Rassegna stampa 14 febbraio

 

Giustizia: Berlusconi e Veltroni… diteci i vostri programmi

di Emile

 

www.radiocarcere.com, 14 febbraio 2008

 

Berlusconi e Veltroni. I due contendenti si posizionano ai nastri di partenza. Ha inizio la competizione elettorale. Il Partito delle Libertà e il Partito Democratico si schierano. Due nascituri, non presenti nelle precedenti tornate elettorali. Il primo venuto alla luce appena due giorni or sono dalla crasi di Forza Italia e Alleanza Nazionale. Una gestazione fulminea. Il padre, il padrone e il leader, sempre lui, il Cavaliere. Il secondo si muove già da qualche mese. Il battesimo è avvenuto nell’ottobre 2007.

Il parto è stato sicuramente più complesso: più democratico, almeno all’apparenza. Anche qui l’evento è stato determinato dall’unione di due soggetti: la Margherita e i Democratici di Sinistra. Il suo capo indiscusso Walter Veltroni, apparentemente scelto con le cosiddette primarie. La rassegnazione alla stagnazione, al non governo del paese, bloccato dalle dispute tra partiti e partitini e dai veti incrociati, è sostituita dal riaccendersi dalla speranza. La semplificazione, due partiti che si confrontano.

La scelta tra due diversi programmi, che non dovrebbero essere complicati dal tentativo di essere la sintesi del volere di tante compagini politiche. La governabilità, assicurata a chi dalle urne elettorali dovrebbe risultare vincitore. La passione si riaccende. I due leader si presentano. I discorsi: un susseguirsi di slogan. Per i programmi si deve attendere. Si mormora di organi di partito al lavoro. Si auspica la chiarezza. Si chiede l’individuazione di problemi e di soluzioni.

La giustizia. La valvola di sicurezza dello Stato di diritto. Una valvola complessa che si è irrimediabilmente ossidata, il cui non funzionamento ha determinato il venir meno dello Stato di diritto. Certezza del diritto e certezza della pena non sono più presenti nel nostro sistema giudiziario. Alla violazione del diritto non segue la sua applicazione coatta da parte del giudice e la conseguente sanzione.

È assente la risposta alla domanda di giustizia. La risposta del giudice alla richiesta del privato relativamente all’applicazione della regola giuridica, per esempio rilascio di un immobile abusivamente occupato, ha una tempistica lunga ed incerta, come incerto e aleatorio è pure il contenuto della decisione.

Connotati non diversi ha la risposta del giudice alla richiesta di un pubblico ministero di punire l’autore di un reato. Anche in questo caso la decisione giurisdizionale arriva con irragionevole ritardo e l’esito è caratterizzato da una esoterica aleatorietà. L’assenza di una risposta alla domanda di giustizia e la non ragionevole prevedibilità dell’esito determina inevitabilmente effetti disastrosi. Crescono malaffare e criminalità che, nell’assenza dell’applicazione del diritto, trovano una linfa vitale. Prolifera lo stato d’incertezza che ha un riflesso disastroso sull’economia del paese. L’incertezza impedisce lo sviluppo economico e scoraggia l’investimento, soprattutto quello proveniente dall’estero.

La mancata risposta alla domanda di punizione dell’autore di un reato determina una illegalità diffusa e l’impunità di colui che viola la regola. Cause e rimedi dovrebbero trovare spazio nei libelli programmatici dei due partiti. La scelta elettorale dovrebbe trovare la sua ragione nella valutazione del come il problema si vuole affrontare nel suo complesso.

La soluzione della disfunzione deve avere il suo fondamento nell’analisi del dato concreto. Un esempio: la valutazione dell’uso della custodia cautelare non può prescindere dal rapporto tra le condanne definitive e le misure cautelari disposte; dal numero dei casi di ingiusta detenzione.

La concretezza impone inoltre l’individuare la causa della disfunzione, del perché, per esempio si faccia un uso eccessivo di custodia cautelare e di intercettazioni. La metodica del passato, che ha portato ad interventi legislativi che prescindevano dalla realtà, che non consideravano l’impatto che questa avrebbe avuto e i suoi effetti, deve essere necessariamente abbandonata. Un esempio l’approvazione dell’indulto.

Intervento emergenziale sganciato da ogni valutazione circa i suoi effetti e circa la sua utilità. I programmi: un primo momento per cambiare. Un momento che consolidi la speranza che i due nuovi partiti non costituiscano una astratta operazione di maquillage, ma una rivoluzione con effetti concreti.

Giustizia: 50mila detenuti, le carceri sono sempre più affollate

 

Apcom, 14 febbraio 2008

 

Al 13 di febbraio i detenuti presenti nelle strutture carcerarie sono 50.220, su una capienza totale prevista di 43.228. Questi i dati forniti dall'Osapp il cui segretario generale, Leo Beneduci spiega poi come si debba leggere i dati regione per regione per capire "le percentuali di scopertura che si ottengono analizzando il rapporto tra capienza effettiva e quella prevista come regolamentare". Nella regione Puglia i detenuti presenti oltre la capienza prevista raggiungono il 12% e così pure in Sicilia. La Liguria è al 14%, la Toscana ed il Piemonte sono al 16%. Ma i casi più sconvolgenti sono il Veneto (37%), la Lombardia (38%) e l'Emilia Romagna (60%). Guardando solo all'Emilia Romagna, precisa l'Osapp, i detenuti sono 3.772, sui 2.255 previsti. 
"Siamo impressionati dal fatto che l'amministrazione penitenziaria rimanga ancora inerme di fronte ad una situazione che continua a considerare il minore dei mali - lamenta Beneduci - sostenendo che l'indulto approvato due anni fa ha comunque consentito a non aggravare il quadro globale. Ci colpisce l'approccio approssimativo di chi, riportando i dati, esamina la situazione con lo sguardo rivolto all'indietro, citando gli effetti di una misura che rispetto al reale impatto prodotto non può essere considerata radicale: ad oggi infatti, a due anni dal voto in Parlamento, assistiamo al rientro in carcere di 8.115 persone beneficiarie dell'indulto, quasi 1/3 sulle 27.194 totali". "Al ministro Scotti e al sottosegretario Manconi chiediamo - conclude l'Osapp - la designazione di un Commissario straordinario che gestisca l'attuale emergenza carceri, in attesa che il nuovo Esecutivo assuma urgenti iniziative". 

