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Giustizia: Luigi Scotti sarà nuovo ministro per due mesi
La Repubblica, 7 febbraio 2008
"Porterò avanti l’attività del Ministero già avviata. In due mesi si può fare ancora molto, sempre nell’ordinaria amministrazione. Io, d’altronde, sono un tenace lavoratore". Così il nuovo ministro della Giustizia, Luigi Scotti, risponde a chi gli chiede cosa intende portare avanti da domani fino al prossimo 14 aprile (data delle elezioni) nel suo nuovo incarico di ministro della Giustizia. La sua tenacia è nota: da ex presidente del Tribunale di Roma ha riorganizzato in toto il lavoro degli uffici, prima di approdare nel 2006 come sottosegretario al Ministero della Giustizia. Tra i punti che Scotti indica quali priorità di un lavoro che svolgerà nei prossimi due mesi ci sono: "La realizzazione di un servizio unico di intercettazioni telefoniche, così come ci è imposto da una direttiva comunitaria e dalla legge Finanziaria; il recupero delle somme tra le pene pecuniarie di condanna da destinarsi alla Giustizia; il completamento del sistema informatico. Sono cose già avviate - conclude Scotti - e bisogna ora completarle". Eletto come indipendente nelle liste dei Comunisti Italiani, Luigi Scotti, nel secondo Governo Prodi, è stato Sottosegretario di Stato delegato alla trattazione degli affari di competenza del Dipartimento per gli Affari di giustizia, relativamente alla Direzione generale della giustizia civile; alla trattazione degli affari di competenza del dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, relativamente alla Direzione generale del bilancio e della contabilità, alla Direzione generale dei magistrati ed alla Direzione generale di statistica e alla firma dei relativi atti e provvedimenti. Luigi Scotti, nominato uditore giudiziario in data 10 aprile 1959 fu destinato, dopo il tirocinio, alla Pretura di Napoli con funzioni di uditore vice pretore; successivamente, a seguito dell’esame di aggiunto giudiziario, ove si classificò secondo nel suo concorso, fu assegnato alla Pretura di Calitri il 15 dicembre 1962 con funzioni di pretore. Nominato magistrato di tribunale nell’aprile 1964, il 20 giugno 1966 fu trasferito al tribunale di Napoli come giudice e assegnato alla Prima sezione civile nonché alla segreteria della presidenza. Conseguì la nomina a magistrato di appello nell’aprile 1972 e, con tale qualifica, fu eletto componente del Consiglio superiore della Magistratura, di cui fece parte dal ‘76 al ‘81. Con decorrenza dal 10 aprile1979 fu nominato magistrato di cassazione e nel novembre del 1982 fu destinato al Ministero della Giustizia come vice capo dell’ufficio legislativo ove, dopo tre anni, assunse l’incarico di capo di tale ufficio. In data 10 aprile 1987 fu nominato magistrato di cassazione con funzioni direttive superiori. Il 23 maggio 1997 è stato nominato Presidente del tribunale di Roma, ufficio che ha lasciato il 18 maggio 2006 a seguito della nomina di Sottosegretario di Stato presso il Ministero della Giustizia. Oltre all’attività giudiziaria ha conseguito la docenza di diritto della navigazione presso l’Università di Napoli e successivamente ha assunto l’incarico di insegnamento della materia nella facoltà di economia e commercio di tale università. Ha poi partecipato al concorso di professore ordinario, concorso che ha superato, ma senza effettuare l’opzione per non lasciare l’ordine giudiziario. È autore di numerosissime pubblicazioni, sia in diritto della navigazione che nel diritto civile e nella materia dell’ordinamento giudiziario, fra l’altro con monografie pubblicate dalla casa editrice Giuffrè. Ha partecipato a varie commissioni in materia di privacy, di riforma di codici di legislazione sulla tossico dipendenza ed ha presieduto la commissione Alta Vigilanza in materia di ambiente. Ha diretto per molti anni la rivista Documenti Giustizia edita dal relativo dicastero ed ha svolto corsi presso la scuola superiore della pubblica amministrazione e presso scuole di specializzazione per le professioni legali.
Osapp: auguri a Scotti, ma non si può aspettare
Il segretario Generale dell’Osapp, Leo Beneduci, rivolge "un sincero augurio di buon lavoro al nuovo ministro della Giustizia Luigi Scotti", auspicando che, "nel breve lasso di tempo che ci separa dalle elezioni, e dalla designazione del nuovo governo legittimato, il neo Guardasigilli possa cogliere l’occasione per guardare alla miriade di esposti e denunce che segnalano lo stato precario in cui versano le carceri, e le carenze del personale della polizia penitenziaria a cui si deve andare incontro ogni giorno". "Carenze che tra l’altro - ricorda - abbiamo già inoltrato al ministro della Giustizia ad interim Romano Prodi, senza ottenere ovviamente alcuna risposta. Nel realismo, però, di un contesto critico come questo, in un regime di amministrazione ordinaria cui è tenuto il Governo in questo breve passaggio, questa organizzazione - conclude - non potrà stare ancora a guardare". Giustizia: garante; regole per evitare la gogna mediatica
Ansa, 7 febbraio 2008
No all’esposizione "sproporzionata" delle vicende di giustizia e alla trasformazione di iniziative, come le misure cautelari o le informazioni di garanzia, in gogna mediatica o in condanna preventiva e inappellabile. L’Autorità, nelle linee guida dell’Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive, specifica alcuni criteri da seguire. In primo luogo, "va evitata un’esposizione mediatica sproporzionata, eccessiva e/o artificiosamente suggestiva" delle vicende giudiziarie: no, dunque, ai processi mediatici che, puntando "all’incremento di audience", rendono "difficile al telespettatore l’appropriata comprensione della vicenda" o rischiano di ledere i diritti individuali e le garanzie del "giusto processo". In secondo luogo, "fermo restando il diritto di cronaca", l’informazione deve mettere in luce "la valenza centrale del processo, celebrato nella sede sua propria, quale luogo deputato alla ricerca e all’accertamento della verità, evitando quindi che "una misura cautelare o una comunicazione di garanzia possano rivestire presso l’opinione pubblica un significato e una concludenza che per legge non hanno". La cronaca giudiziaria "deve sempre rispettare i principi di obiettività, completezza, correttezza e imparzialità dell’informazione e di tutela della dignità umana, evitando tra l’altro di trasformare il dolore privato in uno spettacolo pubblico" e rifuggendo da forme di "divizzazione" dell’indagato, dell’imputato o di altri soggetti del processo". Una tutela che va "rafforzata quando sono coinvolti minori". Fatta salva la facoltà di sviluppare dibattiti tra soggetti non coinvolti nel processo, nel rispetto dei principi del contraddittorio, "vanno evitate le manipolazioni tese a rappresentare una realtà virtuale del processo tale da ingenerare suggestione o confusione nel telespettatore". Quando infine la trasmissione coinvolge i diritti della persona, l’informazione "deve svolgersi in aderenza a principi di "proporzionalità", dando alle analisi "uno spazio equilibratamente commisurato alla presenza e all’entità dell’interesse pubblico leso" e alle indicazioni in quel momento disponibili sulla verità dei fatti. Giustizia: pena, custodia cautelare e durata del processo
www.radiocarcere.com, 7 febbraio 2008
