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Giustizia: se la realtà supera l’immaginazione di Marco Travaglio
L’Unità, 23 gennaio 2008
Nella scena finale de "Il Caimano", Nanni Moretti nei panni di Berlusconi esce dal Tribunale che l’ha condannato fra il tripudio della folla che lancia molotov contro i giudici e dà alle fiamme il tribunale. A due anni dall’uscita del film, quella profezia si sta avverando. Con una variazione sul tema: il protagonista della jacquerie non è più soltanto Berlusconi. È un’intera classe dirigente, anzi digerente, stretta intorno ora a Mastella e signora, ora a Cuffaro, ora a Contrada, prossimamente a Dell’Utri. Nemmeno la fertile fantasia di Moretti poteva immaginare la scena della detenuta lady Mastella che arriva in tribunale per l’interrogatorio a bordo dell’auto blu con tanto di scorta (che, di passaggio, investe un cameraman), saluta e bacia la folla festante dei fans che lanciano petali di rosa manco fosse Evita Peròn, mentre il marito l’aspetta a casa dando del "farabutto", "macchietta da rinchiudere in un istituto" al procuratore di S. Maria Capua Vetere, e mentre l’Udeur concute il governo per strappare una mozione di fiducia alla famiglia Mastella. Il fatto poi che, nello stesso giorno, il Csm unanime sanzioni con censura e trasferimento il pm Luigi De Magistris, colpevole di aver scoperchiato un’immonda ruberia trasversale in Calabria e una fogna di toghe sporche in Lucania, diventa un messaggio vagamente mafioso a tutti i magistrati: se vi capita tra le mani uno scandalo che coinvolga politici, peggio ancora se di destra e di sinistra insieme, voltatevi dall’altra parte. Oppure fatevi furbi e trovate una scappatoia agli imputati eccellenti, salvando le apparenze. Fate come la magistratura pre-1992 che - come scrive Giuseppe Di Lello, già membro del pool di Falcone e Borsellino - mostrava "grande scaltrezza nel riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni col potere politico ed economico e, al momento di passare alle prassi giudiziarie, nel perseguire costantemente l’ala militare dell’alleanza,tenendo fuori dal campo d’azione l’altro corno del problema". Insomma imparate da quelli che Alfredo Morvillo, procuratore aggiunto a Palermo e cognato di Falcone, chiama i "professionisti delle carte a posto". La sentenza Cuffaro è esemplare: 5 anni per favoreggiamento di alcuni mafiosi, ma non per favoreggiamento della mafia. Così tutti cantano vittoria: i pm per il bicchiere mezzo pieno (la condanna), l’imputato per il bicchiere mezzo vuoto (niente aggravante mafiosa). Visto quel che ha combinato e quel che gli poteva capitare, ha ragione Totò. La pena, senza l’aggravante mafiosa, rientra nell’indulto e scende da 5 anni a 2: niente carcere, nemmeno se diventasse definitiva. Ma non lo diventerà, perché il reato si prescrive entro un paio d’anni, prima che si concluda il processo d’appello. Il Tribunale ha sparato un colpo a salve e il fuciletto a tappo gliel’ha fornito la Procura quattro anni fa, quando Piero Grasso e i fedelissimi Pignatone, De Lucia e Prestipino fecero archiviare il reato più grave, il concorso esterno in associazione mafiosa, lasciando le briciole: due episodi di favoreggiamento e rivelazione di segreti. Il pm che aveva avviato l’inchiesta, Gaetano Paci si oppose, sostenuto da un bel numero di sostituti e aggiunti. Ma finì in minoranza e fu estromesso dalle indagini. Così come il pm Nino Di Matteo, l’anno scorso. Sostenevano, i "dissidenti" dalla linea morbida, che dimostrare il favoreggiamento mafioso è difficile: molto più logico che il governatore abbia fatto avvertire il boss Guttadauro delle cimici in casa sua per evitare che parlasse di lui e dei suoi fedelissimi, anziché per favorire l’intera Cosa Nostra. Molto più facile dimostrare che Cuffaro è da 17 anni al servizio della mafia, visti i racconti di numerosi pentiti a cominciare da Siino, a cui Totò chiese i voti nel ‘91 per entrare in Regione. Il Tribunale ha confermato che avevano ragione i dissidenti. E ora persino Grasso dichiara al Corriere: per il favoreggiamento mafioso occorreva "una prova diabolica, complicata da trovare". Bella scoperta: Paci, Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Morvillo, Ingroia e altri pm da lui emarginati lo dicono inascoltati dal 2004. Grasso ribatte che, col concorso esterno, sarebbe andata anche peggio. Ma manca la controprova. Anzi, c’è la prova del contrario: fior di sentenze di giudici di Palermo riconoscono la colpevolezza di personaggi più potenti di Cuffaro (da Andreotti a Contrada, da Mannino a Dell’Utri) per concorso esterno. Non per favoreggiamento mafioso. E concorso esterno, quando ci sono le prove, funziona. O forse è proprio questo il problema? Giustizia: un patto d’acciaio contro gli abusi politici del diritto
Il Foglio, 23 gennaio 2008
La vicenda della crisi di governo, virtuale e poi reale e poi chissà, si trascina da mesi, s’impenna con l’uscita di Clemente Mastella, si intreccia con la questione del Partito Democratico e del suo destino sotto la leadership veltroniana, e taglia trasversalmente il fronte delle opposizioni e il ruolo, sempre pimpante, di Berlusconi e della sua nuova creatura ribattezzata Popolo delle Libertà, il tutto con la marea dei rifiuti che bagna Napoli come il suo mare, e la marea delle Borse che salgono e scendono come i tassi di sconto, allarmando il mondo sui rischi di una recessione che potrebbe essere durissima o anche no. In questo grande caos, che di per sé è o potrebbe risultare interessante, la conta dei senatori, il discorso di Prodi alla Camera, sembra una replica, per la verità scontata e ripetitiva, della tragicommedia del 1998, quando fu per un voto che il premier dell’Ulivo perse la cappa. L’unica vera questione intrattabile resta quella della giustizia e del circuito mediatico che l’accompagna, questione dalla quale siamo perseguitati