 

Comunicato Sappe, 14 febbraio 2008

 

"Alla data del 31 luglio 2006, prima dell’approvazione dell’indulto, avevamo nei 207 istituti penitenziari italiani 60.710 detenuti a fronte di una capienza regolamentare pari a 43.213 posti. Approvato l’indulto (Legge n. 241 del 31 luglio 2006), esattamente un mese, e cioè il 31 agosto 2006, il numero dei detenuti presenti in carcere era drasticamente sceso a 38.847 unità. Gli ultimi dati, riferiti al 31 gennaio 2008, attestano la presenza di 49.963 detenuti presenti (ben oltre la capienza regolamentare pari a 43.242 posti), un trend velocemente in ascesa se si pensa che un mese prima, il 31 dicembre 2007, i detenuti erano 48.693 - dunque circa 1.500 detenuti in più in soli 30 giorni! - e nello stesso mese dello scorso anno, 31 gennaio 2007, erano 39.827.

E si consideri che i detenuti che materialmente uscirono dal carcere per effetto dell’indulto sono stati circa 27mila, a cui bisogna aggiungere quelli che ne hanno beneficiato pur non essendo fisicamente in un penitenziario: circa 6.800 che fruivano di una misura alternativa alla detenzione, circa 200 già usciti dal carcere per l’indultino del 2003 e 250 minori. E sul fronte Personale i dati sono altrettanto allarmanti. La differenza tra il Personale di Polizia Penitenziaria effettivamente in forza e quello previsto registra una carenza di 4.425 Agenti uomini e 335 Agenti donne. Le carenze di Baschi Azzurri più consistenti si registrano in Lombardia (circa 1.200 unità), Piemonte (900) Emilia Romagna, Toscana, Veneto e Liguria. Anche il Personale amministrativo e tecnico è fortemente sotto organico di ben 2.300 unita!"

"Il confronto tra queste cifre" conclude Capece "dimostra inequivocabilmente che chiunque vincerà le prossime elezioni deve porre la questione penitenziaria tra le priorità d’intervento".

Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione della Categoria, analizzando i dati penitenziari riferiti al 31 gennaio scorso.

La mancata adozione di provvedimenti strutturali da parte di Governo e Parlamento per modificare il sistema penitenziario contestualmente all’approvazione dell’indulto ha riportato le carceri italiane a livelli di sovraffollamento insostenibili, arrivando oggi ad avere un numero di detenuti pressoché uguale a quello per il quale, poco più di un anno fa, l’80% dei parlamentari italiani decise di approvare il provvedimento di clemenza.

Le coalizioni che si candidano a governare il Paese non posso però tralasciare la grave situazione penitenziaria che si registra oggi nei nostri Istituti di pena, che si ripercuote principalmente sulle donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, e devono quindi porre l’emergenza carceraria tra le priorità di intervento.

Il Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione sindacale della Polizia Penitenziaria, rinnova quindi l’invito a chiunque vincerà le prossime elezioni di porre la questione penitenziaria tra le priorità d’intervento, prevedendo una modifica del sistema penale - sostanziale e processuale - che renda stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale.

Che si trovino soluzioni al problema degli stranieri detenuti (che rappresentano oggi circa il 40% della popolazione carceraria) mediante accordi internazionali che consentano l’espiazione delle pene nei Paesi di origine. Ma soprattutto che si impegnino ad assumere almeno 3.000 nuovi poliziotti penitenziari, stante la grave carenza di Personale che si registra nel Paese."

Giustizia: intercettazioni divulgate, un illecito amministrativo

di Nicola Di Grazia (Gip di Civitavecchia)

 

www.radiocarcere.com, 14 febbraio 2008

 

Il dibattito sulla sostanziale impunità della pubblicazione degli atti del procedimento penale non divulgabili e il rimedio contenuto nella recente proposta di legge, già approvata da un ramo del Parlamento, ripropongono un modo di ragionare purtroppo già conosciuto.

Ancora una volta, si scarica sul sistema della giustizia penale la ricerca di un punto di equilibrio in una materia al centro di un difficile bilanciamento tra interessi di assoluto rilievo. Ancora una volta, si pensa che inasprire la pena prevista per un reato possa rappresentare la risposta ad un problema complesso.

Se si ritiene che punire il soggetto che attua la violazione del segreto non sia sufficiente, perché bisogna intervenire anche su chi effettua la propalazione delle notizie riservate, aumentare la pena prevista dall’art. 684 del codice penale per la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, in realtà, non ha molto senso.

Portare l’ammenda, oggi prevista in misura esigua (l’arresto fino a trenta giorni o l’ammenda da euro 51 a 258) sino ad un massimo di euro 100.000, significa solo colpire in modo selettivo chi opera negli organi di informazione di piccole dimensioni. È chiaro, invece, che per un grande giornale o per una rete televisiva importi del genere sono tranquillamente sostenibili in un’ottica economica di gestione del risultato sperato, in termini di aumenti della vendita delle copie o di audience. Dunque, non ne deriverebbe nessun serio aumento dell’effetto deterrente ed anzi ci si troverebbe di fronte ad una ingiusta distorsione nell’applicazione concreta.

D’altra parte, pensare ad una rimodulazione della sanzione penale fondata addirittura sulla pena detentiva, con la trasformazione della contravvenzione in delitto, appare del tutto inadeguato rispetto all’effettivo disvalore della condotta incriminata, che è comunque collegata all’esercizio di cronaca giornalistica e dunque ad un interesse pubblico che a sua volta trova il suo riferimento nell’art. 21 della Carta Costituzionale.

La sanzione in questi casi deve essere posta a difesa, come detto, di un punto di equilibrio tra interessi diversi, tutti meritevoli di tutela, che possono concretamente entrare in conflitto tra loro. Deve essere efficace per svolgere la sua funzione dissuasiva, ma deve anche contribuire alla formazione di una condivisa pratica professionale che consenta di apprezzare con chiarezza le deviazioni.

Per questo la soluzione, prospettata da Radio Carcere, della depenalizzazione e della previsione di un apposito illecito amministrativo è condivisibile sia come scelta sistematica più appropriata rispetto alla tutela penale, sia come strada per recuperare efficacia deterrente e valore costruttivo alla sanzione.

A questo proposito va detto che la misura della sanzione amministrativa pecuniaria potrebbe essere proporzionata all’entità della violazione commessa e alla diffusione della pubblicazione, colpendo l’editore e non il singolo giornalista, attribuendo rilievo alla eventuale reiterazione dei comportamenti e fornendo così una risposta adeguata alle caratteristiche del singolo caso concreto.

E potrebbe anche essere accompagnata dall’obbligo di pubblicazione, con adeguato risalto, del provvedimento applicativo; una sanzione accessoria, questa, che rappresenterebbe un momento di utile ricostruzione davanti alla collettività della legalità violata. Al contrario, suscita serie perplessità l’idea di prevedere, per i casi più gravi, la sospensione dell’attività della testata giornalistica o televisiva, trattandosi di un tipo di provvedimento che certamente si porrebbe in tensione con il principio generale della libertà di stampa senza adeguate giustificazioni.

