Rassegna stampa 25 gennaio

 

Giustizia: governo Prodi, dall'indulto all'emergenza sicurezza

di Angelo Mastrandrea

 

Il Manifesto, 25 gennaio 2007

 

Dall’indulto all’emergenza sicurezza, parabola di un governo che sul piano sociale è partito bene ma è finito peggio. La base di Vicenza, i Cpt, le droghe e i diritti civili: cronaca di un fallimento.

Si potrebbe racchiudere in due immagini la parabola del governo Prodi. La prima immortala Montecitorio che applaude l’indulto, la seconda si sofferma sul volto mite di un uomo con barba fluente e occhiali spessi. Dal giorno dell’approvazione bipartisan del provvedimento di clemenza alla morte in carcere di Aldo Bianzino sono passati un anno e tre mesi. Tanto è durata l’illusione che forse, se non un altro mondo, almeno un’altra politica fosse possibile.

Quella che il popolo di sinistra reduce da cinque anni di berlusconismo e i movimenti alter-mondialisti chiedevano al centrosinistra di nuovo al governo: l’abrogazione delle leggi della destra, un rapporto con le comunità locali ispirato alla partecipazione, una frenata sulle privatizzazioni e viceversa un’accelerazione sul fronte dei diritti civili, il no alla guerra.

La tragica fine di Bianzino nel penitenziario di Perugia diventa invece emblematica dell’involuzione di un governo che ben presto aveva visto incrinarsi il rapporto con una fetta del suo popolo. Non sono tanto l’atroce sospetto che sia stato ucciso in carcere e nemmeno il comportamento reticente delle autorità carcerarie a svelarlo, quanto il fatto che se si fosse messa mano a una delle leggi più autoritarie della destra, la Fini-Giovanardi sulle droghe, Bianzino in carcere non ci sarebbe mai finito.

Di lì a poco l’associazione Antigone rivelerà: "L’effetto dell’indulto è svanito, le carceri sono di nuovo piene". E il governo che si era presentato con un atto di garantismo comincia la sua parabola discendente facendo della sicurezza una bandiera da sventolare in pubblico. Qualche giorno dopo l’omicidio nella capitale di Giovanna Reggiani, uccisa da un immigrato romeno, il leader del Pd Walter Veltroni preme per far convocare un consiglio dei ministri d’urgenza e varare un decreto legge "anti-rumeni".

Prima ancora si era scatenata una furibonda caccia al "lavavetri" immigrato ed era arrivato il giro di vite del ministro dell’Interno Giuliano Amato sugli ultras, cui seguiranno la morte di un giovane tifoso laziale, Gabriele Sandri, ucciso da un poliziotto su un autogrill, e una notte di scontri da Milano a Roma.

Un clima di turbolenza sociale, quello degli ultimi mesi, che si arricchirà della guerra dei rifiuti in Campania. Ma questa è storia delle ultime settimane. All’indomani della sua investitura, il 17 maggio del 2006, il governo Prodi si era presentato con un atto di grande effetto, sia pur previsto: il ritiro delle truppe dall’Iraq.

Era quello che chiedevano i movimenti pacifisti e per cui il 15 febbraio del 2003 erano scese in piazza a Roma tre milioni di persone. Nel frattempo, sull’onda dell’entusiasmo il ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scarno assicurava che il Ponte sullo Stretto era definitivamente abortito e quello della Solidarietà sociale Paolo Ferrero preparava la riforma delle leggi su immigrazione e droghe, nonché un piano per far fronte all’emergenza abitativa.

I risultati saranno magri: sul fronte casa si riuscirà con difficoltà a rinnovare il blocco degli sfratti, su quello dell’immigrazione la legge invece arriverà ma difficilmente riuscirà a concludere il suo iter parlamentare, su quello delle droghe Livia Turco proverà a raddoppiare le "soglie" previste dalla legge Fini ma incorrerà nel vero del Tar.

Viene nominata una commissione sui Cpt guidata dall’ex ambasciatore Onu Staffian de Mistura. La parola d’ordine è "superarli", il risultato è che tre di questi chiuderanno, mentre gli altri continueranno a funzionare regolarmente. Nel frattempo, le code alle poste per le regolarizzazioni vengono sostituite da analoghi ingorghi telematici, che hanno quanto meno il merito di essere meno faticosi.

I pochi successi arrivano sul fronte dei beni comuni, dove i movimenti ottengono una moratoria delle privatizzazioni dei servizi idrici e, di fatto, finiscono in un cassetto la Tav e il Ponte sullo Stretto. E su quello della cooperazione, dove Prodi è costretto a reintrodurre il Fondo per la lotta all’Aids tagliato da Padoa Schioppa e il consiglio dei ministri partorisce una riforma. L’unica legge della destra che viene interamente riscritta è quella Moratti sulla scuola, sostituita dalla riforma Fioroni.

Un altro successo di grande impatto simbolico riguarda infine la moratoria Onu sulla pena di morte. La liason con i movimenti comincia però a incrinarsi proprio sul fronte della politica internazionale. Inizialmente, in pochi si accorgono del progetto di costruzione di una mega base Usa a licenza. Si tratta di una bomba a orologeria che esploderà in autunno, culminerà in una grande manifestazione con i partiti della sinistra radicale e nel febbraio 2007 provocherà la prima crisi di governo.

Ma Prodi non cede e assicura: "La base si farà". Lo stesso premier già a luglio 2006 aveva sudato freddo sul rifinanziamento della missione in Afghanistan. Era stato in particolare il Prc a entrare in fibrillazione, e con esso i movimenti, spaccati in "governisti" e "anti-governisti". Alla fine arriverà il sì in nome della "riduzione del danno", che si sostanzia nella promessa di una conferenza internazionale di cui si è persa traccia.