da quasi vent’anni. Un patto d’acciaio per ristabilire le regole del diritto dovrebbe essere il tessuto intorno a cui si forma un governo di transizione o, dopo il voto, una nuova alleanza seria e responsabile che aspiri a guidare davvero questo paese. Inutile girarsi dall’altra parte, come hanno fatto cronisti e commentatori della crisi, e puntare sul pettegolezzo mastelliano, che non conta. Conta il fatto, che tutti ricordiamo: il ministro della Giustizia è stato assediato e diffamato davanti a milioni di persone da un pubblico ministero che poi il Consiglio superiore ha giudicato inidoneo alla inchiesta che conduceva, non rispettoso della regolarità del giusto processo. Con una nuova aggressione, i magistrati esternatori e i loro reggicoda mediatici hanno fatto fuori, per l’ennesima volta, la funzione (Mastella come persona non c’entra) alla quale, a guardia dei sigilli, la Costituzione assegna il compito di regolare, dal punto di vista delle politiche pubbliche e dell’efficienza, l’amministrazione autonoma della giustizia penale. Uno spettacolo simile sarebbe giudicato inguardabile dai francesi, dai tedeschi, dagli spagnoli e dagli inglesi e da tutti gli altri europei, per non parlare degli Stati Uniti. Nel mondo civile la giustizia è credibile, l’azione penale conduce in tempi certi a esiti chiari, la classe dirigente è costretta a rispettarla e a non gridare alle congiure, perché non esiste anche solo il minimo sospetto di un abuso politico della giustizia e della violazione della privacy dei cittadini. Nel mondo civile c’è l’habeas corpus, da noi no. Non siamo parte del mondo civile. Con le conseguenze che si vedono e che devono esser affrontate, qualunque sia il governo di oggi o di domani. Giustizia: Sappe; situazione delle carceri ormai irrecuperabile
Il Velino, 23 gennaio 2008
"Sistema penitenziario al collasso, carceri in ginocchio, novemila detenuti in più nel 2007. Gli ingressi dalla libertà sono stati 92 mila, il 50 per cento di soggetti stranieri (più 3,8 per cento rispetto al 2006). In dodici mesi la popolazione detenuta è aumentata di 8.866 soggetti, più 20 per cento. L’indulto: il 27 per cento degli indultati di nuovo in carcere, pari a 7.600 detenuti. Recidivi oltre il 70 per cento. Presto chiuse un decina di strutture. Servono interventi immediati altrimenti carceri presto a rischio ordine pubblico. I dati aggiornati al 31 dicembre 2007, sono 48.693 i detenuti nelle carceri Italiane, il 95,7 per cento uomini, le donne sono 2.175. Nel 2007 gli ingressi dalla libertà sono stati quasi 92mila, il 50 per cento dei soggetti sono stranieri". Questi sono i dati forniti dal consigliere nazionale del sindacato Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), Aldo Di Giacomo: "I dati analizzati - ha proseguito - evidenziano un aumento della popolazione detenuta di mille unità al mese, la capienza massima di 43mila presenze è stata superata a giugno 2007, con questo ritmo di crescita entro l’anno saremo di nuovo alla situazione di emergenza pre-indulto. Non è corretto parlare di emergenza carceri dato che sono vent’anni che i nostri istituti di pena sono in questa situazione. Vedo molte similitudini con l’emergenza di Napoli soprattutto per quanto riguarda l’incapacità della politica di affrontare e risolvere il problema, non si è pensato di costruire nuove carceri sebbene si sapesse che alcune andavano chiuse, non si è prevista una riforma strutturale al sistema carcere che immagini maggiore ricorso alle misure alternative con un potenziamento dell’area penale esterna, la possibilità di accordi che prevedono di far scontare la pena, ai detenuti non italiani, nel loro stato di appartenenza. Forte il dato sugli stranieri detenuti, attualmente sono 18.253, il 38 per cento dell’intera popolazione detenuta. La nazione che conta più detenuti delle nostre galere è il Marocco con 3.647 detenuti seguita dalla Romania con 2.725, dall’Albania 2.122, dalla Tunisia 1.765". Le regioni con maggiori rientri: la Campania, con 1.197 rientri; la Lombardia, con 1.106, il Lazio 805, la Sicilia con 691, il Piemonte con 573. Spiega ancora Di Giacomo: "Il sistema penitenziario è al collasso, le carceri non sono più in grado di ricevere detenuti. Il problema principale è proprio quello della mancata costruzione di nuovi carceri, i quali sono una necessità assoluta e primaria, impensabili per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri italiane, considerando l’imminenza della chiusura di una decina di strutture. Secondo una recente indagine Eurisko svolta in 25 istituti penitenziari italiani, almeno il 62 per cento dei detenuti ha una patologia che necessita di un intervento specialistico, il 43,5 per cento di questi ha problemi psicologici o psichiatrici, il 28,3 per cento una malattia virale cronica, in primis l’epatite C che segnala un’incidenza del 35 per cento, il 50 per cento è tossicodipendente, il 15 per cento è sieropositivo. A questo si aggiunge un disagio psico-sociale dilagante che colpisce praticamente tutti, dovuto anche al sovraffollamento e alle condizioni di vita degradanti delle carceri italiane. La tensione e il malessere dominante determinano un aumento dell’aggressività - spiega Aldo Di Giacomo -, potrebbe portare nei prossimi mesi a disordini significativi. Non a caso, questa mancanza di dignità e di attenzione ha portato, nel 2007, a un’incidenza molto alta di casi di suicidio sul totale dei decessi. Se a breve non si avrà una inversione di marcia ci troveremo ad affrontare una situazione irrecuperabile. È partita da poco la sperimentazione di 400 braccialetti elettronici, la quale si potrebbe applicare a circa 30mila detenuti in attesa di giudizio, questo potrebbe essere il primo piccolo passo. Ma nessuno - ha concluso Di Giacomo - dimentichi che ad oggi le persone sottoposte a misure diverse dalla carcerazione sono un esercito di oltre 113.000".
