Rassegna stampa 24 gennaio

 

Giustizia: l'ergastolo, il carcere e la speranza

di Pietro Ingrao

 

La Repubblica, 24 gennaio 2008

 

In questi giorni un gruppo di ergastolani - cioè di esseri umani condannati a stare in carcere per tutta la durata della loro vita, fino alla morte - si è rivolto al Paese e alle autorità della nostra Repubblica per sollevare il problema della loro condizione esistenziale.

Chi sono? Che chiedono questi reclusi così distanti da noi? Attualmente essi vivono in una condizione che a me sembra terribile. Sono segregati in un luogo di detenzione per una decisione pubblica, che - a punizione dei loro crimini - li condanna a stare rinchiusi in una galera sino alla loro scomparsa dalla Terra. È dunque azione dello Stato che muta tragicamente tutto il loro esistere. È la prigione che dura fino allo spegnersi della vita.

Spesso, nelle vicende tempestose che ho attraversato e dinanzi alla sorte di tanti miei compagni finiti nella galera, mi sono trovato a riflettere sulla durezza rovinosa del carcere: dell’essere costretti dallo Stato a vivere rinchiusi come in una tana. E nonostante la gravità dei loro crimini, che avevano motivato quella decisione, essa mi appariva grave e devastante.

Eppure in quella reclusione agiva pur sempre la speranza che la gabbia del carcere si aprisse e il prigioniero potesse tornare nel fluttuare vasto e mutante del mondo libero. Questa speranza del detenuto - con la condanna all’ergastolo - viene stroncata alla radice.

È come il morire? No. È l’esistere, l’esperire umano nel vasto mondo che si restringe paurosamente: nel suo potere di cognizione e di relazione. Vengono mozzati l’azione e l’ascolto dell’essere umano: e il conoscere. E l’amare: non solo per il presente, ma per il domani, e per il domani ancora, fino alla morte, alla scomparsa dal vivere umano.

Perché ricorriamo a questa mutilazione cosi grave, così distruttiva e che incide su tutta la vita? Per fermare un crimine? Come questa motivazione mi ricorda l’illusione - così fragile - di realizzare l’innocenza con la paura... Sento che qui si apre il discorso così grave sulla punizione, e a che essa serva: se soltanto a fermare chi delinque o a riconquistarlo a una fratellanza. E s’allarga il pensiero sull’uso così largo che, ancora oggi, si fa della condanna a morte e che è come il segno della nostra incapacità o non volontà di salvare i nostri simili. Tornano tutte le aspre, complesse domande sulla funzione della pena: e se essa punti a punire, o anche a recuperare chi è caduto nel delinquere.

Quando mi unisco alla schiera che invoca una riflessione nuova sulla pena, e sia punire, scelgo la schiera della speranza. Non faccio opera di misericordia verso il peccatore. Lavoro per i miei fratelli viventi, per una dilatazione dell’umano. Tento un recupero dell’umano anche in chi ha ucciso.

È tutta l’idea della carcerazione e del punire che entra in discussione. Non rinuncio a punire. Ma mi interrogo su cos’è che valga quella decisione del giudice: la punizione; e se essa è solo vendetta o misura di protezione, o vuole, tenta di aprire un dialogo con il reo, e non vuole mai dimenticare che anche il reo è un essere umano. E tento un recupero dell’umano anche in chi ha ucciso. E qui il discorso si dilata. Va all’uso risorto, fiorente, dell’uccidere "statale", se è vero che oggi nelle diverse plaghe del globo hanno ritrovato spazio e legittimazione gli stermini delle guerre e le abbiamo ancora oggi dinanzi ai nostri occhi dolenti e spaventati.

E mi turba molto negare anche solo un grammo di speranza all’ergastolano e tacere dinanzi al pubblico il massacro di migliaia e migliaia, in Iraq e altrove.

Giustizia: Simspe; allarme nelle carceri, dilaga l'epatite C

di Susanna Jacona Salafia

 

La Repubblica, 24 gennaio 2008

 

È allarme sanità nelle carceri italiane, secondo un rapporto della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe). I dati sono estremamente preoccupanti: più della metà della popolazione carceraria presa in esame è affetta da svariate patologie. La denuncia giunge mentre la Finanziaria 2008 sancisce il trasferimento al ministero della Salute del personale e funzioni sanitarie del Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria (per il 2008 spesa complessiva di 157,8 milioni).

Il 62% dei detenuti di un totale di 1300 persone in 25 strutture carcerarie, del campione dall’indagine Gfk-Eurisko, necessita dunque di una terapia medica. Il problema non è solo confinato al carcere ma un pericolo anche per la salute pubblica se si considera che per il 28% queste malattie sono infettive e nella maggior parte dei casi si tratta di epatite C, coinvolgendo circa un quarto del campione. Una situazione che potrebbe scatenare una vera e propria epidemia, non solo nella popolazione carceraria, ma anche all’esterno, una volta che gli ex detenuti rientrano in società.

"L’epatite C dilaga ma non sempre i detenuti ricevono le cure adeguate", spiega Giulio Starnini, Direttore del Reparto di Medicina Protetta-Malattie Infettive dell’Ospedale Belcolle di Viterbo, "solo la metà di essi viene messo subito in terapia e, fra questi, un quarto dei pazienti non l’accetta. Un terzo dei pazienti in trattamento, poi, sospende la cura prima del previsto. Questo significa che su cento detenuti con epatite C sono 74 quelli che non seguono alcuna terapia o la interrompono prima". Ma perché l’epatite C è divenuta la "malattia del carcere"?

Ci sono alcune abitudini,legate alla tradizione della vita carceraria, che sono alla base di questa epidemia:la diffusa pratica del tatuaggio con ogni mezzo (aghi rimediati iniettandosi sotto pelle l’inchiostro delle penne a sfera) oltre, naturalmente,al sovraffollamento che costringe a stare in soprannumero in ogni cella, o, infine, stili di vita non sani, prima di entrare in carcere, come la tossicodipendenza.

"L’epidemia si diffonde perché il detenuto rifiuta le cure in carcere in quanto spera di usufruire così della legge per il suo trasferimento in ospedale/comunità o, nei casi gravi, essere rimesso in libertà", spiega Roberto Monarca presidente della Simspe.

Per affrontare seriamente questa situazione che rischia di esplodere la Simspe suggerisce, nel Documento di Indirizzo 2007-08, di riconvertire e potenziare i "centri clinici" presenti nelle varie strutture penitenziarie e riattivare lo staff sanitario presso la Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento.

Un organismo, quest’ultimo, dell’Amministrazione penitenziaria, che ha avuto finora solo compiti burocratici e di coordinamento(spostamento dei detenuti, ecc.) ma che dovrebbe divenire anche un centro di specifiche competenze per affrontare l’emergenza sanità delle carceri. In una parola, più mezzi e strutture per un azione incisiva sull’epidemia epatite C. Ma c’è anche un’altra patologia ad alta diffusione nelle carceri: la psoriasi, una malattia cronica della pelle che si manifesta con macchie rossastre.

Colpisce ben il 5%, in media, dei detenuti contro il dato della popolazione italiana che è del 3%. Questo secondo un indagine dell’Osservatorio nazionale "Psocare" un programma di ricerca sulla psoriasi promosso da Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco). Un centro pilota "Psocare" è stato cosi istituito di recente nel nuovo complesso di Rebibbia. di Roma (fornisce cure all’avanguardia per detenuti con psoriasi). E poi ancora un ampia diffusione di depressione e disturbi psicologici (nel 27% del campione) ma anche problemi cardiovascolari (9,7%), o osteoarticolari (10,1%).

 

Se solo il prete porta conforto

 

Cinquantadue suicidi e 4.276 atti di autolesionismo solo nell’anno 2006: il carcere è naturalmente, di per sé, causa di "depressioni e disturbi psichiatri" che rappresentano le più diffuse patologie tra i detenuti, nel campione esaminato. La legge del ‘75 sul nuovo ordinamento degli istituti penitenziari, prevedeva che in ogni carcere fosse presente uno psichiatra nei "Centri di Osservazione" con il compito, non solo di somministrare terapie, ma anche di provvedere al reinserimento in società.

La legge è stata applicata solo nelle carceri di Roma - Rebibbia, Livorno e Milano - San Vittore. I ritardi e le inefficienze in questo campo sono senz’altro alla base della situazione di oggi: le punte massime negli ultimi dieci anni si sono avute nel 2000 quando si sono registrati 6788 episodi di autolesionismo e nel 2001 quando 69 detenuti si sono tolti la vita. Un ruolo importantissimo rimane, così, al cosiddetto "prete delle carceri", confidente e confessore e spesso unica fonte di conforto e sostegno per i carcerati.

Giustizia: Ardita; presto sovraffollamento come nel 2006

 

Il Giornale, 24 gennaio 2008

 

Novantaduemila ingressi nell’arco di un anno. Per Sebastiano Ardita, direttore dell’area detenuti e trattamento del Dap, il Dipartimento dei penitenziari, è questo il dato più drammatico dell’emergenza carceri.

 

Perché, dottor Ardita?

"Perché in questo modo è impossibile programmare seriamente la vita nei penitenziari. Più che di prigioni, dovrei parlare di alberghi. Trentacinquemila detenuti restano in cella meno di un mese. Ma con questo flusso, con questo andirivieni, che rapporto vuole instaurare con i carcerati? E come è possibile lavorare per avviare un programma di recupero?"

 

Vuol dire che al massimo nelle carceri italiane si sopravvive?

"Purtroppo in questa situazione il carcere peggiora le persone".

 

Ma quasi 50mila detenuti non sono troppi?

"Io credo che potremmo anche gestirli, ma non in questo contesto. Cinquantamila carcerati con una condanna definitiva potrebbero essere accolti in un modo più adeguato, ma con passaggi rapidissimi, con uno smistamento continuo, è difficilissimo andare oltre il piccolo cabotaggio quotidiano".

 

Il Sappe "vede similitudini con l’emergenza Napoli". È colpa dei politici?

"Occorre riformare i codici. E il sistema processuale: oggi c’è troppo carcere preventivo, le condanne definitive invece sono virtuali".

 

Mille carcerati in più al mese. Torneremo al sovraffollamento del 2006?

"Sì, se non succede qualcosa. E sono gli stranieri ad aumentare. Con una progressione geometrica".

Giustizia: ritorna l’allarme sovraffollamento

di Gennaro Santoro (Associazione Antigone)

 

Aprile on-line, 24 gennaio 2008

 

Sistema penitenziario al collasso, novemila detenuti in più nel 2007. Gli ingressi dalla libertà sono stati 92mila, il 50% di soggetti stranieri (più 3,8% rispetto al 2006). In dodici mesi la popolazione detenuta è aumentata di 8.866 soggetti, più 20%. Sono alcuni dati che emergono dalla relazione annuale del Sappe e danno il quadro della situazione penitenziaria.

Oggi il Sappe, uno dei sindacati della polizia penitenziaria, lancia l’allarme sovraffollamento carcere: quasi 6000 detenuti in più rispetto alla capienza tollerabile (43140 unità).

Un dato allarmante che sarebbe diventato tragico se non vi fosse stato nel frattempo il tanto contestato provvedimento di indulto. Un provvedimento eccezionale che va difeso per le ragioni che seguono. Al 7 gennaio 2008 sono 48.788 le persone detenute contro le 61264 presenze pre-indulto. Se non vi fosse stato l’indulto saremmo arrivati alla cifra record (e "in sé" disumana) di 72.000 unità.

