Rassegna stampa 11 ottobre

 

Giustizia: slitta il decreto sul carcere per chi sporca le strade

 

Corriere della Sera, 11 ottobre 2008

 

No di An e Lega alla norma che prevedeva pene severe per chi inquina: "Sanzione spropositata".

Nulla di fatto. L’approvazione in Consiglio dei ministri, appositamente riunito a Napoli, di un decreto legge sui rifiuti e il decoro urbano (il cosiddetto "decreto anti-graffittari") è slittata, come riferito da fonti di governo, perché "il governo si è mostrato diviso" sulle misure da prendere nei confronti dei singoli che "inquinano".

Spaccatura tra Forza Italia, che spingeva per il varo del decreto e An e Lega Nord che sostenevano la necessità di un ripensamento. In particolare, alcuni ministri di An e della Lega hanno messo in rilievo l’incongruità del prevedere il carcere nei confronti di chi sporca le strade, considerandola una sanzione spropositata. La discussione si è protratta a lungo, portando infine al nulla di fatto e al rinvio.

Lo stop di Matteoli - In particolare da segnalare le perplessità sollevate dal ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli sulla opportunità di punire chi inquina con sanzioni di tipo penale. Matteoli avrebbe chiesto di sostituire le sanzioni penali con sanzioni amministrativo, sostandosi sul piano contravvenzionale.

Il ministro delle Infrastrutture ha poi sollevato la questione di affidare il trasporto dei rifiuti da smaltire ad autotrasportatori iscritti all’albo per evitare infiltrazioni da parte della criminalità organizzata. Altra questione, per Matteoli, la creazione di più consorzi per la raccolta dei rifiuti e non di un consorzio unico che, a suo giudizio, accentrerebbe troppi poteri in capo a una sola struttura. Al termine del Consiglio, il premier ha tenuto una riunione ristretta con lo stesso Matteoli, con il ministro dell’Interno, Roberto Maroni e con il sottosegretario Guido Bertolaso, per esaminare ulteriormente il contenuto del decreto e ragionare su eventuali modifiche.

Il comunicato ufficiale - Delle divisioni nella coalizione non fa cenno ovviamente il comunicato ufficiale diramato da Palazzo Chigi. Nel quale si legge che "il Consiglio dei Ministri ha avviato l’esame, su proposta del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, un decreto-legge che completa il pacchetto di interventi predisposti dal governo per superare definitivamente l’emergenza rifiuti dell’area campana. Dopo aver approfondito le tematiche che il decreto affronta, il Consiglio ha deciso di proseguirne l’esame nella prossima riunione".

Giustizia: separare le carriere e poi riformare il diritto penale

di Giuliano Pisapia

 

www.radiocarcere.com, 11 ottobre 2008

 

Uno dei pregi della proposta di Radiocarcere è l’aver affrontato i temi della Giustizia soffermandosi sia sugli indispensabili interventi organizzativi e sulle più urgenti riforme ordinarie, sia sulle pur necessarie riforme costituzionali, in un’ottica complessiva che ha come obiettivo quello di accelerare i tempi processuali e di garantire un processo equo.

Del tutto condivisili sono le proposte tese a "eliminare gli inutili formalismi" e a porre fine agli eccessi (e abusi) delle intercettazioni e della carcerazione preventiva: strumenti di indagine e di tutela che, da "eccezionali" sono diventati usuali (oggi, in carcere vi sono più imputati che condannati). Per non parlare della barbarie dei processi mediatici e, più in generale, della "macchina giudiziaria" che necessita non solo di maggiori fondi ma anche di operatori in grado di ben utilizzare le risorse e di evitare gli sprechi.

Entrando nel merito dei temi più controversi, bisogna superare l’anomalia italiana della unicità della carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti. La separazione delle carriere rafforzerebbe la terzietà del giudice, senza minare l’autonomia e l’indipendenza dell’intera magistratura (che, però, deve rispettare l’autonomia degli altri poteri dello Stato), anche in quanto chi è favorevole alla separazione è anche fermamente contrario a qualsiasi dipendenza del P.M. dall’esecutivo. Solo un giudice equidistante tra accusa e difesa può avere la piena fiducia dei cittadini ed essere garante di un giudizio sereno e imparziale. E a chi, per ignoranza o mala fede, fa risalire tale proposta a Licio Gelli o alla P2, non si può non ricordare che la separazione delle carriere ha avuto autorevoli sostenitori nei lavori della Costituente ed è stata condivisa, in tempi non sospetti, da illustri giuristi che hanno illuminato il cammino della democrazia, non solo nel nostro Paese.

Per quanto concerne l’obbligatorietà dell’azione penale, è incontestabile che questa oggi sia solo formale e che, di fatto, vige una discrezionalità che non raramente rasenta l’arbitrio. Ma è anche innegabile che l’art. 112 Cost. è uno dei cardini del principio di eguaglianza davanti alla legge: principio, e valore, non da sopprimere ma da rendere effettivo. Il che sarà possibile solo con quel "diritto penale minimo", di cui tanto si parla nei convegni e nei dibattiti, ma che viene continuamente tradito dal legislatore: basti pensare al reato di immigrazione clandestina o alla proposta di carcere per i writer (più efficacemente contrastabili con una immediata, e adeguata, sanzione amministrativa). Solo un "diritto penale minimo", affiancato da efficaci strumenti deflativi - irrilevanza del fatto, "messa in prova" anche per adulti, aumento dei reati perseguibili a querela ecc. - renderebbe la giustizia più "equa", celere ed efficiente e porrebbe le basi per rendere effettiva l’obbligatorietà dell’azione penale.

Positiva è, invece, la proposta di modifica della prescrizione, anche perché, a differenza di quanto spesso si crede, la gran parte delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari e non nella fase processuale. Non mi convince per nulla, invece, l’esecutività della sentenza di primo grado "in caso di fatto certo": non credo affatto che diminuirebbero i casi di carcerazione preventiva e aumenterebbero i riti alternativi; temo, invece, un allungamento dei tempi processuali e un aumento delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari. Mi chiedo, infine, come si possano individuare, prima della sentenza definitiva, i casi di "prova evidente" e di "fatto certo".

Sarebbe in ogni caso auspicabile che qualche Parlamentare, possibilmente di diverso schieramento politico, trasformassero in un disegno di legge le "riflessioni" di Radiocarcere, ponendo così a disposizione del Parlamento un importante contributo al confronto e alla ricerca di un punto di equilibrio tra posizioni differenti, ma non necessariamente inconciliabili. Nell’interesse non di una parte, ma della Giustizia.

Giustizia: Pd; separazione carriere? no al pm sotto l’esecutivo

 

Asca, 11 ottobre 2008

 

"Io credo che il tema della riforma della giustizia e una riflessione sul ruolo della magistratura possa e debba essere fatto. A partire però dalla salvaguardia del principio costituzionale dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura". Lo afferma Anna Finocchiaro presidente del gruppo Pd a Palazzo Madama.

"E per questo - prosegue la presidente - voglio ricordare che abbiamo appena inaugurato una riforma che prevede la separazione delle funzioni per i magistrati. Io credo sarebbe necessario verificare l’efficienza e l’efficacia di questa nuova misura prima di ulteriori modifiche. "Ma soprattutto - continua - mi preme sottolineare che un PM separato dagli altri magistrati può diventare una monade che, svincolata da tutto, rischia di finire di fatto per dipendere dal potere esecutivo". "Sarebbe una scelta che non condividiamo - conclude Anna Finocchiaro - e non bastano su questo le parole di Ghedini a rassicurarci".

Giustizia: ieri la "Giornata mondiale contro la pena di morte"

 

Redattore Sociale - Dire, 11 ottobre 2008

 

Diminuiscono nel mondo le esecuzioni capitali. L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte è confermata anche dai dati dei primi nove mesi del 2008. È quanto emerge dal dossier presentato alla Camera da Nessuno tocchi Caino, in occasione della Giornata mondiale ed europea contro la pena di morte. Nei primi nove mesi dell’anno in corso, sono state almeno 5.454 le esecuzioni, a fronte delle 5.851 del 2007 (-397) e delle 5.635 del 2006. E sempre nello stesso periodo sono stati 18 i paesi che hanno fatto ricorso alle pene capitali, a fronte dei 26 del 2007 e dei 28 del 2006. "Una diminuzione significativa rispetto allo stesso periodo del 2007 dovuta - sottolinea Nessuno tocchi Caino - all’approvazione, il 18 dicembre 2007, della risoluzione delle Nazioni Unite sulla moratoria universale delle esecuzioni capitali".

I paesi che hanno deciso di abolire la pena di morte per legge o in pratica sono oggi 150. Di questi, quelli totalmente abolizionisti sono 95, gli abolizionisti per crimini ordinari sono 7. Quelli che attuano una moratoria sono 4. Mentre i paesi abolizionisti di fatto (che non eseguono sentenze capitali da oltre 10 anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte) sono 44. I paesi che ancora mantengono la pena di morte sono 47, a fronte dei 49 del 2007, dei 51 del 2006 e dei 54 del 2005.