Carceri marchigiane: + 27% di detenuti
La popolazione carceraria della regione Marche è cresciuta nel corso del 2007 del 27%. Il consigliere Di Giacomo, del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria: "La situazione è drammatica". Nelle Marche, lo scorso anno si è caratterizzato per un aumento del 27% della popolazione detenuta, passata dai 622 detenuti presenti il 31 dicembre 2006 agli 853 del 31 dicembre 2007. "La situazione generale delle carceri è drammatica" afferma Aldo Di Giacomo, consigliere nazionale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria "sia per sovraffollamento di detenuti sia per carenza organica di personale di polizia penitenziaria e per la costanza di eventi critici che si verificano negli istituti di pena, suicidi e reati in genere commessi durante la carcerazione". Giustizia: Osapp; il nostro sistema penitenziario è allo sbando
Apcom, 23 gennaio 2008
Le carceri sono "ormai allo sbando, con l’assenza di qualsiasi guida ed iniziativa". A sottolinearlo è il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria), Leo Beneduci, "alla luce della situazione tortuosa che il Governo si appresta ad affrontare in questi giorni". Una situazione, sostiene l’Osapp, "ancora più grave, se si pensa che la crisi dei giorni scorsi, risolta prima con un interim, e precipitata poi dopo le dichiarazioni dell’ex Guardasigilli, priverà le carceri di qualsiasi intento o progetto, mentre la popolazione detenuta continuerà ad aumentare alle attuali disastrose condizioni per raggiungere livelli insostenibili con la stagione estiva". Ora dunque "è difficile sperare - aggiunge Beneduci - in una pianificazione politica precisa. Pensiamo a questo punto che lo spettro delle elezioni farà senz’altro ripiombare la condizione carceraria in quel baratro in cui si trovava prima del provvedimento di indulto: quello che avvertiamo non deriva da un valutazione esageratamente pessimista di ciò che sta accadendo, se avessimo un interlocutore di riferimento, in un quadro politico non così irrimediabilmente diviso e che guarda alle piccole strategie di bottega, oltre alle iniziative in favore del potere di acquisto dei nostri salari (con un contratto che doveva essere rinnovato il 1 gennaio di quest’anno) esigeremmo - afferma il sindacato - di affrontare da subito ed in via del tutto eccezionale il grave dissesto del sistema penitenziario italiano". Per questo, l’Osapp lancia un appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, affinché "qualsiasi sia la decisione finale sulle sorti della legislatura e per il Paese, la grave emergenza delle carceri rappresenti sempre una delle priorità della manovra di ciascun Governo, visto che non lo è stata fino adesso, e i 43 mila poliziotti penitenziari non siano lasciati soli al loro destino, in mano ad un’amministrazione obsoleta per organizzazione e finalità ed in cui l’unica legge - conclude Beneduci - è quella dettata dai provveditori e dai direttori d’istituto". Giustizia: sul divieto di pubblicazione delle intercettazioni...
www.radiocarcere.com, 23 gennaio 2008
I commenti di politici, avvocati e magistrati, in merito alla riflessione di "Radio Carcere" sul divieto di pubblicazione delle intercettazioni, pubblicati durante la settimana su "Il Riformista".
Giuliano Pisapia: giusta la sanzione amministrativa
Quello della continua violazione del divieto di pubblicazione di atti di indagini penali è un tema decisamente delicato, la cui soluzione non è più procrastinabile. È sempre più urgente trovare il punto di equilibrio tra diritto-dovere di informare, tutela delle indagini e delle persone coinvolte (giustamente o ingiustamente) in un procedimento penale: l’attuale normativa, infatti, si dimostra, ogni giorno di più, del tutto inefficace, anche perché si tende, in buona o mala fede, a confondere il diritto-dovere di informare con il preteso diritto di commettere reati (il reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, art. 684 c.p., si estingue col pagamento di una somma irrisoria). Il dibattimento è, e deve essere, pubblico; le indagini sono, e debbono essere, segrete (il che non significa, come alcuni fanno credere, che non si possa, ad esempio, dare notizia di un arresto!). Condivisibile è quindi la proposta di "Radio Carcere", che intende tutelare diritti fondamentali, quotidianamente e impunemente calpestati, quali il diritto di difesa, il diritto alla riservatezza ecc.. Si può solo aggiungere, in quanto troppo spesso lo si dimentica, che il segreto previsto per le indagini penali è posto principalmente, anche se non solo, a garanzia proprio delle indagini: la fuga di notizie, infatti, rende possibile l’inquinamento delle prove, i falsi alibi, la fuga degli indagati ecc., con intuibili vantaggi per i colpevoli e danni per gli innocenti. Obiettivi di chi crede nella Giustizia non possono non essere, tra gli altri, la serenità delle parti processuali, l’imparzialità del giudice, la tutela delle indagini e la dignità di chi è (o può risultare) estraneo ai fatti. Ecco la necessità di trovare uno strumento efficace per evitare che, quotidianamente e impunemente, vengano pubblicati interrogatori, testimonianze, intercettazioni ecc. di cui è vietata la divulgazione. Tale strumento può essere proprio quello di una immediata sanzione pecuniaria nei confronti della proprietà della testata che ha violato la legge. Se, del resto, determinati "scoop" giornalistici, hanno come fine quello di aumentare le vendite, è del tutto logico, oltre che giusto, che, quando si incorra in un illecito, la relativa sanzione non colpisca (tantomeno col carcere) i giornalisti (salvo eventuali violazioni deontologiche, il cui giudizio spetta al Consiglio dell’Ordine). Così come mi sembra ragionevole che tali sanzioni siano di carattere pecuniari e che siano proporzionate alla diffusione e alla gravità del fatto. Non mi convince, invece, la possibile sospensione della testata giornalistica in caso particolare gravità o in caso di reiterazione, in quanto si inciderebbe sulla libertà di stampa. In tali casi, la multa dovrebbe essere progressivamente aumentata. Si potrebbe anche prospettare che tali somme sia utilizzate per indennizzare chi ha subìto danni dalla divulgazione di atti non pubblicabili. Questione del tutto diversa, è, evidentemente (anche se molti fanno finta di non comprenderlo!), quella della violazione del segreto d’ufficio, per cui il codice già prevede una pena particolarmente severa ed efficace. Non vi è quindi alcuna necessità di modificare la legge: sarebbe invece indispensabile intervenire affinché, in presenza di tali reati, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale non continui ad essere un "optional" e, finalmente, si facciano le doverose indagini e i relativi processi, ponendo così fine a danni, spesso irreparabili, per la giustizia e a ingiuste, oltre che ingiustificate e inammissibili, impunità.