La situazione di oggi, dunque, conferma l’indifferibilità di quella misura. Vieppiù, il tasso di recidivi è calato dopo il provvedimento di clemenza: attualmente, secondo il Ministero della Giustizia, nelle carceri tale tasso è pari al 42%, era del 48% prima dell’indulto. Ancora, si dimentica che il tasso di recidiva per gli ex detenuti è, da decenni, pari al 68%, mentre quello relativo ai beneficiari dell’indulto si attesta al 27%. Ma, soprattutto, cade nella reiterazione del reato soltanto il 19% di chi ha usufruito di una misura alternativa.

Il vero fallimento è dunque del carcere che, in un certo senso, favorisce la commissione di nuovi reati. La vera alternativa, di conseguenza, non può essere identificata nella costruzione di nuovi edifici penitenziari quanto piuttosto nell’ampliamento del ricorso alle misure alternative che abbattono il tasso di recidiva e restituiscono maggiore sicurezza ai cittadini.

Ancora, secondo i dati dell’amministrazione penitenziaria, i risultati sono positivi sia per quanto riguarda la percentuale di revoche dell’affidamento in prova al servizio sociale che si attesta, negli ultimi anni, sul 4%, sia per il totale di revoche di tutte le misure alternative che raggiunge poco più del 6%. Tutto questo nonostante la crescita delle misure alternative sia stata costante ed esponenziale. Dal 1991, quando i casi erano meno di 5.000, si è giunti nel 2005 a quota 45.000.

Si dimentica troppo spesso, poi, che l’Italia è uno dei pochi paesi cosiddetti ‘occidentali’ (se non l’unico) dove il numero dei detenuti in attesa di giudizio è nettamente superiore a quello dei condannati definitivi (più del 60%!). Per queste ragioni risulta solo una comoda scorciatoia quella di inveire contro il provvedimento di clemenza.

Tale interpretazione è stata d’altronde sorretta dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nei mesi scorsi: "Già negli anni precedenti, infatti, si registrò un trend costante nel tempo, così da lasciare intendere come altre cause strutturali fossero alla sua base, essenzialmente legate alle disfunzioni del sistema penale". Senza l’indulto, dunque, "la situazione sarebbe stata esplosiva" e - fa notare Ferrara - avremmo avuto 70 mila detenuti per una capienza regolamentare di poco più di 43 mila posti." Il capo del Dap indica, dunque, in altre cause il considerevole aumento della popolazione carceraria di questi ultimi mesi: "Su un flusso di 100 mila unità, la seconda causa di carcerazione (18,5% dei casi) è costituita dalla violazione della legge sugli stupefacenti, mentre il 6,4% dei detenuti del periodo post-indulto è rappresentato da immigrati che hanno violato la legge Bossi-Fini ". Violazioni, giova ricordarlo, che nella stragrande maggioranza dei casi riguarda esclusivamente irregolarità amministrative relative al soggiorno "favorite" dal sistema stesso delineato dalla liberticida legge Bossi-Fini.

Il vero fallimento è dunque del carcere, quale istituzione totale deviante, e della caduta del welfare state, ed è su questi due punti che bisogna intervenire, partendo dal presupposto che la sicurezza in generale è garantita dalla sicurezza sociale. Il carcere, come si legge nell’ultima Relazione annuale al Parlamento sulla situazione della Giustizia "non reca così alcun beneficio al singolo in termini rieducativi, e non protegge la collettività, minandone la fiducia nella capacità punitiva del sistema penale".

Giustizia: in sette anni sono morti più di 1.200 detenuti

 

Il Gazzettino, 24 gennaio 2008

 

L’ultimo ad essere morto in carcere al Due Palazzi di Padova, a dicembre, è Artur Lleshi, l’albanese trentatreenne che era stato arrestato il 4 settembre scorso per la mattanza di Gorgo al Monticano. L’ultimo, perché dal 2002 al 20 gennaio 2008 in tutta Italia i decessi dietro le sbarre sono stati 1.218. In un terzo si è trattato di suicidi. È quanto emerge dall’inchiesta compiuta dagli stessi detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, che ogni mese aggiorna il dossier sulle morti in carcere. Il numero massimo di detenuti che si sono tolti la vita, spiega lo stesso mensile nella sua inchiesta, si è avuto nel 2001, con 69 casi.

Il numero minimo è stato invece registrato nel 1990, con 23 casi. Il tasso massimo di suicidio si è registrato nel 1982, con 17,8 suicidi ogni 10.000 detenuti e quello minimo nel 1990, con 7,3 suicidi ogni 10.000 detenuti. Nel 2007 si è avuto il numero più basso di suicidi degli ultimi 15 anni, ma per effetto della diminuzione della popolazione detenuta conseguente all’indulto si è registrato anche un tasso di suicidio molto elevato, che non era più stato raggiunto dal 2001 (11,6 suicidi ogni 10.000 detenuti).

L’ultimo carcerato morto è stato un ex cadetto militare egiziano, deceduto per cause naturali in una stanza della comunità Oasi dove si trovava per un permesso di alcuni giorni. Era stato condannato a sedici anni per un omicidio compiuto a Trieste. Nel 2005 si era ucciso, invece, un romeno ventiseienne che aveva ridotto in fin di vita un padovano durante un incontro a sfondo omosessuale. E sempre tre anni fa si era impiccato un palermitano trentacinquenne, recluso al Due Palazzi per rapina.

Giustizia: Cgil; chi ha Bmw e Porsche... e chi divise logore

 

Il Gazzettino, 24 gennaio 2008

 

Il Dap ha i soldi per noleggiare 36 Bmw e 2 Porsche Cayenne, inutilizzate, ma non per comprare le divise degli agenti. Ci sono anche i soldi per acquistare fotocopiatori-fax ultra moderni, ma non per prendere anche i computer che li dovrebbero far funzionare. E, intanto, le celle continuano a essere affollate nonostante l’indulto dell’estate del 2006. Insomma, oltre le sbarre nulla di nuovo. La denuncia arriva da Giampietro Pegoraro, agente della polizia penitenziaria e segretario regionale della Fp-Cgil.

36 Bmw e 2 Porsche Cayenne in leasing. "A ognuno dei diciotto provveditorati, quello che ha sede a Padova compreso - attacca il sindacalista - sono state assegnate due Bmw330i che costano, ciascuna, mille euro al mese essendo state prese in leasing. Il problema è che queste vetture non possono essere utilizzate a livello di Provveditorato in quanto dipendono direttamente dall’Amministrazione centrale.

Così, quelle arrivate a Padova hanno percorso non più di seimila chilometri e quando il Provveditorato Triveneto ha chiesto di poterle usare sono state spostate in altre sedi, tra cui ad esempio Bologna. Complessivamente di queste Bmw ce ne sono trentasei, e tutte sottoutilizzate. A Roma, invece, ci sono le due Porsche Cayenne, blindate".

Di contro i mezzi di servizio a disposizione della polizia penitenziaria sono pochi e spesso datati: "Abbiamo alcuni furgoni per il trasporto dei detenuti che sono vecchi e inquinanti - riprende Pegoraro - e l’Uepe, l’ufficio che si occupa di chi continua a scontare la pena fuori dal carcere, ha un solo veicolo a disposizione. Quei trentaseimila euro al mese che si spendono per le Bmw, perciò, rappresentano un grosso e inutile spreco vista la situazione che è drammatica. È incomprensibile come l’Amministrazione penitenziaria sprechi i soldi pubblici".

Fotocopiatori moderni ma che non funzionano. "Questo è un altro spreco - riprende il sindacalista - in quanto sono stati acquistati fotocopiatori con il fax incorporato che però non funzionano in quanto mancano i computer necessari. Prima di comprarli non era meglio sincerarsi che fossero utilizzabili? Anche in questo caso, invece, il denaro pubblico è stato speso inutilmente a discapito di altre esigenze primarie, come ad esempio la ristrutturazione degli edifici penitenziari o l’assegnazione di fondi per saldare i vari debiti che ogni istituto ha con gli enti locali e nazionali per l’acqua, l’energia elettrica e il riscaldamento".

Le divise? Sono poche e anche della taglia sbagliata. Le divise arrivano con il contagocce, spesso sono della taglia sbagliata e di solito se le pagano gli agenti. Per la precisione, in tutto il Triveneto mancano 1.785 capi della grandezza giusta mentre ne sono state spedite 1073 delle dimensioni giuste ma in esubero. E poi ce ne sono altre 545 arrivate di taglie non richieste, e dunque inutili. "La mancanza di forniture - sottolinea Giampietro Pegoraro - va avanti da diversi anni nonostante ci siano precise scadenze previste dal regolamento.

Così, spesso il personale è costretto ad arrangiarsi pagando di tasca propria la riparazione dei capi. Ai più fortunati, invece, il vestiario arriva ma della taglia sbagliata. Per non parlare delle giacche a vento che ci sono state assegnate per l’inverno. Hanno le mostrine della Polizia di Stato e non della Polizia Penitenziaria, così la distribuzione è stata sospesa. Insomma, giriamo con divise usurate ed è tanto l’imbarazzo quando andiamo nei tribunale a scortare i detenuti".

Giustizia: Ucpi; sprechi e inefficienze, sistema condannato

 

L’Occidentale, 24 gennaio 2008

 

"Escludere l’avvocatura dalle inaugurazioni dell’anno giudiziario in cui si traccia un bilancio dei dodici mesi precedenti equivale a certificare un falso". Dopo avere assistito alla prima inaugurazione di un anno giudiziario curata dalle Camere penali italiane ora sappiamo anche il perché. La dura frase di esordio, per la cronaca, è dell’avvocato Giandomenico Caiazza, che delle Camere penali di Roma è il segretario pro tempore.

Dietro a questa affermazione ci sono tutti quei dati che nelle pompose cerimonie in Cassazione (proprio venerdì 25 ci sarà quella nazionale mentre il giorno dopo quelle dei 120 distretti di corte d’appello presenti in Italia) non emergono mai. Così come non emergono nelle successive inaugurazioni curate dai presidenti delle corti d’appello delle principali città italiane.

Non meno duro è stato il saluto del presidente delle camere penali italiane Oreste Dominioni che non ha risparmiato stoccate per l’ex ministro Guardasigilli ora caduto in disgrazia: "Nel suo progetto di riforma che doveva leggere il giorno che invece ha dovuto parlare di sua moglie e dell’inchiesta che lo riguarda erano contenuti assurdi riferimenti alla certezza della pena che si traducevano in inasprimenti della carcerazione preventiva". Commento dei presenti nell’aula magna della corte d’appello civile di Roma: "Già, la legge del contrappasso".

E quali sono questi "dati nascosti"? Ad esempio che in una città come Roma si spendono 8 milioni di euro per pagare i depositi giudiziari delle auto e dei motorini rubati o abbandonati, mentre le toghe si lamentano della mancanza persino delle risme di carta per scrivere le sentenze.

O che a Bologna un processo medio dura dieci anni e sei mesi di cui otto anni sono di "tempi morti" in cui un fascicolo aspetta di essere portato da un piano all’altro. O che a Catanzaro, patria giuridica di magistrati molto esposti mediaticamente come Luigi De Magistris, gli errori giudiziari risarciti ogni anno sono circa duecento.

O che a Milano i giudici si sentono "depressi" (hanno mandato una lettera a Mastella per questo,ndr) per il fatto che, dopo l’approvazione dell’indulto, sono costretti a emettere sentenze per pene che non verranno applicate. Come se il loro compito istituzionale, foriero di soddisfazione professionale, fosse quello di constatare che il carcere sia la giusta ricompensa per l’imputato, e non semplicemente l’accertamento della verità dei fatti.