I detenuti in esecuzione di una sentenza definitiva sono circa il 40% della popolazione carceraria. Il restante 60% è costituito da persone in stato di custodia cautelare, di cui il 30% non ha subito alcuna condanna. Numeri lapalissiani. La sanzione cautelare quale causa principale dell’ingresso in carcere. Gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria si sostituiscono alle prove dibattimentali. Il procedimento cautelare si sostituisce al processo. L’ordinanza del Gip prende il posto della sentenza del giudice. I reati dichiarati prescritti nel 2006: 156.820. Il processo penale dalla durata irragionevole. Un processo penale che non soddisfa la domanda di giustizia: la richiesta che venga individuato e punito celermente l’autore di un reato. Se si punisce, si punisce quando il ricordo del delitto commesso è svanito. La pena non incute timore, la vittima è vittima due volte: la prima del reato, la seconda della giustizia, della mancata giustizia. Sanzione cautelare e durata irragionevole del processo sono causalmente connessi. L’incapacità del processo di dare una risposta alla domanda di giustizia è la causa della custodia cautelare quale surrogato della pena. Il delinquente punito. Risultato quest’ultimo a cui il processo non riesce a pervenire o perviene in tempi irragionevoli. Risultato che allora si ottiene con il procedimento cautelare. Il Pm durante le indagini, acquisiti elementi che dimostrano la probabile colpevolezza dell’indagato, chiede "la condanna cautelare". Il Gip, verificata l’esistenza degli elementi, la dispone. I media applaudono. La società ha la risposta alla domanda di giustizia. Ipocrita negare questa realtà. La presenza di elementi che fanno ritenere all’autorità giudiziaria l’indagato probabile autore di un grave reato causano solitamente l’ingresso in carcere. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. L’omicidio di Meredith. Il carcere per Amanda Knox e Raffaele Sollecito non trova la sua giustificazione in una condanna definitiva, ma in un provvedimento di custodia cautelare. La custodia cautelare si sostituisce alla pena. Ipocrita affermare che il carcere è giustificato ancora dalla presenza del pericolo di fuga, d’inquinamento delle prove o di commissione di altri delitti. Pericoli inesistenti e che potrebbero essere ampiamente prevenuti con gli arresti domiciliari. La custodia cautelare come pena e non come strumento di prevenzione. Il rischio: l’arresto durante le indagini e il proscioglimento al termine del processo. Il carcere per l’innocente. Un rischio che un sistema processuale non può accettare. Un rischio che si elimina riequilibrando il sistema. Il processo deve riacquistare la sua centralità sistematica. La custodia cautelare deve ritornare ad essere uno strumento finalizzato a prevenire la fuga, l’inquinamento delle prove e la commissione di nuovi delitti. Un riequilibrio a cui si giunge riducendo i tempi processuali. La strada è una sola: la sentenza di primo grado esecutiva. La pena dopo il primo processo, senza la necessità di aspettare anni per farne altri due. Il processo penale è composto da tre gradi di giudizio, i quali non appaiono sempre necessari. Nei procedimenti caratterizzati, per esempio, da un arresto in flagranza, da una confessione o da risultanze probatorie evidenti, appello e cassazione, gli altri due gradi di giudizio, non sembrano essere necessari al fine di garantire una giusta decisione. E soprattutto, non giustificano il differimento dell’esecuzione. Difficile capire la ragione che giustifica appello e cassazione avverso una sentenza che accerta un abuso edilizio provato da materiale fotografico e dalla totale assenza di una concessione. La verità, un’unica ragione: la prescrizione. La sentenza di primo grado esecutiva, la cui esecuzione può essere sospesa dal giudice di primo grado o dal giudice di appello quando la prova non è evidente. L’esecutività, peraltro, non dovrebbe rappresentare uno spauracchio se si considera che, spesso nei casi in cui la prova è evidente, il condannato è detenuto in esecuzione di un provvedimento di custodia cautelare. Giustificazione più ragionevole alla detenzione sembrerebbe pertanto essere una sentenza di condanna, ancorché di primo grado, rispetto ad un ordine di custodia cautelare. L’esecutività della sentenza di primo grado dovrebbe inoltre consentire un conseguente riequilibrio circa l’utilizzazione della custodia cautelare, consentendo delle limitazioni laddove questa appare non giustificata. È il caso, per esempio, in cui i reati per cui si procede sono i delitti contro la pubblica amministrazione, i delitti societari, delitti fiscali, ed il probabile autore di questi è incensurato. Ipotesi per le quali si potrebbe prevedere una limitazione all’uso della custodia in carcere. Gli eventuali pericoli infatti si possono prevenire con le altre misure cautelari, quali per esempio gli arresti domiciliari. Giustizia: servono delle nuove sanzioni, ma subito esecutive di Valerio Savio (Valerio Savio è Gip a Roma)
www.radiocarcere.com, 7 febbraio 2008
È il ritorno del sempre uguale. Come in passato, quando le misure cautelari attingono personaggi "eccellenti" e non poveri cristi per reati di strada - per i quali invece un coro bipartisan invoca sempre più carcere, anche preventivo - il discorso pubblico riprende a discettare di come limitarle. Una cosa appare chiara a chi ha esperienza del quotidiano della Giustizia: che nell’ottica dell’efficienza del sistema penale non hanno ormai più senso alcuno interventi solo settoriali. E che anche ragionando di sole misure cautelari, si coglie come sia in primo luogo necessaria una Riforma che, mantenendo le attuali irrinunciabili garanzie difensive essenziali, snellisca però procedure incidentali, notificazioni ed impugnazioni, semplifichi il sistema delle nullità, adegui i riti alla diversa tipologia dei fatti da accertare, così riducendo i tempi dei giudizi e con essi fatalmente il ruolo delle misure cautelari e la loro "drammaticità". Premessa necessaria. Ma se l’obiettivo è ridurre l’incidenza complessiva delle misure con riguardo al sistema penale nel suo complesso ed alle decine di migliaia di imputati in attesa di giudizio e non solo alle sorti di pochi imputati - colletti bianchi, non è solo sul processo che si deve intervenire, ma anche sul sistema dei delitti e delle pene . Due le linee direttrici: riscrivere il sistema delle sanzioni, aggiornandolo alla scala dei valori costituzionali ed alle sensibilità condivise dei nostri giorni, collegando più rigorosamente la custodia cautelare a quei soli reati per i quali non solo è prevista ma è prevedibilmente da eseguirsi effettivamente nel caso concreto una sanzione carceraria, e togliere dal Cpp le attuali rigidità che limitano la discrezionalità del Giudice. Prima direttrice: meno carcere dopo il giudicato, al contempo ridando effettività alle punizioni di altro genere. Va ridotto drasticamente il novero dei reati puniti con la rozza (ma anche egualitaria) pena della reclusione, prevedendosi per tutti gli altri, per i quali non potranno essere a quel punto applicate misure cautelari detentive, un sistema di sanzioni non carcerarie (risarcitorie, interdittive, pecuniarie, fatte di prestazioni in favore della società o di limitazioni non detentive della libertà ) e però effettivo perché integrato da pene non sospendibili, non sostituibili, non amnistiabili, non indultabili. Abolendosi del tutto le pene detentive brevi. Così generalizzandosi la buona regola del processo con imputato a piede libero, che termina con una sanzione vera e da scontare effettivamente sempre, e non solo virtuale come spesso è ora, dopo un giudizio in cui magari però si è applicata una misura cautelare data la prevedibile ineseguibilità della pena sin dall’inizio apparsa strumentale a tutto tranne che alle esigenze cautelari. Lasciandosi la custodia cautelare come misura possibile solo per il più ristretto numero di reati che si vorrà continuare a punire con la reclusione in caso di condanna, ed anzi in tali casi applicandola dopo la sentenza di primo grado che condanna ad almeno quattro anni sulla presunzione del pericolo di fuga, aumentando al contempo il novero di reati gravi per cui se ne prevede l’applicazione su presupposti non necessariamente fondati sull’attuale triade di esigenze cautelari (rischi di recidiva, di fuga, di inquinamento probatorio) ma anche solo sulla