Oreste Dominioni: sì all’illecito amministrativo e anche disciplinare
Sono utili due premesse. La prima è che le intercettazioni di comunicazioni sono un mezzo di indagine importante e spesso necessario. La seconda premessa è che, come diceva un grande Maestro, si tratta di un’attività "fraudolenta". Al cittadino è riconosciuta la libertà costituzionale della comunicazione, di cui è garantita la riservatezza. Al tempo stesso, però, si strumentalizza quest’area protetta di libertà: si coglie di "sorpresa" la persona che la sta esercitando e vi si inseriscono occultamente atti di indagini. Questi due dati impongono una prima considerazione di carattere generale. Le intercettazioni devono essere usate in modo non indiscriminato, ma oculato, mirato e contenuto nei limiti più rigorosi. Questo problema ha un duplice aspetto: riguarda la disciplina legislativa, che va organicamente riformulata per fare salve in modo equilibrato le due esigenze di tutela della libertà di persona, che è il dato primario, e di assecondamento dei bisogni reali delle indagini; inoltre riguarda gli eccessi della prassi giudiziaria. Si innesta in ciò il problema scabroso se, quando e in che modo i risultati delle intercettazioni possano essere pubblicamente divulgate, in particolare dai media. Anche a questo proposito vanno tenuti presenti più aspetti. Le intercettazioni, essendo attività di indagine, hanno la necessità di essere mantenute segrete. In tanto l’investigazione ha la possibilità di risultare proficua in quanto non sia palesata in modo prematuro. Svelarne anzitempo le linee sulle quali si sta sviluppando, "scoprire" i suoi primi esiti sono tutti fattori che rischiano di vanificare la sua produttività. Inoltre la persona nei cui confronti sono compiuti atti giudiziari di questa natura, che invadono la sua sfera privata, ha diritto che le notizie raccolte non siano esposte pubblicamente prima di un loro controllo interno al procedimento. Si profila a questo punto il rapporto di queste necessità di riservatezza con il diritto-dovere di informazione. La funzione dell’informazione non può affermarsi contro le prescrizioni di legge che salvaguardano l’efficacia delle indagini e la riservatezza della vita della persona. Come dunque rispondere alla domanda se il giornalista possa legittimamente pubblicare i contenuti di intercettazioni che gli sono pervenuti quando ancora sono segreti? Non si può di certo applicare una regola del tipo "male captum bene retentum" e quindi bene pubblicato. Il diritto-dovere di informazione non sussiste in situazioni che sono contro la legge. Molto delicata è infine la questione di come possano essere arginati pubblicazioni illegittime. Certamente il ricorso alla sanzione penale è inadeguato su tutti i versanti. Se si prevede una sanzione grave, questa risulta inaccettabile per le sue potenzialità di compromettere l’esercizio della funzione informativa, che sarebbe investita da una generale intimidazione. Se si prevede una sanzione penale lieve, essa è inefficace. È dunque senz’altro da pensare ad altre misure: quella disciplinare e quella dell’illecito amministrativo. Pure queste vanno però attentamente pensate, in modo che siano tali da esercitare una reale deterrenza ma al tempo stesso non eccessive. Al fondo vi è, come spesso avviene in questioni del genere, una necessità: ricostruire un forte costume professionale.
Gaetano Pecorella: bene sanzione amministrativa, ma proporzionata
La soluzione proposta è sicuramente corretta rispondendo a quel principio razionale che dovrebbe porsi a base di ogni tipologia di contrasto a comportamenti illegali che abbiano a che fare con la soddisfazione di interessi patrimoniali: la pubblicazione di atti di indagine, ancora coperti da segreto, da parte di un giornale, obbedisce sì a intenti personali dell’autore dello scoop, e cioè all’affermazione della sua professionalità, ma realizza anche, e soprattutto, le finalità economiche dell’editore di aumentare il numero di copie vendute e, quindi di incrementare i suoi profitti. Perciò, se la sanzione, irrogata a seguito della violazione del divieto di pubblicazione, azzererà gli utili di impresa, o addirittura costituirà un costo, verrà meno, di regola, la spinta che induce il direttore a pubblicare notizie riservate anche per fare gli interessi economici del suo editore. Questi, d’altronde, non potrà non valutare negativamente, con le conseguenze che si possono immaginare, un direttore che, anziché fargli guadagnare denaro, gli produrrà un danno derivante dalla sanzione inflitta dal garante. Oltre a ciò, il ricorso ad un soggetto esterno al sistema giudiziario, e cioè al garante, avrà l’effetto di spezzare quel circolo mediatico che fa sì che i giornalisti abbiano gli atti di indagine, non di rado da chi dovrebbe custodirli, e che, come contropartita della pubblicità che ne deriva, agli inquirenti, o ad altri soggetti titolari delle inchieste, i giornalisti non siano quasi mai perseguiti. Solo due obiezioni possono farsi. La prima è che in tal modo l’editore risponderebbe di comportamenti non da lui tenuti, né a lui riconducibili, e ciò in violazione del principio della personalità della responsabilità per le sanzioni a carattere patrimoniale: ma questo è fenomeno tutt’altro che sconosciuto nel nostro diritto, come dimostrano le ipotesi in cui l’imprenditore risponde per i vizi del prodotto aziendale. La seconda è che i piccoli giornali potrebbero essere schiacciati dal peso economico di queste sanzioni, peso che i grandi giornali potrebbero sostenere più facilmente. Ciò è vero, ma il problema è risolvibile prevedendo una sanzione proporzionata al numero di copie vendute in occasione della pubblicazione delle notizie riservate. In tal modo, non solo si adeguerebbe la sanzione alla gravità del fatto, ma si eviterebbe una sanzione non sopportabile da quotidiani a limitata tiratura. Il direttore del giornale si determina a pubblicare atti di indagine riservati, come dicevo, anche in vista degli interessi economici dell’editore: vi sono, in effetti, altre ragioni che possono indurlo a violare il divieto, e cioè ragioni di natura professionale, le stesse dell’autore dell’articolo. Per questo motivo ho forti dubbi che sia opportuno eliminare la sanzione penale per il giornalista ed il direttore, costituendo la stessa un efficace strumento che può dissuaderli dal pubblicare gli atti di indagine anche quando ciò potrebbe rappresentare per loro un rilevante utile professionale. Ma, se si è convinti che il segreto delle indagini è un bene primario, sia per il buon funzionamento della giustizia, sia per l’onorabilità delle persone, si deve pensare ad una sanzione adeguata, che non si risolva, come oggi, in una modesta somma di danaro. O, quanto meno, si dovrebbe trasformare il reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, da contravvenzione, in difetto: se non altro per il valore simbolico che avrebbe una tale innovazione.