Contro tendenza anche i dati sulla legge Gozzini così come snocciolati dal vicedirettore del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), il magistrato Emilio Di Somma, il quale praticamente dice che la legge Gozzini se non ci fosse la si dovrebbe inventare perché è solo grazie a essa che si riesce a ridurre dell’80% il grado di recidività dei delinquenti. E quindi a produrre in definitiva più sicurezza per la società. E che anzi questa legge è "troppo poco applicata dai giudici di sorveglianza" che non avendo i mezzi di valutazione e avendo paura di finire in prima pagina (perché qualcuno magari la combina grossa) nel dubbio rigettano l’80% delle istanze di pene alternative alla galera. E il restante 20%? Ha un grado di recidività inferiore all’1%, laddove quelli che si fanno in carcere l’intera pena tornano a delinquere con percentuali che sfiorano il 70%.

Ma la vera ciliegina sulla torta di questa specie di contro inaugurazione dell’anno giudiziario l’ha portata un altro magistrato, il genialoide capo dei Gip di Cremona, Pier Paolo Beluzzi. Uno che da solo ha informatizzato tutti i fascicoli processuali della sua città (insieme al proprio autista che gli fa da braccio) e che adesso ha esportato il suo metodo anche a Brescia e a Milano mentre il ministero di via Arenula negli anni ha fatto di tutto solo per mettergli i bastoni tra le ruote.

A scanso di equivoci il metodo, che si chiama "Digit" è completamente gratis per la pubblica amministrazione e non nasconde brevetti o altri interessi. È il semplice uovo di Colombo di scannerizzare in pdf tutte le pagine delle sentenze che con una postazione base e un lavoratore all’uopo impiegato permette di andare a ritmi di oltre duemila pagine al giorno. Il che significa che con quattro persone per distretto di corte d’appello si risolverebbero in pochissimi mesi tutti i problemi di arretrato, innestando un circolo virtuoso che costa un decimo dei soliti addetti messi alle fotocopie a sfornare tonnellate di carte per mesi interi.

Oltretutto, a Cremona hanno impiegato i detenuti a fare il lavoro socialmente utile di scannerizzare le sentenze e gli atti, incrementando in maniera fattiva il loro reinserimento nella società.

Recentemente era finito sui giornali il caso dei difensori degli imputati per pedofilia di Rignano Flaminio; questi hanno clamorosamente rinunciato a prendere visione degli atti a loro carico dato il costo proibitivo per diritti processuali nell’ordine dei 20 mila euro a cranio.

Ebbene a Brescia, con il semplice metodo del Gip Beluzzi, è stato informatizzato tutto il lavoro della nuova istruttoria per la strage di piazza della Loggia del 1974: qualcosa come 930 mila pagine di atti processuali che i difensori adesso potranno prendere in visione su tre semplici dvd rom da 25 giga l’uno pagando soltanto i 250 euro a dvd previsti dalle nuove tariffe fiscali. A fronte di costi per diritti processuali superiori ai 40 mila euro se questi atti fossero stati fotocopiati con i metodi tradizionali. Inutile dire che questo metodo potrebbe essere utilizzato anche per la giustizia civile che è la vera malata incurabile dell’intero sistema.

Ma questo gip Beluzzi non è solo un genio organizzativo incompreso, bensì anche un magistrato che corre il rischio di venire azzoppato dalla propria stessa casta per la dose eccessiva di onestà intellettuale che dimostra nelle proprie relazioni pubbliche. Ad esempio, ha raccontato un aneddoto sulla reazione di un suo collega pm dopo che lo aveva al corrente del metodo Digit: "Già bravo, ma così le parti conosceranno gli atti come li conosco io che ci lavoro da due anni e per me sarà più difficile vincere le cause". Chiara l’antifona?

I magistrati che prosperano sotto il corporativismo dell’Anm e la politicizzazione del Csm, hanno come unico scopo, non l’accertamento dei fatti, ma il vincere le cause anche a costo di mandare in carcere un innocente.

Un’ultima notazione sempre a proposito dei bastoni tra le ruote che sinora ha incontrato il progetto "Digit" del gip Beluzzi a livello ministeriale: i calcoli a braccio dei costi per riorganizzare tutti i fascicoli in maniera informatica parlano di cifre infinitamente inferiori a quelle suggerite nei folli metodi studiati da Mastella per sveltire le pratiche magari abolendo il giudizio di appello (pur sapendo che il 51% delle sentenze viene riformate in tutto o in parte nel secondo grado) o comprimendo le garanzie processuali degli imputati.

Per fare quell’enorme mole di lavoro per il processo della strage di piazza della Loggia sono stati spesi solo 45 mila euro ma il ministero non ci ha voluto mettere una lira. E allora il gip di Cremona e il pm di Brescia Giancarlo Tarquini, d’accordo con le parti e gli imputati, hanno optato per una sponsorizzazione istituzionale da parte della provincia di Brescia, della Regione Lombardia e del comune di Brescia.

Con 15 mila euro a testa hanno fatto risparmiare tanti soldi anche allo stato che se ci avesse dovuto mettere degli addetti a fotocopiare tutte quelle pagine avrebbe dovuto impiegare non meno di sei persone, sei macchine e sei mesi di lavoro. Così ora imputati e parti civili di quel processo hanno dei dischetti con sopra impresso il logo delle tre istituzioni pubbliche che ci hanno messo i soldi. Finirà che per farla funzionare tutta la giustizia in Italia dovrà essere sponsorizzata da qualche ente. Magari anche privato.

Infine, a proposito delle omissioni nelle relazioni inaugurali dell’anno giudiziario, sarà solo un caso che, nei rispettivi distretti di corte d’appello, mancano sempre i dati sui risarcimenti per le ingiuste detenzioni? A Catanzaro, terra di inchieste su veline e personaggi dello spettacolo, nei tre anni passati la media si è attestata sui 200 risarcimenti accordati all’anno. E anche sulla lunghezza dei processi esistono dati certi rilevati dall’Eurispes sul campione di quasi duemila processi nel distretto di corte di appello di Roma: il 9.3% dei rinvii dipendono da assenze del giudice o irregolarità della composizione del collegio, contro il 2,3% imputabile a problemi dell’imputato o dell’avvocato. Ma dove la cifra di divario si fa stratosferica è nel momento delle testimonianze in aula: si rinvia solo nel 9,6% dei casi per problemi dei testi della difesa contro il 28,9 per cento di quelli che invece riguardano i testi dell’accusa.

All’inaugurazione degli avvocati è venuta anche una signora, parte lesa in un processo a Roma contro la clinica Pio XI, che ha raccontato il proprio calvario non di imputato ma di parte civile. Il figlio è finito in coma dopo un intervento per la rottura di una caviglia e dal 2004 ancora si deve celebrare il processo di primo grado con il rischio che la cosa vada in prescrizione e i responsabili la facciano franca. Ebbene in quasi quattro anni e mezzo il pm ha fatto pochissimi atti processuali e cinque rinvii assolutamente non dovuti a problemi degli imputati. Nel frattempo la signora ha bisogno di 3500 euro al mese per mantenere in vita il giovane ragazzo e lo stato le passa una pensione di invalidità da 250 euro e un accompagno da 450. Anche questa è giustizia all’italiana.

Giustizia: caso Mastella; serve misura e responsabilità

di Francesco Bretone (Pubblico Ministero a Bari)

 

www.radiocarcere.com, 24 gennaio 2008

 

Pubblichiamo la mail inviata dal dottor Francesco Bretone alla mailing list del Movimento per la Giustizia, con l’autorizzazione dell’autore.

Sarò franco. L’arresto della moglie del ministro della Giustizia è una storia che non mi piace per due ragioni. La prima, che è stata disposta da un magistrato che si è dichiarato incompetente per territorio. Non basta trincerarsi dietro l’art. 27 c.p.p., bisogna comprendere che la nostra azione ha a volte, come in questo caso, effetti devastanti e bisogna non solo essere, ma apparire al di sopra di ogni sospetto.

Allora io mi chiedo quali ragioni di urgenza hanno indotto i colleghi ad adottare una misura cautelare nei confronti di una persona incensurata per una tentata concussione, moglie del ministro della giustizia, senza avere la possibilità di investire l’Autorità Giudiziaria competente? Il messaggio, che è passato tra i cittadini, è che una piccola Procura e un piccolo Tribunale di un paese, che la maggior parte delle persone neanche sa dove sta, si sono permesse di attaccare direttamente - senza essere competenti - il ministro della giustizia e sua moglie. Ci dobbiamo preoccupare di ciò oppure no? Io credo di sì perché non bisogna essere al di sopra di ogni sospetto (e sicuramente i colleghi lo sono, ma apparire tali.

La seconda ragione. La performance del procuratore di Santa Maria Capua Vetere, che prima convoca una conferenza stampa e poi si rifiuta di rispondere alle domande con il teatrino che ne è conseguito, ha avuto effetti deleteri sulla nostra immagine (e voi vi preoccupate di Cossiga che ormai nessuno sta più a sentire! La vogliamo vedere la trave che sta nel nostro occhio; le parole di Mastella sono eversive, ma quanto contribuisce la nostra azione a svilire la stessa magistratura e a mettere a rischio il sistema democratico?).

Questa storia non può non ricordarmi la vicenda del Re Vittorio Emanuele, arrestato dalla Procura e dal Gip di Potenza dove non ha mai messo piede, caricato su una macchina e trasportato alla sua età per mille Km nel carcere di Potenza per essere interrogato da un magistrato incompetente territorialmente. E che fine ha fatto quella indagine? Archiviata dalla Procura competente, non ricordo quale.

Prima del codice e delle norme occorre misura, senso di equilibrio, responsabilità perché anche attraverso la nostra azione passa la tenuta del sistema democratico e quell’Anm, sempre tirata per la giacchetta, dovrebbe solo dire che noi siamo 8.000 - 9.000 e ognuno risponde solo delle proprie azioni. Se un magistrato sbaglia pagherà, ma non è giusto chiamare in causa sempre l’intera magistratura.

Ho riletto la mia e-mail, e sembrerà che voto per l’Udeur e che simpatizzo per la monarchia. Chi mi conosce sa che nulla è più falso, sono soprattutto un amante della libertà e della democrazia e chi ha studiato la storia sa quanto ogni sistema democratico si poggia su equilibri delicati. Noi con la nostra azione siamo in grado di spostare questi equilibri e questo è fonte di orgoglio per il nostro importante lavoro, ma anche di enorme responsabilità.

Giustizia: caso Mastella; malagiustizia insegue malapolitica

di Stefano Pesci (Pubblico Ministero a Roma)

 

www.radiocarcere.com, 24 gennaio 2008

 

Le ripetute e sempre più ravvicinate scosse telluriche che investono il delicato rapporto politica/giustizia hanno spesso un epicentro comune: l’incontro tra una pessima politica ed una cattiva giustizia. Ne è esempio evidente l’ordinanza del Gip di Santa Maria Capua Vetere, nella quale uno sottobosco impressionante di malaffare e di malgoverno della cosa pubblica, portato ad emersione dalle indagini, viene gestito da quegli uffici giudiziari in modo assai discutibile (formulazione di addebiti pressoché insostenibili; scelta di emettere provvedimenti cautelari urgenti con contestuale dichiarazione di incompetenza, e così via).

La miscela è devastante, perché alimenta contrapposte ed assai perniciose spinte emotive: da un lato il disprezzo qualunquista della politica, dall’altro la tentazione di limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e di sottrarre l’azione politica ad ogni effettivo controllo di legalità. Occorre evitare che queste spinte prevalgano, e mantenere la lucidità e la serenità di giudizio.