sussistenza della gravità indiziaria in ordine alla loro commissione, secondo lo schema oggi previsto per i soli delitti connessi alle associazioni mafiose. Seconda direttrice. Togliere le attuali rigidità, che impediscono di valutare le specificità di ogni singolo caso ed individuo. Abolire l’obbligo di ripristinare sempre e comunque la custodia in carcere per chi sia evaso dagli arresti domiciliari. Abolire il divieto di concedere i domiciliari a chi ha avuto condanne per evasione negli ultimi cinque anni. Rendere effettiva la possibilità di applicare su grande scala la detenzione cautelare in strutture sanitarie specifiche a chi ha commesso il reato in comprovato stato di tossicodipendenza, estendendo le norme esistenti per l’esecuzione della pena . Creare, per i reati non gravissimi per i quali già oggi in sede esecutiva può disporsi l’espulsione di chi deve scontare un residuo pena inferiore ai due anni, una espulsione/misura cautelare a richiesta dell’imputato, eseguita con accompagnamento alla frontiera, che faccia salvi i diritti di partecipazione al giudizio. Rilanciare l’effettiva applicazione del braccialetto elettronico. E così via, variando ed allargando l’attuale rigido menu delle misure, centrato sulla detenzione carceraria. Giustizia: resta il nodo della separazione delle carriere di Renato Borzone (Segretario dell’Unione delle Camere Penali)
www.radiocarcere.com, 7 febbraio 2008
Di custodia cautelare e dei relativi "abusi" si parla da anni, ma solo a corrente alternata. Problema che ovviamente esiste, ma suscita un certo sospetto la sua scoperta tardiva da parte di qualcuno. È singolare che se ne torni a discutere, tra l’altro entrando nel merito di un’indagine in corso, quando la questione riguarda (rectius, colpisce) "la politica", in genere disinteressata, salve lodevoli eccezioni, alle reali questioni della giustizia e della difesa dei principi costituzionali nel processo penale. Mentre quando il tema era stato sollevato in relazione a tutti i cittadini, ad esempio dall’avvocatura penale, pochi sembravano appassionarsi. Di giustizia, dunque, non si dovrebbe parlare solo quando fa comodo. In effetti abbiamo assistito nell’ultimo biennio ad una infornata di disegni di legge governativi, da quello sulla "velocizzazione" del processo ai "pacchetti sicurezza": tutti abortiti, ma comunque infarciti, senza che nessuno muovesse obiezioni, di disposizioni dirette a intaccare garanzie processuali e struttura accusatoria del processo. Che oggi coloro che li hanno sponsorizzati (compreso qualche magistrato "ministeriale") si straccino le vesti per gli abusi della custodia cautelare lascia a dir poco perplessi. Detto questo, ed anzi proprio per questo, vien da chiedersi perché, ad esempio, nessuno si preoccupi dell’indecente "doppio binario" processuale in materia di custodia cautelare: è bene sapere, infatti, che per alcuni reati il carcere è automatico, senza che il giudice valuti caso per caso se ci sono esigenze di cautela che rendono necessaria la custodia preventiva. Perché alcuni indagati hanno meno diritti degli altri? Non è però solo questione di norme discutibili: il tema della custodia cautelare, infatti, va anzitutto affrontato riflettendo sul fatto che la prassi, in genere, vanifica anche disposizioni di legge che, sulla carta, sono inappuntabili. Avviene così che le clausole legislative che considerano la custodia preventiva in attesa del processo una extrema ratio o che richiedono "specificità e concretezza" delle esigenze cautelari (pericolo di fuga, di inquinamento di prove, di ripetizione del reato) vengano talvolta allegramente e dialetticamente aggirate. Sicché il problema deve esser posto in termini più generali: anzitutto in merito ai controlli sulle richieste di arresto del pubblico ministero, poiché sono i giudici, e non i pubblici accusatori, ad emettere le misure cautelari e poi a verificarne la correttezza. Se non si interrompe il circuito di contiguità culturale e ordinamentale tra chi accusa e chi giudica, i controlli (decisivi per scongiurare "gli abusi") rischieranno sempre di essere improntati - salve lodevoli e non indifferenti eccezioni - alla concezione che permea di connotati inquisitori la giurisdizione: insomma l’idea del processo come strumento di difesa sociale che, se può forse appartenere ad un accusatore, deve essere invece estranea a chi giudica. Ed allora un sistema a carriere separate, anche se forse potrà andare a regime solo dopo tempo (con il radicarsi di una vera cultura di terzietà del giudice), dovrebbe essere il punto di partenza per un cambiamento effettivo anche in tema di libertà personale. Diversamente, ogni limite di legge sarà aggirato dalla prassi e da verifiche giurisdizionali più attente al fine che giustifica i mezzi che alla applicazione della legge. Seconda questione: se la custodia cautelare viene "vissuta" come anticipazione della sanzione a causa della incertezza della pena, si deve operare sulla lunghezza dei procedimenti. Naturalmente, però, il problema dei tempi della giustizia va affrontato sottraendolo alla mistificazione di chi lo pone in termini di mera "durata del processo" (al fine non troppo velato di proporre riduzioni di garanzie per "velocizzare") e non, come sarebbe corretto, di irragionevole durata dei tempi morti del processo, il che solleva una questione di organizzazione giudiziaria, uomini, mezzi nonché di entità e corretto uso delle risorse. Viceversa, le proposte di applicare la custodia a seconda del reato o di eliminare gradi di giudizio, appartengono ad un ambito di modesti aggiustamenti interni alle logiche emergenziali del "doppio binario" (regole diverse per diversi indagati) o si inseriscono, a volte al di là delle intenzioni dei proponenti, nelle concezioni autoritarie ed etiche della giustizia. L’esecutività della sentenza di primo grado non cambierebbe nulla in tema di custodia cautelare, ma sacrificherebbe in modo inammissibile il principio della presunzione di non colpevolezza. E chi propone di ridurre i gradi del giudizio rifletta sul "rigore" nella valutazione della prova in certi nostri processi di primo grado. Giustizia: Opg Aversa; arrivano ispettori, Caruso lascia
Ansa, 7 febbraio 2008
"Ho scelto di porre fine alla mia auto-reclusione dentro l’ospedale giudiziario di Aversa. Esco dopo un giorno e una notte rinchiuso nelle celle dell’Opg in virtù della disponibilità dei funzionari del ministero giunti appositamente da Roma ai quali ho potuto far presente le condizioni di invivibilità e di sovraffollamento dell’Istituto". Lo afferma, in una nota, il deputato indipendente di Rifondazione Comunista Francesco Caruso. "Ringrazio in questo senso il dott. Vecchioni del dipartimento di amministrazione penitenziaria per gli impegni presi, in primo luogo per il trasferimento di 50 internati che da anni chiedono quantomeno di scontare la misura di sicurezza dell’internamento in un luogo più vicino ai loro familiari e in secondo luogo per l’impegno ad emanare una circolare ministeriale che regolamenti e ponga quantomeno un limite temporale ben definito all’uso dei letti di coercizione dove alcuni ragazzi, come risulta dagli stessi registri sanitari dell’Opg, hanno trascorso finanche 21 giorni legati braccia e piedi a questi letti", aggiunge Caruso. "Non si possono dimenticare esperienze allucinanti come questa, non si possono dimenticare facilmente le lacrime, gli sguardi, le implorazioni di questi poveri cristi ammassati e accartocciati in celle sporche e maleodoranti che invocano la libertà e la pietà. Per questo motivo continuerò a vigilare e monitorare gli ospedali psichiatrici giudiziari perché è assurdo protestare contro le discariche di immondizia e chiudere contemporaneamente gli occhi dinanzi a queste vere e proprie discariche umane e sociali, solo perché ben nascoste dietro alte e spesse mura di recinzione", conclude Caruso.