Non va diversamente sul fronte del lavoro e dei diritti civili, il 4 novembre 2006 una grande manifestazione chiede di cancellare la legge 30 e il precariato, il 20 ottobre 2007 si scenderà in piazza per ribadirlo. Inutilmente. Il governo Prodi vede anche sfilare il più imponente Gay Pride dal Giubileo del 2000. In ballo c’è la legge sulle unioni di fatto, i cosiddetti Dico, poi trasformati in Cus e impantanati al Senato, e la laicità dello stato insidiata dalle ingerenze vaticane e dal Family Day. Ancora una volta inutilmente. Nel frattempo il caso Welby riaccende il dibattito su eutanasia e testamento biologico. Ancora una volta inutilmente. E fra qualche giorno scadranno le linee guida della legge sulla fecondazione, dove il Tar è arrivato prima del ministro Turco. Chi le rinnoverà?

Giustizia: inaugurazione anno giudiziario, ma il carcere non c’è

 

Vita, 25 gennaio 2008

 

Il Primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone ha presentato oggi a Roma la relazione per l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Una relazione che non nomina nemmeno le carceri.

Nella sua relazione il Primo presidente della Corte Cassazione Vincenzo Carbone per l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario si sofferma molto sul tema dei rapporti tra politica e magistratura. "Non si può continuare ad assistere a processi mediatici, fuori del processo, che turbano la serenità e ostacolano la tempestività della Giustizia" sottolinea il Primo presidente della Cassazione V, ma i magistrati, è la sferzata del primo presidente, devono essere "pronti a reagire contro attacchi gratuiti, pretestuosi, spropositati, intimidatori, che vogliono in qualche modo interferire, per qualsiasi fine, sul rapporto tra il giudice e la legge, alla quale solo è soggetto".

Una relazione che la redazione di "Ristretti Orizzonti" chiosa con questo calcolo delle parole ricorrenti nelle sue 66 pagine:

- contiene 130 volte la parola "giustizia"

- contiene 79 volte la parola "pena"

- contiene 32 volte la parola "cittadino" (o "cittadini")

- contiene 18 volte la parola "spesa" (o "spese")

- contiene 13 volte la parola "politica" (o "politico")

- contiene 11 volte la parola "risarcimento" (o "risarcimenti")

- contiene 9 volte la parola "sicurezza"

- contiene 6 volte la parola "certezza" (della pena)

- contiene 1 sola volta la parola "penitenziari"

- non contiene neppure una volta la parola "carcere" (o "carceri")

- non contiene neppure una volta la parola "detenuto" (o "detenuti")

 

Ovviamente, c’è qualcosa che non va.

 

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Giustizia: la disorganizzazione, piaga del sistema giudiziario

 

Agi, 25 gennaio 2008

 

"Solo uno sforzo corale e solidale di tutti potrà consentire di porre rimedio a questa vera e propria, non più tollerabile, piaga del nostro sistema giudiziario". Il ministro della giustizia dimissionario Romano Prodi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, rivolge "un accalorato appello ai magistrati, ai singoli magistrati tutti e ciascuno dovrebbe sentirsi coinvolto in questa vera emergenza".

Ai dirigenti, ai funzionari, e agli altri operatori della giustizia, esterni all’apparato giudiziario rivolto un invito a dare sempre tutta la loro collaborazione, superando con uno sforzo di entusiasmo e di generosità, anche le tante disfunzioni organizzative che purtroppo continuano a gravare anche su di loro. Un sistema - sottolinea Prodi - che oggi è visto purtroppo anche sulla scena europea e internazionale come uno degli aspetti più negativi del nostro Paese.

"Un ordinamento e una Magistratura che rispondano meglio e in modo più efficiente alla domanda di giustizia dei cittadini e del Paese renderanno anche il potere giudiziario più forte e credibile, più capace di conquistare o riconquistare, insieme alle altre istituzioni, la fiducia delle persone comuni. I cittadini chiedono ai poteri pubblici di rispondere in modo efficiente ai bisogni fondamentali della collettività. A questa domanda tutti noi dobbiamo dare risposta e più di tutti lo deve fare proprio la magistratura, il cui potere rischia altrimenti di essere percepito come arbitrio e prepotenza e non come giustizia e garanzia".

Giustizia: l’Italia è ultima in Europa per il "rischio" di omicidi

 

Liberazione, 25 gennaio 2007

 

Ricerca Eures: Italia ultima in Europa per numero di omicidi. Ma crescono le uccisioni di donne in ambito famigliare.

Lo aveva già confidato Luciano Violante ai direttori dei Tg nazionali convocati in commissione Affari costituzionali della Camera: l’emergenza criminalità non esiste. Confermando peraltro il dossier del Viminale pubblicato nell’estate 2007: i reati stanno calando. E ieri una ricerca sugli omicidi volontari dell’Eures ha aggiunto che viviamo nel Paese più sicuro d’Europa, nonostante l’omicidio di Giovanna Reggiani e il conseguente decreto espulsioni, l’allarme delinquenza rumena, le baracche dei rom, le rapine in villa nel Nordest e il delitto di Perugia. Se confrontiamo il numero di omicidi per così dire italiani con quello di altri Paesi, scopriamo che soltanto in Norvegia l’indice di rischio è inferiore, mentre è statisticamente più probabile finire ammazzati in Gran Bretagna (1,3), Francia (1,6) e Svezia (2,6). Nulla di paragonabile agli Stati Uniti che portano un indice di rischio del 5,6.