Soprattutto dovremmo cercare di mantener ferma la consapevolezza che non esistono scorciatoie giudiziarie: l’unico antidoto appropriato alla cattiva politica è la buona politica. Quella che non sprofonda nell’inerzia e nell’intrallazzo, ma fa nei tempi dovuti i termovalorizzatori, quella che gestisce la sanità valutando i meriti e trascurando le appartenenze, quella che sa imporre all’elettorato anche scelte impopolari, ove necessarie. Quella capace di costruire il consenso sulla qualità delle proposte e non sulla coltivazione di clientele a colpi di assunzioni mirate e raccomandazioni.

Nello stesso tempo, e specularmene, non esistono scorciatoie per superare le carenze del sistema giustizia: l’unico rimedio alla "cattiva giustizia" è la costruzione di una giustizia più rapida, più efficiente, più responsabilizzata.

Occorre quindi anzitutto snellire le procedure, come tutti oramai riconoscono; passando dall’attuale "rito barocco" ad un processo vivente finalmente al passo con i modelli vigenti negli altri paesi dell’Unione ed incentrato sul contraddittorio affidato a parti responsabili. Sul punto sono sul terreno varie proposte, talune anche assai equilibrate.

Bisogna poi esigere un salto di qualità nella direzione degli uffici giudiziari: il cittadino ha diritto ad avere uffici trasparenti, efficienti, in grado di interloquire virtuosamente, pur se nel rispetto dei ruoli istituzionali, con i vari soggetti che, nella società, hanno interesse alla qualità della giurisdizione. È evidente che, in tale prospettiva, la magistratura dovrà superare, in tempi rapidi, alcuni retaggi oramai del tutto incompatibili con la buona amministrazione della giustizia: la gerontocrazia, la diffidenza nei confronti di una valutazione effettiva delle qualità e dell’impegno individuali, la mentalità corporativa con annessa "sindrome da torre d’avorio".

Infine - ed è oggi il punto certamente più delicato - è necessario ribadire che il precetto costituzionale secondo il quale i magistrati sono soggetti solo alla legge, non implica affatto irresponsabilità e sottrazione ai necessari controlli. Il punto è delicato, per l’ovvio rischio di interferenze con l’indipendenza, ma è oramai ineludibile. Non si tratta di inventare nulla di nuovo, ma di costruire un serio circuito di responsabilizzazione a partire da quanto già esiste, individuando le criticità (rilevanti) dell’attuale sistema al fine di renderlo assai più efficace. Occorre in primo luogo rivisitare la funzione direttiva dei capi degli uffici: i dirigenti devono essere responsabilizzati sulla gestione trasparente, efficiente ed equilibrata dell’ufficio, con individuazione di obbiettivi e linee guida imperniate sul perseguimento di una sempre migliore qualità della giurisdizione. Coinvolgendo nelle valutazioni - con modalità e forme diverse, in correlazione al diverso ruolo istituzionale - i magistrati dell’ufficio, l’avvocatura e la società civile.

Il Csm deve rappresentare, a sua volta, il soggetto istituzionale "garante" della qualità della giurisdizione. E deve essere dotato, a tal fine, degli adeguati poteri, anche di immediato intervento autonomo, nei casi più gravi. Infine noi tutti, a partire dall’Anm dovremmo dare un segnale forte ed unitario: difendere le prerogative della magistratura non significa in alcun modo assicurare tutela corporativa ad ogni singolo collega, in ogni singola vicenda, quali che siano i comportamenti. Al contrario: la sottolineatura dei ritardi e delle resistenze nell’attivare un circuito autonomo di responsabilizzazione rappresenta una leva potente in mano a coloro che mirano a ridurre l’autonomia e l’indipendenza.

Giustizia: caso Mastella; distinguere tra diritto e morale

di Giuseppe Frigo (Unione Camere Penali)

 

www.radiocarcere.com, 24 gennaio 2008

 

È uno tra i primi ammonimenti agli studenti che si affacciano alla facoltà di giurisprudenza: tenere distinto il diritto dalla morale, tanto più quando si tratta di diritto penale, che dovrebbe essere - come si dice - "residuale", eccezionale. Un altro, proprio con riguardo al diritto penale: è vietata l’applicazione analogica dei reati. Se un fatto, per quanto riprovevole o riprovato dalla coscienza comune (o per tale ritenuto), non è previsto come reato dalla legge, l’autore non può essere punito con una sanzione penale. Sono o dovrebbero essere ovvietà, oggetto appunto di insegnamenti elementari.

Ma nella realtà sembra sempre più spesso che non sia così; accade che la norma incriminatrice venga "piegata" a perseguire fatti, anche scorretti o di malcostume, ma difficilmente riconducibili a quella norma.

Chi si cimenta in queste operazioni sono di solito alcuni magistrati del pubblico ministero, che ritengono di essere investiti, non tanto e non solo di una funzione d’indagine e semmai di esercizio dell’azione penale secondo rigidi parametri giuridici, ma anche e soprattutto di una funzione più generalmente "moralizzatrice", donde l’esigenza, se occorre, di "piegarvi" anche l’uso delle norme procedurali, superando gli eventuali ostacoli che esse, in ipotesi, frappongono e conseguire così lo scopo medesimo, magari in via anticipata: a esempio, le norme sulla competenza (la cui esatta applicazione potrebbe sottrarre loro l’indagine) ovvero quelle sui rigorosi presupposti per applicare traumatiche misure cautelari, che, se adeguatamente rispettati, impedirebbero di fare rapidamente, per così dire, "piazza pulita", con effetti quasi sempre devastanti più di un giudizio definitivo di condanna.

In questo cimento, peraltro, occorre il concorso di un giudice, di solito quello per le indagini preliminari, che ovviamente deve condividere e approvare, da garante (quale lo vorrebbe la legge), le scelte del pubblico ministero. Se ciò avviene, come spesso avviene, il "successo" è assicurato. Ma si tratta - dal punto di vista del sistema giuridico - di un corto circuito di tipo distruttivo.

Quanto è accaduto nei giorni scorsi alla signora Lonardo Mastella può ben costituire uno dei (purtroppo non pochi) casi da manuale di questo esercizio sui generis della giustizia penale. Basta leggere l’imputazione, estrapolandone i dati di fatto (veri o non veri che siano, non importa nulla).

Al direttore di una azienda ospedaliera sarebbero state date "indicazioni" di persone gradite e sgradite per nomine a certi posti di primario e di personale tecnico-amministrativo. Egli non le avrebbe accolte e per questo sarebbe stato fatto oggetto di una interpellanza in Consiglio regionale per una verifica di idoneità al ruolo, nonché ad un "isolamento politico" e ad una denigrazione a mezzo stampa delle sue capacità. Ciò, secondo il pubblico ministero, costituirebbe un tentativo di concussione (verificatosi nella prima metà dell’anno scorso), per il quale ha chiesto e ottenuto dal giudice un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari, nell’ambito di un contesto molto più ampio e articolato in cui si ipotizzano molti altri reati di tale genere, espressione di un’associazione a delinquere quasi identificata in un intero partito politico o in una buona parte di esso. Tutto, peraltro, di competenza di un giudice territorialmente diverso.

Secondo il lessico garbato dei giuristi di una volta, quella configurazione giuridica si sarebbe detta quantomeno "ardita" (per dire, in realtà, stravagante o palesemente infondata). Ma, anche nel diritto penale, ci sono sempre … i pionieri. E bisogna accettarli. Solo che, almeno, ci vorrebbe prudenza nelle procedure. Così non si va per il sottile: il tentativo concussorio è fallito? Non ci sono più le condizioni di una replica né il pericolo per le prove o per una fuga? Suvvia, qualche esigenza cautelare con un po’ di fantasia, di esperienza e di espressioni di stile si trova sempre.

Già, ma non sarebbe meglio lasciare decidere al giudice davvero competente, cui comunque si dovranno al più presto trasmettere tutte le carte? Questo mai, è contrario a quegli stessi scopi. Del resto, anche il giudice incompetente può provvedere, in caso di urgenza. E dov’è mai qui l’urgenza? Non facciamo gli ingenui, l’hanno capito tutti. L’urgenza è che domani il marito della signora, che è ministro di giustizia, deve tenere in parlamento la relazione annuale sullo stato appunto della giustizia. E se non è urgenza questa! C’è persino la regola del contrappasso. Il copione, a questo punto, prevede e sconta applausi e grida dal popolo dei giustizialisti, che si alimenta sempre di violazione delle regole quando lo scopo è fare giustizia, moralizzando il paese: vedere su internet. Che botto, ragazzi!

Giustizia: "braccialetti elettronici", ecco che ci riprovano...

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Italia Oggi, 24 gennaio 2008

 

Si riparte con la sperimentazione del controllo a distanza e dei braccialetti elettronici, dopo il fallimento della prima esperienza. L’ex guardasigilli Clemente Mastella, nella sua relazione annuale sullo stato della giustizia italiana, scrive: "In materia di custodia domiciliare, sia a titolo cautelare che di espiazione di pena, sta partendo in questi giorni la sperimentazione di 400 braccialetti elettronici, che assicureranno continuativamente la localizzazione della persona interessata sul luogo di detenzione e renderanno impossibili i comportamenti elusivi.

La garanzia di efficacia derivante da questo controllo permanente consentirà alla magistratura di utilizzare con maggiore fiducia, e migliore profitto per le esigenze di tutela della collettività, le misure alternative alla detenzione in carcere". Si riparte dalla Lombardia affermando che i costi, rispetto al passato, sarebbero stati abbattuti. Tutto ebbe inizio con il pacchetto sicurezza. Non quello dell’ottobre 2007 bensì quello di sette anni fa, quando ministro della giustizia era Piero Fassino. Con il decreto legge 341 del 24 novembre 2000 recante disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’amministrazione della giustizia fu introdotto nel codice di procedura penale l’articolo 275-bis il quale prevedeva che "nel disporre la misura degli arresti domiciliari anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere, il giudice, se lo ritiene necessario in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, prescrive procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, quando ne abbia accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria.

Con lo stesso provvedimento il giudice prevede l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione dei mezzi e strumenti anzidetti". Si partì poi sette mesi dopo, il 2 maggio 2001, con 350 cavigliere elettroniche a disposizione di procuratori e poliziotti di cinque città: Roma, Milano, Napoli, Catania e Torino.

Il primo detenuto sorvegliato elettronicamente risiedeva a Napoli. Dichiarò l’allora ministro degli interni Enzo Bianco: "Tra 45 giorni faremo una prima valutazione della sperimentazione, e decideremo se allargarne l’applicazione ad altre città. Dal braccialetto ci attendiamo maggiore sicurezza e la ragionevole certezza che chi è agli arresti domiciliari non vada per la strada a commettere altri reati".

Il braccialetto di allora era nero, costruito con materiale antiallergico e munito di un cinturino a prova di manomissione e a tenuta stagna; andava applicato alla caviglia e avrebbe dovuto far scattare l’allarme se il detenuto che lo indossava si fosse allontanato dal raggio di azione prestabilito o avesse tentato di manometterlo. A poche settimane dall’entrata in vigore della legge un colombiano agli arresti domiciliari si diede alla fuga.

Il 21 luglio 2002 un boss della mafia siciliana, malato di Aids, riuscì a fuggire insieme al proprio braccialetto elettronico dall’ospedale Sacco di Milano, dove era ricoverato agli arresti domiciliari.