Caruso: 50 internati via da Opg Aversa, ma non basta
Cinquanta internati dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa saranno trasferiti in un altro istituto. È quanto rende noto il parlamentare Francesco Caruso che da ieri si era rinchiuso nell’Opg proprio per denunciare il sovraffollamento della struttura. "Dopo mesi di sollecitazioni da parte della direzione di Aversa era necessario procedere all’auto-reclusione come forma estrema di protesta per affrontare il problema drammatico del sovraffollamento dell’Opg di Aversa - dice Caruso - Tuttavia spostare il problema presso un altro ospedale psichiatrico giudiziario non è certo la soluzione definitiva del problema". "In questo modo - aggiunge Caruso - il problema si sposta, non si risolve. È opportuno, invece, avviare un percorso di presa in carico da parte delle Asl competenti di quelle centinaia di internati dichiarate ormai socialmente non pericolose, rinchiuse senza alcuna ragione". "Per questo motivo continuiamo l’auto-reclusione insieme a questi poveri cristi dimenticati da tutti e nascosti dietro le alte mura di questa vera e propria discarica sociale - conclude - dal ministero hanno comunicato l’arrivo in giornata, come richiesto, degli ispettori ministeriali che nemmeno dopo i due suicidi nell’ultimo mese erano giunti. La nostra auto-reclusione cesserà solo nel momento in cui gli ispettori varcheranno il portone dell’Opg di Aversa e dopo averli accompagnati in questo girone infernale". Giustizia: la polizia penitenziaria, "in fuga" verso il sud... di Gian Antonio Stella
Corriere della Sera, 7 febbraio 2008
La grave situazione dei distacchi e dei trasferimenti del personale dell’amministrazione penitenziaria. Gli agenti penitenziari e la corsa per essere trasferiti a casa. Avete presente il sogno dei galeotti di evadere verso i mari del Sud? Deve avere contagiato gli agenti penitenziari, che stanno trasferendosi in massa nelle carceri del Mezzogiorno lasciando quelle del Centro Nord in condizioni insostenibili. Un dato per tutti: fatto il rapporto una guardia per ogni detenuto, ogni cento carcerati mancano 29 poliziotti nel Settentrione e ne crescono 14 nel Meridione. Quanto il disagio degli agenti penitenziari sia pesante, purtroppo, lo ricorda la cronaca che nell’ultimo mese ha dovuto registrare tra di loro cinque suicidi. Un’enormità, per una categoria composta da poco più di quarantamila persone. Cioè molto meno degli abitanti di Battipaglia. Dopo l’ultimo, quello dell’ispettore superiore Agostino De Nicola trovato impiccato giovedì scorso a casa sua a Ferrara, il segretario generale del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) Donato Capece, ha scritto a Giorgio Napoletano "Presidente, è ormai una vera e propria emergenza". Si sta male, nei 205 penitenziari (160 case circondariali, 37 case di reclusione, 8 istituti per le misure di sicurezza) della penisola. Da Bolzano a Siracusa. Colpa della vita difficile a contatto con il dolore e la violenza, degli stipendi modesti, degli orari di lavoro, dello scarso riconoscimento sociale. Per non dire dei sentimenti contrastanti con cui è stato vissuto l’indulto, un misto di sollievo per lo svuotamento delle celle e di frustrazione per aver visto uscire certi soggetti che non lo meritano avendo la certezza, presto confermata, che sarebbero rientrati. Oltre ai problemi comuni, gli agenti meridionali assunti per le carceri del Nord devono farsi carico di un peso ulteriore: dover vivere non solo lontano da casa ma prendendo in affitto abitazioni più care a Carpi o Cividale che non ad Alcamo o Catanzaro. E spendendo al bar, al supermercato o in pizzeria (il ristorante se lo sognano) nettamente di più che nel Mezzogiorno. Risultato: appena possono cercano di tornare verso la terra di origine. Come da sempre accade un po’ in tutte le categorie del pubblico impiego. Ma con un accelerazione negli ultimi anni. È il caso ad esempio dei pompieri, che già mesi fa denunciavano un "buco" di 1.628 persone in tutta la Lombardia (150 soltanto a Milano) che metteva a rischio la loro capacità di intervento. Dei conducenti dell’Atm, l’azienda dei trasporti milanese. Degli infermieri, che con il loro continuo esodo hanno messo in crisi nel capoluogo lombardo il Policlinico e l’Istituto dei Tumori. E poi dei cancellieri, dei magistrati, di altri dipendenti della Giustizia. Lo ricorda anche nel libro "Fine pena mai" anche Luigi Ferrarella: "La scopertura media nazionale del 12,5 % è in realtà spalmata in maniera del tutto disomogenea sul territorio, oscillando tra picchi opposti". Da una parte una drammatica "carenza di personale nelle sedi del nord Italia (come il 16,2 % del distretto di Milano con uffici anche al 25-30 %, o il 45 % del caso particolare di Bolzano), generalmente meno ambite dai lavoratori del Sud che attendono il primo "interpello" ministeriale per ritornare nelle Regioni d’origine" e dall’altra, nel Mezzogiorno, "picchi di piena copertura e persino (come in alcuni uffici di Lecce o Palermo) di eccesso di personale rispetto all’organico". Anche nella scuola è così. Soltanto pochi giorni fa Salvo Intravaia spiegava su Repubblica che " con l’ultimo aggiornamento della scorsa primavera, migliaia di supplenti meridionali che nel recente passato hanno tentato la fortuna nelle Regioni del nord si sono decisi a rientrare a casa. Parecchi di loro hanno voluto evitare il rischio di essere inseriti in coda alla graduatoria dal prossimo aggiornamento nel 2009". Risultato: "in appena un anno le liste dei supplenti delle Regioni settentrionali hanno perso circa 10.000 docenti mentre in quelle del Sud ne contano 10.000 in più". E se questo è un grosso problema per le scuole, figuratevi per le carceri. Se si tiene conto non solo dei vuoti strutturali ma anche degli agenti "distaccati" che "provvisoriamente" (provvisorietà all’italiana) stanno in sedi diverse, i numeri ufficiali del Dap, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, dicono che sono sotto organico, spesso drammaticamente, tutti ma proprio tutti i Provveditorati delle carceri del Centro Nord. Mancano 825 persone in Piemonte e Val d’Aosta, 605 nel Nordest, 534 in Emilia-Romagna, 318 in Liguria, addirittura 1.066 in Lombardia. Per contro, ce ne sono 84 in esubero sull’organico stabilito in Abruzzo e nel Molise, 185 in Campania, 195 in Calabria, 337 in Puglia, fino allo stupefacente dato di Roma e del Lazio. Dove in sovrappiù rispetto alla quota concordata sono addirittura 1.496. Fatti i conti, per fare la guardia alla loro metà dei circa 43 mila detenuti italiani equamente divisi in due fette quasi uguali, ci sono nel Centro Nord, Marche e Toscana comprese, circa novemila agenti in meno che nel Centro Sud, Umbria e Lazio inclusi. Insomma: se è vero che Giuliano Amato ha concordato che nella situazione italiana il rapporto corretto (bisogna calcolare i turni, i riposi, le ferie e le malattie…) è di un agente per ogni detenuto, oggi mancano 29 poliziotti ogni 100 reclusi nel Centro Nord e ce ne sono 14 di troppo nel Centro Sud. Con alcune storture regionali ancora più macroscopiche: da una parte mancano 24 guardie ogni 100 carcerati nel Veneto, 41 in Lombardia e addirittura 42 in Emilia Romagna. E dall’altra ce ne sono 20 di troppo in Abruzzo e Molise, 27 nel Lazio e la bellezza di 57 in Basilicata. Eppure secondo Ermete Realacci, al quale va il merito di aver sollevato per primo con una preoccupata interrogazione parlamentare, le cose nella "sua" Toscana vanno persino peggio. Gli risultano infatti vuoti negli organici superiori al 35% in 12 su 18 delle carceri della Regione. Con baratri del 41 per cento a Firenze Sollicciano e ad Arezzo, del 44 a San Gimignano, del 50 a Siena e a Gorgonia. Forse è il caso che qualcuno, prima che esploda tutta, getti su questa storia un’occhiata. Giustizia: si è suicidato all’Opg, ora la madre vuole verità