L’isteria securitaria, verrebbe da dire non ha senso. Ma c’è un punto che merita considerazione: la ricerca Eures conferma i risultati dell’anno scorso secondo i quali la famiglia uccide più della mafia. È stato così anche nel 2007: a 31,7% degli omicidi è avvenuto tra le pareti domestiche, contro il 25,2% dei delitti commessi dalla criminalità organizzata. Con un corollario, sono aumentate drammaticamente le donne uccise (+32,1%). Due donne vittime su tre sono state ammazzate dall’uomo di casa: padre, marito, fidanzato, ex. La violenza maschilista è in aumento; 181 i femminicidi nel 2006 contro i 137 nel 2005. Si tratta del dato più alto degli ultimi vent’anni.

Non è raptus, non è follia, non è un dramma improvviso e non è vero - come assicurano i vicini di casa allibiti alle telecamere - che quella "era una famiglia normale, mai un litigio, mai la voce grossa". Il femminicidio, dicono le statistiche, è soltanto il punto di arrivo di una escalation di violenze fisiche e verbali. Siccome l’Italia è un Paese piuttosto sicuro, di conseguenza anche il tasso di femminicidi registrati nel nostro Paese è minore rispetto al resto d’Europa.

L’indice di rischio italiano è 6,6, molto inferiore a Norvegia (8,7), Paesi Bassi (9,1), Germania (10) e Stati Uniti (22). Ciò significa che nelle società più sviluppate è paradossalmente più facile, per una donna, cadere vittima dell’uomo che le vive accanto. Tornando in Italia, l’Eures certifica che sono in aumento gli omicidi nel Nord (+16%) anche se il sud e le isole contano la maggioranza dei delitti (53%).

Per quanto riguarda gli stranieri, cresce il numero delle vittime migranti (+19,8%) e dei killer stranieri (+31%). Sempre contraddicendo la percezione diffusa, gli stranieri spesso uccidono famigliari o altri stranieri) e ciò accade in sei casi su dieci, il 75% dei killer non italiani è senza permesso di soggiorno, a riprova del fatto che l’immigrazione regolare non presenta un tasso di criminalità diversa da quella autoctona.

Protési a denunciare la criminalità straniera, che pure esiste, i mass media del Paese preferiscono riscrivere giorno dopo giorno la vulgata secondo la quale siamo stretti nella morsa della criminalità. A proposito degli zingari, lo stesso ministro Giuliano Amato, durante la conferenza sulla popolazione rom - conclusasi due giorni fa nel silenzio più totale dell’informazione -, ha detto che gli organi di stampa sono i responsabili della diffusione dello stereotipo del rom ladro, sfruttatore di bambini delinquente. Le associazioni rom hanno rivolto un appello a giornali e televisioni: non dateci attenzione soltanto quando siamo protagonisti di episodi di violenza e degrado.

Allo stesso modo politica e mass media dovrebbero cominciare a legare tra loro i femminicidi senza considerarli semplicemente gravi fatti di cronaca da condannare, provando a denunciare l’humus che fa maturare questi delitti e cioè la cultura patriarcale. Quando deve dare questo tipo di notizie (donna uccisa dal marito, dal convivente, dal padre e così via) un quotidiano autorevole come lo spagnolo El Paìs utilizza un titoletto, comprensibile anche in italiano: Violencia machista. Perché il copione è sempre uguale come un film girato migliaia di volte, cambiano soltanto il nome della vittima, il nome del femminicida e il luogo del delitto: un uomo ammazza la donna che dice di amare per rivendicare il proprio potere.

Giustizia: Eurispes 2008; ma il vero incubo è il furto in casa

 

Il Velino, 25 gennaio 2008

 

Tornare a casa e trovare la propria abitazione svaligiata. È questo il reato di cui hanno maggior timore gli italiani (38,3 per cento), secondo i dati forniti dal Rapporto Italia 2008 dell’Eurispes. La parte dell’analisi relativa alla sicurezza mostra diversi dati interessanti. La percezione di insicurezza è largamente diffusa, "anche se - precisa l’Eurispes - le statistiche dimostrano che gran parte di questi crimini negli ultimi anni evidenzia un trend in diminuzione". Colpa della rappresentazione data dai mezzi di informazione? La maggior parte degli italiani (36 per cento) è convinta che l’immagine offerta dai mass media sia realistica, al contrario, il 34,8 per cento trova che i toni sui fatti trattati siano allarmistici. Il 23,7 per cento è convinto, invece, che il problema venga trattato in modo meno grave rispetto alla realtà. Per gli italiani, ad ogni modo, gli immigrati non vengono percepiti come responsabili del deterioramento della scurezza. Per il 47,6 per cento degli intervistati, non ci sono differenze tra italiani e stranieri nel commettere reati. Dalla rilevazione sulla sicurezza, emerge che il timore più diffuso è quello di subire un furto nella propria abitazione: è così per il 38,3 per cento degli italiani. Forte è anche il timore di essere scippati o borseggiati (13,2 per cento) o che venga rubato il proprio motorino o la propria auto (11,4 per cento). Ci si sente meno minacciati da possibili aggressioni fisiche (9 per cento), truffe (9 per cento), rapine (7,4 per cento) o violenze sessuali (6,1 per cento).

