretario regionale alla presidenza della Giunta regionale, Camillo Cesarone, ex capogruppo del Partito Democratico in Consiglio regionale, l’ex assessore Antonio Boschetti e Giancarlo Masciarelli, ex presidente della Fira. Alcuni giorni fa il Riesame aveva rimesso in libertà l’ex assessore alla sanità della Giunta di centrodestra Vito Domenici, detenuto ai domiciliari. Ad inchiodare gli indagati sono state le dichiarazioni del corruttore-pentito Maria Enzo Angelini, considerato il "re" della sanità privata abruzzese, titolare della clinica Villa Pini di Chieti, che ai magistrati, in ben 8 occasioni, compreso l’incidente probatorio dello scorso 8 settembre, ha raccontato di aver dato tangenti per 15 milioni in cambio di favori a politici di destra e di sinistra. Gli indagati sono accusati a vario titolo di reati che vanno dall’associazione per delinquere al riciclaggio, dalla concussione alla corruzione. Voghera: arte-terapia nel carcere, mostra opere dei detenuti
La Provincia Pavese, 13 ottobre 2008
"Il volontariato in carcere non si fa per pietà: si fa perché serve a migliorare la qualità della vita dei detenuti e quindi anche quella di chi nel carcere lavora": con questo spirito, da due anni, Federica Della Casa e Marta Vezzoli fanno funzionare nel carcere di via Prati Nuovi un progetto di "arteterapia", ovvero di educazione all’arte per "trasformare il tempo di chi ha bisogno di riempirlo di pensieri positivi". Il risultato di due anni di lavoro sulla creatività da parte dei detenuti sarà la mostra che verrà inaugurata mercoledì prossimo alla sala Pagano di piazza Cesare Battisti (aperta fino al 26 ottobre, tutti i giorni dalle 10 alle 12. 30 e dalle 16 alle 19). "L’unico rammarico a metà strada di un progetto che si è dimostrato più che proficuo - spiegano le curatrici - è che i detenuti non potranno partecipare alla mostra. Si tratta infatti di detenuti ad alto indice di vigilanza che non possono godere di benefici come i permessi premio". "Detenuti che in alcuni casi hanno decine di anni di carcere alle spalle e che con ogni probabilità non usciranno mai di cella - spiega il direttore del carcere di via Prati Nuovi Paolo Sanna - detenuti, però, che grazie a questo progetto sono profondamente cambiati. E cambiamenti della qualità della vita dei detenuti aiutano anche chi in carcere lavora ad avere una migliore qualità della vita". "Parliamo di rieducazione più che di reinserimento - conclude l’assessore Gigi Fronti che segue il progetto per il Comune -. Chi sta in carcere dopo tre gradi di giudizio non ci è finito per una lotteria: detto questo, però, la civiltà di una nazione si giudica anche dalla qualità della vita nelle sue carceri. E per questo il Comune di Voghera collabora con la direzione e il volontariato per migliorare la vita di vive in carcere e di chi ci lavora". Immigrazione: vicenda di Abdul, razzismo e psicosi di massa di Andrea Boraschi e Luigi Manconi
L’Unità, 13 ottobre 2008
L’uccisione di Abdul William Guibre, il giovane italiano di colore (ma possibile che non abbiamo un altro termine per definire un non occidentale? Anche questo è un segno di ritardo culturale) colpisce per la sua ferocia e la sua stupidità. Tanto quanto può colpire ogni episodio del genere: una colluttazione altrimenti evitabile, dove si alzano i toni, si perde la misura dei gesti. Ma c’è qualcosa di diverso in questo caso. Sembra che l’elemento etnico - il fattore "immigrazione" - giochi nella sensibilità collettiva un ruolo destabilizzante e inquinante, capace di sovvertire la percezione più banale (di "buon senso", verrebbe da dire) di quali siano i torti e le ragioni. Forse perché la colpa e l’innocenza sono scomposte e mai distribuite in maniera univoca e incontestabile. O, forse, perché sul giudizio del "fatto" grava l’ombra del "contesto": e appare impossibile prescindere da esso. Si può anche ammettere che in uno scontro di strada, come quello che ha ucciso Abdul, l’ingiuria ci sia sempre ma che non sempre abbia motivazioni consistenti. E, dunque, si può urlare "negro di merda", a chi giace per terra in una pozza di sangue, perché davvero animati da un sentimento razzista: oppure si può urlare qualsiasi altra offesa se la vittima del nostro odio è, invece, giallo, ebreo, basso di