I costi si aggiravano sui 3 milioni di euro. Il noleggio del ministero degli interni aveva un prezzo altissimo: 30 euro al giorno a favore delle cinque ditte produttrici. Alla questura catanese, che avrebbe voluto usarlo nel 2002, una di queste ditte, l’inglese On Guard Plus, responsabile per l’Italia della fornitura dei braccialetti, rappresentò l’impossibilità a fornire l’apparecchio in quanto la stipula della convenzione con il ministero dell’interno era stata sospesa, visti i mancati pagamenti. Adesso si riparte. Dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dicono che il ministero degli interni avrebbe ridotto drasticamente i costi rispetto al passato. Grande soddisfazione è espressa dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, Sappe, per il riavvio della sperimentazione, questa volta nella sola Milano.

Giustizia: qualcuno conosce il lavoro "di pubblica utilità"?

di Desi Bruno (Garante dei diritti dei detenuti di Bologna)

 

Il Domani, 24 gennaio 2008

 

Solo gli addetti ai lavori e pochi altri sanno che recenti riforme legislative hanno introdotto la possibilità di applicare la pena del lavoro di pubblica utilità, consistente nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province o i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato.

Infatti a norma dell’art. 54 del D.L.vo 28 agosto 2000 il giudice di pace può applicare, a richiesta dell’imputato, la pena come descritta, anche se per violazioni per cui non è prevista pena detentiva. Anche il giudice monocratico, a seguito dell’emanazione della recente legge in materia di stupefacenti può, ai sensi dell’art. 73 comma V-bis l. 21.02.2006 n. 49, su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero, nel caso di fatti di lieve entità, commessi da persone tossicodipendenti o da assuntori di sostanze stupefacenti e psicotrope, qualora non debba concedere la sospensione condizionale della pena, sostituire pene detentive e pecuniarie con il lavoro di pubblica utilità.

Nella auspicata riforma del codice penale, il cui progetto è stato varato dalla Commissione presieduta da Giuliano Pisapia, si dà ampio spazio al lavoro di pubblica utilità, come sanzione alternativa al carcere, nel condivisibile ma impopolare intento di destinare la misura estrema del carcere solo a fatti criminosi di rilevante gravità e di individuare sanzioni penali orientate al rispetto della libertà personale e alla ricaduta positiva che le stesse devono avere sulla collettività.

In altri termini la sanzione deve essere non dettata dalla volontà di vendetta, che non può essere perseguita dall’ordinamento di uno Stato di diritto, ma perseguire finalità di rieducazione anche attraverso forme di riparazione e dì restituzione. L’attività non retribuita a favore della collettività deve svolgersi sulla base di convenzioni con il Ministero di Giustizia o su delega di questo, con il presidente del tribunale nel cui circondario sono presenti gli enti nominati.

Di recente è stata approvata una convenzione in questo senso è stata stipulata dal Presidente del Tribunale di Roma e dal Sindaco di Roma e anche la Provincia di Bologna si sta muovendo in questa direzione. Non sembra facile far decollare nuove forme di sanzione, capaci di riparare la collettività e anche di avere una finalità deflattiva rispetto all’ingresso in carcere di persone che necessitano interventi di sostegno, come nel caso di quanto previsto dalla legge in materia di stupefacenti: la sanzione del lavoro di pubblica utilità non è in pratica mai applicata, in assenza delle apposite convenzioni, necessarie per individuare appunto gli enti presso cui svolgere l’attività non retribuita.

Il che significa che questa previsione normativa è disapplicata da chi avrebbe l’obbligo di renderla operativa. Non è facile abbandonare l’idea che la sicurezza si coltivi sempre con la carcerizzazione ai danni dei colpevoli, anche per fatti modesti, senza interrogarsi sul futuro delle persone e sul loro ritorno nel tessuto sociale.

Eppure la possibilità di una riparazione verso la comunità violata e ferita da un reato, che è diversa dalle forme risar-citorie previste nei confronti delle vittime, attraverso la messa a disposizione delle proprie capacità e del proprio lavoro rappresenta un percorso obbligato per la ricostituzione di un rapporto tra la collettività e l’autore del reato.

Il lavoro socialmente utile o di pubblica utilità può aiutare gli enti pubblici a perseguire le loro finalità, specie quelle a tutela delle categorie svantaggiate, e l’autore di reato può sentirsi coinvolto in un percorso che lo valorizza come persona responsabile, contribuendo a far sì che la comunità rimargini le ferite, più o meno gravi, conseguenti ai reati. In tempi di sovraffollamento umiliante, come è di nuovo la situazione del carcere a Bologna come altrove, e senza che questo in nessun modo stia aiutando le persone a vivere in modo più sicuro e sereno, va con tenacia coltivata l’idea che soluzioni alternative al carcere, in molti casi, si possono e si devono trovare.

Giustizia: bando I.S.S.P. per valorizzare le "buone prassi"

 

Comunicato stampa, 24 gennaio 2008

 

L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari di Roma ha emanato un Bando di concorso indirizzato a tutte le strutture del Dipartimento, con scadenza il 30 marzo 2008, per la realizzazione del Piano Esecutivo di Azione del 2007 "Ri-Conoscere e valorizzare le esperienze nel Dap". Il concorso intende valorizzare le "buone prassi" e le esperienze più significative in campo trattamentale e gestionale con la raccolta dei migliori esempi; dare un riconoscimento alla capacità progettuale e realizzativa di persone, di gruppi di lavoro e di organizzazioni pubbliche o private quali partner significativi dell’Amministrazione penitenziaria; segnalare e valorizzare i progetti eccellenti diffondendone la conoscenza per trasferire soluzioni e modelli efficaci di trattamento e organizzazione tra realtà e strutture differenti. I primi tre classificati per ogni area di concorso saranno premiati e riceveranno un finanziamento per il potenziamento dell’attività premiata o per la realizzazione di nuove iniziative. Per le modalità di partecipazione scaricate il bando (in formato pdf).

Giustizia: diritti umani, luci e ombre dell’impegno italiano

di Simonetta Pitari

 

www.inform.it, 24 gennaio 2008

 

Luci e ombre dell’impegno italiano per i diritti umani: se ne è parlato in un incontro promosso da 360° Sud, Amnesty International e Traduttori per la Pace. Presentato il libro di Antonio Marchesi "Diritti umani e Nazioni Unite. Diritti, obblighi e garanzie". Italia "sorvegliata speciale" dalle organizzazioni che si occupano di diritti umani. E che registrano contraddizioni nell’impegno del nostro Paese in questo ambito.

Luci e ombre. Forse più ombre che luci, per dirla con le parole di Riccardo Noury, portavoce della sezione Italiana di Amnesty International, intervenuto a un incontro nella libreria di Roma 360° Sud. All’incontro - organizzato da Consorzio 360° Sud, Gruppo Italia 105 di Amnesty e dall’associazione Traduttori per la Pace - hanno preso parte anche Mauro Palma, presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, nonché presidente onorario dell’associazione Antigone; Andrea Spila, vice presidente di Traduttori per la Pace; Antonio Marchesi, docente di diritto internazionale all’Università di Teramo.

Occasione, l’uscita del libro di Marchesi "Diritti umani e Nazioni Unite. Diritti,obblighi e garanzie" (Franco Angeli editore). Antonio Marchesi fa parte dell’Osservatorio nazionale sulle carceri di Antigone, è stato presidente della sezione Italiana di Amnesty e collabora tuttora con il segretariato generale dell’organizzazione, nonché con diverse organizzazioni internazionali non governative e intergovernative. Il volume appena pubblicato, da una parte vuole essere strumento utile all’insegnamento della protezione internazionale dei diritti umani; dall’altra, per stessa ammissione dell’autore, ha "l’ambizione di andare oltre la pura e semplice descrizione a fini informativi o didattici, per proporre una o più chiavi di lettura dell’attuale fase di sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani".

Un libro per addetti ai lavori, ma utile anche sul piano divulgativo,come ha osservato Andrea Spila, nell’incontro introdotto da Federica Fioretti di 360° Sud. Andrea Spila nel ruolo delle Nazioni Unite ripone fiducia - "ci credo molto" - e non condivide gli "atteggiamenti ambigui" quando non addirittura "denigratori" di "molti attivisti del movimento della pace" nei riguardi dell’Onu. Il cui ruolo, oggi "visto più come entità di Stati che di popoli" e "bloccato dai veti di alcuni Paesi", andrebbe rilanciato come "governo del mondo", ha detto Vincenzo Pira, dell’Agenzia Onu Unops, che era fra il pubblico, alla presentazione del libro di Marchesi.

Un volume che esce a dieci anni da un’altra sua pubblicazione ("I diritti dell’uomo e le Nazioni Unite. Controllo internazionale e attività statali di organi internazionali") e che illustra con quali modalità, risultati, limiti, potenzialità, i diritti umani sono entrati a far parte del sistema giuridico della comunità internazionale.

E in Italia? Luci e ombre si diceva. Secondo Marchesi, in generale, all’Italia manca "la cultura politica dei diritti umani" e una "educazione", che dovrebbe cominciare già nelle scuole. Forse è radicata l’erronea convinzione che "il problema dei diritti umani riguardi Stati meno sviluppati del nostro" .

Forti contraddizioni nell’impegno italiano. Da un lato, come ricordato da Noury e Marchesi - il recentissimo successo dell’Italia per quanto riguarda l’iniziativa di moratoria della pena di morte, votata dalle Nazioni Unite. Dall’altro, il nostro Paese non si è ancora dotato di una norma che preveda il reato specifico di tortura. Eppure nel lontano 1987 aveva ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura… Per ironia della sorte, la discussione della proposta di legge, ferma da tempo al Senato, era stata calendarizzata per giovedì 24 gennaio, giorno in cui in Aula si decideranno le sorti del governo guidato da Prodi.

Luci e ombre. Nel 1998 l’Italia del primo governo Prodi ospitò la Conferenza internazionale che adottò lo statuto della Corte penale internazionale. Dieci anni dopo l’Italia non ha ancora posto rimedio alla situazione che la vede, quasi unica in Europa, a non avere norme statali di attuazione dello statuto di Roma. Ancora: nel 2005, l’Italia respinse pubblicamente la tesi britannica che riteneva sufficienti le "assicurazioni diplomatiche" quale condizione per espellere persone verso Stati in cui è diffusa la tortura; nel 2007, di fronte a un ricorso contro la stessa Italia davanti alla Corte di Strasburgo, il nostro Paese "ha cambiato idea sostenendo la tesi contraria", hanno detto Marchesi e Noury. Che osservano anche con preoccupazione la "timidezza" dell’Italia nell’affrontare la questione dei diritti umani in Cina, colosso con il quale il nostro Paese cerca di stringere sempre più rapporti. Indice accusatore di Noury su Prodi che "ha fatto di tutto per far togliere l’embargo delle armi". Amnesty ha tra l’altro promosso una campagna per chiedere alla Cina l’adozione e l’attuazione di riforme nel campo dei diritti umani, in occasione delle Olimpiadi di Pechino 2008.

Sia Noury che Marchesi hanno inoltre segnalato "l’ambiguità, e non da oggi, dei rapporti tra Italia e Libia". Il nostro Paese ha stipulato accordi con il governo libico i cui contenuti "sono sconosciuti" o "non sono stati resi noti in modo esauriente" .

Ed è proprio di questi giorni l’allarme rosso di diverse organizzazioni, tra cui Cir e Amnesty, dopo l’annuncio del governo libico di voler espellere "senza eccezioni" (così è detto in una nota del governo) gli immigrati irregolari. Si prefigura una "deportazione di massa", ha rimarcato Noury. Una "deportazione" della quale saranno vittime anche numerosi richiedenti asilo e rifugiati, provenienti in maggioranza dal Corno d’Africa, donne e minori. Amnesty e le altre organizzazioni chiedono che l’Italia sospenda gli accordi con la Libia in materia di immigrazione, e riveda la sua partecipazione al programma Frontex.