 

Il podio delle esecuzioni: Cina, Iran, Arabia Saudita

 

Roma - Sono la Cina, l’Iran e l’Arabia Saudita a conquistare il podio dei primi tre paesi che nei primi nove mesi del 2008 hanno compiuto più esecuzioni nel mondo. È quanto emerge dal dossier di Nessuno tocchi Caino presentato oggi alla Camera in occasione della Giornata europea contro la pena di morte. Dei paesi che tuttora mantengono la pena capitale, sono solo 9 quelli che si possono definire di democrazia liberale, intendendo non solo il sistema politico interno, ma anche quello dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello Stato di diritto. Le democrazie liberali che nei primi mesi del 2008 hanno praticato la pena di morte sono state 4 e hanno effettuato in tutto 45 esecuzioni, meno dell’1% del totale mondiale: Stati Uniti (24), Giappone (13), Indonesia (almeno 7) e Botswana (almeno 1). Esecuzioni potrebbero essere avvenute anche in Mongolia, anche se non risultano dati ufficiali.

Ancora una volta, l’Asia si conferma essere il continente dove si pratica la quasi totalità delle pene capitali nel mondo. Se si considera anche la Cina, dove vi sono state almeno 5.000 esecuzioni (anche se diminuite rispetto all’anno precedente), il dato complessivo dei primi nove mesi del 2008 nel continente asiatico corrisponde ad almeno 5.410 esecuzioni, in netto calo rispetto al 2007, quando erano state almeno 5.782, e al 2006, quando erano state almeno 5.492. Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, l’unico paese del continente che ha compiuto esecuzioni nei primi nove mesi del 2008: 24 le persone giustiziate (erano state 42 nel 2007 e 53 nel 2006).

 

Nel 2008 giustiziati 7 minori in Iran

 

Nei primi nove mesi del 2008 sono stati "almeno" sette i minori giustiziati in Iran, l’unico paese in cui risulta sia stata praticata la pena di morte quest’anno nei confronti di persone che avevano meno di 18 anni al momento del reato. È quanto emerge dal rapporto "La pena di morte del mondo", presentato questa mattina alla Camera dall’associazione Nessuno tocchi Caino, in occasione della giornata europea contro la pena di morte.

Nel 2007, invece, erano stati giustiziati nel mondo almeno 12 minorenni: in Iran (7), Arabia Saudita (3), Pakistan (1) e Yemen(1). Nel 2006, infine, le esecuzioni di minori sono state 8, delle quali 7 in Iran e 1 in Pakistan.

 

Napolitano: l’obiettivo è la sua definitiva abolizione

 

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione della celebrazione della Giornata europea contro la pena di morte, promossa dall’associazione "Nessuno tocchi Caino", ha inviato un seguente messaggio in cui sottolinea: "Mi è gradito aggiungere la mia voce a quanti si battono, in Italia e in Europa, per questa battaglia di civiltà e contro il persistere nella sfera della giustizia, della cultura della morte".

Questo appuntamento, sottolinea il capo dello stato, "è una preziosa occasione per ricordare la strenua battaglia condotta alle Nazioni unite con il decisivo contributo dell’Italia per l’adozione della risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni capitali e per rinnovare l’impegno delle istituzioni e della società civile a non abbassare la guardia".

A giudizio di Napolitano "è necessario ampliare ulteriormente il fronte dei paesi abolizionisti e consolidare i risultati raggiunti in vista della definitiva abolizione della pena di morte. Plaudo pertanto alla vostra iniziativa volta ad affermare, nell’agire politico, la centralità dell’essere umano e l’inviolabilità della sua vita".

 

Fini: bravo D’Alema, l’Italia promuova una nuova risoluzione

 

"Il voto dello scorso 18 dicembre" all’Onu per la moratoria della pena di morte ha "rappresentato un momento altamente significativo nell’azione dell’Italia nel mondo: ma va riconosciuto il merito alla diplomazia italiana e a chi la dirigeva, Massimo D’Alema, così come alle associazioni come Nessuno tocchi Caino che, con passione ed energia, hanno saputo coinvolgere l’opinione pubblica internazionale". Lo ha detto il presidente della Camera Gianfranco Fini nel suo intervento alla celebrazione della giornata europea contro la pena di morte in corso a Montecitorio.

"Confido - aggiunge Fini - che, come recentemente ha annunciato il ministro Frattini, il governo italiano possa farsi promotore di una nuova risoluzione presso l’Assemblea generale, che confermi la moratoria e apra la strada per ampliare il novero degli stati abolizionisti".

Giustizia: pena di morte; nel 2008 passi avanti per moratoria

di Manuela Bianchi

 

Aprile on-line, 11 ottobre 2008

 

Ieri si è celebrata la sesta "Giornata mondiale" e la seconda "Giornata europea" contro la pena capitale, promossa dall’associazione Nessuno Tocchi Caino, che ha presentato un dossier sulla situazione globale a oggi, che potrebbe far ben sperare.

Secondo i dati diffusi da Nessuno Tocchi Caino, lega internazionale di cittadini e di parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo e costituente il Partito Radicale Transnazionale, il 2008 ha segnato un sostanziale passo in avanti nel percorso verso l’abolizione della pena di morte a livello mondiale. A parlare è il dossier che l’associazione ha presentato oggi in occasione della sesta "Giornata mondiale" e seconda "Giornata europea" contro la pena capitale, promossa dall’associazione stessa e celebrata presso la sala della Lupa di Montecitorio alla presenza del presidente della Camera, Gianfranco Fini, al cui discorso di apertura sono seguiti gli interventi di Emma Bonino, Massimo D’Alema, Lamberto Dini e Raoul Bova, quest’ultimo in qualità di interprete e produttore del cortometraggio "15 seconds", scritto e diretto da Gianluca Petrazzi, e presentato durante la celebrazione.

Una giornata che vuole richiamare all’attenzione la piaga che affligge ancora molti Paesi e per la quale è nato un percorso, quattordici anni fa, che ha nell’abolizione della pena capitale il suo obiettivo finale, da raggiungere attraverso il passo intermedio della moratoria. Ma anche un obiettivo fortemente voluto dall’Italia, che l’anno scorso ha avuto dalla Ue il mandato, insieme alla Germania, di preparare il testo sulla moratoria per la pena di morte da presentare all’Assemblea generale dell’Onu, poi approvato al Palazzo di Vetro il 18 settembre 2007, e che proprio ieri ha visto l’approvazione al Senato del disegno di legge di ratifica del Tredicesimo Protocollo alla Convenzione Europea per la Protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, relativo all’abolizione della pena di morte in tutte le circostanze, che fa seguito al via libera definitivo della Camera del 24 settembre scorso.

Dal dossier di Ntc si evince che i paesi che oggi non fanno ricorso, per legge o per pratica, alla condanna capitale sono 150, di cui 95 totalmente abolizionisti, 7 abolizionisti solo per i crimini ordinari, 4 che attuano una sospensione delle esecuzioni, e 44 che non eseguono sentenze capitali de facto. Sull’altro fronte sono invece 47 i paesi che mantengono la pena di morte: un numero molto alto, ma in calo se lo si pensa a fronte dei 49 dello scorso anno, dei 51 del 2006 e dei 54 del 2005.

Un calo si è registrato anche nel numero dei paesi che hanno eseguito una condanna capitale negli ultimi nove mesi: 18 nel 2008, contro 26 del 2007 e 28 del 2006, cifre che tradotte in numero di esecuzioni corrispondono a 5.454 nei primi nove mesi di quest’anno, a fronte delle almeno 5.851 del 2007. Uno dei motivi della significativa diminuzione delle esecuzioni è la diretta conseguenza dell’approvazione della risoluzione targata Onu sulla moratoria universale delle esecuzioni capitali di cui sponsor principale è stata l’Italia, che ora si appresta a farsi promotrice di una nuova risoluzione, come reso noto dal ministro degli Esteri Frattini.

Ma leggendo i dati del dossier spicca come dei 47 paesi che ancora la praticano la stragrande maggioranza sia guidata da dittatori o da governi illiberali, a dimostrazione di come la mancanza di democrazia e di rispetto dei diritti umani sia spessissimo alla base della scelta dei governi "mantenitori". L’Asia fa la parte del leone: su 5.409 esecuzioni effettuate quest’anno, che la rendono il continente che detiene la quasi totalità delle esecuzioni nel mondo, in pole position c’è la Cina con almeno 5000, a cui seguono in ordine di "importanza" Iran e Arabia Saudita. A parte i tre colossi asiatici, va detto però che anche il trend è in calo rispetto al 2007, anno in cui le esecuzioni sono state 5.782, e che ci sono delle eccezioni, come il Pakistan (paese mantenitore) che nei primi di luglio 2008 ha deciso per la conversione delle condanne a morte in ergastolo per ben 7.000 prigionieri.