Del resto, l’esigenza di interventi più incisivi sembrerebbe già garantita dall’abbandono del modello della tutela penale, dei suoi vincoli strutturali e delle sue obiettive difficoltà operative.

Senza dimenticare, poi, che la proposta di depenalizzazione non pare avere fondate controindicazioni neppure dal punto di vista delle garanzie offerte nella fase dell’accertamento della violazione. Anzi, l’attribuzione della competenza ad una autorità indipendente potrebbe favorire il coinvolgimento in qualche forma, all’interno del procedimento che porta alla decisione, dell’ordine professionale, valorizzando in tal modo anche il raccordo con la eventuale responsabilità disciplinare del singolo giornalista o del direttore responsabile.

La proposta avanzata da Radio Carcere pare convincente, infine, anche nell’individuazione del soggetto che dovrebbe occuparsi dell’accertamento della violazione e dell’applicazione della sanzione amministrativa, dato che l’Autorità garante della privacy ha sicuramente già accumulato una preziosa esperienza in materia.

Giustizia: sanzioni economiche per chi divulga intercettazioni

di Antonello Ardituro (Pm della Dda di Napoli)

 

www.radiocarcere.com, 14 febbraio 2008

 

Il tema della pubblicazione degli atti di indagine di un procedimento penale è di particolare attualità, per la crescente frequenza con cui i mass media danno diffusione del contenuto di intercettazioni telefoniche utilizzate per l’emissione di provvedimenti cautelari. È utile, come sempre, fare una valutazione che tenga conto del crescendo a cui abbiamo assistito negli ultimi anni; in una duplice direzione: il passaggio dalla pubblicazione del contenuto delle intercettazioni alla pubblicazione integrale delle trascrizioni; il passaggio dalla pubblicazione ad opera della carta stampata alla divulgazione audio, anche attraverso l’uso della fiction, in trasmissioni televisive.

Con la conseguenza di aumentare la spettacolarizzazione della vicenda e allontanare sempre più il fatto da una corretta analisi critica, per indirizzarlo invece verso un ingestibile processo parallelo che si svolge ad uso e consumo degli interessi di audience o, in alcuni casi, degli stessi imputati che hanno interesse ad alzare il tono dello scontro e veicolare una verità mediatica del tutto diversa da quella processuale.

Le conseguenze sono tutte racchiuse nell’imbarbarimento di ogni riflessione sulla giustizia e sulle cause di un sistema che oggettivamente funziona poco e male, soprattutto per i tempi irragionevolmente lunghi dei processi.

In questa ottica è da apprezzare il recente intervento del garante per le comunicazioni che ha invitato gli addetti ai lavori ad evitare la spettacolarizzazione dei processi, e la inevitabile semplificazione del messaggio televisivo che trasforma un avviso di garanzia o un provvedimento cautelare in condanna definitiva. Di particolare rilievo è apparso il richiamo all’opportunità di una informazione che spieghi la centralità del processo, e del dibattimento quale momento di accertamento della verità nel contraddittorio delle parti, da svolgersi evidentemente nella sua sede propria e non nei sempre più frequenti surrogati televisivi.

In tale contesto ritengo di condividere la proposta di Radio Carcere volta a depenalizzare il reato di pubblicazione di atti di un processo penale, nelle diverse ipotesi oggi disciplinate, inserendo una sanzione amministrativa realmente afflittiva.

Invero, la proposta deve inserirsi in una riflessione più ampia che prenda atto della necessità di ridurre le fattispecie penalmente rilevanti sia in relazione ai beni-interessi tutelati, sia rispetto alla effettività della sanzione. Sotto questo aspetto devono formularsi alcune considerazioni di segno opposto: per un verso va evidenziato che i beni-interessi tutelati dal sistema di sanzioni relativo al divieto di pubblicazioni di atti sono senz’altro di rango costituzionale, in quanto relativi alla presunzione di non colpevolezza, al diritto ad un giusto processo, al diritto di difesa, al diritto alla riservatezza delle comunicazioni ed al diritto alla privacy, al diritto di critica e di informazione; in questo senso sembrerebbe necessario mantenere la disciplina sanzionatoria nell’alveo del diritto penale, come da consolidata dottrina; di contro però deve prendersi atto che la sanzione amministrativa proposta (di carattere pecuniario e temporaneamente interdittivo) appare di gran lunga più afflittiva di quella penale attualmente vigente.

Deve considerarsi come una sanzione amministrativa effettiva e concretamente applicabile, che ha natura essenzialmente patrimoniale, sa essere molto più efficace di una sanzione penale blanda e che interviene tardi. Inoltre, nel caso di specie, la sanzione andrebbe irrogata da un organo amministrativo dotato di particolari garanzie di indipendenza, come previsto nello statuto del garante della privacy; circostanza questa di notevole significato ancora una volta nell’ambito di una riflessione più ampia sui poteri e sulle funzioni delle autorità indipendenti, soggetti che vanno rafforzati nel loro grado di autonomia dal potere esecutivo, nell’ottica di un ritorno alle originarie motivazioni poste a fondamento delle rispettive istituzioni.

In molti settori dell’economia il rafforzamento dei poteri delle autorità indipendenti appare lo strumento migliore per sanzionare condotte oggi ricadenti nel penalmente rilevante. In conclusione appare evidente come una materia così delicata rappresenti lo spunto per riflessioni molto più ampie e generali sullo stato della giustizia, sul rapporto fra giustizia e mass media, nonché in materia di diritto penale minimo e depenalizzazione, oltre che di funzioni delle autorità indipendenti, da affiancare al giudice penale in un sistema di accertamento e di sanzioni complesso, tanto quanto lo è il sistema di relazioni economiche e sociali su cui esso deve intervenire.

Giustizia: caso Aldrovandi; il "mistero" dei manganelli spezzati

di Grazia Maria Nottola

 

Corriere della Sera, 14 febbraio 2008

 

Il processo a quattro poliziotti. L’ipotesi dei Pm: hanno rotto i manganelli sul corpo di Federico. La difesa: li ha spezzati lui. Le accuse degli inquirenti: gli agenti avevano un defibrillatore ma non l’hanno utilizzato.

Due manganelli di gomma nera. Entrambi spaccati all’altezza dei manici. Potrebbero esser stati rotti sul corpo di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto il 25 settembre 2005, dopo un intervento della polizia. Colpi alle gambe e non solo, inflitti al ragazzo nel tentativo di immobilizzarlo (l’autopsia non lo esclude, ndr). È l’ipotesi sostenuta dalla Procura di Ferrara nel processo in corso, davanti al giudice monocratico, contro i quattro agenti coinvolti in un violenta colluttazione con Federico, ora accusati di omicidio colposo.