Apcom, 7 febbraio 2008
Antonio (nome di fantasia, ndr) è morto due giorni prima dell’Epifania, in una cella dell’ospedale psichiatrico giudiziario "Filippo Saporito" di Aversa. Aveva 26 anni. Era stato internato dopo che era stata accertata la sua infermità psichica in un procedimento penale dovuto all’aggressione nei confronti del padre. All’età di 17 anni gli era stata diagnosticata una "schizofrenia paranoidea a sfondo persecutorio con elementi di riferimento e grandiosità". La mamma, però, non si è mai rassegnata. Da molto tempo, prima di entrare ad Aversa, Antonio era in cura presso centri d’igiene mentale e ambulatori di Asl. Dopo la morte di Antonio la madre, che non riesce a credere all’ipotesi del suicidio, vuole fare luce sull’accaduto. Nei giorni scorsi ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere che si inserisce nell’inchiesta penale già aperta d’ufficio dai magistrati campani. Tramite l’avvocato romano Alessio Tranfa, già difensore di Antonio, sta cercando in tutti i modi di ricostruire gli ultimi giorni e le ultime ore della vita del figlio sulla base, tra l’altro, di quello che Antonio le raccontava nei colloqui e le scriveva nelle sue lettere in cui si legge di torti, pestaggi, vessazioni e violenze subìte. Gli interrogativi della madre, almeno per il momento, non hanno ancora avuto risposte. La signora di Antonio, nell’esposto, scrive: "Tenuto conto del tipo di malattia da cui era affetto", "il cui tipico epilogo è proprio il suicidio", "trovo assolutamente contraddittorio che prima Antonio dica di non vedere l’ora di incontrare" il suo nuovo medico curante, il 19 di gennaio, "per poi suicidarsi pochi giorni prima". La mamma del giovane aggiunge che il controllo sul figlio doveva essere a vista, 24 ore su 24, eppure ha agito indisturbato. "Come fa un paziente schizofrenico - prosegue la madre - a impiccarsi con tutta tranquillità, di notte? Dove stavano le guardie? E, soprattutto, che facevano?". Il dolore più forte, per la madre di Antonio, è pensare che con "questo tipo di malattie, se curate bene" si può anche "vivere quasi normalmente". Secondo quanto riferiscono associazioni in difesa dei detenuti, al "Saporito" di Aversa, negli ultimi 14 mesi si sono verificati ben cinque suicidi. L’ultimo, 3 settimane dopo quello di Antonio, è avvenuto il 30 gennaio. L’avvocato Tranfa spiega: "Non va dimenticato che chi si trova rinchiuso in un Opg ha commesso reati non rendendosi conto di quello che fa: è la sua malattia a determinarne i comportamenti". Il penalista ha fatto un sopralluogo nella cella dove Antonio è stato trovato impiccato con un lenzuolo, al piano terra di uno dei reparti. "A quanto sembra, nonostante l’estrema gravità di quanto accaduto, stranamente quella notte non è stato richiesto l’intervento della Polizia Scientifica per gli accertamenti e i rilievi tecnici di rito". Durante la visita, l’avvocato ha "accertato che la cella di Antonio era in ristrutturazione". Per questo il legale non esclude di chiedere alla Procura il sequestro. "Stiamo aspettando con ansia i primi risultati dell’autopsia. In ogni caso abbiamo chiesto e ottenuto di acquisire due provette di sangue dal corpo di Antonio per effettuare accertamenti tossicologici". Giustizia: Osapp; ridefinire completamente la detenzione
Agi, 7 febbraio 2008
"La denuncia riportata l’altro giorno dall’avv. Marroni, su proposta del quotidiano Radiocarcere - il Riformista di costruire nuovi istituti nella Capitale, chiudendo così Regina Coeli, è condivisibile nella misura in cui si ridefinisca completamente il quadro detentivo che ci troviamo di fronte". È quanto dichiara il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma di Polizia Penitenziaria), Leo Beneduci, secondo il quale "possiamo confrontarci su tutto, anche sull’edilizia carceraria per trovare le soluzioni possibili ad una tragedia che ci trasciniamo ormai da anni". Per Beneduci, "non è detto che la chiusura di un carcere come Regina Coeli sia la panacea di tutti i mali" e "il fatto che ci si preoccupi tanto, adesso, di 50 mila detenuti quando tre anni fa eravamo sulla soglia della capienza tollerabile, e in questi anni di post-indulto non è successo praticamente nulla, è indicativo di quanto poco coordinata sia la logica che contraddistingue le riforme in questo Paese". Quello che urge, secondo l’Osapp, "è un piano a tuttotondo, che non abbiamo visto con il Governo Prodi e, da come si stanno ponendo le cose, non vedremo con il prossimo Governo legittimamente eletto". Il sindacato guidato da Beneduci, infatti, vuole puntare "su un cambiamento radicale, su un approccio bipartisan delle forze politiche che dovranno governarci in futuro, anche per rivedere il ruolo del poliziotto all’interno delle sezioni". Così, "approfondendo il ragionamento offertoci da Marroni - sottolinea Beneduci - non è detto che aprendo altri istituti, con l’intento di separare chi è in stato di detenzione definitiva, e chi in attesa di processo (la maggior parte a livello percentuale), ci si trovi a fronteggiare una condizione di sovraffollamento meno gravosa, per giunta con la stessa carenza di personale. Forse avremo i servizi igienici funzionanti, ma la capienza continuerebbe ad aumentare agli attuali livelli di crisi". Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 7 febbraio 2008
Claudio, dal carcere di Benevento "Caro Riccardo, dalla mia cella seguo con attenzione i temi che poni sulla giustizia e su come, a volte vengono usate le intercettazioni. Non solo nei processi famosi, ma anche in quelli che non lo sono, capita che i Pm svolgano lunghe intercettazioni e su quelle costruiscano un disegno criminoso. Io credo che questi giudici che fanno male le indagini buttando i soldi pubblici dovrebbero essere puniti. Nel senso che alla terza indagine che non porta a nulla devono essere mandati a fare altro. E questo lo dico da detenuto pensando ai tanti magistrati che ci sono e che lavorano bene. Mi fa ridere questa politica che pensa di fare riforme sulla giustizia e non si preoccupa della responsabilità dei magistrati che fanno male le indagini. Dalla mia cella, caro Riccardo, vedo un Italia che non mi piace. Vedo gente sottoposta a misura cautelare, processata per anni e che poi alla fine viene anche prosciolta. Vedo gente messa in misura cautelare, senza pensare a quanto costa quella detenzione in termini economici. Vedo una politica che chiede nuove carceri, quando ce ne cono tante abbandonate. Vedo un indulto fatto e vedo il carcere già affollato come prima. E non è che era difficile capire che da solo l’indulto non risolveva nulla a lungo termine. Questo vedo dalla mia cella e non mi piace. A te Riccardo grazie per la Tua voce che arriva fino a noi detenuti. Una voce che per noi vale molto.
Cesare, dal carcere di Piacenza Caro Arena, è un po’ che volevo scriverti per affrontare con te alcuni argomenti. Prima di tutto: ma che fine ha fatto l’amnistia? Perché questa volta hanno fatto solo l’indulto e l’amnistia no? Non credi che questo porti delle conseguenze negative? Inoltre ho letto un’intervista al capo del Dap, dottor Ferrara, in cui dice che intende dare alla polizia penitenziaria l’incarico di seguire i detenuti in misura alternativa. Secondo Ferrara questo farebbe diminuire il sovraffollamento in carcere. Il fatto è che non vedo come questa innovazione possa portare un beneficio a chi è detenuto e come possa risolvere il problema del sovraffollamento. Infine ho visto su "Striscia la Notizia" le immagini di carceri costruite e mai realizzate. Anche se mi sembravano un po’ piccole per diventare carceri, mi sembra strana la loro non utilizzazione. Soprattutto perché in Italia c’è bisogno di chiudere carceri vecchie e fatiscenti, pensando a strutture più moderne, come Bollate. Grazie per quello che fai.