Proseguendo nella lettura si incontrano i dati corrispondenti al tasto più dolente, quello cioè che corrisponde a quei paesi considerati di "democrazia liberale" che non hanno firmato la risoluzione: Usa (24 esecuzioni nel 2008), Giappone (13), Indonesia (almeno 7) e Botswana (almeno 1), a cui fanno da contrappeso quattro paesi abolizionisti di recente acquisizione: Uzbekistan, Saint Kitts, Nevis e Sierra Leone.

In America, gli Stati Uniti rappresentano l’unica eccezione in un contesto più largo sostanzialmente libero dalla pena di morte, con 24 detenuti giustiziati da gennaio 2008 , ma anche qui in calo rispetto al 2007 (43) e 2006 (53). Un calo che però non può non tener conto del dubbio di costituzionalità dell’impiego dell’iniezione letale, che ha portato la Corte Suprema a "congelare" le esecuzioni per alcuni mesi in molti stati, fino a quando nel maggio del 2008 c’è stata la prima esecuzione in Georgia dopo che la Corte aveva riammesso l’utilizzo dell’iniezione letale sbloccando la moratoria. Ma anche nel panorama statunitense c’è qualche segno positivo. Il New Jersey, l’anno scorso, ha abolito la pena di morte come primo paese statunitense in quarant’anni, mentre l’Illinois sono 9 anni che rispetta la moratoria delle esecuzioni.

Sempre in ambito americano, l’Argentina, già abolizionista per i reati ordinari, ha cancellato del tutto la pena capitale dall’impianto legale con l’abolizione del Codice di giustizia Militare avvenuta il 6 agosto 2008; Cuba, dall’aprile del 2008, ha annunciato la commutazione di tutte le condanne a morte, mentre il Parlamento del Guatemala, che ha approvato una legge che sospende la moratoria avviata nel 2002, ha subito il veto del presidente e quindi si allinea agli altri paesi americani fuori dalla pratica della condanna a morte.

In Africa le cose vanno un po’ meglio. Solo 4 paesi hanno giustiziato dall’inizio dell’anno in corso: Botswana (almeno 1), Libia (almeno 6), Somalia (almeno 3) e Sudan (almeno 7) per un totale di 17 esecuzioni contro le 26 del 2007 e le 87 del 2006. Etiopia e Guinea Equatoriale, pur essendo paesi mantenitori, non hanno eseguito alcuna condanna capitale da nove mesi a questa parte, almeno ufficialmente, così come l’Egitto dove nel 2007 sono state invece giustiziate un numero imprecisato di persone. Ma anche qui arriva la nota dolente con la Liberia che nello scorso luglio ha disatteso gli obblighi sottoscritti a livello internazionale reintroducendo la pena di morte per alcuni reati violenti.

In Europa si resta stupiti di fronte alla posizione della "pecora nera", la Bielorussia, che continua a mantenere la pena capitale nel proprio ordinamento, a dispetto del restante contesto europeo, con 3 esecuzioni effettuate quest’anno, come rende noto la Corte suprema, contro 1 nel 2007, 3 nel 2006 e 4 nel 2005.

Insomma, il 2008 ha confermato una evoluzione positiva del percorso per l’abolizione globale della pena di morte, ma c’è ancora molto da fare. Ntc ha individuato nel segreto di Stato un ostacolo primario alla adesione dei paesi ancora mantenitori alla risoluzione Onu. Con questa misura molti paesi non forniscono statistiche ufficiali sull’applicazione della pena capitale, lasciando l’opinione pubblica nella disinformazione, terreno fertile per la perpetrazione della misura. A tale proposito, si legge sul sito di Nessuno Tocchi Caino, la proposta è quella di istituire la figura di "Inviato Speciale del Segretario Generale", con il compito di monitorare le varie situazioni e di favorire i processi interni volti ad abbracciare la richiesta dell’Onu di moratoria delle esecuzioni.

Giustizia: medici carcerari; siamo pochi e sempre più necessari

 

Vita, 11 ottobre 2008

 

Intervista al Presidente della Simspe, dott. Andrea Franceschini. Dalle dipendenze del Dap - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria al SSN - Servizio Sanitario Nazionale: per la medicina penitenziaria è una riforma epocale. Il cambio di rotta è entrato in vigore il 15 giugno 2008, ma è partito a tutti gli effetti dal 1° ottobre, giorno in cui i 3mila medici che oggi lavorano nei 205 istituti di pena italiani sono passati al libro paga del SSN.

"È una nuova frontiera anche per noi, un passaggio che se non affrontato bene dalle istituzioni può portare al rischio di non vedere riconosciuta la nostra esperienza", spiega Andrea Franceschini, 60 anni, medico nel carcere romano di Regina Coeli dal 1975 e presidente della Simspe - Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, ente di riferimento della categoria che ha appena concluso a Milano il suo nono congresso nazionale. È con lui che Vita fa il punto sullo status quo di un mestiere "dietro le quinte".

 

Quali sono le aree critiche su cui intervenite di più?

Lavoriamo molto per curare le infezioni e nel campo psichiatrico, a cui si aggiunge l’intervento sui tossicodipendenti, che oggi sono il 35% della popolazione carceraria, mai cosi tanti. Poi c’è la pessima situazione clinica della popolazione straniera, che a Regina Codi è il 50% dei 950 detenuti attuali e dei 6mila ingressi annui. Ad esempio, l’epatite C è arrivata al 30% di contagi.

 

Il numero attuale di medici è soddisfacente?

Ne servirebbero di più. Soprattutto tenendo conto del sovraffollamento delle carceri: a Viterbo, ad esempio, c’è un solo medico per 470 detenuti. Nelle grandi città, dove il numero è adeguato, i problemi sono però di natura strutturale: a Secondigliano, Napoli, ad esempio, il nuovo carcere è al top per la sicurezza ma non ha strutture sanitarie adeguate, così come a Opera, dove manca la sala operatoria.

 

Quali le carceri modello?

Da noi a Regina Coeli ci sono 9 medici, 25 Specialisti, 15 medici di guardia e 50 infermieri per un Centro Clinico avanzato, che funziona. Siamo tanti, ma la richiesta è alta e gli straordinari sono la regola: io dovrei visitare 6 ore al giorno, ne faccio il doppio. Altri modelli sono gli istituti di pena di Pisa e Le Vallette di Torino, dotati di ottime strutture mediche. In generale, dove c’è l’impegno di tutti gli operatori carcerari, le cose vanno bene. E dove ci sono più misure alternative, meglio ancora.

 

In che senso?

Per molti detenuti malati la vita dietro le sbarre è ancora più difficile del normale. Alle dure regole si aggiunge infatti l’handicap fisico, che spesso diventa mentale. Per questo, dare alla persona la possibilità di uscire dall’istituto per scontare la pena significa migliorare la qualità della sua vita: nei casi che riteniamo legittimi; spesso siamo noi medici a proporre queste misure all’autorità competente.

Giustizia: 3mila italiani detenuti all’estero, 50% senza processo

 

Redattore Sociale - Dire, 11 ottobre 2008

 

Presenti soprattutto in Germania, Spagna, Belgio e Francia. Per ricordarli debutta a Milano uno spettacolo-talk dedicato a Carlo Parlanti.

Nel 2007, secondo i dati del ministero degli Esteri, erano 2.823 i detenuti italiani all’estero ma è quasi certo che il loro numero sia molto più alto. "Ufficiosamente si parla di almeno 3.200 persone e molti casi non sono noti alle autorità italiane - spiega Katia Anedda, presidente dell’associazione Prigionieri del silenzio e compagna di Carlo Parlanti, detenuto negli Stati Uniti -. Spesso molti italiani arrestati all’estero non sanno di avere il diritto di telefonare al Consolato oppure viene loro negato di farlo.

Non sanno come comportarsi, hanno paura della situazione in cui si trovano". Più della metà (1.327 persone) sono in attesa di giudizio o di estradizione, mentre 1.496 sono già stati condannati. Gli stati a maggiore densità sono la Germania (1.140 italiani detenuti) , Spagna (429), Belgio (238), Francia (208). "Tremila persone sembrano poche - dice Katia Anedda - bisogna pensare però che, dietro di loro ci sono delle famiglie che soffrono, che vivono indirettamente l’esperienza del carcere".

Tanti i problemi e le difficoltà con cui si devono scontrare i detenuti italiani all’estero e le loro famiglie: "Chi riceve la notizia che un parente è stato arrestato in un Paese straniero non sa cosa fare, non sa a chi rivolgersi - spiega Katia Anedda -. Non conoscono i loro diritti né quali sono i compiti del Consolato in queste situazioni".

Questo è uno dei principali compiti che si è data l’associazione Prigionieri del silenzio: fornire a parenti e amici di connazionali detenuti all’estro tutte le informazioni necessarie. Dalla consulenza legale a piccoli "consigli" per risolvere problemi quotidiani e apparentemente banali, ad esempio come fare per contattare telefonicamente il carcere. "Informazioni che, nel mio caso, il Consolato non è stato in grado di dare - ricorda Katia Anedda -. Solo dopo molto tempo ho scoperto che Carlo poteva chiamare direttamente in Italia, prima eravamo costretti a fare una deviazione su una linea fissa Usa. Con spese altissime".