Ieri la settima udienza. In aula Paolo Marino, ex capo dell’ufficio volanti, l’investigatore che per primo diede avvio alle indagini. A lui il pm Nicola Proto chiede conto di quegli sfollagente, subito spariti misteriosamente dalla scena del delitto, per poi ricomparire nel pomeriggio in questura. Puliti, senza macchie di sangue. E rotti.

"Nessuno mi parlò dei manganelli la mattina del 25 settembre, poi lo fece l’agente Pirani". "Come mai non gliene parlarono prima?" incalza Proto. "Una dimenticanza". Il dirigente Marino non se ne fa un problema "anche perché sul volto del ragazzo non c’erano segni, né sangue". Eppure una risposta la ottiene: "Un manganello si era rotto a causa di un calcio dell’Aldrovandi, l’altro perché ci era caduto sopra".

Spiegazione che l’ex capo delle volanti ritiene soddisfacente. Non approfondisce né lancia segnali allarmanti alla Pm Emanuela Guerra, titolare delle indagini, che non va neppure sul posto. Gli sfollagente vengono fotografati e poi rinchiusi in cassaforte per mesi, fino al loro sequestro (il 21 febbraio 2006).

Anche Pietro Scroccarello, capo della squadra mobile, dice di non saper nulla dei manganelli, se non in seguito da Paolo Marino. E Gennaro Sidero, questore vicario, assicura di averne avuto notizia solo alle 18. All’enigma degli sfollagente, si aggiunge il giallo del defibrillatore, in dotazione di una volante e mai utilizzato la mattina del 25 settembre.

È la seconda ipotesi dell’accusa: il ragazzo stava male, chiedeva aiuto, e nessuno lo ha soccorso prima dell’arrivo dell’ambulanza. Eppure, come ha confermato Scroccarello, l’attrezzatura era a bordo e uno degli indagati aveva fatto un corso per utilizzarlo. Invece Federico è a terra, ammanettato, forse sta morendo, mentre uno dei poliziotti parla con un operatore del 113: "Abbiamo avuto una lotta di mezz’ora, l’abbiamo bastonato di brutto, solo che adesso è svenuto, non so, è mezzo morto...". Sono le 6.12. I medici del 118 non sono ancora arrivati.

Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 14 febbraio 2008

 

M., dal carcere di Catania

Caro Arena, avrai ormai capito che in Sicilia è davvero un altro mondo. Un altro mondo da cui forse non arriva a voi la notizia dell’ennesimo suicidio nell’altro carcere di Catania, quello di Piazza Lanza. Si è ammazzato un ragazzino, chiaramente in attesa di giudizio! Ma evidentemente poco importano queste cose all’Italia. Per quanto mi riguarda, ho 56 anni di cui non pochi passati in carcere. Ora la mia salute non è più quella di una volta, ho il diabete e problemi al cuore. Il fatto è che dal Tribunale di Sorveglianza di Palermo non riesco ad ottenere nulla, neanche una misura alternativa. E pensare che con l’applicazione dell’indulto mi rimarrebbero da scontare solo un anno e 11 mesi. A loro non importa e sembra che io la pena me la debba scontare tutta fino in fondo anche se, come prevede la legge, potrei, nei modi che dicono loro, uscire prima. Spero che pubblicherai questa mia lettera. Dalla mia cella aspetto la tua risposta, l’unica che non tarda ad arrivare. Con stima.

 

Vincenzo, dal carcere Poggioreale di Napoli

Amico Arena, sono uno di quei poveri disgraziati finiti nell’inferno del carcere Poggioreale di Napoli. Una realtà terribile. Noi detenuti siamo come i rifiuti abbandonati per le nostre strade. Ammucchiati uno su l’altro in attesa che qualcuno o qualcosa ci smaltisca. Dalla cella da dove ti scrivo il panorama è desolante. 10 persone buttate sui letti a castello. Chiusi nell’abbandono per 22 ore al giorno. Qui regnano solo sporcizia, fame e violenza. Un inferno. Oltre a questa condizione a cui siamo costretti, la cosa che mi preme dirti è che io sono stato messo in carcere per un fatto reato che risale al 1989. Ovvero un reato che avrei commesso 18 anni fa! Ma è normale questo? Io non riesco a crederci. Sono disperato. Considera anche che si tratta di una vecchia ricettazione di un assegno rubato. Il che mi sembra ancora più assurdo. Io, l’unico a cui non si applica la prescrizione in Italia. Temo che si siano sbagliati. Ma temo anche che si siano dimentica di me. E io da solo non riesco a ottenere giustizia. Con stima.

 

Emanuele, dal carcere dell’Isola della Gorgona

Ciao Caro Riccardo, come sai ho commesso un reato all’estero e lì sono stato condannato. Poi in base alla Convenzione di Strasburgo ho chiesto e ottenuto di scontare la pena in Italia.

Poi, quando hanno fatto l’indulto, io ne ho fatto richiesta. E da quel giorno per me è iniziata l’odissea. Oggi ti scrivo per farti sapere che la Corte di Appello di Caltanissetta mi ha rigettato per la seconda volta la richiesta di indulto. La motivazione è sempre la stessa, ovvero "Nella convenzione di Strasburgo la parola indulto non c’è". La cosa che non capisco è che altre persone, a differenza di me, l’indulto lo hanno avuto e anche loro erano state condannate all’estero. L’esempio più famoso è stato Silvia Baraldini.

Ti giuro che non so più cosa fare e cosa pensare. A volte credo che sia vero che la legge non è uguale per tutti. Come se non bastasse, la magistratura di sorveglianza non mi riconosce gli sconti di pena per la liberazione anticipata e mi rinviano in continuazione l’udienza per la semilibertà. Se mi avessero dato l’indulto, come hanno fatto con altri, io sarei stato già libero. Ed invece sto ancora in carcere. Non dico che io non ci debba stare. È solo che non capisco perché persone condannate all’estero come me, in carcere non ci stanno. Tutto qui.

Dimmi, cosa posso fare? Appena potrò avere un permesso ti telefonerò, te lo prometto.

Roma: muore il boss Michele Greco, "il Papa" di Cosa Nostra

 

Panorama, 14 febbraio 2008

 

Stroncato, da quanto si apprende, da un tumore ai polmoni, è morto mercoledì in una clinica romana, dove era ricoverato da alcune settimane il boss mafioso Michele Greco, 83 anni, detto "il Papa" della mafia. Il capomafia di Ciaculli, prima del ricovero in ospedale, era detenuto a Rebibbia dove stava scontando alcuni ergastoli definitivi. Greco era una figura storica di Cosa nostra ed era ritenuto fra i mandanti di alcuni delitti eccellenti.