statura, rosso di capelli, sovrappeso e via dicendo. Questo non toglierà dalla testa di molti immigrati, l’idea che se il colore della pelle di quel giovane fosse stato diverso il tutto si sarebbe risolto altrimenti. Non solo: al di là dell’esito giudiziario, è incontestabile che "l’aggravante di razzismo" si insinua nel clima sociale, legittimata dal discorso pubblico di parte del ceto di governo e dalla più recente produzione di intolleranza per via normativa. E dunque l’ossessiva volontà di negare non solo la motivazione ma anche qualunque implicazione "etnica" segnala un vero e proprio tic, una crescente psicosi collettiva, una tendenziale patologia. Il razzismo è un incubo che, nell’incapacità di elaborarlo, si rimuove nevroticamente. Si dovrebbe riflettere sul fatto che vicende del genere (un adolescente che compie un furtarello in un negozio), in altri tempi, venivano risolte con maniere diverse: qualche imprecazione, un pestone nel didietro del ladruncolo, una lavata di capo se il responsabile veniva acciuffato e consegnato ai genitori o alle forze dell’ordine. Oggi per gesta simili si rischia la vita. Talvolta la si perde. Per questo è assai importante discutere di ciò che pensa, dice e scrive la "gente". Prendiamo questa categoria nella sua anonima genericità, dal momento che gli orientamenti pubblici, non più riconducibili a differenze di classe, schieramento, fede, censo, genere, età e quanto altro, vanno fatalmente attribuiti a una collettività indistinta e multiforme, percorsa da tensioni cupe e sentimenti sinistri. Prendiamo la "gente" che si affaccia sul forum del sito di uno dei primi quotidiani nazionali: quelli che un tempo erano i composti lettori borghesi, piccolo-borghesi, ma anche popolari - mai ferocemente reazionari, se non nel chiuso delle loro camerette - del Corriere della Sera. E consideriamo quanto scrivono alcuni (molti) tra loro. Ci sono, certamente, messaggi di riprovazione per quanto accaduto. Ma c’è anche chi ‘se la sono cercata’ (ovvero, la violenza, se indotta da un torto, anche dal più lieve, diviene infine ammissibile): "Fare una premessa è d’obbligo: la vita non va tolta per nessun motivo. Ciò detto se il 19enne non avesse rubato nessuno se la sarebbe presa con lui"; e chi l’ammissibilità di quella risposta la rinviene nel clima dei tempi; e la relativizza: "Non dimentichiamo il perché i due gestori del bar, comunque andando oltre il limite, hanno reagito. Non c’entra il razzismo, quella è speculazione politica, in Italia si è arrivati al limite della tollerabilità, c’è bisogno di ordine dopo gli anni di lassismo e perdonismo della sinistra". La volontà di escludere, dalla considerazione di questa storia, ogni retorica emerge, poi, ancor più violenta: "Non se ne può più. È razzismo a rovescio. Basta che uno tocchi o dica una parolina in più ad un negro che scatta l’accusa di razzismo. Mi dite perché bisognava specificare che l’italiano ammazzato era negro? pardon: di colore! Se ammazzavano me avreste scritto "ammazzato italiano non di colore"? L’hanno ammazzato perché era un ladro non perché era un negro. Cos’è, i negri sono diventati degli intoccabili perché, poverini, sono già stati abbastanza sfortunati da nascere con la pelle nera?". C’è chi, per conoscenza diretta, è disposto a giurare che una coppia di assassini sia moralmente più integra di un ragazzino che compie un furtarello: "Le due persone colpevoli di questo omicidio io li conosco. Ogni giorno andavo a pranzo in quel bar, e sono persone che si sono comportate bene, soprattutto il figlio è una persona sensibile e non farebbe male a nessuno. Penso si sia trattato di un attimo di follia. Il furto, l’ora cosi mattutina, il fatto che fossero in gruppo questi balordi o meglio ladri. Purtroppo gli epiteti escono anche se una persona è di colore, o anziana, o meridionale o bassa o piena di brufoli. Smettiamo di dare la colpa al razzismo. Quando si litiga o si picchia escono frasi ingiuriose sempre. Io sono vicino al figlio e alla mamma, persone veramente squisite... non certo a balordi e ladri". Si potrebbe continuare a lungo in questa rassegna: è difficile individuare distinzioni di senso in un mare magno di odio che sconcerta e atterrisce. I pochi testi riportati sono solo un piccolo esempio