Carlo Parlanti è uno di loro: compirà 44 anni il prossimo 1° novembre e dal 3 giugno 2005 è detenuto in un carcere californiano con l’accusa di aver sequestrato e violentato la sua convivente americana Rebecca Mckay White. Malgrado le incongruenze emerse durante le varie fasi del processo (foto ritoccate, testimonianze inattendibili della presunta vittima), Carlo è stato condannato a nove anni di reclusione e attualmente è detenuto nel carcere di Avenal. "Ha contratto l’epatite C in carcere - spiega Katia Anedda - inoltre soffre d’asma e ha un disco vertebrale schiacciato. È piegato in due, ha solo 44 anni ma sembra un vecchio di ottanta". Senza contare lo stress e le violenze psicologiche cui è sottoposto da quando ha deciso di dare battaglia.

"Anche se abbiamo avuto dei problemi con l’avvocato americano - conclude Katia Anedda - stiamo lavorando per presentare l’habeas corpus: un appello per riaprire il processo presentando nuove prove oppure fatti che potrebbero far cambiare parere alla giuria".

Per ricordare il dramma degli italiani detenuti all’estero debutta a Milano "Il caso Parlanti", uno spettacolo-talk dedicato a Carlo Parlanti interpretato da Gabriele Milia. L’appuntamento è per mercoledì 15 ottobre alle 21 presso la sede del Centro Italiano Attori (via Ferrante Aporti, 56). Allo spettacolo seguirà il dibattito con il pubblico e un collegamento telefonico con Carlo.

Giustizia: Osapp; 41-bis non impedisce a mafiosi di comunicare

 

Il Velino, 11 ottobre 2008

 

"Difendiamo il regime del 41 bis, non chi lo vuole strumentalizzare e demolire. Questa volta intendiamo vederci chiaro affinché s’individuino responsabilità precise, anche se dubitiamo del buon esito di certe iniziative dell’Amministrazione centrale".

A dirlo è Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma Polizia penitenziaria (Osapp), che interviene sulle polemiche all’indomani della lettera di Vincenzo Santapaola pubblicata dal quotidiano La Sicilia. "A ben intendere - continua Beneduci - sostenere le scelte dell’Amministrazione centrale, e della direzione dei detenuti e del trattamento, che hanno annunciato di aprire un’inchiesta sul caso, è fatica sprecata, quando è chiaro che certe comunicazioni sono solite che accadano.

Come è perfettamente risaputo che il regime del 41 bis, così come viene gestito, è necessario soltanto a garantire il principio di separazione del trattamento tra detenuti. Per essere più chiari: è utile solo a separare i mafiosi dal resto della popolazione carceraria, ma non ad impedire che gli scambi di carte avvengano. Il Dap, quindi, apre un’inchiesta su quello che già conosce, o dovrebbe conoscere, se è vero che c’è stato un passaggio di lettera il boss e il suo avvocato e che questo non può essere impedito per una legislazione carente sul piano dei colloqui".

"Mentre, come d’altra parte è ben noto - sottolinea Beneduci -, non si consente l’ascolto e la registrazione delle conversazioni tra i detenuti del 41bis e i loro familiari, pur sapendo che proprio attraverso tale mezzo i boss possono comunicare all’esterno, impartire ordini o ricevere resoconti sull’andamento dei loro interessi criminali.

Diciamo solo che l’Amministrazione interviene quando i buoi sono già scappati, e in questo modo si addebita al quotidiano che ha pubblicato la lettera una responsabilità che deriva invece dal sovrapporsi negli anni di politiche ben determinate, che hanno annacquato, di fatto, lo spirito per cui era nato il carcere duro voluto in primo luogo da Giovanni Falcone.

E conseguenza vuole che ciò danneggi anche il ruolo della Polizia penitenziaria, addetta alla sorveglianza dei soggetti pericolosi; ruolo che il Dap sino ad oggi non ha mai avvertito l’esigenza di difendere. È arrivato il momento, di valorizzare e promuovere il costante apporto alla sicurezza della collettività che anche quest’attività di sorveglianza può offrire, contro le associazioni criminali e nei contatti con le altre Forze di polizia e con l’Autorità giudiziaria specializzati nelle misure antimafia.

Ricordiamo che casi del genere si verificano regolarmente a ridosso delle elezioni politiche: i mafiosi dell’Umbria che si sono organizzati nella campagna elettorale dell’aprile scorso, per esempio, nonostante il regime duro, sono riusciti a diffondere volantini contro il 41-bis senza che si creasse il caso politico nazionale. Su questo incidente non molliamo, se l’Amministrazione intende strumentalizzare l’accaduto annunciando con toni altisonanti l’avvio di un’indagine interna, sarà l’occasione che finalmente qualche testa cada, a fronte di scenari sconvolgenti e di responsabilità gravi che un procedimento amministrativo inutile potrà mai svelare".

Lettere: Napoli; a Poggioreale viviamo in condizioni disumane

 

www.napoli.com, 11ottobre 2008

 

Con la presente intendiamo rivolgerci a voi per far conoscere lo stato di disagio, di abbandono e le condizioni disumane con cui siamo costretti a vivere in questo istituto di pena, dove non siamo i soli a subire la precarietà organizzativa del distretto che oltretutto è carente di strutture idonee ad ospitare i detenuti.

La cosa più grave ed inquietante è che in modo ingiustificato (secondo il nostro parere), molte regole penitenziarie e disposizioni ministeriali vengono sistematicamente violate.

Non si comprendono le ragioni per le quali nel reparto "Venezia" composto da due sole sezioni nelle quali alloggiano circa una decina di detenuti (alcuni in via temporanea), pur esistendo quattro locali passeggio, non è consentita la permanenza all’aria aperta per più di due ore giornaliere ed è pure preclusa la possibilità di passeggio ad un numero di detenuti superiore a due.

Non è consentito l’uso della doccia con acqua calda tutti i giorni, ma la doccia può effettuarsi solamente due volte alla settimana, in tal senso c’è da dire che nessuna legge vieta una corretta igiene quotidiana che, anzi, in luoghi come il carcere deve essere alla base delle più elementari norme civili.

Non è consentito partecipare alla Santa Messa nella cappella dell’istituto o in altro luogo che possa identificarsi come tale, eppure nessuna legge vieta di esprimere il proprio "credo" religioso e anzi ci si batte pure per far rispettare quello di molte persone che hanno una cultura diversa dalla nostra (il comune senso civico ce lo impone). Non è consentito effettuare attività sportive, ricreative e culturali, anche come semplice motivo di "relazionalità sociale". Il vitto somministrato ai detenuti non è conforme a quanto stabilito nelle tabelle ministeriali.

Non è consentito al detenuto di esplicare alcuna attività lavorativa, ne scuola o corsi di addestramento professionale: il cosiddetto trattamento rieducativo è inesistente, seppur la Costituzione in primis e la Convenzione Europea dopo, hanno chiarito che la pena non deve essere fine a se stessa ma deve mirare al recupero sociale del detenuto, la quale condanna è la privazione della libertà ma non deve essere certamente la mancanza di dignità (art. 13 e 27 della Costituzione Italiana; art. 3 del titolo 1 della Convenzione per la salvaguardia e i diritti dell’uomo).

Non è consentito all’interno della sezione il passaggio di oggetti, seppur di modico valore, tra i detenuti. Ci è vietato di accedere nei locali passeggio qualora indossiamo dei comunissimi pantaloncini, quindi nel periodo estivo e caldo siamo costretti a sopportare i pantaloni lunghi. Non è consentito ricevere con il pacco postale generi alimentari di consumo comune e che possono essere controllati senza essere manomessi.

Non sono consentiti colloqui telefonici con i propri familiari in un giorno diverso dal venerdì e le stesse telefonate vengono effettuate in un corridoio della sezione, privo di qualsivoglia protezione, così non viene rispettata nella maniera più assoluta, quel margine di privacy che rimane al detenuto.

La funzionalità degli apparecchi televisivi viene esclusa dalle ore 24 alle ore 9 del mattino seguente, ciò appare ingiustificato e vessatorio se si considera che i pulsanti per il funzionamento delle televisioni sono posti pure al di fuori delle celle, per cui il personale in servizio potrebbe spegnere in qualsiasi momento l’apparecchio televisivo, laddove il detenuto pregiudicasse la convivenza con gli altri detenuti per un uso sconsiderevole dello stesso.

All’interno della cella non è possibile tenere gli oggetti per la cura e la pulizia personale (specchi, rasoi usa e getta, ecc.) salvo che nelle ore diurne, eppure la cura personale e la pulizia non contrastano con nessuna norma ne tanto meno minano la sicurezza carceraria.

I locali passeggio sono dotati di un solo water, inadeguato e che non consente un minimo di riservatezza (bisogna urinare in presenza del proprio compagno di passeggio), inoltre detti locali sono sprovvisti di lavabo.