Lo chiamavano "Papa" perché sapeva mediare tra le famiglie di Cosa Nostra. Ieratico, sempre incravattato e in ordine, sembrava lo "zio", quegli "zii" di Sicilia ritratti da Leonardo Sciascia cui chiedere un consiglio, giustizia o ponderata vendetta secondo i casi. Fu "Papa" in tempi difficili, quei primo Ottanta in cui i Corleonesi stavano prendendo in mano Cosa Nostra e lui, il padrino di Croceverde-Giardini riceveva politici e potentame vario nella sua tenuta di Ciaculli, "La Favarella".

Greco divenne una figura nota a tutti gli italiani grazie alle immagini del Maxiprocesso di Palermo, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dalle gabbie in cui i maggiori capimafia facevano sfoggio di sé, lui parlava solo a proposito e, a differenza di Luciano Liggio e il suo enorme sigaro cubano agitato polemicamente come un bastone, interveniva solo per stretta necessità. Da vero padrino disse ai giudici che lo interrogavano: "Se mi fossi chiamato Michele Roccapinnuzza oggi forse non sarei qui", poi si lanciò in una filippica contro la pornografia e i film violenti che a suo dire avevano rovinato il mondo. Disse infatti che se il pentito Salvatore Contorno avesse visto I dieci comandamenti, anziché Il Padrino, non avrebbe calunniato alcune persone. Greco fu arrestato il 26 febbraio dell’86 dopo quattro anni di latitanza in un casolare nelle campagne di Caccamo, a una cinquantina di Km da Palermo, dove si nascondeva sotto falso nome.

Nominato nel 1978 capo della commissione di Cosa Nostra, dopo l’espulsione di Tano Badalamenti, non ostacolò l’avanzata dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, dei quali divenne anzi alleato. Insieme al fratello Salvatore (detto "il senatore", per i suoi rapporti con politici e banchieri), fu il mandante dell’omicidio del giudice Rocco Chinnici.

Con undici ergastoli sulle spalle (tra cui quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa), il "Papa" sarebbe potuto tornare in libertà nel 2010, a 86 anni. Per i magistrati, infatti, non aveva più legami con la mafia. Coerente con le scelte che ha fatto, è morto dopo una lunga malattia senza mai rivelare quello che sapeva sugli anni passati dentro Cosa Nostra. Nemmeno sul significato di quell’augurio di pace che rivolse ai giudici prima della camera di consiglio del Maxiprocesso e che nessuno è stato mai capace di interpretare: "Auguro a tutti voi la pace, perché la pace è la tranquillità dello spirito e della coscienza, perché per il compito che vi aspetta la serenità è la base per giudicare. Non sono parole mie, ma le parole che nostro signore disse a Mosè, le auguro ancora che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita".

 

Ascesa, omicidi e sconfitte tutti i segreti del "Papa"

 

Aveva la mania di consegnare memoriali ai giudici che lo processavano. Michele Greco raccontava sempre la stessa storia, quella di una Sicilia antica, in cui lui era uno stimato proprietario terriero: "Nella mia tenuta, alla Favarella, ricevevo ufficiali dei carabinieri, politici, magistrati, e pure alti prelati". L’ultima volta che lo ribadì, con la sua solita grafia molto ordinata, fu al processo per i delitti politici di Palermo. Michele Greco continuava a scrivere molto, ma a dire poco. Lanciava segnali, ma è morto portandosi dietro i suoi segreti, quelli sugli anni Ottanta che furono segnati da una lunga scia di sangue e da una misteriosa catena di complicità.

Era stato nominato capo della commissione provinciale nel 1978, dopo la deposizione di Gaetano Badalamenti. Già allora lo chiamavano il "papa", per la sua capacità di mediare. Ma quando i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano scatenarono la guerra di mafia, lui non provò neanche a capire cosa stava accadendo. Michele Greco si schierò presto dalla parte dei vincenti. E conservò, almeno formalmente, il suo ruolo di vertice nella commissione, fino al giorno in cui fu arrestato, il 26 febbraio 1986, dopo quattro anni di latitanza. Il suo ruolo era stato ormai delineato dal pool di Falcone e Borsellino. Così, il "papa" fece ingresso nel bunker dell’Ucciardone, dove iniziava il primo maxi processo alle cosche.

Sono ormai celebri le sue dichiarazioni in aula. "Signor presidente, io auguro alla corte pace e serenità per potermi giudicare...". Faceva di tutto per apparire come un timorato uomo di Dio, gran lettore della Bibbia e assiduo frequentatore di messe. Ma non bastò ad evitargli l’ergastolo, come mandante per quattro omicidi. Lui non si rassegnò. Attraverso il suo legale, fece sapere: "Le uniche cupole che conosco sono quelle delle chiese, il personaggio sanguinario che mi hanno disegnato su misura è falso".

L’unica volta che Greco è rimasto in silenzio è stato il giorno in cui ha deposto Nino Giuffrè. Con lui aveva vissuto durante la latitanza, nelle campagne di Caccamo. All’epoca, Giuffrè era il più promettente dei picciotti del mandamento gestito da Francesco Intile, qualche anno dopo sarebbe diventato lui il padrino e per di più uno dei collaboratori di Bernardo Provenzano.

"Michele Greco mi parlava di tante cose - spiegò Giuffrè quando decise di collaborare con i magistrati di Palermo, nella primavera del 2002". Gli raccontò di come un uomo d’onore, Vittorio Mangano, era diventato stalliere nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi: "L’imprenditore milanese aveva paura dei sequestri di persona che in quel periodo imperversavano a Milano".

Michele Greco raccontò ancora a Giuffrè di quando aveva incaricato l’esattore Nino Salvo di andare a Roma, per parlare con Andreotti. "Bisognava alleggerire la pressione di magistrati e investigatori". Grazie alle confidenze del "papa", Giuffrè è diventato testimone d’eccezione nei processi che hanno portato alla condanna di Marcello Dell’Utri e a una dichiarazione di prescrizione per Giulio Andreotti. Greco non ha mai più replicato. È rimasto chiuso in isolamento.