delle centinaia e centinaia di messaggi del genere, sul sito del Corriere della Sera o altrove. Non vale, qui, esercitarsi in moti di riprovazione sul degrado delle relazioni sociali che quei messaggi manifestano: ma è indubbio che qualcosa è radicalmente cambiato. E lo sforzo di comprensione e analisi che si impone appare, come non mai, improbo. Una prima interpretazione, parzialissima, di quanto vediamo accadere in questo tempo ha a che fare col giustizialismo: o, meglio, con una sorta di sua interpretazione generale, per così dire, e totalizzante. In questa Italia percorsa dalla paura, la "colpa" diviene, vieppiù, "assoluta". Non importa se il torto o il reato commesso sia la sottrazione di un pacco di biscotti o uno stupro. Esso è, comunque e invariabilmente, "colpa": è un qualcosa cioè - una sostanza - che non ammette distinzioni, sfumature, varianti di intensità. Anzi, in questa fase, essa appare sempre come dotata della massima intensità. A questo grado assoluto corrisponde, potenzialmente, qualsiasi pena e qualsiasi afflizione. E, dunque, uccidere non è bene. Ma se la vittima ha rubato un pacco di biscotti diviene comprensibile o ammissibile o giustificabile o - manca poco, pochissimo, e per taluni è già così - legittimo. Sino a giungere a singolari perversioni di senso, laddove la pulsione alla violenza sembra sopravanzare ogni altro giudizio razionale, come in questo caso sopravanza qualcosa di "ideologico": "Quell’uomo di colore aveva rubato. E forse non era neanche la prima volta, data la sua estrazione sociale. Chi ruba commette un reato e per questo va punito. Questo vale per tutti i farabutti, quindi anche per Berlusconi. Perché a nessuno viene in mente di prenderlo a sprangate? Forse perché ha le guardie del corpo? Quindi solo chi ha le guardie del corpo può farla franca? Non mi sembra giusto..." Sia chiaro: non si può escludere che si tratti di un messaggio paradossale, venato di macabro sarcasmo, ma è possibile che invece sia "autentico". La domanda di punizione "assoluta" viene prima di qualunque frattura ideologica: una sorta di esaltazione giustizialista - afflittiva e vendicativa - che esige la massima esemplarità della sanzione contro chiunque appaia espressione del male. Non esiste più alcuna gradazione o misura del male. Non esiste alcuna proporzione tra la colpa (presunta colpa) e la sanzione. È la sanzione a costituire il fondamento dell’organizzazione sociale e della sua legittimazione. Essa non ha più il compito di ripristinare la regola violata e l’ordine infranto: costituisce, piuttosto, l’essenza della morale pubblica. Se questa idea si diffondesse, a prescindere da quanto può accadere nel sistema politico e istituzionale, il dispotismo sarebbe già penetrato nelle nostre menti. Immigrazione: Lega; 200 euro per un permesso di soggiorno di Vladimiro Polchi
La Repubblica, 13 ottobre 2008
Dopo il permesso di soggiorno a punti arriva la tassa sull’immigrato. Ogni straniero dovrà infatti versare 200 euro per chiedere il rilascio e il rinnovo del permesso o avviare la pratica di cittadinanza. La tassava ad aggiungersi ai 70 euro di costi fissi già sborsati dai lavoratori extracomunitari. Il nuovo balzello è contenuto in due emendamenti leghisti al disegno di legge sulla sicurezza e servirà a finanziare un "fondo per la prevenzione dei flussi migratori" istituito presso la Farnesina. Non si ferma dunque l’offensiva del gruppo del Carroccio al Senato: prima il permesso a punti per punire gli immigrati che commettono infrazioni, poi la regolarizzazione delle ronde cittadine, quindi l’obbligo di referendum prima della costruzione di una moschea. Ora, il giro di vite sull’immigrazione si arricchisce di un nuovo tassello. Basta leggere due degli emendamenti presentati venerdì scorso dai leghisti in Senato. Primo, "le istanze o dichiarazioni di elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza sono soggette al pagamento di una tassa di importo pari a euro 200". Secondo, "la richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposta al pagamento di una tassa, il cui importo è fissato in 200 euro". La tassa si applica anche in caso di permesso di soggiorno per motivi familiari. A cosa serviranno questi soldi? Semplice, a finanziare "un fondo per la prevenzione