Luca Palamara: idea buona, ma meglio lasciare la sanzione penale
La proposta di Radio Carcere impone, innanzitutto, di chiedersi fino a che punto sia consentito che elementi acquisiti nello svolgimento delle indagini vengano, quasi in tempo reale, riportati e divulgati dai mass-media. Sul punto una premessa è d’obbligo: l’indagato deve conoscere le notizie che lo riguardano nella sede naturale che è quella del processo e non può apprenderla dai giornali o dalle televisioni. Tuttavia, è necessario distinguere le diverse conseguenze derivanti dalla pubblicazione degli atti coperti dal segreto rispetto alla pubblicazione degli atti non più coperti dal segreto. Sul punto l’articolo 329 del codice di procedura penale chiaramente stabilisce che gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Pertanto a carico dei pubblici ufficiali (magistrati, cancellieri, polizia giudiziaria etc.) sussiste l’obbligo del riserbo su tutte le notizie apprese nello svolgimento delle indagini, la violazione del quale porta i medesimi pubblici ufficiali a dover rispondere del reato di rivelazione di segreto di ufficio. Dal 1982, però, la Cassazione ha stabilito che anche il giornalista può concorrere nel reato di rivelazione di segreto di ufficio se ha istigato o determinato il pubblico ufficiale a rivelare il segreto di ufficio. Da quanto sopra discende che quando l’atto del procedimento è segreto è vietato divulgarlo in ogni forma; in caso di pubblicazione degli atti coperti dal segreto, il giornalista dovrà rispondere, anche, del reato di pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale (articolo 684 del codice penale). Tuttavia, gli aspetti più problematici circa i rapporti tra il diritto alla riservatezza della persona sottoposta ad indagini ed il diritto di cronaca, derivano dalla pubblicabilità o meno degli atti non più coperti dal segreto. Sul punto i lavori parlamentari del Ddl sulle intercettazioni attualmente al vaglio del Senato (Atto S1512), indubbiamente appaiono più restrittivi del diritto di cronaca in quanto limitano (se non lo escludono, del tutto, come nel caso delle intercettazioni) la pubblicazione anche degli atti non coperti dal segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari. Non è questa la sede per analizzare nel dettaglio le singole norme sulla pubblicità degli atti di indagine, ma, indubbiamente, è auspicabile che in sede parlamentare il legislatore riesca a trovare un giusto punto di equilibrio tra le due opposte esigenze del diritto alla riservatezza e del diritto di cronaca. Con riferimento alla proposta di radio carcere, tendente alla depenalizzazione del reato della pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale, indubbiamente la stessa merita apprezzamento nella parte in cui si preoccupa di garantire l’effettività della sanzione come deterrente per arginare quel tipo di informazione non rispettosa della sfera privata delle persone direttamente coinvolte nelle vicende giudiziarie. Tuttavia personalmente ritengo che la delicatezza della materia in questione, avuto riguardo alla natura degli interessi da tutelare, impone che rimanga fermo il ricorso alla sanzione penale (come in effetti stabilito nel Ddl sulle intercettazioni che prevede la pena dell’ammenda da euro 10.000 a 100.000) al fine di garantire la giurisdizionalizzazione dell’accertamento, con tutte le garanzie dello strumento processuale. Giustizia: Spadaccia; le misure alternative meglio del carcere
Apcom, 23 gennaio 2008
In Italia le pene alternative al carcere sono in media un terzo di quelle a cui si fa ricorso negli altri paesi europei, dove quasi ovunque superano nettamente le pene detentive "mentre da noi il rapporto fra le une e le altre è rovesciato". Lo denuncia il senatore Gianfranco Spadaccia, garante dei detenuti del Comune di Roma, che con una nota, partecipa all’inaugurazione dell’anno giudiziario fatta dall’Unione camere penali italiane. "Da anni ormai le statistiche confermano che la recidività di coloro che tornano alla libertà dopo aver scontato una parte della pena in misura alternativa è di almeno tre volte inferiore alla recidività di coloro che escono direttamente dal carcere - continua Spadaccia - Tutti riconoscono che l’affidamento in comunità, l’affidamento ai servizi sociali, il lavoro esterno, la semilibertà, la libertà condizionale consentono alle persone sottoposte a pene di ricostituire un tessuto di rapporti sociali e di relazioni affettive oltre alla possibilità di trovare occasioni di lavoro". "Non si contesta qui la giusta esigenza di far comprendere a chi ne beneficia che la misura alternativa è una mutazione e non una fuoriuscita dalla pena, è un cammino verso la libertà e non una anticipazione della libertà. Ma non si comprende perché si debba arrivare a volte, come è accaduto recentemente, a far morire in carcere un malato terminale, le cui condizioni erano state dichiarate incompatibili con la detenzione". Bollate: studenti premiano detenuti per le ricette dal carcere
Il Giorno, 23 gennaio 2008