Salvatore, dal carcere di Agrigento Caro Arena, le scrivo perché qui nel carcere di Agrigento da più di un mese noi detenuti non abbiamo l’acqua calda per farci la doccia. Il risultato è che molti di noi non si lavano più. Le lascio immaginare le conseguenti condizioni igieniche in cui siamo costretti a vivere in questi giorni. Può sembrare un piccolo problema per chi è libero, ma le assicuro che stare in carcere e non potersi lavare è invece un grande problema. Mantenersi puliti, dovendo vivere in cella con altri detenuti, è infatti una priorità per chi sta in carcere. Ho già segnalato questo problema al garante dei detenuti della regione Sicilia. Le chiedo di diffondere queste mie parole sulla pagina di Radio Carcere. Monza: affollamento conseguenza del collasso del sistema
www.radiocarcere.com, 7 febbraio 2008
Il carcere di Monza è stato costruito per ospitare 350 detenuti maschi. Oggi ne contiene 750. Detenuti, per la maggior parte sottoposti a misura cautelare. Le celle del carcere di Monza sono piccole, perché pensate per un solo detenuto. Oggi, in quelle celle ci sono 3 e anche 4 detenuti. I letti a castello sono a tre piani. E il quarto detenuto è costretto a dormire per terra. Ovviamente l’organico degli agenti di Polizia Penitenziaria non è stato pensato per gestire 750 detenuti. Di conseguenza, avendo un numero di agenti insufficienti, è stata dimezzata l’ora d’aria dei detenuti. Morale: i detenuti del carcere di Monza possono uscire dalla cella solo un ora e mezza al giorno. Il resto del tempo, lo passano in quel piccolo e affollato spazio. La cella. In una situazione simile è difficile parlare di rispetto della dignità della persona detenuta. Difficile non pensare a condizioni detentive degradanti. In quelle celle sovraffollate del carcere di Monza, anche l’igiene o il diritto alla salute sono fortemente pregiudicati. Luigi Pagano, Provveditore delle carceri lombarde, parla di una situazione "tutt’altro che semplice" presente nel carcere di Monza. La soluzione prospettata: trasferire nelle carceri di Opera e di Bollate i detenuti condannati. Una soluzione però che non risolverà il problema. Su 750 detenuti, solo un centinaio sono condannati. Mentre gli altri sono sottoposti a custodia cautelare. È evidente che soluzioni immediate non ce ne sono. Come è evidente che casi come quello del carcere di Monza presto si ripeteranno. In quanto conseguenze di un più ampio collasso del sistema. Quello della Giustizia e del carcere. Bologna: la direttrice viene trasferita, farà ricorso al Tar di Benedetta Boldrin
Corriere della Sera, 7 febbraio 2008
Nuovo terremoto alla Dozza. Dopo quasi cinque anni alla guida del carcere, la direttrice Manuela Ceresani sarà trasferita nei prossimi giorni al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, sempre a Bologna. Una decisione che lei giudica "illegittima" e contro la quale farà ricorso al Tar. È un nuovo colpo di scena, per la casa circondariale, dopo che due mesi fa anche il capo storico della polizia penitenziaria, il comandante Sabatino De Bellis, era stato colpito da un provvedimento analogo. E dopo che, nello stesso periodo, era arrivato il cartellino giallo di Palazzo d’Accursio, che ha intimato all’istituto di porre rimedio ad alcuni deficit igienico-sanitari che rendevano difficile la vita di detenuti e guardie. Il nuovo avviso di trasferimento, arrivato dall’amministrazione centrale, è stato notificato alla Ceresani giovedì scorso, improvvisamente. Le motivazioni, che la lasciano "perplessa", farebbero riferimento, spiega, a "conflitti con le altre due dirigenti del carcere". Le due dirigenti che al momento svolgono la funzione di vice direttore. "Ma è una situazione che deve essere dimostrata - dice lei - almeno deve essere permesso un contraddittorio". Ecco perché, conclude, "visto che ritengo che il provvedimento contenga aspetti di illegittimità, mi sto muovendo per impugnarlo presso il tribunale competente". Il Tar, appunto. Ma alla base della decisione presa a Roma, secondo la direttrice uscente, potrebbe esserci anche un collegamento con la vicenda di De Bellis. Il trasferimento del comandante (anche lui destinato al Provveditorato, anche lui con un ricorso avviato al Tribunale amministrativo), in dicembre, suonò come un siluramento: sullo sfondo ci sarebbero stati alcuni contrasti tra il capo della guardie e un sindacato della polizia penitenziaria. Una querelle all’interno della quale la direttrice ha sempre dimostrato solidarietà al comandante. A distanza di due mesi, la Ceresani commenta: "Il provvedimento nei miei confronti forse nasce anche dalla vicenda di De Bellis". Certo è, aggiunge, che "ora la situazione si fa molto critica per l’istituto della Dozza, che ormai, mandato via il comandante e poi il direttore, è stato azzerato". Quanto alla sua vicenda personale, la Ceresani non usa mezze parole: "Vivo questa decisione in maniera punitiva", dice. Non si sa ancora quando il trasferimento diventerà effettivo, perché lei al momento, è a casa in malattia. Quello che la aspetta, comunque, è un ufficio del Provveditorato, ente che gestisce tutte le carceri della regione. In un certo senso, è una retrocessione: "Non si sa ancora cosa farò, ma certamente sarà un tipo di lavoro diverso da quello che faccio ora, più operativo". Non sarà più in prima linea a gestire i detenuti e a incrociare i problemi del sovraffollamento con la carenza di risorse più volte denunciata. Avrà un incarico,probabilmente, più "da scrivania". Bisogna aggiungere, poi, che quello che lascia alla Dozza è un incarico superiore a quello di altri direttori di carcere. Tutte cose per cui la Ceresani si dice "Molto amareggiata, anche perché ritengo che non sia stato valutato il mio lavoro ma qualcosa che non c’entra nulla". Roma: Rebibbia; un incontro sul lavoro per gli ex detenuti
Adnkronos, 7 febbraio 2008
L’inclusione sociale e lavorativa degli ex detenuti usciti dal carcere. È il fine di "Open" (Offenders Pathways to Employment National Network), che nasce nel quadro dell’Iniziativa Comunitaria "Equal" e su richiesta del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. Nove partnership di sviluppo (Ps), titolari di progetti Equal per l’inclusione di adulti e minori si sono unite. Il progetto, nuove proposte e confronti saranno al centro di un incontro che si terrà il prossimo 14 febbraio nel carcere romano di Rebibbia. L’obiettivo di "Open" è lo sviluppo ed il miglioramento di metodi e sistemi per favorire l’inserimento-reinserimento socio-lavorativo degli autori di reato. Per la complessità del processo e la criticità della sensibilità sociale intorno alla tematica, tutti i partner si riconoscono nella necessità di diffondere e rendere incisive soluzioni innovative atte ad eliminare le barriere, che ancora permangono, all’occupabilità di tali soggetti. La collaborazione tra le nove Partnership di Sviluppo ha come obiettivo strategico la creazione di una rete permanente a livello nazionale. Cagliari: Caligaris (Sdi-Ps); troppo carcere per Evelino Loi
Adnkronos, 7 febbraio 2008
"Evelino Loi, presidente nazionale dell’Associazione Detenuti non violenti, in carcere da oltre sette mesi, dopo l’arresto e la condanna a due anni per poco più di un grammo di cocaina, continua a restare in stato di reclusione nonostante le condizioni di salute e la possibilità di usufruire di misure alternative alla detenzione". Lo afferma la consigliera regionale della Sardegna, Maria Grazia Caligaris (Sdi-Partito Socialista), segretaria della Commissione Diritti Civili. Evelino Loi è stato trasferito alla vigilia di Natale da Cagliari all’istituto di pena di Sassari, per decisione della direzione regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dopo l’incontro che il detenuto, su sua richiesta, aveva avuto due giorni prima con l’ufficio di presidenza della Commissione Diritti Civili. "Evelino Loi - ricorda la consigliera socialista - era stato trasferito da Badu ‘e Carros di Nuoro al Centro Clinico dell’Istituto di Pena di Cagliari per essere curato. Una sua istanza, inviata personalmente alla Corte d’Appello per ottenere la libertà provvisoria, era stata respinta con la motivazione della sua "persistente pericolosità sociale" nonostante l’impegno da lui sostenuto con l’Associazione dei Detenuti non violenti, l’attività svolta negli anni come guardiano ecologico a tutela dell’ambiente e la difesa dei diritti dei lavoratori socialmente utili di Barisardo. Ora, il riacutizzarsi della malattia che lo affligge, lo ha costretto a richiedere il trasferimento nell’Istituto Penitenziario di Buoncammino non essendo presenti nel Centro Clinico di Sassari le figure professionali per la cura". "Evelino Loi - conclude la consigliera socialista - sta subendo un trattamento ingiustificato che potrebbe autorizzare qualcuno a prefigurare un collegamento tra la sua denuncia al Procuratore Generale della Repubblica sulle modalità dell’arresto e la sua persistente carcerazione. Non si tratta infatti di un criminale pericoloso o di un ex latitante e neppure di pluriomicida". Lodi: progetto "Loscarcere", Susanna Ronconi può rientrare di Alberto Belloni
Il Cittadino, 7 febbraio 2008
Susanna Ronconi potrebbe ancora rientrare nel novero dei consulenti per il progetto "Lavoro Debole", che prevede il reinserimento nel mondo del lavoro degli ex detenuti. A confermarlo, seppure in maniera implicita, è una delle numerose associazioni partner del progetto, la "Loscarcere", con la quale l’ex brigatista collabora ormai da alcuni anni. Una consulenza apprezzata per impegno e competenza, spiegano da "Loscarcere"; ricordando come il patto stretto nei giorni scorsi tra i vari partner di "Lavoro Debole", provincia di Lodi compresa, riconosca piena autonomia alle associazioni nella scelta dei loro collaboratori. Pur ribadendo l’assoluta mancanza di rapporti professionali diretti tra palazzo San Cristoforo e l’ex brigatista, l’assessore ai servizi alla persona della provincia di Lodi, Mauro Soldati, ha effettivamente garantito la volontà di non interferire con le "scelte organizzative interne" delle associazioni partner del progetto; lasciando di conseguenza aperta la facoltà per le associazioni stesse di appoggiarsi a consulenti e collaboratori di loro fiducia e gradimento. "La posizione della provincia di Lodi recepisce le istanze che abbiamo presentato negli incontri che abbiamo avuto in questi giorni con l’assessore Soldati per trovare una posizione condivisa in merito all’avvio del progetto - spiega Francesca Riboni, presidente di "Loscarcere", sottolineando come Soldati abbia riconosciuto il positivo lavoro svolto dalla rete costituita da istituzioni e associazioni di volontariato -. Assieme agli soggetti ci siamo domandati perché, su un progetto di questo genere, non debbano partecipare ex detenuti, che hanno scontato le loro pene e che da tempo lavorano nel sociale. E abbiamo lavorato affinché "Lavoro Debole" potesse ripartire legittimando le associazioni a nominare consulenti che risultino competenti". Insomma: chiusesi le porte di palazzo San Cristoforo, saranno la distribuzione degli incarichi tra i vari partner del progetto e le successive nomine di collaboratori e consulenti a decidere la partecipazione o meno di Susanna Ronconi a "Lavoro Debole". Una decisione che potrebbe arrivare a stretto giro di posta. Ma indipendentemente dalla quale, come spiega Maria Grazia Grena, "Loscarcere" non si priverà dell’apporto di Susanna Ronconi: "Abbiamo fatto anche un corso assieme al Lausvol, nel quale io facevo da "tutor" e lei direttrice del lavoro - conferma la vicepresidente di "Loscarcere" -. La Ronconi è una persona intelligente e preparata: un elemento preziosissimo, cui non possiamo e non vogliamo rinunciare".