dei flussi migratori, finalizzato a progetti di sviluppo locale nei Paesi, che hanno stipulato o intendono stipulare con lo Stato italiano accordi bilaterali". "Vogliamo semplicemente che chi arrivi nel nostro Paese ne rispetti le leggi e gli emendamenti presentati vanno in questa direzione. Le nostre proposte - spiega Lorenzo Bodega, vicepresidente dei senatori della Lega - stanno riscuotendo opinioni favorevoli tra i cittadini. Se prendiamo, per esempio, il permesso a punti, questo è un sistema che darà più sicurezza e più integrazione, facendo emergere solo quella immigrazione positiva e onesta che lavora, produce e si è integrata alla perfezione". Quanto alla nuova tassa sui permessi, il senatore del Carroccio sostiene che servirà ad "aiutare i Paesi poveri a casa loro, grazie ai 200 euro che ogni immigrato dovrà pagare al Fondo per la prevenzione dei flussi migratori. Questa - aggiunge - è solidarietà e vicinanza verso i popoli: aiutarli in casa loro, senza illusioni di El Dorado, che non esistono più. A maggior ragione da noi". Ma quale sarà l’effetto della nuova tassa sulle tasche degli immigrati? "Già oggi per richiedere il primo rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno il lavoratore straniero spende 70 euro tra spese postali, pagamento del bollo e costo del permesso elettronico - spiega l’avvocato Marco Paggi dell’Associazione di studi giuridici sull’immigrazione -. Simile la spesa per ottenere la cittadinanza, tra pagamento del bollo e costo dei certificati in Italia e in madrepatria". Ora si vorrebbe aggiungere una tassa ad hoc di 200 euro. "Una tassa sui poveri, che rischia di minacciare pericolosamente il tenore di vita dei migranti". Un esempio? "Basta pensare a quei nuclei familiari - risponde Paggi - i cui componenti hanno contratti di lavoro a tempo determinato e che devono rinnovare il permesso di soggiorno ogni sei mesi. In tal caso, la famiglia dovrebbe sborsare, tra tasse e costi fissi, 540 euro all’anno per ogni suo membro". Immigrazione: il ruolo delle donne nell’integrazione in Italia di Maria Antonietta Calabrò
Il Corriere della Sera, 13 ottobre 2008
È la donna il vero motore dell’integrazione, il punto di forza su cui fare leva per il successo di politiche che superino disagi, difficoltà, paure e rischio di reazioni razziste. Le donne immigrate sono infatti il principale "agente" di inserimento dei loro gruppi etnici nel nostro Paese, "poiché svolgono una funzione di confronto e di stimolo sia nei confronti della propria comunità che della nostra, quella ospitante". Il fenomeno riguarda indistintamente tutte le nazionalità, sia quelle che provengono dal Mediterraneo meridionale sia quelle che provengono dal Mediterraneo orientale e qualunque sia la religione professata (mussulmana, cattolica o altra confessione cristiana, come quella ortodossa). Insomma, la differenza di genere (maschio/femmina) - ossia la distinzione tra le posizioni di uomini e di donne rispetto agli stessi problemi - sembra una variabile così importante ai fini della riuscita dell’integrazione, da superare tutte le altre. E questo il risultato sorprendente di una ricerca commissionata (e questa è un’altra sorpresa) dalla Fondazione "Fare futuro", una fondazione di centrodestra, presieduta da Gianfranco Fini e diretta da Adolfo Urso. Lo studio è stato curato dall’istituto di ricerca di Nicola Piepoli e verrà presentato oggi a Roma. In particolare, il sondaggio evidenzia che la comunità mussulmana non può essere considerata un monolite, perché al suo interno le posizioni di uomini e donne molto spesso divergono e, tra tutte le immigrate, "sono in particolare le donne mussulmane quelle che riconoscono che la presenza in Italia fornisce maggiori opportunità per i figli e un incremento delle conoscenze della famiglia". Lo studio si basa su un campione rappresentativo degli immigrati "regolari" e residenti nel nostro Paese in media da circa sette anni: il 70% ha un lavoro e vive in affitto, ha un reddito giudicato complessivamente "sufficiente". Per metà è di religione mussulmana (30% sono i cattolici e lo stesso dato è espresso dalla componente che si autodefinisce "non credente"). Ebbene, le maggiori difficoltà evidenziate per gli uomini sono quelle relative alla casa o