Questa volta i temi scelti dai nostri concorrenti hanno dato filo da torcere alla giuria. Da una parte la vita in carcere, in particolare le "tecniche di sopravvivenza" adottate dai detenuti di Bollate che, per cucinare utilizzano come strumenti quello che noi liberi di solito buttiamo via; dall’altra l’orientamento scolastico necessario per scegliere l’indirizzo di studio più confacente dai singoli ragazzi, individuato dagli studenti dell’Istituto San Giuseppe di Milano. Tutti e due interessanti hanno dato vita a pagine scritte bene, di quelle che si trova piacere a leggere fino il fondo. Ma alla fine qualcuno doveva pur vincere e così è stato. Fatta la media dei singoli voti, gli studenti della scuola presso il carcere di Bollate si sono aggiudicati il round con un bel 7,9, i loro concorrenti hanno incassato invece 7,3. Sarà stata la curiosità di sapere come diavolo si fa a cucinare con tutte le limitazioni che la detenzione comporta, sarà che gli studenti hanno tirato le orecchie ai giornali "colpevoli" di non aver raccontato ai propri lettori la "Notte bianca" dello scorso ottobre in carcere, oppure la gustosa ricetta della focaccina alle patate fornita dall’unico detenuto indiano. Non se ne abbiano i ragazzi del San Giuseppe, bravissimi anche loro, perché in fatto di orientamento hanno dimostrato di saperne molto e hanno giustamente attribuito all’orientamento le capacità di prevenire il disagio giovanile. Le squadre si incontreranno nuovamente il 19 febbraio. Cuneo: accusato di trafugare salme, si butta sotto un camion di Mario Baudino
La Stampa, 23 gennaio 2008
Non gli ha chiesto perché stesse ripulendo piccoli detriti davanti alla cappella della famiglia Calosso, mobilieri notissimi a livello nazionale; non ha creduto molto alla giustificazione dell’anziano intruso, che sosteneva di essere rimasto intrappolato la sera prima e di non essere riuscito a ottenere aiuto; non è stato lì a discutere, ma ha avvisato i carabinieri. Qualche mese fa era già sparita una bara, dalla stessa tomba: occhi aperti, gli aveva detto il maresciallo Fabrizio Giordano, e lui li ha tenuti spalancati anche davanti all’incredibile. Poi, nel giro di poche ore, tutto è precipitato in tragedia. A sera il "Tomb Raider" di Saluzzo (niente a che vedere col videogioco di cui è protagonista Lara Croft, qualche somiglianza forse con quel che accade in Tutti i nomi, il romanzo di José Saramago) è stato messo di fronte ad accuse pesanti: aver trafugato nell’agosto scorso la salma di Giovanni Calosso, scomparso nel 1978, fondatore del grande mobilificio, e ora quella della moglie, Margherita, morta nel ‘77. Sono andati a prenderlo a casa: ha giurato di essere innocente, ma non gli hanno creduto. Confinato nel suo appartamento in attesa dell’udienza di convalida, deve aver trascorso una domenica drammatica, e lunedì mattina si è infine ucciso, gettandosi con la sua macchina contro un camion, su una statale poco distante. Ha lasciato un messaggio per il figlio Gianluca, vigile urbano a Saluzzo, e per la figlia che da tempo abita a Milano, dove ribadisce la sua innocenza e chiede perdono. Ma gli investigatori ormai non hanno dubbi. In una conferenza stampa tenuta a Cuneo, il Procuratore di Saluzzo e i carabinieri hanno ricostruito questa incredibile storia, e mostrato con una certa ammirazione le immagini del carrello tuttofare (che è stato definito appunto "leonardesco "). Hanno trovato i riscontri, anzi le prove, conducendo le indagini "alla vecchia maniera", soprattutto con molte perquisizioni, raggiungendo così una ragionevolissima certezza che quell’argano-carrello fosse stato costruito nel suo laboratorio. Al momento non si parla di complici, neanche inconsapevoli. Alla sua età, l’imprenditore sembra aver fatto davvero tutto da solo, nel segreto più assoluto. Nessuno aveva mai sospettato di lui. Il custode del cimitero è ancora un po’ spaventato, sa che deve tenere la bocca chiusa e dice che il suo telefono è sotto controllo (queste sarebbero invece le indagini "nuova maniera", chissà se è vero), ma la vicenda pare insomma ben chiara, e l’udienza di convalida per l’arresto, che si terrà oggi, perché "va fatta regolarmente anche se l’imputato non è più tra i vivi", come ci spiega l’avvocato di famiglia, Luca Martino, non dovrebbe aggiungere se non qualche tassello. Resta il fatto che il movente è un mistero. Perché mai Antonio Cacciolatto, persona integerrima, senza problemi economici, rovistava nottetempo nel cimitero? E che cosa lo spingeva alla cappella dei Calosso, una bella edicola art déco, con due bronzei angeli piangenti sul frontone, firmati "Tedeschi" e di ottima fattura, per estrarre con fatica, e soprattutto con un incredibile talento ingegneristico, bare poste ad almeno un metro e mezzo da terra? Questo davvero nessuno lo sa. Quando scomparve il feretro di Giovanni Calosso, nell’agosto scorso, non ci furono richieste di riscatto. Ancora non è stato ritrovato. Quello della moglie, probabilmente estratto dalla tomba nella notte fra venerdì e sabato, è stato invece rintracciato, a un centinaio di metri di distanza, nel loculo di un’altra cappella famigliare. Non è chiaro se fosse stato "parcheggiato" lì per una seconda, abusiva, traslazione, o se per qualche strano disegno dovesse essere quella la sua destinazione definitiva. I carabinieri sembrano credere di più alla seconda ipotesi, perché hanno smesso di cercare all’interno del cimitero: ieri era chiuso, ma non per ordine degli inquirenti, che evidentemente stanno guardando altrove. Tutto è chiaro, tutto resta enigmatico e inquietante. Il misterioso disordinatore di salme - se è davvero lui, come sembra accertato e non si tratta di un mostruoso scambio di persona - ha portato con sé il