Dall’84, era uscito una sola volta dal carcere, nel ‘91, per una questione di decorrenza dei termini di custodia cautelare, decretata dalla Cassazione in base a una cervellotica interpretazione delle leggi e del codice di procedura penale. "Ma cos’è questa mafia? Ma chi ha mafiato mai?", disse ai giornalisti che l’andarono a trovare nella sua villa di Croceverde Giardini, alla periferia orientale di Palermo. "La mafia? Non so niente". E tornò ad insistere sulla sua religiosità. Quella volta, restò davvero poco in libertà. Le porte del carcere si riaprirono con un decreto d’urgenza del ministro della Giustizia, Claudio Martelli, su input dell’allora direttore degli Affari penali, Giovanni Falcone, e con l’avallo del governo, presieduto da Giulio Andreotti.

È stato il cavallo di battaglia dell’ex presidente del consiglio al suo processo per mafia. Ma Giuffrè è rimasto per i giudici "attendibile". Adesso che Michele Greco è morto, l’ex picciotto di Caccamo è davvero l’unico depositario dei segreti del "papa".

Napoli: Bruno Contrada è ricoverato d’urgenza in ospedale

 

Adnkronos, 14 febbraio 2008

 

L’ex funzionario del Sisde, condannato a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato portato al nosocomio Santa Maria Capua Vetere in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Bruno Contrada, l’ex funzionario del Sisde condannato a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato ricoverato d’urgenza all’ospedale civile di Santa Maria Capua Vetere per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. La conferma arriva dal suo legale, l’avvocato Giuseppe Lipera, che ironicamente rivolge "un grazie di cuore a tutti coloro che si sono opposti alla grazia, a tutti i magistrati che hanno sino a oggi denegato la sua liberazione e a tutti i politici che hanno manifestato totale indifferenza".

Ad accertare le condizioni "terrorizzanti e spaventose" dell’ex 007 è stato anche il professore Franco Rengo, primario del Dipartimento di Geriatria del Policlinico Ferdinando II di Napoli. Secondo l’avvocato Lipera "così come accertato per ultimo dal professor Rengo il dottor Contrada oltre a essere un soggetto denutrito soffre di depressione grave, è a rischio di caduta e a rischio cardiovascolare".

Domani il penalista sarà a Santa Maria Capua Vetere con il medico legale Giuseppe Caruso per redigere una nuova relazione medico-legale, che sarà sottoposta al vaglio dei magistrati competenti a decidere della liberazione del detenuto.

Il trasferimento è stato disposto dal giudice di sorveglianza per motivi di salute: "Bruno Contrada è stato ricoverato in ospedale perché è gravemente malato, adesso occorre fare presto per farlo tornare in famiglia", ha dichiarato il legale di Contrada, Giuseppe Lipera, che ha aggiunto: "Adesso spero che il ministero della Giustizia si attivi velocemente per le pratiche necessarie alla concessione della grazia per permettere a un servitore dello Stato gravemente malato di poter tornare a casa propria". Nell’articolato provvedimento con il quale il giudice di sorveglianza ha ordinato l’accompagnamento in ospedale del detenuto, il magistrato ha comunque rigettato l’istanza di differimento della pena, avanzata dal legale di Contrada, pur ritenendo "opportuno disporre il ricovero di Bruno Contrada nell’ospedale Cardarelli di Napoli al fine di essere sottoposto a cure e monitoraggio".

Perugia: Ciacca (Radicali); sul Garante e il "caso Bianzino"

 

www.spoletonline.com, 14 febbraio 2008

 

Nell’ottobre 2006 è stata emanata una legge regionale che riguarda l’istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale (questa è l’esatta dizione) e come sa, ancora non è stata applicata. Tra le funzioni del garante (articolo 6) vi è quella di assumere, in collaborazione con la magistratura di sorveglianza e le amministrazioni statali, iniziative volte ad assicurare ai detenuti le prestazioni inerenti al diritto alla salute, segnalando eventuali fattori di rischio.

Non sappiamo e non sapremo mai se la presenza del garante avrebbe potuto evitare la morte di Aldo Bianzino, ma di certo tra gli obiettivi che il legislatore si è posto (con la suddetta legge) vi è quello di un miglioramento complessivo delle condizioni di vita all’interno delle strutture carcerarie sia per i detenuti sia per gli agenti di polizia penitenziaria.

È per questo che le procedure e i protocolli che si adottano devono poter offrire a chi ha responsabilità, di poter dare risposte chiare, immediate, su quanto accade, tanto più se si tratta di casi gravi come quello in questione, dove a poche ore dall’arresto è deceduto un uomo in giovane età e in apparenti buone condizioni generali di salute.

Questo purtroppo non è accaduto. Le notizie contrastanti uscite sulla stampa locale hanno imposto la presentazione di interrogazioni parlamentari e la nascita di iniziative volte a chiedere verità e giustizia per Aldo Bianzino. Tra l’altro ribadisco comunque preoccupazione in merito alle dichiarazioni del Direttore del carcere Giacobbe Pantaleo che ha denunciato l’isolamento del penitenziario di Capanne dal contesto sociale in cui è immerso.

Anche sul difensore civico o meglio sui difensori civici mancanti all’appello nei comuni come in regione, mi piacerebbe offrile l’archivio delle iniziative che abbiamo portato avanti in merito negli anni. Anche in questo caso si tratta di mancato rispetto di legalità nel cuore delle nostre istituzioni. Questo vuoto va colmato. E non molleremo.

 

Tommaso Ciacca

Comitato Nazionale Radicali Italiani

Roma: Marroni; detenuto 4 anni da innocente, ora l’espulsione?

 

Comunicato stampa, 14 febbraio 2008

 

Nigeriano di 39 anni trascorre ingiustamente 4 anni e 4 mesi in Alta Sicurezza di Rebibbia prima di essere assolto dall’accusa di traffico internazionale di droga. In carcere per un altro reato, l’uomo doveva uscire nel 2003, è stato invece scarcerato solo a luglio 2007. Ora l’uomo, laureatosi in carcere, corre il rischio di essere espulso per inottemperanza alla "Bossi - Fini".

Ha trascorso ingiustamente 4 anni e 4 mesi in una cella di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia - nel corso dei quali ha trovato la forza di laurearsi in Ingegneria informatica - in attesa che la Giustizia italiana lo assolvesse definitivamente dall’accusa di essere un trafficante internazionale di droga. Protagonista della vicenda, denunciata dal Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni, un cittadino nigeriano di 39 anni, Stephen (nome di fantasia). Nato nel 1969 a Port Harcourt (Nigeria), Stephen nel 1990 si è laureato in Chimica a Port Harcourt prima di arrivare in Italia.