Le camere dove alloggiamo sono vetuste e fatiscenti e i servizi igienici sono inadeguati e non hanno alcuna decenza. Siamo rinchiusi all’interno della cella di appartenenza per 22 ore al giorno, tra l’altro nelle celle non arriva una giusta luminosità e così si finisce con l’avere pure disturbi visivi. Viviamo in un ambiente dove non esiste alcuna possibilità di reinserimento e rieducazione (e purtroppo molti di noi siamo condannati alla pena massima del codice penale).

È perfino vietato portare una bottiglia di acqua nella sala adibita ai colloqui con i familiari; ciò determina una mancanza di sensibilità pure nei confronti di chi viene a farci visita ricordando che spesso ci sono dei bambini e che questo sembra un vero accanimento pure nei loro riguardi: l’acqua è un bene primario ed è indispensabile una simile restrizione che nulla ha a che vedere con i problemi legati alla sicurezza? Infatti sarebbe il detenuto a portare l’acqua nella sala ed essa sarebbe preventivamente ispezionata dagli operatori penitenziari.

A questo punto vogliamo rivolgere una domanda a chi abbia la competenza per rispondere: "è così che si intende rieducare un cittadino che sia stato condannato al carcere?" e ancora " tutto questo significa dare esempio di legalità?" Non pensiamo assolutamente che le vessazioni e le torture (fisiche e psicologiche) rientrino nel novero dei principi più elementari della nostra Costituzione.

Noi abbiamo deciso di far conoscere, tramite la presente, la nostra condizione detentiva, auspicando nella sensibilità umana e nell’intervento delle autorità competenti, affinché le nostre parole non rimangano solo come uno sfogo ma diano l’input per portare "civiltà" e dignità a quelle persone che in un domani, vicino o lontano che sia, ritorneranno nella società dei liberi sperando di dire che il carcere li abbia cambiati, in meglio però!

 

I reclusi del reparto "Venezia" del carcere di Napoli Poggioreale

 

La risposta della Redazione

 

La prima riflessione che ti viene subito in mente quando vedi tanti tuoi fratelli vivere in condizioni di vita subumane per presunti reati commessi (nel caso siano veramente colpevoli) è: perché mai degli uomini che sono figli di Dio, liberati dal Figlio di Dio con il suo Sacrificio, siano costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità. Basta guardare alle cifre per capire che nelle carceri ci restano solo i poveracci: extracomunitari, tossici, gente affetta da disturbi psichici. Molti non godono dei più elementari diritti umani. Molti escono più arrabbiati e cattivi di prima.

Tanti non usciranno più perché, anche se in Italia non c’è la pena di morte, muoiono... o perché si suicidano o per la cattiva sanità che anche in carcere fa sentire il suo peso. Come cristiani davanti a Dio non possiamo non ricordare le parole di ammonimento di Gesù: "Ero carcerato e mi avete visitato" (Mt. 25,31)

Lettere: Sassari; qui sette detenuti stanno in una cella di sei mq

 

www.radiocarcere.com, 11ottobre 2008

 

Un anno ho trascorso nel carcere San Sebastiano di Sassari, e non posso certo dimenticarlo. Un anno passato dentro una cella grande 6 metri quadri. Un piccolo spazio, che dividevo con altri 7 detenuti. Indimenticabile, il cesso di quella cella. Nient’altro che un buco maleodorante nel pavimento. Un buco nascosto da un muretto alto 40 centimetri.

Indimenticabile, l’umidità che usciva da quei muri vecchi di 200 anni. Un’umidità che ci spezzava le ossa. Indimenticabile, la puzza del carcere di Sassari. Una puzza di corpi trascurati o feriti, di cibo andato a male e di muffa. Indimenticabile, l’insonnia di notte nel carcere di Sassari.

Era difficile cercare di dormire su quelle vecchie brande arrugginite. Brande che al posto del materasso avevano una sottile gomma piuma. Era difficile dormire senza essere svegliati dalle urla dei detenuti. Urla di chi chiedeva, inutilmente, una medicina. O di chi chiedeva solo aiuto.

Indimenticabili, le ore trascorse in quella cella. 22 ore al giorno, ovvero 8.030 ore in un anno. Lavoro e rieducazione sono parole senza senso nel carcere di Sassari. Non a caso, la porta della nostra cella si apriva solo per andare all’ora d’aria. Una volta la mattina e una il pomeriggio.

Un anno così non si dimentica. Io, che da poco sono uscito dal carcere di Sassari, ho ancora gli incubi. Ricordo l’oscurità. Perché in quella cella non riuscivamo a distinguere il giorno dalla lotte. Tanto era poca la luce che entrava dalla finestra. Ricordo l’aria irrespirabile. Non solo per quella specie di bagno messo in bella vista, ma anche per la mancanza di un minimo di ricambio d’aria.

Ricordo i topi, gli scarafaggi e le formiche che invadevano quel nostro piccolo spazio. Ma non solo. Noi, 8 detenuti in una cella di soli 6 metri quadri, vivevamo ammucchiati. E dovevamo fare i turni per qualsiasi cosa. Per fumare una sigaretta, per andare in bagno e anche per muoverci. Così, per esempio, se tre di noi dovevano stare in piedi, gli altri cinque erano costretti a restare sulle brande.

Già 8 detenuti. 8 persone con storie e problemi diversi. Ora che ci penso, infondo, ero io tra loro il più fortunato. Uno era malato e stava sempre sdraiato. Lo vedevo soffrire, senza che lo curassero. Si chiamava Marco, è morto qualche mese fa. Un altro aveva problemi di mente. All’improvviso si metteva a urlare con la bava alla bocca o picchiava la testa contro le sbarre. Il suo volto era pieno di ferite, molte ancora aperte.

Altri erano tossicodipendenti, che avevano sostituito l’eroina con i tranquillanti che ti danno in carcere. Uno era extracomunitario. Voleva tornare a casa sua e per protesta spesso prendeva una lametta e si tagliava le braccia o la pancia. Vederlo sanguinare era terribile.

Nel carcere di Sassari non c’è nulla che rispetti la dignità del detenuto. Neanche il cibo, che ci arrivava freddo e pieno di insetti dentro. Vedi, all’inizio non lo mangi, ma… ma dopo un po’ che stai lì, mangi anche quel cibo. Come non fai più caso al compagno che sanguina, a quello che urla o ai topi che ti girano intorno. Dopo un po’ nel carcere si Sassari, ti rimane talmente poco, che è facile attaccarsi una corda al collo.

 

Marcello, 46 anni

Lazio: 3 milioni per migliorare le condizioni di vita dei detenuti

 

Ansa, 11ottobre 2008

 

Via libera dalla giunta della Regione Lazio a un pacchetto di 4 provvedimenti, con uno stanziamento di oltre tre milioni di euro per tutto il 2008 (più del triplo del 2007), per iniziative in favore della popolazione carceraria, detenuti e operatori penitenziari.

Il primo provvedimento prevede un milione e mezzo per la riqualificazione e la realizzazione di strutture negli istituti penitenziari, come l’adeguamento delle strutture igenico-sanitarie a Rebibbia femminile, l’installazione di una piattaforma elevatrice per consentire l’ingresso dei diversamente abili al Regina Coeli, la creazione di un’area verde annessa ai locali per i colloqui dei familiari a Frosinone, i lavori di ristrutturazione dei locali dell’istituto penale per minorenni di Casal del Marmo, la messa in sicurezza del centro di prima accoglienza di Roma e il completamento dei lavori del teatro a Velletri.

Sarà inoltre finanziato il progetto pilota Teledidattica-Università in carcere per consentire ad alcuni detenuti di seguire corsi di studio universitari: a Rebibbia, così, si potranno seguire le materie di Lettere, Legge ed Economia. Il secondo provvedimento prevede un bando da 750.000 euro destinato ad associazioni, organizzazioni di volontariato e cooperative sociali per migliorare le condizioni di vita nelle carceri con iniziative di reinserimento sociale.

La terza iniziativa della Regione prevede poi 750.000 euro per la formazione scolastica, professionale e universitaria. Infine, ci sarà un finanziamento di 150.000 euro per interventi a favore del personale che opera nella giustizia minorile. Le misure adottate sono state proposte dall’assessore agli Affari istituzionali, Enti locali e Sicurezza, Daniele Fichera.

Viterbo: muore detenuto di 39 anni, 14esima vittima nel Lazio

 

Agi, 11ottobre 2008

 

È morto per cause ancora da accertare Vincenzo M., detenuto romano di 39 anni recluso nel carcere Mammagialla di Viterbo da meno di 15 giorni. Lo ha riferito il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, sottolineando che si tratta del quattordicesimo caso dall’inizio dell’anno nelle quindici strutture laziali (13 detenuti e un agente di polizia penitenziaria), contro gli undici deceduti nel 2007 e i dieci del 2006.

"Un trend in costante e pericolosa crescita", ha osservato Marroni, che ha evidenziato come "occorra fare qualcosa per tutelare meglio detenuti e agenti". A quanto appreso dal garante, il detenuto -morto la sera del primo ottobre- era stato trasferito a Viterbo il 19 settembre dal carcere romano di Rebibbia. In precedenza era stato recluso anche a Civitavecchia.