La Libia è un Paese che, tra l’altro - ha ricordato Noury - non hai mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui i rifugiati e viola il principio di ‘non-refoulement’ che stabilisce che i rifugiati non possono essere rimpatriati in un Paese dove corrono rischi di persecuzione.

Sulle "ambiguità" dei governi italiani nelle relazioni con la Libia si è espresso anche Mauro Palma a capo di un organismo indipendente di controllo che ha compito di prevenzione: del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sono stati pubblicati, in italiano, i rapporti 2004 e 2006 sulle istituzioni italiane. Ma un organismo che, proprio per la sua natura, deve tenere continui contatti con le autorità nazionali. Vigile ma anche dialogante con i governi, il Comitato si "infila negli interstizi positivi per produrre cambiamenti".

E solo in condizioni estreme può rompere il vincolo di segretezza e rendere una dichiarazione pubblica. Con l’Italia ci si è andati vicini nel 2004, ha raccontato Palma, quando il governo Berlusconi rinviò in Libia 1728 persone in sei giorni. Una espulsione collettiva. Il Comitato è un organismo dialogante. Ma dipende anche dall’interlocutore. Per quanto riguarda il vincolo delle procedure di espulsione Palma ha affermato che il dialogo del Comitato con il ministro Amato è stato diverso, in senso positivo, rispetto a quello che ci fu con il ministro Pisanu e il commissario europeo Frattini, al tempo dell’esecutivo Berlusconi.

In Italia, comunque, si continuano a osservare tempi lunghissimi per l’adozione di strumenti di garanzia dei diritti fondamentali delle persone, che, ha puntualizzato Palma, "vanno tutelate indipendentemente dal fatto che possano aver commesso reati, anche gravi".

Italia dei ritardi. Ritardi che discendono da motivazioni prima di tutto culturali, come "non conoscenza, palese e allarmante, dei meccanismi istituzionali; sfiducia negli strumenti del diritto internazionale per i diritti umani e nei meccanismi di controllo; tendenza a pensare che sia efficace solo ciò che è sanzionatorio".

Se il nostro Paese sconta ritardi di ordine legislativo è dovuto a ragioni prima di tutto culturali. Siamo gli unici? Quest’anno cade il 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Trenta articoli. In quanti li avranno letti? Basti la testimonianza di una religiosa, docente in due Università pontificie, che al termine dell’incontro ha raccontato come tra i suoi 150 studenti, provenienti dall’Italia e dall’estero, solo tre abbiano letto la Dichiarazione. Solo tre. E non sono italiani.

Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 24 gennaio 2008

 

Vincenzo, dal carcere Pagliarelli di Palermo

Caro dottor Arena, le ho già scritto l’altro mese ma non avendo visto la mia lettera temo che non gli sia arrivata, così le scrivo di nuovo nella speranza che questa mia, indirizzata a Radio Carcere, riesca ad arrivare. Deve sapere che sto in carcere dal 1997. Ovvero, dieci anni e qualche mese. Le scrivo per farle capire come funziona male la magistratura di sorveglianza qui. Mi sono stati rigettati 8 semestri di liberazione anticipata sul presupposto che io in quel periodo ero indagato per il reato di evasione dagli arresti domiciliari. Il fatto è che successivamente per questo reato di evasione io sono stato assolto. Di conseguenza ho riscritto al magistrato di sorveglianza allegando la sentenza di assoluzione e chiedendo di nuovo la concessione di qui 8 semestri di liberazione anticipata. Ma purtroppo il magistrato di sorveglianza non ha risposto alle mia istanza. Allora ho riscritto e riscritto ancora. Ma nulla. Nessuna risposta. Le dico che la mia ultima istanza è datata 2 novembre 2007. Ho anche cercato un avvocato, ma non avendo soldi capirà bene quanto è difficile trovare chi mi difenda. Il mio è solo un piccolo caso, che può essere significativo.

Purtroppo accade che alcuni magistrati di sorveglianza rispondano con ritardo alle istanze di chi è in carcere. Ma la non risposta è un fatto ancora più grave. Voglio pensare che sia un errore. Ci tenga informati.

 

Gianni, dal carcere Marassi di Genova

Cara Radio Carcere prima di tutto grazie per la Vostra attenzione ai problemi di noi detenuti, per noi siete come un faro nella nebbia. Ti abbiamo già scritto della grave situazione che si vive qui nel carcere di Marassi di Genova e purtroppo la situazione ad oggi non è cambiata. Oltre al problema del sovraffollamento noi qui nel carcere di Marassi abbiamo il problema del mangiare. Il vitto che ci fornisce il carcere oltre ad essere cattivo (quasi immangiabile) è poco e se dovessimo mangiare solo quello faremmo la fame. Pensa solo che ci sono dei giorni in cui ci danno solo carote e uova crude. Per questa ragione siamo costretti a comprare i beni alimentari del sopravvitto che purtroppo ha dei prezzi elevatissimi. Ora hanno rinnovato il contratto per l’azienda che fornisce i beni del sopravvitto e non ti nascondo la nostra preoccupazione. Perché qualche deputato non fa un’indagine su come vengono gestiti questi beni? La legge prevede che i prezzi dei beni che possiamo comprare in carcere non sia superiore alla media dei supermercati della zona. Ma qui in carcere i prezzi sono molto più alti. Inoltre, ti volevamo segnalare che qui molti ragazzi detenuti, che sono definitivi, non lavorano da anni e questo è per noi un enorme problema. Con stima.

 

Silvia, da Roma

Caro Arena, mi chiamo Silvia. Vorrei sapere a chi ci si deve rivolgere per far notare il degrado in cui i detenuti di Regina Coeli sono costretti a vivere. Tra i vari articoli leggo che nonostante l’elevato costo per i lavori di ristrutturazione, la situazione è sempre disagiata.

I bagni sono considerati vere e proprie latrine, l’umidità mangia i muri, gli stessi muri presentano crepe, la luce dalle finestre filtra poco (c.d. bocca di lupo), per il sovraffollamento c’è chi è costretto a dormire per terra, i riscaldamenti sono in funzione solo in pochi se non in un solo braccio. Eppure le carte internazionali sui diritti dell’uomo e le carte nazionali come la nostra costituzione promuovono i principi di vita dignitosa, come mai questa dimenticanza così fondamentale in questo carcere? Andando in Cassazione invece tutte le strutture sono in buono stato, i muri bianchi, riscaldamenti accesi. Nella speranza che questo stato di degrado sia solo una dimenticanza di chi invece deve tutelare l’integrità fisica e psichica e gli strumenti per attuarla, chiedo a chi ci si possa rivolgere per ricordare tale situazione? La ringrazio.

 

Michele, dal carcere di Cassino

Cara Radio Carcere, nella mia cella sto leggendo un libri di Aleksandr Solgenitsin e questa frase mi ha colpito: "Finestre con le sbarre o con una rete metallica. Nelle stanze tanti lettini e su ogni lettino c’è un uomo sbigottito. Nessuno a voglia di discutere in quella stanza. Nessuno ha più voglia di sognare un mutamento". Come vedi, cambiano gli anni, ma la situazione in carcere è sempre la stessa. Le tanto declamate evoluzioni sociali non comprendono questi universi chiusi che sono le carceri. Così le nostre vite, quelle dei detenuti, assomigliano sempre più a orologi rotti. Per molti di noi la prigione serve solo a capire cosa sia l’annientamento della persona. E francamente è questo un prezzo eccessivo da pagare. Buon lavoro Riccardo!

 

S., dal carcere di Benevento

Caro Arena, ho 25 anni e sono detenuto nel carcere di Benevento da circa 22 mesi. Ti scrivo per raccontarti come sono finito in carcere con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Nel 2002 ho fatto una rapina e sono stato condannato con patteggiamento. Poi una nuova ipotesi delittuosa: associazione a delinquere. Quindi di nuovo il carcere.

Secondo gli investigatori io sarei associato di una non meglio precisata associazione perché con la notevole cifra di 150 euro avrei finanziato progetti criminali. 150 euro! Credo che solo in Basilicata si riesca ad arrivare a tanto. Ti dico solo che il Pm titolare dell’indagine è uno di quei giudici, ora trasferito dal Csm perché coinvolto nell’indagine delle toghe lucane.

Inutili i miei sforzi di dimostrare la mia innocenza. Sembra che il fatto che io sia pregiudicato basti e avanzi. Mentre il processo va avanti cerco di sopravvivere. Io ricco mafioso, in carcere. Mentre il processo va avanti aspetto che mi consentano di incontrare i miei familiari che non vedo da quasi 2 anni. Con questo la saluto cordialmente.

 

Rocco, dal carcere di Lamezia Terme

"A Radio Carcere. Ho 22 anni e sono detenuto dal gennaio del 2007. Sono incensurato e ho commesso un terribile sbaglio, ovvero il reato di rapina che mi ha portato in carcere. Il fatto è che io vorrei essere giudicato ma, anche se hanno terminato le indagini a settembre, ancora non è stata fissata una prima udienza. Sono disperato e mi sento perso. Tanto che ho anche tentato il suicidio alla fine di ottobre. Vorrei solo che iniziasse il mio processo in modo da potermi difendere e anche essere condannato a una pena giusta. Ma ti assicuro che stare in carcere per 10 mesi senza processo è massacrante. Anche un colpevole come me ha diritto a vedersi giudicato.

 

Maurizio, dal carcere di San Remo

Caro Riccardo ho 43 anni e una condanna ingiusta che mi ha portato in carcere. Ti dico solo che quando ci penso, non so neanche io come sono finito qui dentro. Già qui dentro. Dentro questo vortice più grande di me. Sono siero positivo e ho gravissimi problemi alla vista. Per me il carcere non ha speranza. Ho smesso di prendere la terapia e vado avanti con le gocce, gli psicofarmaci che ti danno qui dentro. Il che significa che passo la maggior parte del mio tempo sul letto a dormire. Perché è meglio dormire che non vivere il carcere. Gli educatori dicono che sono apatico. Ma la verità è che io non ho più fiducia in nulla e mi sento perso. Per il resto qui nel carcere di San Remo non c’è nulla per noi detenuti, se non l’ora d’aria.

Caro Riccardo smetto di scriverti perché ho le lacrime agli occhi, ma tu devi sapere che ti seguo sempre, sia sul Riformista che a Radio Radicale, ogni martedì.

Oggi, come ieri, gli i detenuti che riescono a dare un senso alla pena sono due. Quelli particolarmente fortunati. O quelli che hanno la forza di aiutarsi da soli. Dal carcere nulla o poco arriva. Perché il carcere gestisce corpi e non persone.

Giustizia: le Associazioni si mobilitano per Susanna Ronconi

 

Redattore Sociale

 

Contestata la partecipazione a un progetto per l’inserimento nel mondo del lavoro di ex detenuti finanziato dalla provincia di Lodi e dalla regione Lombardia. "Pubblico linciaggio che le impedisce ogni attività lavorativa".