La Ronconi non avrà alcuna consulenza dalla Provincia
A seguito di un articolo, apparso nei giorni scorsi su un quotidiano nazionale, si è innescato un serrato ed acceso dibattito che in parte ha offuscato il progetto di reinserimento lavorativo degli ex-detenuti denominato "Lavoro Debole", tale articolo ha avuto l’effetto di focalizzare l’attenzione al solo coinvolgimento nel progetto di Susanna Ronconi. Un esito che non è utile a nessuno e rischia di mettere del sale su ferite non ancora rimarginate. Questa vicenda mi ha portato a parlare direttamente anche con alcuni familiari di vittime del terrorismo, che mi hanno aiutato a capire i loro sentimenti contrastanti ed il loro lacerante dolore. Ho avvertito anche la loro disponibilità a contribuire a creare un clima di maggiore serenità. Il Progetto "Lavoro Debole" affronta il tema cruciale della sicurezza, cercando di creare le condizioni affinché chi ha commesso un reato ed ha scontato la pena non lo commetta più. Intervenire nell’ambito del carcere (e del dopo carcere) è difficile, spesso impopolare, ma necessario: occorre fare in modo che chi ha saldato i conti con la giustizia abbia la possibilità di lavorare, senza alcun privilegio rispetto a qualsiasi altro cittadino e nel rispetto della nostra Costituzione. Senza un lavoro l’offerta criminale, infatti, rimane una possibilità sempre aperta. In questo ambito, la Provincia di Lodi, in collaborazione con i Comuni, ha contribuito ad avviare lo Sportello di segretariato sociale per i detenuti e l’istituto del Garante per le persone private della libertà. A fianco di queste due iniziative è stato sviluppato il progetto "Lavoro Debole". Sono interventi apprezzati e sostenuti dal territorio in modo trasversale e concretamente realizzati da una rete di soggetti (istituzioni, realtà del volontariato, del privato sociale, del mondo economico, etc.), che dimostrano una grande coesione. Non si tratta di un approccio "buonista" al problema del reinserimento sociale degli ex-detenuti, ma di un pragmatico senso della realtà che ispira politiche in grado di affrontare situazioni che, se non governate, produrrebbero, nei fatti, un aumento dei livelli di insicurezza per tutti i cittadini. In forza di questo dato, la Legge Regionale n. 8 del 2005 prevede l’erogazione di contributi a sostegno di progetti di prevenzione, recupero e reinserimento delle persone in esecuzione penale. Su questa base è stato finanziato dalla Regione Lombardia il progetto "Lavoro Debole", rispetto al quale la Provincia di Lodi è ente capofila di una rete territoriale che comprende l’Ufficio di Piano dei Distretti di Lodi, Casalpusterlengo e Sant’Angelo Lodigiano, il Comune di Lodi, Lausvol - Centro Servizi per il Volontariato, il Centro di Formazione Professionale Consortile, la Cooperativa sociale Il Mosaico Servizi, il Cesvip - Centro Sviluppo Piccola e Media Impresa, il Consorzio Arca, la Caritas, Loscarcere Onlus. Il progetto è inoltre sostenuto attivamente da Asl, Camera di Commercio, Associazione degli Industriali, Unione del Commercio del Turismo e dei Servizi, Confartigianato, Unione Artigiani, Coldiretti, Cgil, Cisl e Uil. Dal punto di vista dell’Amministrazione Provinciale il progetto assume valore in sé, e per la qualità dei partner, i quali, in piena autonomia, agiscono per il conseguimento degli obiettivi progettuali. Si tratta, quindi, di un progetto valido e necessario per il territorio che la Provincia non ha mai messo in discussione e che intende portare avanti anche in futuro. Venendo alla questione della presenza di Susanna Ronconi nel progetto, la quale collabora con un’associazione partner, la Provincia ha espresso una posizione chiara: la Signora Ronconi non ha avuto e non avrà alcun incarico di consulenza da parte della Provincia di Lodi. Le consulenze sono possibili quando non vi siano internamente le competenze necessarie alla realizzazione di un obiettivo, al punto che sulla base di quel bisogno viene emesso un avviso contenente le caratteristiche ricercate e vengono raccolti i curricula per assumere la decisione finale. Questo percorso non è mai stato previsto in tutta la storia del progetto "Lavoro Debole", ed è altresì confermato dalla recente approvazione da parte del Consiglio Provinciale (il 29/1/08) del "Programma Consulenze ex art. 3 comma 56 Legge Finanziaria 2008". D’altro canto, l’Amministrazione provinciale, secondo il principio di sussidiarietà, non interferisce con le scelte organizzative interne delle associazioni, mantenendo con esse un rapporto funzionale alla risoluzione dei problemi, che basandosi sul confronto presuppone il rispetto dell’autonomia e delle competenze delle stesse. L’augurio è che questa vicenda, nei suoi contorni oggettivi, sia occasione per un confronto equilibrato, sorretto dalla volontà di contribuire alla costruzione di quella memoria comune di cui il nostro Paese sente la necessità.