segreto, nella corsa verso la morte sulla statale tra Busca e Cuneo. Antonio Cacciolatto "lavorava" da mesi in quel cimitero, nascosto fra le tombe. Era un uomo meticoloso, aveva pensato proprio a tutto. E nessuno, ma proprio nessuno, aveva mai intuito segni di squilibrio. "Quando l’ho chiesto al figlio, quasi se n’è risentito", dice l’avvocato. Aveva, dice ancora il legale, un grandissimo culto dei defunti. Da oltre sei anni, e cioè da quando era stata seppellita lì sua moglie, in un’altra ala però, lontanissima dalla tomba dei Calosso, lo visitava almeno due volte la settimana. Ormai, conosceva a menadito la "sua" città dei morti. Forse voleva farne un labirinto. E forse non è stato solo un accesso di follia, ma un eccesso di - folle - razionalità. Roma: un corso di "Telefono Rosa", contro tutte le violenze
Dire, 23 gennaio 2008
Dalla violenza di genere a quella sessuale, dalla pedofilia al mobbing, dal bullismo allo stalking. È partito oggi il corso di sensibilizzazione sulla violenza, differenza di genere e Pari opportunità, promosso dall’associazione nazionale Telefono Rosa insieme all’assessorato capitolino alle Pari opportunità, presentato a via dei Lincei dall’assessore Cecilia D’Elia. Sono tredici gli incontri in programma (due al mese di quattro ore ciascuno), aperti a tutti gli operatori socio-sanitari dei Municipi VIII, X, XI e XII e ai tecnici di pronto soccorso e delle forze dell’ordine del territorio, che saranno tenuti da psicologi penalisti e civilisti e si concluderanno con un workshop il 25 giugno. "Noi siamo sempre in prima fila - sottolinea D’Elia - per fornire un servizio di accoglienza, oltre che di sostegno legale e psicologico alle donne vittime di violenza". Secondo l’assessore capitolino alle Pari opportunità "è importante che istituzioni e centri anti-violenza lavorino in rete, ma è fondamentale soprattutto puntare sulla formazione per rendere più efficaci i nostri interventi. Insieme all’assessorato alle Politiche sociali abbiamo pensato di rafforzare l’intervento dei centri attivi 24 ore su 24 e - conclude - all’interno di questo progetto sperimentale presto partiranno dei corsi specifici per i pronto soccorso". Immigrazione: i "bambini nascosti" non conoscono frontiere di Gian Antonio Stella
Corriere della Sera, 23 gennaio 2008
Letizia Moratti, e si vede, non sa nulla di Lucia. Era una bambina italiana che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, quando la sindachessa di Milano era già grande, viveva in Svizzera illegalmente. Fuorilegge. Clandestina. Quando mamma e papa andavano al lavoro, la chiudevano dentro a chiave. Uscì fuori per la prima volta quando aveva tredici anni. Di bambini come lei, ancora a metà degli anni Settanta, quando Letizia era già assistente universitaria, ne avevamo in Svizzera almeno 30.000: trentamila. Portati dai genitori calabresi e veneti, siciliani e lombardi, violando la legge e l’odio di James Schwarzenbach, promotore di tre referendum contro l’invasione degli italiani e feroce nemico del loro disperato desiderio di portar con sé i vecchi, le mogli, i figli: "Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini svizzeri. Dobbiamo liberarci del fardello. Dobbiamo, soprattutto, respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale". Marina Frigerio e Simone Burgherr, due studiosi elvetici, hanno scritto un libro sui nostri bambini costretti a vivere chiusi in casa come Anna Frank. Si intitola Verstecfcte Kinder, "Bambini nascosti". E racconta storie incredibili come quella di una piccola che, un giorno, cadde in casa e si incrinò due costole: fino al rientro dei genitori non fece un lamento. O come quella di Anna: i piccoli clandestini italiani in Svizzera erano trentamila. "Di giorno resta chiusa in casa. Le rare volte che può scendere in cortile non deve parlare con nessuno: sa solo l’italiano e i vicini possono accorgersi della diversità. Per spaventarla, la madre le racconta che basta una parola, una sola e arriva la polizia a punirla. (...). Non sa cos’è l’altalena. Non ha mai sfiorato la sabbia con le dita. Non riesce a correre perché le manca il flato. Quando esce dal nascondiglio e può andare a scuola, ha otto anni". Erano così tanti quei bambini, racconta la Frigerio, che "qua e là, protette in genere da qualche parrocchia o qualche comunità religiosa, esistevano perfino delle scuole clandestine. Elementari. Anche medie. E sono andate avanti fino agli anni Ottanta". Quando la Moratti aveva passato la trentina. E certo non sapeva che perfino qualche consolato aveva allestito scuole clandestine per i nostri bambini clandestini. Legga... legga... magari le verrà il dubbio che c’è clandestinità e clandestinità. E che un conto è colpire con mano durissima la delinquenza, e qui siamo con lei, un altro i bambini wop, cioè without-papers, senza documenti in ordine, come chiamavano in America i "nostri" tantissimi clandestini tra i quali va contato perfino Giovanni Crisostomo Martino, il trombettiere del generale Custer noto come John Martin. I delinquenti "vogliono" rimanere clandestini e mandare i figli a elemosinare, rubare, scippare. Chi manda i figli a scuola, in genere, ha un sogno: uscire dalla clandestinità. Come quei nostri bambini emigrati in Svizzera dei quali, non fosse nata miliardaria, Letizia avrebbe potuto essere la madre. Immigrazione: Moratti; incomprensibili i tagli ai miei asili...