all’abitazione, mentre le donne tendono più a rilevare anche gli aspetti psicologici relativi ad ostilità incontrate o a problemi di adattamento, soprattutto se casalinghe. In generale, tuttavia, le donne più degli uomini ritengono di "non riscontrare nessuna difficoltà particolare". Per cui, nel complesso, ben l’80% degli immigrati si sente "molto" o "abbastanza integrato" in Italia, con percentuali sensibilmente maggiori per quelli provenienti dall’Est Mediterraneo. Oltre il 50 per cento del campione, inoltre, con priorità per le donne lavoratrici (16% in più delle casalinghe), ritiene "facili le relazioni con gli italiani". Nel complesso si tratta soprattutto di over trenta-cinquenni e di persone di livello di istruzione superiore. Tale percezione è però più diffusa nei soggetti in coppia o in famiglia (10 per cento in più rispetto a quelli senza partner). Il 30 per cento di coloro che valutano difficili i rapporti è invece composto prevalentemente da giovani uomini con una leggera prevalenza della classe d’età 18-34 anni, e coinvolge principalmente maschi con i livelli di istruzione più bassi e i soggetti non in coppia. È un dato quest’ultimo che fornisce, se ce ne fosse stato bisogno, una specie di controprova dell’importanza del ruolo femminile nell’integrazione. Allo stesso modo, se la principale causa di difficoltà nei rapporti con gli italiani è imputata alla reciproca diffidenza - seguita dalla percezione di ostilità e dalla costatazione di avere poco in comune - le motivazioni più pesantemente negative ("diffidenza" e "ostilità") sono addotte principalmente dagli uomini, mentre le donne sottolineano molto di più la componente di "disinteresse" degli italiani. L’appartenenza religiosa non determina invece differenze particolari. Al campione è stato anche chiesto di individuare, in una scala di valori, il livello di compatibilità tra le proprie caratteristiche di nazionalità, cultura e religione e quelle italiane. Circa la metà sostiene di avere un livello di compatibilità intermedio ("abbastanza"). Nel complesso, tuttavia, la valutazione è molto positiva perché a questo dato va aggiunto quello del 13 per cento degli intervistati che afferma di avere una compatibilità "etnica". "Anche sotto questo profilo - afferma la ricerca - la valutazione positiva delle donne è maggiore di quella degli uomini". Più della metà delle donne intervistate, inoltre, non ritiene di rappresentare un modello che si contrappone a quello della donna italiana. Una percentuale che sale al 60 per cento tra le lavoratrici, che affermano che la diversità si attesta sul livello "del poco" o "per nulla". Sono in prevalenza le donne, inoltre (quasi il 60 per cento del campione), a ritenere la poligamia una pratica offensiva. Gli uomini non prendono una posizione così netta. Al 37% che ne condivide il carattere offensivo segue un 27% che la ritiene "normale", e un 11% che la ritiene addirittura "vantaggiosa" per le donne. Netto specifico del campione dei fedeli mussulmani si evidenzia ancora di più la polarizzazione tra una percezione di "offensività" che è molto maggiore per le donne e una percezione di "normalità" che invece attiene prevalentemente agli uomini. Sul divieto di indossare il velo a scuola per le bambine il campione si divide quasi equamente tra i favorevoli e i contrari e le risposte sono influenzate da livello di istruzione, area geografica di provenienza e religione, e meno dal sesso. Ma il 66 per cento ritiene che la legge italiana non debba stabilire eccezione per le donne adulte con il velo. In questo caso, però, a richiedere l’eccezione sono maggiormente gli uomini, prevalentemente mussulmani, mentre a ritenerlo non necessario sono le donne, senza differenza di condizione lavorativa. Anche la maggioranza delle donne mussulmane è contro un riconoscimento specifico. La scuola, infine: l’80 per cento è favorevole ad una educazione mista, italiani/stranieri. L’immagine del nostro Paese presso gli immigrati (che pure già partiva da un 92 per cento di positività) è progressivamente migliorata negli anni. Ma - in base alla ricerca commissionata da "Fare Futuro" - sono ancora una volta le donne, soprattutto le lavoratrici, a rappresentare la parte più convinta che il nostro sia ancora il Bel Paese.