I morti di quest’anno sono tutti uomini: sei suicidi (compreso l’agente di polizia penitenziaria), quattro deceduti per malattia, quattro per cause ancora da accertare o non accertate. I decessi sono avvenuti a Regina Coeli (tre), Rebibbia (cinque), Viterbo (tre), Velletri e Frosinone. "La scomparsa di Vincenzo è la drammatica conferma che si continua a morire in carcere", ha aggiunto Marroni, "nel drammatico silenzio di una società che preferisce parlare di inasprimento e certezze delle pene piuttosto che di questo".

E ha concluso: "Non vorrei che, così facendo, si dimenticasse che il sistema carcere può schiacciare i soggetti più deboli sia dal punto di vista fisico sia mentale, e che esiste una funzione di recupero sociale di quelli che, anche se detenuti, sono pur sempre cittadini di questa società".

Firenze: detenuto trovato impiccato, per genitori non è suicidio

 

Agi, 11 ottobre 2008

 

Fu arrestato il 19 giugno alle 23.00 a Cattolica con l’accusa di aver commesso una frode informatica, quindi rinchiuso nel carcere di Sollicciano (Firenze). Alle 11.00 del 23 giugno venne trovato senza vita, impiccato alla finestra del bagno con un paio di jeans e un numero imprecisato di lacci da scarpe.

Ora, i genitori di Niki Aprile Gatti, 26 anni, che non hanno mai creduto all’ipotesi di suicidio del figlio, si oppongono alla richiesta di archiviazione avanzata dal pm al procedimento che avrebbe dovuto fare luce sulla morte del giovane. Secondo i genitori del ragazzo, che vivono ad Avezzano (L’Aquila), la richiesta di archiviazione "contrasta con le pur scarne risultanze processuali che rivelano una carente attenzione per il detenuto alla luce delle caratteristiche che il caso presentava; si fonda su un esame parziale e insufficiente degli atti; esprime una valutazione operata in assenza di approfondimento investigativo e di verifica probatoria.

All’interno della casa circondariale e alle fattispecie di reato prospettabili - si legge nell’opposizione - risultano esperibili molteplici attività di accertamento volte a verificare non solo se la morte del detenuto sia effettivamente riconducibile a un atto autolesivo, ma soprattutto se essa poteva essere evitata da coloro che si occuparono del giovane nell’ultima settimana di vita". Nell’opposizione i genitori ripercorrono le drammatiche fasi che hanno preceduto la morte del figlio. Il giovane, alla prima detenzione, aveva chiesto di essere messo in una cella con detenuti italiani e non violenti.

Era stato invece rinchiuso in una cella della quarta sezione con due detenuti extracomunitari per i quali era stata disposta una sorveglianza assidua. Uno dei due, in una precedente detenzione, aveva minacciato di tagliare la gola al compagno di cella. Ma è anche la dinamica della morte a non convincere i genitori del ragazzo. "L’utilizzo di un solo laccio è di per sé idoneo a causare la morte per strangolamento di una persona - scrivono - ma certamente non idoneo a sorreggere il corpo di Niki del peso di 92 chili".

Secondo i genitori, inoltre, "non si comprende come possa essere stata consumata l’impiccagione quando nel bagno non vi era sufficiente altezza tra i jeans e il piano di calpestio del pavimento tale da poter garantire il sollevamento e il penzolamento del corpo. In tal caso - sostengono i genitori del ragazzo - il decesso è più riconducibile a uno strangolamento con successiva simulazione di impiccagione".

Trani: sindacalista Osapp al nono giorno di sciopero della fame

 

Il Velino, 11 ottobre 2008

 

"Domenico Mastrulli, vicesegretario generale dell’Osapp, giunto oramai al nono giorno di sciopero della fame nel carcere di Trani, è a gravissimo rischio delle proprie condizioni di salute. Visitato dai medici del 118 appena un’ora fa, dopo aver accusato l’ennesimo malore (il quinto in 9 giorni), ha rifiutato il ricovero in ospedale scegliendo di continuare la protesta".

Lo rende noto Leo Beneduci, segretario generale dell’organizzazione sindacale. "Andare avanti nella protesta è necessario, addirittura obbligatorio, soprattutto perché quello che stiamo facendo è significativo per i diritti che intendiamo difendere". Il segretario si riferisce alla circostanza per la quale il direttore dell’istituto penitenziario, con il consenso delle altre organizzazioni sindacali territoriali, ha deciso di ridurre giorni fa gli spazi sindacali del carcere di Trani.

"Testimoniare solidarietà al nostro collega per un gesto così estremo è senz’altro doveroso, e sia chiaro - continua Beneduci - che delle conseguenze imputeremo direttamente l’Amministrazione Penitenziaria, che continua fermamente nella sua logica oltranzista".

"La decisione di chiudere i locali è stata una decisione ingiustificata - sottolinea Beneduci -, oramai anche chi dei colleghi era scettico all’inizio se ne rende conto. Soprattutto quando il provvedimento che dispone la chiusura dei locali non appare sensato in un istituto sfollato del 50 per cento dei detenuti, dove di spazi, ribadiamo, ci sono e dove esiste addirittura un’intera palazzina vuota.

Se qualcuno ha ancora dubbi sulle possibilità di un istituto come questo, basti pensare che a Trani ci sono 150 detenuti a fronte di una capienza prevista di 280 reclusi, alla faccia del sovraffollamento tanto sbandierato dalle quelle stesse organizzazioni sindacali che ci contrastano".

Modena: lo sport entra in carcere, grazie alle iniziative del Csi

 

La Gazzetta di Modena, 11 ottobre 2008

 

Giovedì 2 ottobre sono riprese le attività di animazione sportiva e di socializzazione gestite dal Csi Modena all’interno della Casa Circondariale Sant’Anna. Le attività proposte ai detenuti sono basket, calcio ed educazione motoria, realizzate in due turni il lunedì mattina e il giovedì pomeriggio. Le detenute partecipano invece ad un progetto che prevede volley, danza moderna ed educazione motoria. Complessivamente questa attività coinvolge circa 70 detenuti, quasi il 20% dei reclusi nel carcere cittadino.

I volontari che vi prendono parte sono venti: molti di loro offrono la loro disponibilità con cadenza settimanale e tra loro ci sono sportivi (atleti e arbitri), insegnanti ed educatori, ma anche artigiani, impiegati e studenti universitari. L’attività dei volontari è coordinata dal professor don Paolo Boschini ed è integrata nella Commissione Parrocchie e Manifestazioni del Csi Modena. Il progetto animazione in carcere si inserisce a pieno titolo nelle finalità sociali del Centro Sportivo Italiano, perché lo sport venga praticato con tutti come forma di integrazione e comunicazione tra i tanti mondi paralleli che compongono la società frammentata dei nostri giorni.

All’incontro tra il mondo dei ristretti e quello degli sportivi si presenta difficoltoso, perché determinato dai sospetti e i timori che in genere rendono difficile la comunicazione tra le persone libere e i detenuti. Coinvolgendo corpo e anima, lo sport non competitivo si sta rivelando un linguaggio capace di infrangere i muri che la società dei cittadini liberi ha eretto intorno ai detenuti. Lo sport consente di interagire su un piano di parità, attivando dinamiche di empatia e di cooperazione, che smontano i sospetti e spingono i detenuti a guardare oltre la loro condizione carceraria e a ridare fiducia alle relazioni.

Il progetto è giunto ormai al quarto anno di vita e si prevede di estenderlo a breve anche a altre strutture penitenziarie presenti nel territorio provinciale. Tra poche settimane un gruppo di volontari appartenenti alla parrocchia di San Cesario sul Panaro comincerà un’attività sportiva analoga presso la Casa di lavoro di Castelfranco Emilia.

Il Csi sta portando avanti con entusiasmo questi progetti da ormai diverso tempo e l’associazione, proprio negli ultimi tempi, ha intensificato questo suo ruolo e questa sua presenza nel welfare locale offrendo sempre più risposte ai cittadini ai vari livelli. È questo uno dei motivi che ha spinto il Csi di Modena a creare, per la prossima stagione, un progetto che abbia come filo conduttore la persona, dimostrando come l’offerta sia formativa che di servizio proposta dal Csi è ormai sempre più allargata e ti segue nell’arco di una vita.

Immigrazione: nelle forze dell’ordine c’è razzismo di nicchia?

di Giovanna Zincone

 

La Stampa, 11 ottobre 2008

 

È bene non sottovalutare gli atti di razzismo, che non sono facilmente rilevabili perché le stesse vittime spesso pensano che non valga la pena denunciarli. Rappresentano un male grave e nutrono i semi di mali peggiori. Se si minimizzano offese e aggressioni, le vittime sono destinate ad aumentare e non solo quelle d’origine immigrata.