Le associazioni si erano già mobilitate per lei, quando la nomina a membro della nuova Consulta nazionale sulle tossicodipendenze, creata dal ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero, aveva sollevato un vespaio di polemiche, fino a costringerla alle dimissioni. Susanna Ronconi, ex brigatista, è oggi di nuovo al centro di accese discussioni; le viene contestata la partecipazione a un progetto per l’inserimento nel mondo del lavoro di ex detenuti finanziato dalla Provincia di Lodi e dalla Regione Lombardia. A difendere le sue ragioni don Luigi Ciotti (Presidente Gruppo Abele e Libera), Paolo Beni (Presidente Arci), Lucio Babolin (Presidente Cnca - Coordinamento nazionale comunità di accoglienza), Patrizio Gonnella (Presidente Antigone), padre Camillo De Piaz, Franco Corleone (segretario Forum Droghe), Grazia Zuffa (direttrice "Fuoriluogo"), primi firmatari di un appello in solidarietà per l’ex militante di Prima Linea, che - spiegano "dopo aver scontato molti anni di carcere, da tempo è impegnata nel lavoro sociale e nel volontariato, in particolare sui temi delle tossicodipendenze e dell’esclusione sociale".

Le associazioni contestano quella che viene definita "una persecuzione e un pubblico linciaggio, che impediscono alla Ronconi di svolgere ogni attività lavorativa". Secondo i firmatari del documento, "c’è un processo di progressivo deterioramento delle regole del diritto e del clima culturale".

"Negli anni scorsi, numerosi opinionisti ed esponenti di partiti avevano sostenuto che gli ex terroristi andavano dissuasi dal parlare, scrivere, presenziare, occuparsi di politica, essere impiegati in enti pubblici o istituzioni. - scrivono - Ora, con la vicenda di Lodi, pare essere stata introdotta una proibizione extra legem ancora più drastica: gli ex terroristi non devono, tout court, più poter lavorare". Un ostracismo che viene giudicato "né giusto né accettabile in uno stato democratico e di diritto".

 

Il caso Ronconi. Cronaca di un’ordinaria persecuzione

 

Il "Corriere della Sera" del 22 gennaio ha pubblicato - con molta evidenza, parecchie imprecisioni e altrettante omissioni - un articolo dal titolo "Fondi al progetto dell’ex Br. Bufera sulla Provincia di Lodi".

In verità, la bufera ancora non c’era, ma è stata provocata dall’articolo nel quale, attraverso l’intervista a un rappresentante dell’Associazione vittime del terrorismo, si esprimeva disappunto e indignazione: "Questa notizia è una nuova offesa e una ulteriore sofferenza per tutti noi. La Ronconi è stata fatta uscire dalla porta per farla rientrare dalla finestra".

Il riferimento è alle dimissioni che lo scorso anno Susanna Ronconi è stata costretta a dare, dopo una virulenta campagna politico-mediatica, dalla Consulta nazionale sulle tossicodipendenze.

Ma qual era questa notizia? Ha scritto il quotidiano: "Con i soldi, 60 mila euro, della Regione Lombardia (centrodestra), la Provincia di Lodi (centrosinistra) affiderà all’ex terrorista Susanna Ronconi (Brigate rosse e Prima Linea) il progetto "Lavoro debole" per l’inserimento nel mondo del lavoro di detenuti ed ex detenuti presenti sul territorio lodigiano".

In realtà, il progetto non è stato affidato a Ronconi, ma vede come titolari una rete di associazioni e cooperative sociali. Ronconi - che, giova ricordare, ha scontato per intero la propria condanna ed è stata tra le prime a dissociarsi dal terrorismo e ad ammettere i propri errori - collabora nella veste di esperta e consulente con una di queste. Dalla prima tranche del progetto, per il suo lavoro, durato un anno e mezzo, ha ricevuto dalla cooperativa sociale 7.500 euro lordi.

Questa la realtà delle cose, sottaciuta dal quotidiano nel suo articolo. Subito dopo il quale è cominciato un triste scaricabarile tra assessori, sino a una dichiarazione della Provincia di Lodi di non assumere altre iniziative che vedano coinvolti ex terroristi.

Se questa decisione si confermasse, si introdurrebbe così un gravissimo e incredibile precedente, in base al quale l’ente pubblico si potrà arrogare il diritto di sindacare sui dipendenti o collaboratori di qualsiasi azienda o, appunto, associazione e cooperativa intrattenga rapporti economici con esso. Fatto che dubitiamo possa considerarsi legale e che, a questo punto, potrebbe estendersi nei confronti di chiunque delle centinaia di ex terroristi che, scontata la condanna, lavorano in vari ambiti, compreso il Terzo settore che, ovviamente, intrattiene rapporti anche economici con enti pubblici, fornendo servizi e occupandosi di welfare. Alla faccia delle leggi e della Costituzione.

Dunque, grazie alla "bufera" sollevata ad arte, Ronconi ha perso, o comunque rischia concretamente di perdere, la possibilità di lavorare alla seconda tranche del progetto lodigiano, ma è facile prevedere che tale accanimento nei suoi confronti produrrà effetti ancora più drastici, allargati e duraturi. Infatti, chi si azzarderà in futuro a proporle un qualsiasi lavoro con la certezza del pubblico linciaggio?

Sull’insanabile dolore e sulle ragioni dei parenti delle vittime non si discute, ma qui pare essere in atto una vera e propria persecuzione. Proprio su questa vicenda, un autorevole giornalista che in questi anni ha scritto diversi libri con i familiari delle vittime, per dare loro visibilità, voce e sostegno, nel suo blog ha censurato gli attacchi a Susanna Ronconi, parlando esplicitamente di "caccia all’uomo". In questo caso, peraltro, si tratta di "caccia alla donna", elemento che forse c’entra qualcosa con il particolare e ricorrente accanimento proprio nei suoi confronti.

Negli anni scorsi, numerosi opinionisti ed esponenti di partiti avevano sostenuto che gli ex terroristi andavano dissuasi dal parlare, scrivere, presenziare, occuparsi di politica, essere impiegati in enti pubblici o istituzioni. Ora, con la vicenda di Lodi, pare essere stata introdotta una proibizione extra legem ancora più drastica: gli ex terroristi non devono, tout court, più poter lavorare. Noi pensiamo che ciò non sia né giusto né accettabile in uno stato democratico e di diritto.

A distanza di oltre 30 anni non si riesce ancora a voltare la dolorosa pagina dei conflitti armati degli anni Settanta e ogni tentativo di storicizzazione e riconciliazione è rimasto arenato e bloccato dai contrasti, dalle miopie e anche dalle strumentalizzazioni politiche.

Per ricomporre quelle fratture e, per quanto possibile, sanare quelle sofferenze è probabilmente troppo presto. Oppure troppo tardi. Ma non possiamo rassegnarci alla vendetta senza fine e all’imbarbarimento di regole e sentimenti pubblici. Chiediamo a tutti di aderire a questo testo, in solidarietà con Susanna Ronconi e con quanti altri venissero a trovarsi in analoga situazione.

 

Radicali: decisione provincia di Lodi vergognosa

 

Radicali: "decisione provincia di Lodi vergognosa; si vuole fare "tabula rasa" attorno a Susanna Ronconi non per le sue colpe passate ma per la sua attività presente".

Dichiarazione di Giulio Manfredi (Giunta di Segreteria Radicali Italiani) e Nathalie Pisano (Comitato Nazionale Radicali Italiani): "La decisione della Provincia di Lodi di negare i finanziamenti ad un progetto di reinserimento dei detenuti del carcere locale solamente perché era coinvolta nell’iniziativa Susanna Ronconi è vergognosa.

È bastato un pezzo del "Corriere della Sera" per indurre un’amministrazione di centrosinistra a far propri i peggiori pregiudizi della Lega Nord, negando l’evidente: Susanna Ronconi ha pagato interamente il suo debito con la giustizia e da oltre vent’anni ha investito tutta la sua intelligenza nelle politiche sulle dipendenze e contro il disagio sociale; ha lavorato sulle unità di strada, a Torino, contribuendo a salvare le vite di cittadini tossicodipendenti in overdose; ha poi utilizzato le conoscenze acquisite sul campo per diventare uno dei più autorevoli esperti, in Italia, in materia di riduzione del danno, in strada e in carcere.

Cosa c’è dietro la persecuzione della presidente di Forum Droghe? Non è che si prende a pretesto le sue colpe passate per fare "tabula rasa" intorno a lei (che, tra l’altro, non riceve 60.000 euro direttamente dalla Provincia di Lodi ma 10.000 euro lordi in due anni da una cooperativa sociale), per farle pagare la sua gravissima colpa attuale, quella di essere una persona non omologata né omologabile, che dice sempre quello che pensa e che, anche nella recente vicenda relativa alle polemiche sulla narco-sala di Torino, ha contribuito a smascherare non solo e non tanto la malafede del centrodestra ma soprattutto la malafede e l’ipocrisia del centrosinistra?".

 

Le adesioni possono essere comunicate a: gruppoabele.milano@fastwebnet.it o a appelli@fuoriluogo.it, specificando le eventuali qualifiche o appartenenze.

 

Primi firmatari dell’Appello: don Luigi Ciotti (Presidente Gruppo Abele e Libera), Paolo Beni (Presidente Arci), Lucio Babolin (Presidente Cnca - Coordinamento nazionale comunità di accoglienza), Patrizio Gonnella (Presidente Antigone), padre Camillo De Piaz, Franco Corleone (segretario Forum Droghe), Grazia Zuffa (direttrice "Fuoriluogo").

Firenze: ex detenuti al lavoro con la cooperativa "Organica"

 

In Toscana, 24 gennaio 2008

 

Dare una risposta lavorativa agli ex detenuti e al tempo stesso contribuire alla riduzione dell’inquinamento. È questo il duplice obiettivo del progetto "Aria pulita" ideato dalla cooperativa sociale "Organica" costituita e gestita da detenuti ed ex detenuti del carcere di Sollicciano. Questo e gli altri progetti della cooperativa sono stati presentati a Palazzo Vecchio dall’assessore comunale alle politiche sociosanitarie Graziano Cioni e l’assessore regionale Gianni Salvadori e da Francesco Amato e Matteo Riccobono rispettivamente presidente e vicepresidente della cooperativa sociale "Organica".

Erano presenti anche il consigliere comunale del Pd Nicola Perini e Francesco Salemi commissario comandante della Polizia Penitenziaria di Firenze Sollicciano. "Questo progetto come le altre attività della cooperativa Organica interviene su una problematica reale - ha dichiarato l’assessore Cioni - ovvero quello degli ex detenuti che una volta usciti dal carcere non trovano lavoro. È una concreta occasione per offrire a queste persone la possibilità di sperare in un futuro migliore e di recuperare la dignità attraverso il lavoro.

Per questo ci impegneremo per individuare le modalità con cui sostenere questa attività lodevole oltre che utile". Anche l’assessore regionale Salvadori ha ribadito l’importanza del lavoro della cooperativa. "Si tratta di un modo concreto e reale per garantire il reinserimento sociale dell’ex detenuto attraverso il lavoro. Ed è ancor più significativo perché, attraverso i rapporti diretti che intercorrono tra l’addetto della cooperativa e il cittadino, è possibile ricostruire quel rapporto di fiducia che rappresenta uno degli elementi basilari per il reinserimento dell’ex detenuto nella società".

È il vicepresidente della cooperativa Riccobono a spiegare la storia e le finalità di "Organica" e i progetti in via di attivazione. "La cooperativa è nata all’interno del carcere di Sollicciano su iniziativa dei detenuti e grazie all’interessamento della direzione del penitenziario con l’obiettivo è quello di individuare una soluzione al problema lavoro in modo concreto". Inizialmente il progetto prevedeva che la cooperativa coinvolgesse soltanto detenuti interni a Sollicciano che non fruivano di misure alternative al carcere concentrandosi sulla formazione.