Mauro Soldati (Assessore provinciale ai servizi alla persona) Napoli: il teatro di Bertolt Brecht in scena a Secondigliano
Comunicato stampa, 7 febbraio 2008
Venerdì 15 febbraio 2008, Nuovo Teatro Nuovo e Maniphesta teatro presentano alla sala teatro dell’Istituto penitenziario di Secondigliano (Via Roma, 350 verso Scampia), "L’Opera da tre soldi", da Bertolt Brecht. Adattamento e regia Giorgia Palombi. Assistenti alla regia Alessandra di Castri, Susanna Poole. Coreografie Claudio Grimaldi. In scena una vigorosa rilettura di un testo classico che, attraverso la tragedia greca rivisita, con spirito moderno e civile, le vicende del mito antico. Venerdì 15 febbraio 2008 alle ore 18.00 il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, promuove un evento fuori dal comune. Il pubblico potrà assistere allo spettacolo curato da Maniphesta Teatro nella sala Teatro dell’Istituto penitenziario di Secondigliano-Napoli. Il gruppo di ricerca teatrale dal 1997 sperimenta il suo linguaggio nelle carceri della Campania, è formato da Giorgia Palombi, Alessandra di Castri e Susanna Poole. Da anni lavorano negli Istituti penitenziari di Pozzuoli e Secondigliano partecipando, inoltre, alla Rassegna Carcere Possibile - Teatro Mercadante - da circa tre anni. "L’opera da tre soldi" dal testo di Bertolt Brecht sarà interpretato da un gruppo di detenuti del reparto di alta sicurezza, che per la prima volta apre le porte ad un pubblico esterno. I detenuti in questione non usufruiscono di permessi, in via eccezionale è aperto l’accesso al pubblico nell’Istituto, che per tempi tecnici necessari per le autorizzazioni, si può accreditare entro e non oltre il giorno 8 febbraio presso il Teatro Nuovo 081.425958. Chiediamo come curatori dell’evento la presenza della stampa con un servizio che dia visibilità ad un progetto complesso e di particolare impatto culturale visto il contenuto del testo presentato e l’eccezionalità degli interpreti. Il rapporto con il teatro è quello di un amore. Un amore che non annulla niente di te, anzi aggiunge! Se questo avviene in un luogo che, per sua indole, è teso ad annullare l’uomo ed i suoi spazi naturali, quale è il carcere, allora il teatro diventa importante, quasi indispensabile. Nell’opera da tre soldi non esiste divisione tra buoni e cattivi. I buoni in questo testo non ci sono. C’è chi comanda e chi obbedisce, chi organizza e chi esegue, tutti tradiscono tutti. Napoli, Istituto di Secondigliano - venerdì 15 febbraio 2008. Info e prenotazioni al numero 081.425958. eventi@nuovoteatronuovo.it Belgio: braccialetto elettronico, ma solo in orario d’ufficio
Apcom, 7 febbraio 2008
Una storia tipicamente belga, dove gli orari di ufficio e i carichi di lavoro sono sacri. È scoppiata oggi la polemica sul fatto che i circa 500 detenuti in libertà vigilata attraverso il braccialetto elettronico sono assolutamente senza alcun controllo tra le 22 e le 6 del mattino. Il ministero della Giustizia lo ammette, "l’ufficio che controlla queste condanne lavora solo dalle 6 di mattina alle 10 di sera, terminato l’orario di ufficio nessuno controlla più gli spostamenti di queste persone". Il braccialetto dovrebbe consentire di verificare momento per momento gli spostamenti di questi condannati, che non possono allontanarsi dalla loro abitazione. Il ministero della Giustizia spiega che "la questione è bene presente e stiamo cercando delle soluzioni, ma il problema va avanti da lungo tempo". Di fatto, però, ci sono in giro per il Belgio in queste fredde notti 550 delinquenti completamente a piede libero. India: un giovane italiano in carcere, l’odissea di un padre
www.notizie-online.it, 7 febbraio 2008
È in carcere da quasi un anno Angelo Falcone, 27enne arrestato in India e accusato di spaccio di droga dalla polizia locale di Mandi insieme ad un coetaneo italiano, Simone Nobili, e a due indiani. I ragazzi italiani disconoscono le accuse e si ritengono vittime di un clamoroso abbaglio giudiziario. Il padre di Falcone è materano e sta affrontando un’odissea. I due giovani sono attualmente a giudizio e le prossime udienze si tengono a marzo. Il padre di Angelo Falcone, il signor Giovanni, materano di Rotondella, ha aperto un blog ed incessantemente cerca di portare il caso all’attenzione del governo e dei media nazionali ma i risultati sono stati davvero molto deludenti. Nemmeno diverse interrogazioni al Parlamento italiano ed europeo hanno avuto l’esito sperato. Giovanni Falcone, che ha già fatto lo sciopero della fame e minaccia anche azioni autolesionistiche, sta battendo molto anche su un altro tasto: all’estero non è garantito il patrocinio gratuito dello Stato ai connazionali alle prese con la giustizia. Sarebbero 3 mila le persone, in gran parte giovani, detenuti all’estero ed alle prese con le rispettive vicende giudiziarie. Giovanni Falcone è convinto che suo figlio e l’amico Simone Nobili sarebbero già liberi se avessero avuto un’assistenza legale adeguata al caso. Invece rischiano pene fino a 20 anni perché accusati di detenere a fini di spaccio 18 chilogrammi di hascisc in due valige. Il caso - Angelo Falcone, originario di Fidenza (Piacenza), e l’amico Simone Nobili erano per vacanza a Mandi, nella regione himalayana dell’Himachal Pradesh, in India (vedi mappa con Google Maps), per vacanza. Alloggiavano in una piccola pensione. Qui, secondo le loro dichiarazioni, sono stati arrestati nella sera del 9 marzo dello scorso anno. I verbali della polizia riportano invece che sono stati arrestati in un taxi insieme ad altri due indiani mentre erano diretti all’aeroporto con le valige cariche di sostanza stupefacente nel bagagliaio. Come da loro denunciato, sono stati trattenuti per 24 ore senza poter telefonare all’Ambasciata senza un interprete né tantomeno un legale ed infine hanno firmato una dichiarazione in lingua non italiana. Sono stati rinchiusi in cella e sono stati a lungo senza vedere un giudice. Dopo il rinvio a giudizio, il processo è iniziato il 26 dicembre, altre udienze si sono tenute a dicembre e gennaio e sono stati escussi dei testimoni, che sono tutti dell’accusa e quasi tutti poliziotti. Nell’udienza del 21 gennaio sono stati mostrati gli atti ed i verbali di sequestro e di sopralluogo che la difesa dei due italiani ha contestato. Riprenderà il 10, l’11 ed il 12 marzo, ad un anno esatto dall’inizio della detenzione. La difesa punta su diverse incongruenze che Falcone e Nobili hanno denunciato all’Ambasciata. Innanzitutto, le circostanze dell’arresto che divergono sensibilmente dal momento che gli italiani dichiarano di essere stati arrestati nel loro alloggio. Sui verbali divergerebbero anche gli orari dell’arresto che sono indicati in maniera diversa per l’uno e per l’altro. Oltre al processo, la detenzione è anche motivo di afflizioni fisiche. I due italiani hanno contratto infatti l’epatite virale. Angelo Falcone è notevolmente dimagrito. Le condizioni carcerarie sono difficili ma comunque "accettabili" secondo i responsi delle visite consolari. La disperazione del padre di Angelo - Giovanni Falcone, brigadiere dei carabinieri in pensione, lotta senza pause. "Sono disperato, sono andato a trovare mio figlio a novembre ed era notevolmente dimagrito ed è a pezzi con il morale - dice Falcone -. Mio figlio è incensurato, non ha mai fatto uso di droga. È rimasto invischiato in questa storia in cui non c’entra ma nessuno ci aiuta. Ma si può immaginare che due ragazzi che vivono in una poverissima pensione possano portare droga del valore di cento mila euro. Si stanno sbagliando ma non riusciamo a venire a capo di questa storia. Sono pronto a tutto - sottolinea -. Ho già fatto lo sciopero della fame e sono pronto ad altre azioni forti, qualcosa devo fare affinché l’Italia si accorga di questa storia". Proprio questo non va giù al signor Falcone. "Ma come - si lamenta - se succede qualcosa a qualche straniero in Italia tutti i giornali e le televisioni ne parlano, di Angelo non si è interessato nessuno. Ho scritto anche all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ed alla Vigilanza Rai per chiedere che si faccia sapere questa vicenda perché occorre la mobilitazione del governo e della gente. Ma se nessuno lo sa, non si muove niente". Per questo ha aperto un blog www.giovannifalcone.blogspot.com sull’esempio di quanto ha fatto Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, morto nel febbraio del 2006 a Ferrara in circostanze che sono ora oggetto di un processo a quattro poliziotti. Falcone, serve patrocinio gratuito per italiani - Non esistono accordi bilaterali tra il nostro Paese e l’India per il trasferimento dei detenuti. Falcone è in perenne contatto con le autorità statali, riceve assistenza dall’Ambasciata ma nel frattempo l’avvocato se lo deve pagare di tasca propria perché non esiste il patrocinio gratuito per gli italiani detenuti all’estero. "Mio figlio sarebbe già libero se uno studio legale forte avesse potuto difenderlo ma non ho le possibilità, le parcelle e le spese che mi hanno chiesto sono elevatissime - dice Falcone -. In Italia uno straniero ha tutti i diritti, per noi all’estero invece non sono garantiti. Qui non si tratta solo del fatto legale perché sono in ballo i diritti umanitari delle persone. In tutto il mondo sono 2.944 gli italiani detenuti, a prescindere se ci sono anche coloro che hanno ammesso le proprie colpe, lo Stato italiano non garantisce i diritti delle persone. Invece vediamo su tv e giornali che per il caso di Perugia e della povera Meredith Kercher le autorità governative di tutti gli stranieri implicati si sono presentati con avvocati famosi per assistere i propri cittadini". Il padre di Angelo Falcone non molla, non perde le speranze ma i punti di riferimento sono diventati molto pochi. "Adesso che è caduto anche il governo è ancora più dura perché non riesco a contattare proprio nessuno", sottolinea. "Il dramma è che l’Italia non conosce la storia di Angelo, il dramma è che non se ne frega proprio nessuno", chiosa con moltissima amarezza. Una speranza. "Angelo ha compiuto 27 anni ad aprile mentre era in carcere, spero che non debba festeggiare un altro compleanno così", conclude commuovendosi.
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