Il grido d’un gruppo di ragazzi neri alla manifestazione antirazzista di settembre a Milano, "Bianchi vi odiamo", è stato un segnale di potenziale scontro. Tafferugli, attacchi reciproci, guerre per bande, rivolte di quartieri con alta densità di minoranze hanno duramente colpito Paesi di più antica immigrazione. L’Italia conta però tre milioni e mezzo di residenti regolari stranieri. Non siamo certo più, e da tempo, un Paese di nuova immigrazione. In una situazione di potenziale tensione, è cruciale che le forze dell’ordine agiscano come rappresentanti d’uno Stato equanime e rispettoso dei diritti individuali.

Il carattere distintivo dello Stato, secondo un classico della sociologia, Max Weber, consiste nel monopolio legittimo della forza. Questo vuol dire che, a differenza di altre organizzazioni, non soltanto lo Stato pretenderebbe di essere il solo detentore degli strumenti di coercizione, ma che i cittadini dovrebbero essere d’accordo sul fatto che usi la forza per far rispettare la legge, che lo faccia nell’ambito delle legge.

È ovvio che di fatto lo Stato non è mai il monopolista, perché esistono sacche sociali e zone in cui la forza dominante e accettata è spesso un’altra. Ma se il monopolio della forza sfugge di mano allo Stato, se pezzi di territorio sono sotto il dominio di gruppi ribelli o della criminalità organizzata, l’intero impianto di comando si sgretola. L’assassinio in pieno giorno dello zio di un pentito di camorra va letto come una rivendicazione di potere sul territorio da parte della criminalità organizzata, come uno schiaffo allo Stato.

Ugualmente è sì inevitabile che ogni tanto l’uso pubblico della forza debordi un po’ dai confini delle legalità, ma quando lo sconfinamento si radica, quello Stato smette di esser un regime liberale. E, così facendo, mette a rischio non solo un asse portante della sua impalcatura democratica, ma anche le condizioni di sicurezza dei cittadini nei suoi territori. Se le forze dell’ordine non si comportano con lo stesso livello di correttezza con tutti gli individui che incontrano, siano essi stranieri o cittadini, bianchi o neri, cattolici o musulmani, i danni che possono derivarne alla convivenza civile sono gravi.

Atteggiamenti scorretti nei confronti delle minoranze etniche possono costituire, infatti, uno degli elementi, se non l’elemento chiave di potenti rivolte. Nel 1992 Los Angeles fu devastata da sommosse e scorribande dopo l’assoluzione di quattro poliziotti filmati mentre pestavano a sangue un uomo di colore.

Nel 2005 le banlieues parigine e altre città francesi esplosero con conseguenze talmente devastanti da costringere il governo a dichiarare lo stato d’emergenza. A motivare la rivolta c’era la fuga di tre ragazzi d’origine nordafricana che, per sottrarsi all’inseguimento della polizia, si erano nascosti in una centralina elettrica, due di loro erano morti. I tre accusati di furto, come fu chiarito, non erano coinvolti in nessun atto criminoso, ma la polizia faceva loro comunque paura. In quel quartiere era percepita come una potenza ostile.

Anche da noi, nel 2007 in via Paolo Sarpi a Milano, scoppiò una rivolta dovuta a quello che venne considerato, a torto o a ragione, un comportamento rude della polizia municipale. Sempre a Milano, tre giorni fa un papà senegalese viene ammanettato davanti al figlio che stava accompagnando a scuola, perché si era ribellato alla richiesta dei vigili di pagare una multa all’istante e non dopo aver fatto entrare il bambino. Gli altri genitori presenti alla scena si erano opposti invano.

Sarebbe davvero grave se, anche in Italia, una parte della popolazione che è in regola con la legge smettesse di legittimare le forze dell’ordine. Abbiamo già troppi criminali, troppi tifosi border line che lo fanno. Sussiste qualche dubbio che, nella già fragile coesione sociale del Paese, possa aprirsi in futuro anche il fronte immigrato, perché sussistono dubbi che immigrati e minoranze possano sentirsi male accolti e talvolta essere persino aggrediti in terra italiana. Ci sono varie inchieste sui fatti di Parma, dove uno studente del Ghana ha denunciato d’essere stato insultato e pestato dalla polizia municipale.

Rispetto alla signora italiana di origine somala, che ha accusato la polizia di frontiera di comportamenti razzisti e di umilianti indagini corporali, il ministero dell’Interno ha negato l’ipotesi e si è costituito parte civile. Non entro perciò nel merito di questi casi. Da anni ormai, le associazioni che si occupano d’immigrati ricevono informazioni che presentano un quadro variegato: da una parte si racconta d’una polizia dal volto umano, che evita di fermare badanti o nonne irregolari, dall’altra si lamentano una serie di comportamenti aggressivi e scorretti.

È bene non sottovalutare l’ipotesi che il razzismo possa annidarsi anche dentro nicchie delle forze dell’ordine. È bene non sottovalutare le possibili conseguenze di questo specifico razzismo in termini di disordine pubblico futuro. Anche questa dovrebbe essere una sensata preoccupazione di chi voglia garantire sicurezza nell’Italia di oggi e di domani.

Immigrazione: a Roma finito censimento di nomadi, sono 7.000

 

Corriere della Sera, 11 ottobre 2008

 

Alla fine il censimento si fermerà a quota 7.000 rom. Sono infatti 4.300 i rom a cui è stata distribuita finora a Roma la tesserala con la foto della Croce Rossa Italiana. Entro domani il censimento approderà a Villa Gordiani, ultima tappa, dove si stimano altri 200 rom. A quel punto l’operazione voluta dal Viminale si fermerà anche se non è completamente ultimata.

La pausa servirà comunque al Viminale, dove il ministro Maroni ha indicato fin da giugno questa dead-line di metà ottobre per poter tirare le prime conclusioni di un’operazione lunga, faticosa, tormentata e comunque portata ora a destinazione evitando gli iniziali eccessi che passavano attraverso la decisione di prendere le impronte digitali; operazione che grazie soprattutto al prefetto di Roma Carlo Mosca e alla sua ferma opposizione è stata evitata.

Mancano però all’appello ancora due campi molto importanti dell’hinterland romano, quello di Via Candoni alla Magliari dove le due etnie presenti (rumeni maggioritari e serbi in minoranza), per complessivi 600 rom, si sono rifiutate di prestarsi alla conta e soprattutto Castel Romano sulla Pontina, con altri 7-800 rom. Si tratta dunque di 1.500 rom che si vanno ad aggiungere ai 4500 censiti. In più, con questi 6.000 rom, andrà però considerata anche la diaspora rom nei mini-campi spontanei nati da giugno un po’ ovunque e che vengono costantemente monitorati dalla Polizia municipale con gli elicotteri.

Ieri il Prefetto ha comunque anticipato una prima stima: "Abbiamo censito seimila rom - ha detto, intendendo come risultato globale quello comprensivo anche dei campi come via Candoni e Castel Romanno, in effetti non ancora fatti -. Metà sono bambini e metà risultano non vaccinati e non scolarizzati. Quelli censiti nei campi abusivi contiamo di poterli sistemare al più presto in strutture regolari".

Alla fine dunque si scoprirà che i rom a Roma sono al massimo 7.000 e non 15-20 mila come all’inizio veniva comunemente valutata la presenza rom, da fonti diverse e qualificate come Caritas, Sant’Egidio, Servizi sociali del Comune, Prefettura. Non ci sono più tutti questi rom a Roma, sempre che ci siano mai stati. La presenza

appare dunque dimezzata rispetto a quella stima. Comunque sia resta molto alto il numero di rom che vivono in condizioni pessime, come quelle incontrate dagli stessi volontari della Croce Rossa in Via Morselli, sotto la Roma-Fiumicino, via Appia Nuova, via della Martora, via Pietra Sanguigna, via Flauto-Via Collatina, via Riserva di Lidia, via Boccabelli, alla Celsa sotto la Flaminia, alla Barbuta. A quota 4.000 rom censiti, i minori rappresentavano esattamente la metà, circa 2.000, di cui la metà scolarizzati. Poco più di 650 (15%) sono infine i rom privi di documenti, che sono stati identificati tramite due testimoni in possesso di documenti. Resta il che fare. In Comune se ne occupa un team composto dal generale Mori, dall’assessore Sveva Belviso e dal consigliere Samuele Piccolo. In Prefettura si sono già tenute riunioni con le realtà più corpose come il Casilino 900. L’orientamento è di lasciare insediamenti come il Casilino e Tor de Cenci, ripulendoli, dotandoli di fogne e quant’altro, cacciando delinquenti e irregolari.