Arrestato per detenzione di droga nel 1994, è entrato a Rebibbia nel 2000 per scontare una condanna definitiva a 3 anni e 8 mesi di carcere con fine pena il 22 marzo 2003. Nel 2001, quando era già in carcere, è stato accusato di traffico internazionale di droga e condannato, nel novembre 2002, ad altri 8 anni di reclusione, confermati in Appello nel febbraio 2004. Una condanna che non gli ha consentito di lasciare il carcere nel marzo 2003, alla fine della prima condanna.

A Rebibbia, nonostante le difficoltà, Stephen si è diplomato in Informatica, è stato attore della compagnia "Liberi Artisti Associati", ha scritto e pubblicato il romanzo autobiografico "Sogni infranti" e si è iscritto alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Tor Vergata, corso di laurea ingegneria on-line. A maggio 2007 ha conseguito, con lode, la laurea triennale discutendo, in carcere, la tesi "Realizzazione di strumenti Web per il supporto alla cooperazione" e, subito dopo, si è iscritto per la specializzazione biennale.

Due mesi dopo, il 12 luglio 2007, la Cassazione ha annullato la condanna di Stephen a 8 anni con un rinvio alla Corte di Appello. Il 20 luglio è stato scarcerato per scadenza dei termini processuali e sottoposto all’obbligo di firma. Stephen ha passato questi mesi collaborando con una società di informatica e dividendosi fra lavoro, la moglie e gli incontri con gli studenti delle scuole per raccontare la sua esperienza "da non ripetere".

Il 4 febbraio 2008, con la revisione della sentenza dalla Corte d’Appello di Napoli, Stephen è stato pienamente assolto assoluzione dalle accuse. Complessivamente, dal 2003 (fine pena previsto per la prima condanna) ad oggi, Stephen ha passato ingiustamente in carcere 4 anni e 4 mesi in più, cui vanno aggiunti altri setti mesi con l’obbligo di firma in una stazione dei carabinieri. E paradossalmente, ora che la vicenda giudiziaria si è chiusa, Stephen rischia di essere espulso perché la legge "Bossi - Fini" preclude, per gli stranieri autori di una serie di reati (anche se in possesso del permesso di soggiorno al momento dell’arresto), la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno, anche se si tratta di ex detenuti reinseriti nella società.

"La storia di Stephen è, insieme, inquietante e paradossale - ha detto il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni - Se è riuscito a sopravvivere a questa esperienza infernale Stephen può ringraziare se stesso e la sua forza di volontà ma anche la solidarietà degli altri detenuti, tutte cose che, fra l’altro, gli hanno consentito di laurearsi in carcere.

La morale di questa storia è che, più che sull’indulto, dovremmo tutti quanti riflettere sulla lunghezza dei processi. Gran parte dei detenuti nelle carceri italiane sono cittadini in attesa di giudizio. E 9 anni per una vicenda processuale sono davvero tanti; lo sono per chi è colpevole, figurarsi per chi aspetta, in una cella, che si riconosca la sua innocenza".

 

Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio

Cagliari: con il "Progetto Indulto" 36 tirocini e 2 assunzioni

 

Adnkronos, 14 febbraio 2008

 

"Un’esperienza positiva, da replicare". Così Maria Carla Floris, assessore agli Affari generali, personale, Ced e servizi per il lavoro della provincia di Cagliari, definisce il progetto "Lavoro nell’inclusione sociale dei detenuti beneficiari dell’indulto", promosso dai ministeri del Lavoro e Previdenza sociale e della Giustizia, con l’assistenza tecnica dell’agenzia governativa Italia Lavoro.

"I numeri - spiega - parlano chiaro: su 80 domande, 36 sono stati i soggetti inseriti in azienda, di cui 2 assunti al termine del tirocinio. Un buon risultato sicuramente, che va ben al di là delle aspettative considerato il target a cui si riferisce il progetto".

"Gli inserimenti professionali degli ex indultati - osserva l’assessore Floris - sono il frutto di un lavoro di rete, che ha visto la stretta collaborazione della provincia, dei comuni, dei centri servizi lavoro, del Tribunale e di tutti gli attori istituzionali e sociali interessati. Senza dimenticare il lavoro capillare che è stato fatto azienda per azienda, cercando di favorire gli inserimenti". "Nel corso degli incontri con le aziende - ricorda - devo ammettere che la risposta è stata sempre e da subito buona. È stata trovata una forte disponibilità da parte degli imprenditori nell’offrire una concreta occasione a queste persone, la possibilità di sperare in un futuro migliore e di recuperare la dignità attraverso il lavoro".

L’assessore Floris, pur auspicando la continuazione del progetto per il reinserimento nel lavoro degli detenuti beneficiari dell’indulto, ne chiede una modifica. "Nonostante i buoni risultati - sostiene - si potrebbe raggiungere qualcosa di più allungando i tempi di permanenza in azienda.

Raccogliendo le richieste degli stessi operatori che seguono l’andamento del progetto sul territorio, ci siamo resi conto che 6 mesi sono veramente troppo pochi. Un lasso di tempo insufficiente a garantire l’inserimento di ex indultati all’interno di un’organizzazione imprenditoriale. Una soluzione potrebbe essere 6 mesi + 6 in modo da offrire all’azienda di fidelizzarsi con il lavoratore".

"Allungare i tempi di inserimento - sostiene - serve non solo all’impresa, per conoscere meglio il soggetto e magari apprezzarne le qualità, ma anche al lavoratore stesso per restare il più possibile lontano dalla strada e da una probabile recidiva penale.

Allungare i tempi, a 10 o a 12 mesi non importa, è necessario perché gli attuali 6 mesi equivalgono a un palliativo che non risolve la situazione e che rischia di non portare a buon fine un’assunzione per la mancanza di formazione e reciproca conoscenza".

Dei 36 soggetti beneficiari del progetto "Lavoro nell’inclusione sociale dei detenuti beneficiari dell’indulto", 23 appartenevano al Centro servizio lavoro di Cagliari, 5 a Quartu Sant’Elena, 7 ad Assemini e 1 a Isili. Delle 30 aziende coinvolte, secondo i dati del monitoraggio del progetto effettuato tra giugno 2007 e gennaio 2008, 11 sono cooperative sociali che si occupano di manutenzione del verde pubblico, pulitura strade, gestione azienda agricola e centro culturale, 1 è una cooperativa di pesca.

Le restanti attività sono 18 imprese no profit che interessano i settori della panificazione, montaggio scaffalature industriali, gestione call center, imbottigliamento bevande, tipografia, autodemolizioni, telecomunicazioni, costruzioni, falegnameria, gommista, servizi prima infanzia e produzione elementi pneumatici. Le sedi di lavoro sono Cagliari, Settimo San Pietro, Assemini, Nurri, Serdiana, Dolianova, Capoterra ed Elmas.