Al Nord-Ovest e al Centro è maggiore il timore di subire un furto nella propria abitazione: rispettivamente il 41,2 per cento e il 39,6 per cento, contro il 37,3 per cento del Sud, il 37,2 per cento del Nord-Est e il 33,6 per cento delle Isole. Al Centro e al Sud invece si ha più paura di subire il furto dell’automobile/motorino che di essere scippati o borseggiati (rispettivamente il 13,6 per cento contro il 12,4 per cento per il Centro e il 18 per cento contro l’11,1 per cento per il Sud), in queste due aree si registrano, dunque, i valori più alti per questa opzione di risposta. Di contro, essere borseggiati spaventa al Nord-Est (15,6 per cento) e in misura inferiore al Sud (11,1 per cento). Queste due aree condividono i valori più alti rispetto al timore di essere rapinati (10,2 per cento per il Sud e 8,3 per cento per il Nord-Est, rispetto al 6,5 per cento del Centro, al 6 per cento delle Isole, il 5,4 per cento del Nord-Ovest). Nel Nord-Ovest il timore di un’aggressione fisica supera quello di subire il furto del proprio mezzo di trasporto privato (9,2 per cento contro 7,5 per cento), così come per il Nord-Est, in cui la prima risposta è stata fornita dall’11 per cento dei cittadini, la seconda dall’8,3 per cento e per il Sud in cui le percentuali sono 11,2 per cento per l’aggressione fisica e 10,3 per cento per il furto automobile/motorino. Nelle Isole, è molto forte la paura di subire una truffa (15,5 per cento), seconda solo al timore dei ladri in casa. Valori alti sono presenti anche al Centro (11,2 per cento) e al Sud (11,1 per cento).

Al Sud e al Centro è meno avvertita la paura di aggressioni fisiche (il 6,6 per cento e l’8,3 per cento, contro una media del 10,5 per cento del resto d’Italia) e per quella di violenze sessuali (per il Sud 2 per cento e per il Centro 4,7 per cento, contro una media nazionale dell’8,1 per cento). Il rapporto fra italiani e forze dell’ordine è nel complesso buono. Per i Carabinieri e la Polizia, infatti, le frequenze più alte si registrano nell’opzione "buono" (rispettivamente il 44,4 per cento e il 43,4 per cento). Per la Guardia di Finanza, invece, la risposta "mediocre" è quella che presenta il valore più alto (38,6 per cento). Complessivamente, poco più della metà dei cittadini valuta l’operato dei Carabinieri positivamente (52,9 per cento), così come quello della Polizia (50,2 per cento); per la Guardia di Finanza, a prevalere leggermente è una valutazione negativa: il 53,7 per cento degli intervistati si esprime in questo senso. L’insufficienza viene data dal 13,9 per cento dei cittadini ai Carabinieri, dal 14,8 per cento alla Polizia e dal 15,1 per cento alla Guardia di Finanza; mentre l’8,5 per cento assegna la valutazione più alta ai Carabinieri, il 7,1 per cento alla Guardia di Finanza e il 6,8 per cento alla Polizia. L’atteggiamento degli italiani verso gli immigrati è equilibrato: il 47,6 per cento non rintraccia differenze tra italiani e stranieri nel commettere reati. Nonostante ciò, non è affatto trascurabile la percentuale di coloro i quali pensano che gli stranieri siano i principali autori di crimini in Italia (40,7 per cento). Solo il 6,4 per cento risponde che a commettere reati sono soprattutto gli italiani. La percezione dello straniero come principale autore di reati è diffusa soprattutto nel Nord-Est (52,8 per cento). In generale prevale comunque la posizione neutrale: per il 45,6 per cento nel Nord-Ovest, il 52,1 per cento nel Centro, il 48,4 per cento nel Sud e il 56,9 per cento nelle Isole, italiani e stranieri in egual misura commettono crimini.

L’atteggiamento cambia quando viene chiesto se tra gli immigrati che vivono nel nostro Paese ci siano alcune nazionalità più coinvolte nei crimini: il 72 per cento risponde di sì. Solo il 27,4 per cento è convinto del contrario. Più implicati nei crimini sarebbero, secondo l’opinione dei cittadini, i rumeni (54,3 per cento), seguiti dagli albanesi (27,4 per cento) e dai marocchini (6,4 per cento). Non manca la voglia di certezza della pena. La causa della diffusione della criminalità nel nostro paese sono le pene poco severe e le scarcerazioni facili: risponde scegliendo questa opzione il 22,9 per cento degli italiani. Il 15,4 per cento pensa che esista una componente di disagio sociale. Diffusa anche l’idea che sia insufficiente la presenza dello Stato (13,2 per cento) e manchi una cultura della legalità (11,4) insieme all’incremento del numero degli immigrati nel nostro Paese (10,6 per cento). Il potere delle organizzazioni criminali (8,2 per cento), la difficile situazione economica (8,3 per cento) e le scarse risorse a disposizione delle Forze dell’ordine (6,6 per cento) vengono individuate come cause con minore frequenza. Gli italiani hanno le idee abbastanza chiare su come affrontare il problema della sicurezza. Il 35,5 per cento dei cittadini per contrastare la criminalità inasprirebbe le pene. Molti, il 20,7 per cento, rafforzerebbero il dispiegamento delle Forze dell’ordine oppure limiterebbero l’accesso agli immigrati (19,2 per cento). Non manca chi pensa sia bene educare alla legalità le categorie più a rischio (14 per cento).

 

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Giustizia: Eurispes; in Italia chi sbaglia non paga, se ci sa fare

 

Il Velino, 25 gennaio 2008

 

"Nel nostro paese chi sbaglia non paga, soprattutto se ci sa fare". Lo dice l’Eurispes, nel capitolo riguardante la legalità in Italia, all’interno del Rapporto 2008 sul nostro paese. L’Istituto di studi politici, economici e sociali fotografa una realtà sociale in cui si fa "scempio dei diritti", in cui la giustizia è "ridotta a un campo di battaglia", dove "consumare vendette e scontri politici, personalismi e polemiche".