Ma sono ancora le prime vittime della violenza
"In quindici anni - spiega il sociologo bolognese Marzio Barbagli - si è sviluppata una tendenza molto forte: le donne immigrate hanno sorpassato gli uomini. Nel ‘92 venivano in Italia 66 donne ogni cento uomini, l’anno scorso, 2007, erano 102 donne per ogni 100 uomini". Questa femminilizzazione dell’immigrazione nel nostro Paese dovrebbe spingere a cambiare l’approccio alle politiche di inserimento nel nostro Paese, ma anche quelle di contrasto alla criminalità. "Perché - aggiunge Barbagli - c’è un dato incontestabile: chi subisce i reati commessi da immigrati sono prevalentemente altri immigrati, e tra loro in particolare le donne". Parliamo soprattutto dei reati più gravi, i reati violenti e di sangue, gli omicidi e gli stupri. Questa è l’altra faccia della luna: la donna non solo è il più forte "agente" di integrazione, ma ne è spesso la vittima. "Le violenze sessuali sono un reato molto praticato dagli immigrati", spiega Barbagli che ha appena scritto un libro su Immigrazione e sicurezza in Italia in cui analizza le serie storiche dei reati per cui sono stati denunciati gli immigrati. "La percentuale di tutti gli stupri commessi da immigrati è veramente molto alta e in quindici anni si è quadruplicata: è arrivata al 40 per cento di tutte le violenze sessuali commesse nel 2007, mentre nel 1988 era del 9 per cento". Ebbene, in base alle analisi svolte da Barbagli, mentre le violenze di marocchini, tunisini o in genere nordafricani "riguardano una su due un’italiana, i romeni per un terzo violentano un’italiana, ma per il 47 per cento stuprano una loro connazionale". Sono dati molto significativi che spesso nascondono una realtà ancora peggiore: è infatti facile presumere che un’italiana sporga più facilmente denuncia rispetto a una straniera che non è in regola. "Si tratta quindi di cifre sottostimate" dice il professore. L’andamento dei grafici che illustrano che nell’arco di quattordici anni la percentuale di stranieri sul totale degli assassinati in Italia secondo il sesso è addirittura impressionante. E se è vero che "in Italia gli immigrati corrono più rischi di essere uccisi rispetto agli italiani, questa differenza è ancora più grande nella popolazione femminile, in particolare in quella che vive al Centro-Nord". Per mano di altri immigrati. Nel ‘92 gli immigrati maschi uccisi per mano di altri immigrati ("Quasi sempre connazionali o appartenenti a gruppi etnici limitrofi, tunisini e marocchini magari si uccidono tra loro, mentre difficilmente colpiscono i provenienti dalla penisola balcanica") erano il 7,1% e le donne il 9,5%. Nel 2005 queste percentuali sono diventate rispettivamente del 16,1% (uomini) e del 26,5% per cento (donne). "Sono delle cifre enormi, se rapportate al totale della popolazione immigrata e della popolazione italiana: in sostanza - afferma Barbagli - un quarto delle donne uccise in Italia sono straniere e in un quinto degli omicidi, è straniero l’uomo assassinato". E se quasi la metà delle italiane vittima di omicidio è uccisa nell’ambito domestico (fidanzato, marito, amante, per conflitti di vario tipo), quasi un terzo delle straniere muore per gli stessi motivi. Chi non ricorda il caso di Hina, la giovane pachistana uccisa a coltellate dal padre? Ma il 39 per cento delle albanesi e il 13 per cento delle ex jugoslave sono state uccise nello svolgimento di attività legate alla prostituzione. Non manca anche il dato in controtendenza: donne non solo vittime ma pure autori di reati e cioè la forte presenza delle donne balcaniche tra gli autori di reati quali il borseggio, il furto in appartamento e le rapine sulla pubblica via. Le bosniache, in particolare, sono ben il 41 per cento di tutti i denunciati per quest’ultimo tipo di reato. La quota di donne sul totale dei denunciati per furto nel 2001 era del 20 per cento per le romene, del 46 per cento per le ex jugoslave e addirittura del 56 per cento per le croate. Nel triennio 2004-06 queste cifre sono cresciute rispettivamente al 25 per cento per le rumene e al 72 per cento per le croate. Droghe: Onu; politiche Italia sono riferimento internazionale
Redattore Sociale - Dire, 13 ottobre 2008