Il Giornale, 23 gennaio 2008
"Incredibile". Anzi. "È assolutamente incomprensibile". Il sindaco di Milano, Letizia Moratti, replica duramente al ministro della Pubblica Istruzione che due giorni fa ha revocato la parità (e 8 milioni di fondi) alle scuole d’infanzia comunali. La colpa del Comune sarebbe quella di pretendere che i genitori stranieri che vogliono iscrivere i figli all’asilo siano in possesso del permesso di soggiorno (o lo abbiano chiesto) entro il 29 febbraio. Il 9 gennaio il ministro aveva minacciato Palazzo Marino: corregga la circolare e iscriva anche i figli dei clandestini o si scordi i soldi del governo. Il Comune è rimasto sulla propria posizione e Fioroni è passato ai fatti, mettendo a rischio il servizio anche per gli altri cittadini. "Le scuole d’infanzia non rientrano in quelle dell’obbligo - replica secca la Moratti, la politica non può imporre delle regole perché questi asili fanno parte dei servizi ai cittadini del Comune". E Milano, sottolinea, fa meglio di altre grandi città e dello Stato: "Abbiamo 170 asili comunali con 21mila bambini, Spendiamo 100 milioni l’anno e non ci sono liste d’attesa. Quelli statali sono invece 22, quindi il nostro è un servizio di supplenza allo Stato". La "cosa grave - affonda - è che il ministro ci chiede di discriminare i figli di milanesi e immigrati regolari a favore dei clandestini. Rispondiamo anche ai casi più gravi e difficili, compresi quelli dei bimbi irregolari, ma con i servizi sociali". La Moratti si augura che Fioroni "ci ripensi, stiamo verificando questa nuova diffida e abbiamo dato come sempre la nostra disponibilità a sederci a un tavolo tecnico per affrontare il problema. Ma non ci piegheremo a una politica che favorisce l’illegalità, non sarebbe corretto nei confronti di chi è regolare a tutti gli effetti". Il viceministro della Pubblica Istruzione ribatte "proprio la Moratti, in quanto ex ministro, conosce bene la legge 62/2000 che definisce "scuole paritarie" le non statali, comprese quelle degli enti locali. Ma anche il presidente diessino della Provincia di Milano, Filippo Penati, critica il ministro: "La soluzione si trova col dialogo, non coi diktat. Non avrei aperto un dibattito con la spada di Damocle del taglio del fondi". La linea del ministro, afferma il presidente dei deputati della Lega, Roberto Maroni, "è insensata, esprimo la mia solidarietà al sindaco. Non si capisce perché il Comune avrebbe dovuto preferire gli immigrati clandestini ai cittadini milanesi". A difenderla è invece il presidente della Commissione istruzione della Camera, Pietro Folena (Prc): "È assolutamente corretta sul piano formale e condivisibile su quello sostanziale. Complimenti al ministro, che ha fatto seguire alle parole i fatti concreti". Venezuela: Zacchera; appello per sicurezza italiani detenuti
News Italia Press, 23 gennaio 2008
"È urgente attivarsi per la sicurezza dei nostri connazionali". Questo l’allarme lanciato dall’Onorevole Marco Zacchera, Responsabile esteri di An e vicepresidente del comitato per gli Italiani nel Mondo della Camera, dal Venzuela dove si trova dallo scorso 20 gennaio ed in queste ore a colloquio con l’Ambasciatore Italiano Luigi Maccotta per approfondire la questione della sciagura "dei nostri 8 connazionali dispersi nelle acque di Los Roques". Una vicenda sulla quale l’Onorevole Zacchera continua a chiedere alla Farnesina un’inchiesta dell’Italia affinché sia fatta piena luce sul disastro. "Lo stato Italiano", dichiara Zacchera "non può ricordarsi dei nostri connazionali solo in occasione di campagne elettorali, là dove il governo latita i funzionari ed i dirigenti del Farnesina dovrebbero seguire costantemente le sorti dei nostri connazionali all’estero anche quando non approdano alla ribalta delle cronache come accade per i 51 italiani detenuti nelle carceri venezuelane". "Durante la visita ai nostri detenuti", prosegue l’esponente di An, "fatta proprio ieri con Padre Leonardo Grasso nella prigione di Los Teques di Mirando sembrava di vivere un incubo, un vero e proprio inferno". "Celle di 70 detenuti di cui 3 armati che rappresentano la difesa interna. Solo in questa prigione lo scorso anno sono state sequestrate 2.800 armi, 37 bombe a mano e la scorsa settimana persino un mitra UZI: quasi ogni giorno c’è una sparatoria" così l’Onorevole Marco Zacchera descrive la situazione che ha trovato. "Qui", denuncia Zacchera, "tutto è violento: nel 2007 si sono registrate 498 morti per risse; i detenuti sono costretti a pagare per avere l’acqua, il cibo, il letto, l’accesso all’unica doccia ed il diritto a vivere, ovvero la scorta armata nelle celle che costa 20.000 bolivares a testa la settimana, l’equivalente di 3 euro a testa per 7 giorni". L’Italia, prosegue Zacchera "ha in Venezuela il gruppo di detenuti più consistente di tutto il continente sudamericano: ad oggi sono ben 51 italiani dimenticati in questo inferno che riescono a sopravvivere ed a sopportare le dure condizioni carcerarie grazie all’inestimabile opera di assistenza e conforto di Padre Leonardo Grasso" Se l’Italia si è battuta per la moratoria contro la pena di morte, conclude Zacchera, "dovrà battersi anche per queste morti. È indispensabile che gli organi di informazione sensibilizzino l’opinione pubblica sull’inferno quotidiano di queste carceri in grado soltanto di restituire, a fine pena, un detenuto abbrutito e violento anziché pentito" Droghe: Roma; pasticche di erbicida vendute come ecstasy
Notiziario Aduc, 23 gennaio 2008
Dichiarazione di Marco Bosi (Pd), Presidente della Commissione Sicurezza del Comune di Roma: "Dopo l’eroina-killer recepiamo un nuovo allarme dell’Osservatorio Europeo sulle Droghe di Lisbona, inoltrato per l’Italia dall’Istituto Superio di Sanità, sulle circolazione di pasticche di 2,4-D vendute nel mercato illecito come ecstasy. Dopo le segnalazioni avvenute simultaneamente ai sequestri effettuati dalla polizia olandese, questo composto chimico sembra aver trovato canali d’accesso per esser smerciato anche nel nostro territorio. Le pasticche requisite ricordano in tutto e per tutto quelle di ecstasy, dai colori vivaci alle innocue immagini impresse sulle superfici. I ricercatori avvertono che il 2,4-D, o Acido 2,4-diclorofenossiacetico, è un erbicida altamente tossico, tra i più utilizzati in agricoltura, assolutamente pericoloso e dagli effetti devastanti per la salute degli ignari assuntori, se così possiamo definirli. Riteniamo doveroso amplificare questo segnale di allerta, in particolare verso i giovani, visto l’elevato livello di pericolosità della sostanza in questione".
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