I processi sono lenti, "le carceri sempre più piene". Lo scenario, insomma, "è cupo": "uno scempio quotidiano - analizza l’Eurispes - di diritti e legalità, un processo farraginoso e incomprensibile, con costi e tempi che generano sfiducia e insicurezza. La giustizia è ridotta a campo di battaglia dove consumare vendette e scontri politici, personalismi e polemiche che accompagnano ogni vicenda giudiziaria. Parlare di legalità e giustizia non è facile.

Tanto più in presenza di cattivi esempi o modelli negativi che si ispirano a "filosofie" del tipo così fan tutti, così va il mondo, perché scaldarsi, non vale la pena (…). Nel nostro Paese chi sbaglia non paga, soprattutto se conta o ci sa fare. Grazie anche alla diffusione di condoni persino tombali, dell’indulto o di leggi mirate su specifici, particolari interessi. (...) Si aprono sempre più spazi all’Italia dei furbi, degli affaristi, degli impuniti. Legalità e giustizia non attraversano un buon momento, nel nostro Paese. Crisi e sofferenza, malessere e problemi si intrecciano inestricabilmente. È del tutto evidente che senza giustizia deperisce la qualità della convivenza. (...)".

"Ma la legalità non è soltanto questo. Il rispetto della legge conviene. Serve a evitare effetti dannosi per sé e per i terzi. Il parziale recupero di legalità, ottenuto con le inchieste avviate contro la mafia dopo le stragi del 1992-93 ha impedito al nostro Paese di diventare preda del potere criminale mafioso. Ha impedito che l’Italia diventasse un narco-stato, uno stato-mafia controllato da criminali stragisti. Se non ci fosse la mafia il Pil pro capite del Sud sarebbe sostanzialmente uguale a quello del Centro-Nord. La drammatica realtà delle mafie, oggi, è che esse hanno costruito una vera e propria "economia parallela", con guadagni giganteschi e con andamento sempre in crescita. Questa economia illegale pian piano risucchia nel suo gorgo commerci, imprese e forze economiche sane. (...)

L’Italia è poi al terzo posto per i morti sul lavoro con meno di 18 anni. La mortalità minorile è più del doppio rispetto alla media europea. Molto elevata è la percentuale degli infortuni occorsi agli immigrati, che hanno il 14 per cento di probabilità in più di subire infortuni sul lavoro. Il lavoro sommerso (che in Italia, secondo stime prudenziali, riguarda 3,5 milioni di persone), mostra un numero elevatissimo di infortuni: circa 225.000, dei quali 17.500 nel settore edilizio; ma sono infortuni che in gran parte, per forza di cose, restano sommersi.

L’Eurispes ci ricorda che, dal 2003 al 2006, abbiamo avuto più morti in Italia per infortuni sul lavoro (5.252) di quanti soldati della coalizione sono caduti nel corso della guerra in Iraq (3.520). Legalità come cardine della civile convivenza, legalità come vantaggio. Poi ci si scontra con la durata, spesso interminabile, dei processi (civili e penali) che frustra, con regolarità inesorabile ed invariata, le pretese di legalità dei cittadini (...)".

"Lo stato della giustizia nel nostro Paese è prossimo alla paralisi, ma ci sono alternative allo sfascio concretamente praticabili. A una condizione: che non si prosegua con il disimpegno amministrativo e con il perseguimento di un disegno che confonde il rilancio della giustizia con la normalizzazione dei magistrati. Il nostro sistema penale si caratterizza ormai per la compresenza di due distinti codici: uno per i "galantuomini" (cioè le persone giudicate, in base al censo o alla collocazione sociale, comunque per bene, a prescindere (...); l’altro per cittadini "comuni".

L’utilità, ormai, è il metro di valutazione dell’intervento giudiziario. Un metro che ha sostituito i tradizionali criteri della correttezza e del rigore. (...) La curva dei reati, nel nostro Paese (e pressoché ovunque nei paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti) è stazionaria o addirittura in discesa. Secondo le rilevazioni del Ministero dell’Interno, c’è stato un calo dei reati commessi pari a 145.043. Il numero dei delitti resta molto elevato (2.791.279), ma sono in calo i reati cosiddetti "predatori" (scippi e furti), le rapine, le violenze sessuali, gli incendi, le estorsioni, i reati legati agli stupefacenti e gli omicidi. (...)

Qualche riflessione - infine - sul cambio di maggioranza delle ultime elezioni politiche e sulle aspettative che esso aveva originato in tema di legalità e giustizia. La nostra opinione è che tali aspettative siano andate fin qui deluse. Le leggi ad personam, che nella scorsa legislatura hanno imbarbarito il sistema, continuano a far "bella" mostra di sé. Le risorse destinate alla giustizia restano gravemente deficitarie.

La sostituzione della riforma targata Castelli è stata difficile, tortuosa e assai meno incisiva di quanto fosse lecito attendersi: utile forse in un’ottica di riduzione del danno, ma deludente in termini di reale rinnovamento. Più che edificare una nuova casa, si è restaurata la vecchia. In questo contesto emergono nella magistratura forti segnali di inquietudine e di insofferenza. Nuovi problemi, dunque, si affiancano a quelli antichi. Non è un’altra storia, ma un capitolo ulteriore della stessa vicenda che sembra non cambiare, neppure coi cambi di maggioranza".

 

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Giustizia: Spadaccia; aumenta repressione, in carcere e fuori

 

Garante diritti detenuti di Roma, 25 gennaio 2008

 

 

Intervento del Garante comunale al convegno della Camera penale di Roma sulla crisi della giustizia: "Orientamenti repressivi nell’esecuzione della pena e nelle misure alternative al carcere".