Immigrazione: Torino; campi nomadi "vietati" ai pregiudicati

 

La Stampa, 11 ottobre 2008

 

L’Assessore ai Servizi Sociali Marco Borgione non vuole parlare di giro di vite. Ma tant’è: ieri in maggioranza ha spiegato le linee guida del nuovo regolamento per l’accesso dei nomadi ai quattro grandi campi cittadini di via Germagnano, strada dell’Aeroporto, via Leda e lungo il Sangone,

Prima di tutto l’autorizzazione rilasciata dall’Ufficio Stranieri si trasformerà in concessione. Questa novità consentirà all’amministrazione di richiedere anche un pagamento, una sorta di affitto del posto nel campo: "Abbiamo pensato a 6 euro al metro quadro da versare all’anno - ha commentato l’assessore - il che significherebbe più o meno un euro a famiglia, al giorno". Semplificando, si potrebbe parlare di una mini tassa di occupazione del suolo pubblico in aggiunta alle spese che i nomadi sostengono per le utenze (a cominciare dalla luce). Inoltre, chi risulterà proprietario di un immobile o anche assegnatario di una casa popolare non potrà ottenere la concessione.

La prima novità affronta due problemi: la capienza dei campi e la possibilità di usufruirne da parte di quanti ne hanno veramente bisogno. Restrizioni anche per chi non ha la fedina penale pulita o risulta agli arresti domiciliari: non potrà più ottenere l’ingresso.

"Più che una scure direi che si tratta di una razionalizzazione - ha spiegato l’assessore ai capigruppo di maggioranza - per mettere un po’ d’ordine nei quattro campi cittadini". Se tutto andrà bene - ma ieri nessuno ha protestato - fra due settimane la delibera arriverà in giunta e quindi passerà all’approvazione del Consiglio comunale.

Norme più severe dunque, nella gestione dei campi-nomadi. "Non c’è nessuna volontà punitiva - precisa Borgione -: è una questione di buonsenso. Chi è intestatario di un’abitazione non può occupare un posto nei campi, sottraendolo ad altri". Il che presuppone controlli rigorosi da parte del Comune ed un meccanismo da applicare uniformemente su tutto il territorio. Il modello ricalca uno dei vincoli previsti per accedere alla graduatoria della casa popolare.

Chi si è macchiato di reati gravi, passati in giudicato, aggiunge Borgione, perde automaticamente il diritto di vivere nei campi: "È prima di tutto una garanzia per chi vive all’interno del campo stesso".

Francia: il ministro della Giustizia chiede il carcere per i 12enni

di Alberto Toscano

 

Il Giornale, 11 ottobre 2008

 

I ragazzini a partire dall’età di dodici anni saranno responsabili di fronte alla giustizia francese e potranno essere internati in speciali carceri. Questa la decisione presa dal governo di Parigi e in particolare dalla ministra della Giustizia Rachida Dati, che ha compiuto ieri una visita in due centri di ritenzione della Francia nordorientale: a Roubaix e a Metz. In quest’ultimo carcere c’è stato di recente un caso di suicidio di un minorenne, circostanza che dimostra come la prospettiva di una giustizia inflessibile non possa - secondo il governo - disgiungersi dalla tutela di persone che rischiano di vivere una situazione di doppia pena: la privazione della libertà e l’esperienza di un ambiente ostile come il carcere degli adulti. La soluzione non può tuttavia consistere nella strategia dello struzzo: chiudere gli occhi di fronte agli atti illegali compiuti dai minorenni, il cui aumento è in Francia impressionante a partire dal 2001.

Dunque Rachida Dati - la cui gravidanza prosegue felicemente, anche se il nome del padre del suo bimbo viene trattato in Francia alla stregua di un segreto di Stato - ha deciso di riformare un vecchio testo legislativo dell’immediato dopoguerra, che metteva i minorenni in una sorte di botte di ferro davanti alla giustizia. La Dati ha creato una commissione consultiva su questo argomento e vuole ormai che i minorenni siano penalmente responsabili in prima persona a partire dall’età di dodici o al massimo tredici anni. Casi come quelli dei giovanissimi ladruncoli, che tornano immediatamente in libertà anche quando vengono colti sul fatto dalla polizia, non devono più essere tollerati in Francia, secondo la grintosa titolare della Giustizia.

Le linee guida dell’azione governativa di fronte al problema della criminalità minorile sono quattro. In primo luogo, appunto, l’abbassamento dell’età della responsabilità penale, con l’orientamento a lasciare al giudice un ampio margine di discrezionalità nella punizione dell’adolescente. In secondo luogo lo sveltimento dei processi a carico dei minori. Poi la realizzazione di un programma di speciali centri di ritenzione, evitando che persone giovanissime e psichicamente in difficoltà vengano associate alle normali carceri. Infine il potenziamento dei mezzi a disposizione della polizia e della gendarmeria, che verrebbe al tempo stesso liberata da mansioni di aiuto sociale ai minorenni perché questi compiti verranno più chiaramente affidati alle strutture civili competenti.

Il "piano minorenni" di Rachida Dati sta provocando un’ondata di polemiche tra i partiti di sinistra, che lo considerano "puramente e ingiustamente repressivo". Ma nell’opinione pubblica alcune vicende di cronaca hanno provocato un particolare allarme nel corso degli ultimi anni. Soprattutto nei quartieri periferici, ai margini delle principali città transalpine, agiscono bande di giovani e giovanissimi che agiscono con estrema violenza. Ci sono anche stati casi di omicidio, la cui responsabilità è stata attribuita a ragazzini di tredici o quattordici anni. Anche le "battaglie" tra le "bande di banlieue" toccano talvolta livelli di violenza difficilmente immaginabili. Nel conto va anche messo il commercio della droga, che vede i grossi spacciatori servirsi sempre più spesso di adolescenti allo scopo di approfittare della quasi impunità di cui questi ultimi beneficiano. Ieri la quarantaduenne "ministra di ferro", che è una fedelissima del presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, ha fatto chiaramente capire che anche per gli adolescenti il termine giustizia deve secondo lei far rima con quello di fermezza.

Angola: in carcere situazione al limite di umana sopportazione

di Fulvia Boniardi

 

La Voce d’Italia, 11 ottobre 2008

 

La situazione delle carceri della capitale angolana rispecchia la generale disorganizzazione del paese angolano e soprattutto la precaria attenzione dello stato a tutto ciò che non sia fonte di immediato guadagno.

I carcerati sono spesso considerati come la feccia della società. Don Roberto Musante, un salesiano argentino di 74 anni, ha scelto di accompagnare i giovani detenuti attraverso incontri settimanali di educazione ai diritti umani.

Entrare nella cadeia è come entrare in un film... dopo aver passato un unico e non troppo rigido controllo, si accede ad un patio diviso in due parti da una gradinata, da un lato un campo da calcio cementato, dall’altra uno spazio libero. I ragazzi si soffermano a guardare, fischiare, fare commenti; altri continuano nelle attività che li vedevano impegnati, lavano i panni, chiacchierano, si tagliano i capelli o la barba.

I carcerati sono divisi in caserme; alla mattina le persone di metà delle caserme vengono lasciate libere di circolare nel patio, al pomeriggio tocca all’altra metà. Il carcere in questione ha una capacità di 600 persone, ma al momento ospita 2.540 carcerati. Il palazzo è fatiscente, in molti dicono che presto potrebbe cadere; dal colloquio con alcuni dei detenuti più "antichi" si viene a sapere che nelle caserme dormono come se fossero in una ‘scatoletta di fiammiferi’, é questa l’espressione usata dal mio interlocutore; "non c’è spazio per i letti", spiega, "e anche i materassi sono difficilmente rintracciabili".

L’approvvigionamento dell’acqua é fatto attraverso i camion cisterna, ma nei periodi di molto traffico spesso il carcere intero può rimanere 2 o 3 giorni "a secco", in quei casi la puzza diventa asfissiante. Si mangia una sola volta al giorno, il pasto consiste in una brodaglia a base di fagioli. Gli incontri con Padre Roberto si svolgono tutti i giovedì mattina all’interno del refettorio; ogni settimana partecipano i detenuti di una caserma diversa.

All’entrare, i giovani carcerati (la media non supera i 25 anni) si siedono su dei banconi di cemento, Don Roberto, in piedi su un tavolo simile agli altri, cerca nell’ora e mezza a sua disposizione, di comunicare il valore della vita, la bellezza e l’importanza della famiglia, un legame sincero e duraturo come progetto per il futuro.

Insiste sul rispetto per le donne e soprattutto ribadisce il fatto che per aver commesso un errore non significa che il futuro sia compromesso, "tutti dobbiamo collaborare per il progresso dell’Angola, e dobbiamo trasformarci in protagonisti del cambiamento". L’attenzione è altissima, mentre don Roberto parla é impossibile non soffermarsi sullo sguardo di questi ragazzi, sulla speranza che brilla sul fondo dei loro occhi scuri.

Alla fine dell’incontro, usciti dal complesso e di nuovo sulla strada rossa per la terra angolana, in attesa del candongueiro che ci riporti verso casa, don Roberto rivela qualche sua impressione. Ammette che il pensiero che sempre passa per la testa è chissà quanto tutto questo servirà, ma la convinzione é che per lo meno, tornando nella loro caixa de fosforos (scatoletta di fiammiferi), oggi o domani, o in un giorno a distanza da questo breve incontro, penseranno alle parole ascoltate e ci rifletteranno... ma a don Roberto questo basta e avanza.

 

 

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