Invece la legge sull’indulto ha costretto la cooperativa a modificare in corso d’opera il progetto, concentrando l’impegno sulle persone uscite dal carcere e senza lavoro. In concreto si tratta di attivare corsi di formazione all’interno della struttura penitenziaria grazie ai quali i detenuti possano successivamente reinserirsi nel mondo lavorativo attraverso l’attività della cooperativa in settori quali il giardinaggio, le pulizie, l’informatica, la manutenzione delle abitazioni e quella dei veicoli. E proprio quest’ultimo l’ambito del progetto "Aria pulita" che riguarda in specifico la trasformazione di impianti Gpl sulle auto.

È stata quindi creato un gruppo di addetti specializzati (detenuti con misure alternative ed ex detenuti) che offrirà le sue prestazioni a una serie di officine convenzionate. Il progetto prevede anche la creazione di un altro gruppo, interno al carcere di Sollicciano e formato da detenuti che non usufruiscono di misure alternative), che si occupi della rigenerazione di alcuni componenti essenziali dell’impianto Gpl, quelli che normalmente finiscono al macero. Ma la cooperativa ha allargato il campo di azione mettendo in campo anche personale dedicato ai lavori di manutenzione della casa, alle pulizie e all’assistenza agli anziani.

"Con il sistema dell’abbonamento annuale a prezzi concorrenziali - ha spiegato Riccobono - e grazie alla collaborazione di artigiani, la cooperativa è in grado di offrire una risposta a tutte le emergenze che possono avvenire in casa e svolgere interventi di manutenzione a prezzi concorrenziali". Per informazioni rivolgersi alla cooperativa sociale "Organica", via Maragliano 108, telefono e fax: 055.3289801, mail: organica_scs@libero.it (per le emergenze tel. 055.90060480, fax 055.0517109).

Napoli: domani e sabato un convegno su giustizia e sanità

di Valentina Bartoli

 

Il Denaro, 24 gennaio 2008

 

Domani nella Sala Rari della Biblioteca Nazionale di Palazzo Reale e sabato 26 nella Sala De Lorenzo del Cotugno si terrà il convegno "Giustizia e Sanità" che affronterà il tema "Umanizzazione della pena e tutela della salute". A presiedere la due giorni di confronto sarà il professor Raffaele Pempinello, Direttore della V divisione di malattie infettive dell’Azienda ospedaliera "Cotugno" di Napoli con annesso Reparto Detentivo di supporto infettivologico.

Sotto l’egida della Presidenza del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, della Biblioteca diretta da Mauro Giancaspro, nonché del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Cotugno, il convegno affronterà il giorno 25 (con inizio alle ore 15) le tematiche riguardanti la umanizzazione della pena.

In particolare si affronteranno problemi specifici quali la prevenzione associata ad un adeguato progetto di informazione, di continuità terapeutica e di reintegro sociale in un momento nel quale si prospetta la realizzazione di un cambiamento istituzionale che riguarda il passaggio della assistenza sanitaria dal Ministero della Giustizia a quello della salute.

Tra gli altri interverranno Angelica Di Giovanni Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Ettore Ferrara Capo Dap di Roma, Angelo Montemarano assessore alla Sanità della Regione Campania. Sabato 26 gennaio nella Sala De Lorenzo del Cotugno (con inizio alle ore 9) si svolgerà la seconda sessione del convegno che affronterà il tema della "Tutela della salute" e vedrà impegnati specialisti di livello nazionale che porteranno il loro contributo scientifico in tema di malattie infettive, con importanti relazioni su infezioni da Hiv/Aids, epatiti virali, TBC, cardiopatie. In particolare la dottoressa Pirazzoli illustrerà il contributo che darà al progresso scientifico una moderna e nuova disciplina, la "Farmacogenetica".

I lavori della due-giorni si concluderanno con una tavola rotonda sul tema "Tossicodipendenza e disturbi del comportamento" condotta da illustri psichiatri e psicologi.

Empoli: uscito il terzo numero 2007 di "Ragazze Fuori"

 

Comunicato stampa, 24 gennaio 2008

 

Informazione sul e dal carcere. Il giornale disponibile all’Ufficio relazioni con il pubblico in Comune e su internet Molti i temi in sommario: al via il progetto scuola-carcere con l’Istituto Fermi di Empoli.

Tra pochi mesi ricorrono i dieci anni di pubblicazioni della rivista "Ragazze Fuori", prodotta dalle donne detenute della Casa Circondariale femminile a custodia attenuata di Empoli. In questi giorni è uscito il terzo numero a conclusione dell’anno 2007 per ripartire con forza con quello che sarà il primo numero del 2008.

In questo la redazione esterna ed interna del giornale ha proposto di rinnovare la collaborazione con le scuole empolesi, partendo dall’Istituto Fermi, con l’obiettivo di creare momenti di conoscenza e scambio anche con gli studenti delle altre realtà scolastiche, sempre per un processo di continuità con il passato della struttura, dove periodicamente venivano organizzati incontri di questo genere.

Partito il filo diretto con le studentesse del Fermi, il terzo numero è ricco di contributi delle donne detenute che si raccontano sui banchi di scuola, nei loro sogni, si presentano ai lettori, scrivono pensando alla loro cantante preferita. E poi spazio alla creatività con il nuovo laboratorio di bigiotteria e manualità condotto da Giusi Alessandra Vaccaro, e tanto buon gusto da leccarsi i baffi con le loro ricette. Ma soprattutto…messaggi di speranza per tornare ad una nuova vita.

Quindi, loro le vere protagoniste ma anche gli interventi della nuova provveditora Maria Grazia Giuffrida; della direttrice del carcere Margherita Michelini; di Sandro Margara ed il suo articolo "La Gozzini si difende da sola"; del garante di diritti dei detenuti, Franco Corleone con "Dalla parte del torto"; l’assessore ai servizi sociali del Comune di Empoli, Francesca Fondelli con il suo punto di vista sulla struttura empolese; Desi Bruno, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Bologna che ha discusso sulla legge Gozzini, l’unica che riconosce il valore della persona. Sul tema della droga come uso e consumo è stata intervistata la direttrice del dipartimento dipendenze del Ser.T. di Empoli, Maura Tedici; Sergio Chiamparino sindaco di Torino sulle "sale del consumo"; Massimo Cacciari, sindaco di Venezia con il progetto del centro diurno per tossicodipendenti Drop In.

Per tutti coloro che conoscono "Ragazze Fuori", e per coloro che ancora non lo hanno letto, è possibile trovarlo esposto nei locali dell’Ufficio relazioni con il pubblico del Comune di Empoli, nei circoli Arci, alla Asl, in stazione, oppure on-line sul sito del Comune (www.comune.empoli.fi.it nella sezione "Informa Empoli") e sui siti dell’Arci Empolese Valdelsa, del garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, sul blog dentroefuori, sul giornale on-line www.espressioni.info, sul sito della redazione Ristretti Orizzonti di Padova.

Avellino: arte e sociale, in mostra le opere dei detenuti

 

Il Mattino, 24 gennaio 2008

 

Arte e sociale nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli. In mostra gli elaborati artistici realizzati dai detenuti della casa circondariale di Bellizzi Irpino. Pittura, fine ricamo e le migliori realizzazioni in ceramica realizzate nell’istituto detentivo di Bellizzi, diretto da Cristina Mallardo, sotto la guida dell’educatrice Gloria Riggione. Bilancio positivo per l’esposizione. La mostra, allestita presso la Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli in occasione delle festività natalizie, ha chiuso i battenti soltanto ieri. Un mese di esposizione di circa 100 vivaci ed eclettiche creazioni d’autore. Successo di visitatori per la mostra. In tanti hanno deciso di visitare lo speciale percorso espositivo. Un’iniziativa realizzata in sinergia con il parroco don Emilio Carbone

"La sensibilità con la quale la cittadinanza avellinese ha risposto è stata motivo di grande soddisfazione, soprattutto per i nostri detenuti - spiega la direttrice dell’istituto detentivo di Bellizzi, Cristina Mallardo -. Il laboratorio è realizzato anche grazie alla passione della nostra educatrice Gloria Riggione, quotidianamente impegnata in attività finalizzate alla rieducazione delle detenute ospiti nella nostra struttura. Un’iniziativa che ha subito trovato il favore delle detenute che, attraverso vari corsi, hanno trovato un modo creativo per esprimere le proprie capacità. Una vetrina all’esterno della casa circondariale per comunicare con la società, per mostrare la loro creatività, il loro impegno, segni tangibili del lungo processo di riabilitazione che stanno compiendo".

Ad attrarre la curiosità dei numerosi visitatori manufatti di ogni tipo. Nel percorso sistemata nei locali dell’ipogeo della chiesa del corso Umberto, è stato possibile ammirare simulacri della solarità e della forza vitale che riemerge con vigore dall’animo di coloro che scontano la loro pena preparandosi a tornare ad una vita reale. Sacro e profano negli oggetti tipicamente natalizi come angioletti di varie dimensioni, multiformi ed originali addobbi per alberi in legno e stoffa. Iconografia religiosa e policromia naturale riflessa in gioielli ed utensili realizzati con i materiali più diversi, spesso anche riciclati, hanno ispirato la creatività di questi artigiani, pazientemente cimentatisi in lavori all’uncinetto, plastici o pittorici. E dalle immagini della Madonna si passa ad una moschea in cartone, fino ad arrivare al folclore e sentita pietà popolare dei celebri gigli di Nola affrescati. Ma non solo. Tra i lavori anche una preziosa ricostruzione dell’Avellino antica.

"Stiamo già pensando ad una seconda edizione dell’esposizione - conclude la Mallardo -. Nuove mostre in cui raccontare le capacità dei nostri detenuti. Pensiamo di avviare anche l’iter burocratico necessario per vendere i manufatti ed utilizzare il ricavato per l’acquisto di nuovi materiali, conferendo in tal modo continuità al progetto".

Reggio Calabria: il progetto "Case Circondariali Sostenibili"

 

Adnkronos, 24 gennaio 2008

 

Presentato questa mattina il progetto "Case Circondariali - Spazi Sostenibili" all’interno del carcere cittadino. Un programma che mira a favorire i processi di accoglienza delle famiglie di detenuti, a rispondere alle necessità primarie, a favorire i processi di comunicazione tra le famiglie ed i detenuti.

Maria Carmela Longo, direttrice della casa circondariale, ha ringraziato il sindaco Giuseppe Scopelliti e l’amministrazione comunale per l’attenzione nei confronti della struttura ed affermando che "l’opera di rieducazione oltre ad essere compito dell’amministrazione del penitenziario è un dovere anche per la società".

"Una società diventa più grande se c’è la giusta attenzione nei confronti degli ‘ultimi’- ha affermato il Primo Cittadino - come amministrazione sosteniamo la ricerca sistematica di sinergie, perché più si è coesi più diventano importanti i risultati. Bisogna guardare con attenzione a chi vive un momento difficile della propria vita". Partner del progetto: il Comune, l’amministrazione carceraria e l’associazione "Evita".

All’incontro erano presenti anche l’assessore Tilde Minasi; Tonino Serranò, delegato per il servizio civile, che ha motivato i sette ragazzi che metteranno materialmente in atto il progetto, la dirigente Stracuzza ed il responsabile del servizio civile del comune.

"Speriamo che il nostro diventi un modello che esca dai confini reggini - ha affermato Pasquale Morisani, consigliere comunale ideatore del progetto - perché si possa sdrammatizzare, anche nei confronti dei minori, il momento di condivisione che i detenuti e le loro famiglie trascorrono nella struttura penitenziaria".

 

 

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