"Italia innovativa nella lotta alla droga". Le politiche del governo "hanno un significativo ruolo di riferimento nell’azione internazionale". Questo il giudizio del direttore esecutivo dell’ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, Antonio Maria Costa, espresso - a quanto riferisce una nota del sottosegretario Carlo Giovanardi - durante un incontro con lo stesso sottosegretario. Nell’incontro sono state illustrate le principali iniziative del governo italiano in tema di prevenzione, trattamento e controllo della diffusione e del consumo delle sostanze stupefacenti: "controlli antidroga sui conducenti di veicoli, accertamenti sui lavoratori che svolgono particolari mansioni, test antidroga per il rilascio della patente e del patentino, campagna informative mirate, un sistema di allerta precoce georeferenziato". Costa, riferisce ancora la nota di Palazzo Chigi, ha "molto apprezzato le iniziative poste in essere dall’Italia in questa prima fase della legislatura e ha pienamente condiviso l’approccio comune fondato sulla risposta all’uso e alle dipendenze dalle sostanze come problema di tutela della salute pubblica e delle persone". Costa ha, infine, invitato il sottosegretario Giovanardi "a illustrare l’innovativa politica antidroga italiana alla Conferenza interministeriale della Commissione antidroga delle Nazioni Unite" che si terrà a Vienna nel mese di marzo del 2009, "riconoscendo a queste politiche un significativo ruolo di riferimento nell’azione internazionale di prevenzione e contrasto alle droghe". Australia: rivolta detenuti contro l’affollamento, è terminata
Ansa, 13 ottobre 2008
Si è conclusa senza spargimento di sangue, dopo lunghe ore di trattative, la rivolta di una quarantina di detenuti nel carcere di Port Augusta, 2.320 km a nord di Adelaide in Australia meridionale. Mediatori della polizia sono riusciti a negoziare la resa dei ribelli che avevano preso il controllo di due blocchi della sezione di alta sicurezza, in protesta contro le condizioni di detenzione e il sovraffollamento. I rivoltosi non hanno presentato richieste ma volevano "qualche riconoscimento del fatto che nel carcere vi sono dei problemi", ha detto ai giornalisti il vice capo di polizia Graeme Barton. I disordini erano scoppiati ieri pomeriggio dopo la cancellazione di una sessione di ricreazione all’aperto. I detenuti avevano usato armi improvvisate per spaccare finestre, condizionatori d’aria e computer prima di raggiungere il tetto dell’edificio ed issare dei materassi su cui avevano scritto slogan contro il sovraffollamento ed il cattivo trattamento. Tutto il personale di custodia era stato evacuato dalla sezione e non vi sono stati feriti. Il sindacato del servizio pubblico ha dichiarato che il personale del carcere non tornerà al lavoro finché tutti i detenuti coinvolti nei disordini non siano stati trasferiti altrove, e il ministro statale dei servizi correttivi, Carmel Zollo, ha assicurato che saranno tradotti al carcere di Adelaide. La prigione di Port Augusta ha una capienza di 280 persone ma attualmente ne ospita 363. Svizzera: rimpatrio dei detenuti stranieri, in 4 anni solo 3 casi
www.ticinonews.ch, 13 ottobre 2008
In quattro anni sono soltanto tre i detenuti che la Svizzera ha spedito nel loro Paese d’origine per finire di scontare la pena: si tratta di un serbo e due austriaci. Il parlamento, autorizzando il rimpatrio senza l’accordo dei detenuti, avrebbe voluto ridurre il sovraffollamento nelle carceri. Dall’ottobre 2004 per rimpatriare un detenuto nel suo Paese, allo scopo di scontare la condanna, non è più necessario il benestare dell’interessato, il quale però deve essere stato anche colpito da un divieto di soggiorno sul territorio svizzero. Chi credeva di svuotare le carceri grazie a questa misura si deve ricredere: la questione del trasferimento di un carcerato nel suo Paese si è presentata soltanto sette volte in quattro anni, secondo un documento dell’Ufficio federale di giustizia, citato oggi dal quotidiano "Le Temps" e in possesso anche dell’ATS. In quattro dei setti casi la procedura è stata abbandonata in quanto nel frattempo la condanna era già stata scontata. Secondo Therese Müller, autrice del documento, il rimpatrio ha senso soltanto nei casi di condanne abbastanza lunghe, ossia dai tre anni in poi.
|