Il Garante delle persone private della libertà, Gianfranco Spadaccia è stato invitato ad intervenire al convegno della Camera penale di Roma, il 23 gennaio, sulla crisi della giustizia nella sezione dedicata alla esecuzione della pena e alle misure alternative, nella quale sono intervenuti il vice capo del Dap Luigi Di Somma, il direttore di Rebibbia Nuovo Complesso Carmelo Cantone e il giudice di sorveglianza Paolo Canevelli.

Questo è il testo dell’intervento: "Caro Presidente Caiazza, cari amici della Camera Penale,purtroppo un contemporaneo incontro a Firenze con gli altri garanti comunali e i garanti regionali, fissato da tempo, mi impedisce di essere tra voi.

Me ne dispiace perché le questioni relative all’esecuzione della pena non sono questioni secondarie ma centrali non solo al fine della attuazione dell’art. 27 della Costituzione ma anche per assicurare la stessa funzionalità ed efficacia del sistema penale. Mi sarebbe perciò interessato confrontarmi su di esse con voi e con coloro che sono quotidianamente i miei interlocutori: i rappresentanti della amministrazione penitenziaria e i giudici di sorveglianza.

Da anni ormai si ripete che il sistema penale non si può affidare solo al carcere e che, sull’esempio degli altri paesi europei, è necessario ricorrere in misura molto maggiore di quanto attualmente avviene a misure penali alternative. Da anni ormai le statistiche del DAP ci confermano che la recidività di coloro che tornano alla libertà dopo aver scontato una parte della pena in misura alternativa è di almeno tre volte inferiore alla recidività di coloro che escono direttamente dal carcere. Tutti riconoscono che l’affidamento in comunità, l’affidamento ai servizi sociali, il lavoro esterno, la semilibertà, la libertà condizionale consentono alle persone sottoposte a pene di ricostituire un tessuto di rapporti sociali e di relazioni affettive oltre alla possibilità di trovare occasioni di lavoro.

Nonostante questo, le pene alternative in Italia sono in media un terzo di quelle a cui si fa ricorso negli altri paesi europei, dove quasi ovunque superano nettamente le pene detentive mentre da noi il rapporto fra le une e le altre è rovesciato. E la tendenza che ormai da tempo si sta sempre di più affermando è quella di restringerne ulteriormente il ricorso anziché ampliarlo.

Ha cominciato il legislatore, rinviando in continuazione di governo in governo e di legislatura quella riforma del Codice penale alla quale lo stesso parlamento aveva affidato il compito di riconsiderare la gerarchia dei beni penalmente tutelabili in armonia con i mutamenti sociali intervenuti dall’epoca in cui fu varato il codice Rocco e di riconsiderare il sistema delle pene, facendo ricorso per tutta una serie di reati a strumenti diversi dal carcere. In mancanza di questa riforma, lo stesso legislatore continua ad affidarsi, sull’onda di campagne mediatiche, a interventi di emergenza che contribuiscono di volta in volta a scardinare ulteriormente il sistema penale e, in nome di una male intesa esigenza di sicurezza, finiscono per irrigidire e limitare il ricorso alle pene alternative in contrasto con i criteri ispiratori cui dovrebbe attenersi il nuovo codice penale. Non solo: il combinato disposto dell’incrudimento delle misure detentive (alta sicurezza e 41 bis) e dell’esclusione di qualsiasi possibilità di beneficio futuro sta creando una categoria di veri e propri "sepolti vivi" per i quali l’espressione "fine pena mai" va presa alla lettera.

Questa tendenza restrittiva condiziona ed ispira molto spesso le interpretazioni dei giudici della sorveglianza che sono anche i giudici dell’esecuzione della pena e finisce per ripercuotersi finanche nel trattamento dei detenuti in carcere. Si direbbe che, a causa delle accanite polemiche politiche e di stampa che si verificano ogni volta che un detenuto approfitta di un permesso o di una misura alternativa per tornare a delinquere, molte decisioni e comportamenti ai diversi livelli siano dettati essenzialmente dalla paura di sbagliare, dalla paura di rischiare nel mettere alla prova le possibilità di cambiamento e di positivo reinserimento del detenuto nella vita sociale e produttiva. È evidente che non c’è e non ci può essere nessuna garanzia preventiva che questo non accada e almeno fino a quando esisteranno - ancorché limitate - le misure alternative, alla cui valutazione e concessione si riduce ormai la funzione del giudice di sorveglianza, essendo praticamente scomparsa la originaria funzione di garanzia, questo rischio, il cosiddetto rischio di sbagliare, non può essere eliminato. È insito per così dire nella funzione. In definitiva, piaccia o non piaccia, a far fede della bontà o non bontà delle misure alternative e delle decisioni dei giudici di sorveglianza, alla fine - adempiuti nella maniera anche la più rigorosa gli accertamenti giurisdizionali - saranno solo le statistiche e le percentuali delle violazioni, le quali sono rimaste sempre costantemente assai contenute dal momento della approvazione della legge Gozzini. E non si può ogni volta, per i pochi che violano, dimenticare o mettere a rischio il buon esito che le misure alternative hanno per la grande maggioranza dei detenuti che ne beneficiano.

A questa tendenza generale, che è difficile negare, si aggiunge l’orientamento di alcuni - fortunatamente una minoranza - che introducono categorie interpretative francamente inaccettabili della nozione di ravvedimento o mostrano un particolare accanimento nei vincoli imposti a chi viene sottoposto a pene alternative. Non si contesta qui la giusta esigenza di far comprendere a chi ne beneficia che la misura alternativa è una mutazione e non una fuoruscita dalla pena, è un cammino verso la libertà e non una anticipazione della libertà. Ma non si comprende perché si debba arrivare a volte, come è accaduto recentemente, a far morire in carcere un malato terminale, le cui condizioni erano state dichiarate dalla medicina penitenziaria incompatibili con la detenzione, perché malati di aids in stadio avanzato non debbano essere affidati a comunità fra l’altro per lo Stato molto meno costose del carcere, o perché, fatte salve tutte le necessarie procedure di autorizzazione e di controllo da parte della polizia, si debbano porre limiti eccessivi che sono di ostacolo alla realizzazione degli obiettivi a cui la misura alternativa dovrebbe tendere: la ricerca del lavoro, il reinserimento nel mondo produttivo e la ricostruzione di normali relazioni affettive e familiari.

Ora io credo che sia interesse di tutti, in primo luogo degli stessi giudici di sorveglianza e dei responsabili del trattamento in carcere, il massimo di trasparenza, di pubblicità, di confronto e di dibattito sulle decisioni che vengono prese e sugli orientamenti che le ispirano, il massimo di controllo pubblico sugli effetti e gli esiti delle misure alternative, con una serie statistica anno per anno per ciascuna di esse, a cominciare dai permessi premio, che sono il presupposto necessario per accedere alle altre misure. È il motivo per il quale ho chiesto al Comune di finanziarmi una ricerca di monitoraggio del trattamento in carcere e una ricerca (possibilmente di dottorato) sulla giurisprudenza dell’esecuzione della pena nella città di Roma. Se il Comune sarà disponibile, prenderò contatto con le cattedre di diritto penale e sottoporrò il progetto al presidente dell’Ufficio di sorveglianza e alla amministrazione penitenziaria, nei quali confido di trovare disponibilità e collaborazione.

E se su tutto questo riusciremo a gettare un costante e opportuno fascio di luce e di conoscenza, forse riusciremo anche a coinvolgere la società esterna e il mondo produttivo nella ricerca dei mezzi e nell’offerta di opportunità che devono accompagnare le misure alternative, dalla cui concessione rischiano altrimenti di essere esclusi un gran numero di detenuti meno fortunati ne privi di relazioni esterne. E naturalmente, cari amici della Camera Penale, conto anche sulla vostra sensibilità, sul vostro interesse e sul vostro aiuto.

Giustizia: "Times"; i boss della mafia si armano... di laurea

di Giulia Alliani

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 25 gennaio 2008

 

Difficile imbattersi in due boss mafiosi più crudeli di Giuseppe e Filippo Graviano. Lo scrive il Times, che elenca l’impressionante serie di crimini per cui i due fratelli sono stati condannati all’ergastolo.

Eppure, si sorprende il quotidiano britannico, entrambi hanno dimostrato un’imprevedibile propensione ad impegnare la propria intelligenza per uno scopo più alto: gli studi accademici. Recentemente si sono laureati: Giuseppe in matematica e Filippo in economia.

Secondo i dirigenti dei penitenziari citati dal Times, un numero sempre crescente di killer mafiosi prende la laurea, e non sempre le loro motivazioni vanno messe in relazione al desiderio di contribuire al progresso scientifico. Secondo Giuseppe Giustolisi, esperto di mafia, la facoltà preferita è legge. Perché vogliono capire dove hanno sbagliato, o forse perché sperano un giorno di uscire, e di evitare di finire di nuovo in galera grazie ad una conoscenza approfondita dei codici.

Però ci potrebbe essere anche un’altra ragione: la concessione di un permesso, al momento di dare gli esami, per raggiungere l’università dove si sono iscritti, che spesso coincide con l’ateneo della loro città d’origine. Dice al Times Sebastiano Ardita, ex direttore generale "detenuti e trattamento" del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: "Mi preoccupa il fatto che, grazie a questa falla nel sistema di massima sicurezza, possano mettersi in contatto con i loro referenti sul territorio".

Fra i boss laureati c’è anche Pietro Aglieri, luogotenente di Totò Riina e Bernardo Provenzano, noto a Cosa Nostra per il suo amore per i classici greci e latini e, per questo, soprannominato ‘U Signurinu ("The Little Gentleman" specifica Richard Owen, il corrispondente da Roma del Times): Aglieri ha una laurea in teologia.

Continua Ardita: "Non credo che abbiano cambiato abitudini. C’è anche un’altra ragione: lo sfoggio di superiorità intellettuale ha aiutato i boss a mantenere il controllo sui clan, e i viaggi al paese natio per sostenere gli esami gli hanno offerto il modo per rompere un sistema che aveva lo scopo di isolarli".

"È assurdo che si allarghino le maglie di un regime di massima sicurezza che dovrebbe impedire i contatti tra i detenuti e il sottobosco criminale" osserva Antonio Ingroia, procuratore antimafia in Sicilia. Tuttavia "anche i boss mafiosi devono avere un’opportunità per migliorare" commenta Emilio Santoro, professore all’università di Firenze, citando il caso di Carmelo Musumeci, mafioso di Catania, che ha conseguito la laurea in legge discutendo una tesi sulle "esperienze di detenuti condannati all’ergastolo".

Verona: arrestato il detenuto evaso a Natale da Sollicciano

 

Agi, 25 gennaio 2008

 

La "fuga di Natale" di Alessandro Bongiovanni, 32enne pluri-pregiudicato originario di Prato, si è conclusa nelle prime ore della mattinata, ad un mese esatto dalla rocambolesca evasione dal carcere fiorentino di Sollicciano, nei pressi della stazione ferroviaria principale di Verona, quando ai suoi polsi sono scattate le manette dei Carabinieri del Reparto Operativo di Firenze, coaudivati dall’Arma Territoriale di Brescia e Verona.

L’avventura del Bongiovanni è iniziata nella notte dello scorso Natale, presso l’Istituto di custodia attenuata "Gozzini" del carcere di Sollicciano, dove si trovava detenuto per scontare una condanna definitiva a 10 anni e 4 mesi di reclusione per i reati di rapina e ricettazione, con fine pena nell’ottobre 2010.

Dopo aver pianificato tutto con estrema cura, smurava la finestra della propria cella al primo piano dell’istituto penitenziario, quindi, utilizzando una scaletta di circostanza, realizzata annodando strisce di lenzuola e pezzi di legno che fungevano da gradini, si è calato nel cortile sottostante e ha scavalcato il muro perimetrale, eludendo il sistema antievasione elettronico, dileguandosi subito dopo.

Le immediate indagini condotte dagli uomini della Squadra Catturandi del Reparto Operativo Carabinieri di Firenze, si sono indirizzate verso l’ambiente familiare dell’evaso. Sono stati effettuati approfonditi accertamenti con l’ausilio di complesse indagini tecniche, che hanno, cosi, consentito di ricostruire le fasi successive alla fuga.

L’uomo nei giorni seguenti è stato individuato nella provincia di Prato, dove si è reso responsabile della rapina di un’autovettura, riuscendo a dileguarsi a piedi dopo un prolungato inseguimento da parte dei Carabinieri, lasciando però nel veicolo abbandonato la sua firma, una lettera a lui indirizzata, che aveva ricevuto mentre si trovava detenuto.

Lo stesso, dopo essersi finanziato verosimilmente commettendo alcune rapine, ancora in fase di accertamento, si è rifugiato a Palermo, quindi, nella prima decade di gennaio, ha raggiunto Brescia, dove risiedono alcuni familiari, e dove ha iniziato una relazione sentimentale con una entreneuse di un night club.

Proprio questa sua "bruciante passione" lo ha fatto capitolare, e proprio nella città degli innamorati; i Carabinieri infatti, accertato che i due amanti avevano fissato un appuntamento per le 5 odierne presso la stazione ferroviaria di Verona principale, hanno predisposto la trappola, articolando un complesso dispositivo con personale in abiti civili, che si è conclusa con la sua cattura.

Il Bongiovanni è arrivato all’appuntamento addirittura in anticipo, ma appena sceso dall’auto non ha trovato la fidanzata ma i carabinieri che lo hanno arrestato. Le immediate perquisizioni effettuate nella sua auto e nella camera presso un albergo di Verona, utilizzando una patente ed una carta d’identità false intestate ad un cittadino croato, hanno consentito di rinvenire un taglierino, una parrucca bionda con codino, un passamontagna nonché la somma contante di euro 7.000 circa; elementi che fanno presumere il suo coinvolgimento in una serie di rapine, che lo stesso avrebbe effettuato per finanziarsi una probabile fuga all’estero.

In particolare, è stata accertata la sua responsabilità in una rapina in banca, commessa il precedente 21 gennaio, ai danni di un’agenzia del Monte dei Paschi di Siena a Verona. Sono in corso ulteriori accertamenti per accertare la sua responsabilità in ulteriori episodi criminosi. Dopo l’arresto e le formalità di rito, il Bongiovanni è stato portato presso il Tribunale di Verona per essere processato con rito direttissimo e quindi trasportato presso la locale Casa Circondariale.

Immigrazione: Rapporto Ismu; straniero un detenuto su tre

 

Dire, 25 gennaio 2008

 

Nel 2006, su 39mila carcerati erano poco più di 13mila. Situazioni più difficili nelle carceri lombarde, dove gli stranieri sono il 47,5%. In Italia dal 2000 c’è stato un incremento del 15% degli immigrati fra i detenuti

Le carceri italiane sono piene di immigrati: un detenuto su tre è infatti straniero. Nel 2006, su 39mila carcerati, erano poco più di 13mila. Le situazioni più difficili nelle carceri lombarde, dove gli stranieri sono il 47,5% e in Veneto il 35%. A livello nazionale, dal 2000 ad oggi, c’è stato un incremento del 15% degli immigrati fra i detenuti. I dati sono contenuti nel XIII Rapporto Ismu sull’immigrazione che è stato presentato questa mattina alla Camera di Commercio di Milano (vedi lanci precedenti; ndr).

La criminalità straniera costa alla collettività circa 7 miliardi di euro all’anno per i danni provocati alle vittime, per le spese sostenute per le attività delle forze dell’ordine, per i processi e per il funzionamento delle carceri.

"Non vuol dire però che gli stranieri commettono più reati degli italiani - precisa Andrea Di Nicola, dell’Università di Trento che ha curato del rapporto Ismu il capitolo sulla criminalità -. Il nostro sistema giudiziario è involontariamente discriminatorio e in prigione ci finiscono soprattutto gli immigrati, che sono di fatto meno tutelati. Basti pensare che molti non possono usufruire delle misure alternative alla pena perché non hanno una casa, spesso uno dei requisiti richiesti".

Rispetto agli altri paesi europei la situazione italiana è una delle peggiori, seconda solo a quella olandese. Nei Paesi Bassi, infatti, la percentuale di stranieri tra i detenuti è 13 volte superiore alla percentuale di stranieri tra la popolazione e in Italia 11,6 volte superiore. Va molto meglio in Portogallo, dove la concentrazione di detenuti immigrati è 7 volte superiore alla concentrazione di stranieri fra la popolazione, in Grecia (6,1 volte), in Francia (3,9 volte), nel Regno Unito (2,6 volte) e in Germania (2,3 volte). "In Italia la maggior parte degli stranieri in carcere ha subito solo il processo di primo grado - aggiunge Andrea Di Nicola -. Gli italiani di solito invece fanno ricorso e più facilmente evitano la detenzione. Inoltre, circa il 20% degli immigrati in carcere è stato condannato per reati legati alla violazione delle leggi sull’immigrazione".

 

 

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