Tra gli inserimenti andati a buon fine con il progetto "Indulto" in provincia di Cagliari, c’è il caso di un over 50 che, dopo aver vissuto 15 anni in carcere, ha svolto uno stage come operatore terminalista di computer. È stato poi indirizzato verso la specializzazione delle competenze acquisite all’interno di un’azienda che si occupa di telecomunicazioni. In particolare, l’attività che il tirocinante ha svolto riguardava la verifica e il controllo qualità dei contratti tra l’azienda e il cliente.

Il datore di lavoro ha considerato positivamente l’attività svolta e si è sentito soddisfatto, perché ha visto una forte motivazione, un impegno costante, il rispetto delle regole e degli orari dell’azienda. Inoltre, ha instaurato un ottimo rapporto con i colleghi. Pertanto, alla conclusione del tirocinio, il rapporto di collaborazione è continuato con un contratto di lavoro.

Alle spalle una licenza elementare ed esperienze nell’ambito dell’edilizia: è stato questo il punto di partenza di un trentaduenne di Cagliari che, dopo il periodo di detenzione, è stato coinvolto nell’acquisizione di competenze tecniche specialistiche nel settore edile di una cooperativa sociale. Ma il tirocinio è stato improntato affinché il tirocinante potesse sviluppare competenze di tipo trasversale quali organizzazione del lavoro e acquisizione delle regole comportamentali all’interno di un contesto lavorativo. Il giovane ha dimostrato una forte motivazione nell’apprendere rispettando gli orari e le mansioni a lui assegnate. L’azienda ha, quindi, deciso di assumerlo con un contratto subordinato a tempo determinato di 12 mesi.

Bologna: il Garante Desi Bruno sul "caso" Antonini - Sindaco

 

Comunicato stampa, 14 febbraio 2008

 

L’Associazione Papillon svolge da anni attività volta al reinserimento e al miglioramento delle condizioni sociali e culturali delle persone detenute o uscite dal carcere attraverso progetti spesso condivisi dagli enti locali e dalle istituzioni. Conosco l’impegno di chi, avendo vissuto il carcere, proprio partendo da quella condizione estrema, lavora per non far dimenticare gli altri reclusi, e considero questo impegno una risorsa preziosa e la dimostrazione di come le persone possano maturare cambiamenti profondi.

Nessuna vittima può essere offesa dal racconto di questo impegno, che è in antitesi all’ideologia distruttiva del terrorismo. Quello che è successo a Bologna, a proposito della partecipazione di Vittorio Antonini, vicepresidente dell’Associazione Papillon, penso sia il frutto di un equivoco sul senso di questa testimonianza e, con ogni probabilità, nasce da un difetto di comunicazione sulle ragioni di questa presenza.

 

Avv. Desi Bruno

Garante dei diritti delle Persone Private della Libertà personale

del Comune di Bologna

Bologna: Corleone e Spadaccia sul "caso" Antonini - Sindaco

 

Comunicato stampa, 14 febbraio 2008

 

I Garanti dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Roma e del Comune di Firenze, Gianfranco Spadaccia e Franco Corleone, hanno dichiarato: La polemica suscitata dalla programmata rappresentazione del testo di Erri De Luca "Gli invincibili" in un teatro di Bologna e dalla prevista partecipazione in margine alla stessa dell’ex brigatista Vittorio Antonini, richiede da parte nostra alcune precisazioni in via di fatto e ci induce ad esprimere alcune opinioni e preoccupazioni in via di principio.

Contrariamente a quanto si è detto, il testo di Erri de Luca non riguarda gli irriducibili e non contiene nessuna esaltazione del terrorismo contrariamente a quanto si è detto e scritto. Per De Luca i veri invincibili non sono coloro che non perdono mai ma coloro, tutti coloro, che avendo subito gravi sconfitte nella loro vita sanno fare i conti con esse, risollevarsi, e cambiare la loro esistenza.

Vittorio Antonini è stato invitato a testimoniare in margine di questa rappresentazione non il proprio passato di terrorista ma la propria esperienza, nel carcere e fuori del carcere, di fondatore e animatore dell’associazione "Papillon". Questa associazione, da lungo tempo presente e attiva all’interno dell’Istituto di pena di Rebibbia nuovo complesso, ha coinvolto nel corso degli anni centinaia di detenuti nelle proprie attività culturali e associative ed ha promosso recentemente, grazie all’attività di ex detenuti e detenuti in semilibertà come lo stesso Antonini, un Centro culturale ed una biblioteca popolare nella estrema periferia est della città di Roma. Di questo e solo di questo Vittorio Antonini dovrebbe parlare a Bologna. E’ infatti grazie a questa attività che è stato ritenuto da educatori e da giudici meritevole di accedere alla misura alternativa della semilibertà.

Antonini non è né un pentito né un dissociato. Ma non è questo che chiedono la Costituzione e la legge che affidano invece la prova del ravvedimento non a dichiarazioni di pentimento formali ma ad atti concreti compiuti nel rapporto con gli altri e con la società. Del resto trattamenti ugualmente intolleranti sono stati riservati anche a coloro che hanno espresso giudizi espliciti di condanna delle loro scelte passate o che si dissociarono pubblicamente dalla lotta armata.

Noi crediamo invece che queste forme di accanimento non siano di nessun giovamento per la memoria delle vittime, che vanno onorate con la giustizia e non con lo spirito di vendetta, e neppure alla società che non deve cessare di interrogarsi su quegli anni tragici proprio per evitare che quel passato periodicamente si riproponga come purtroppo anche recentemente è avvenuto. Senza nessun buonismo, senza nessun perdonismo, senza nessun complesso del figliol prodigo, ma con l’intento di rimuovere stabilmente le cause dell’intolleranza e della violenza dalla vita della nostra società e della nostra Repubblica.

Bologna: comunicato Papillon sul "caso" Antonini - Sindaco

 

Comunicato stampa, 14 febbraio 2008

 

Singolare è che il Pd a Bologna abbia voluto aprire la campagna elettorale con il linciaggio mediatico di un detenuto all’ergastolo, in galera da ventitré anni, che ha voluto dedicare il resto della vita a promuovere la cultura in carcere. La cultura come strumento utile ai detenuti per formarsi una coscienza critica, che li porti a rivedere il loro passato, e a considerare la commissione di reati come un disvalore inaccettabile.

Sì, perché per Vittorio Antonini e per tutti noi della Papillon questa è la giusta via da percorrere se si vuole combattere la recidiva e rendere i cittadini più sicuri in una società migliore. C’è qualcosa di sbagliato in questo? Siamo disposti a parlarne con chiunque voglia ascoltarci lasciando da parte il pregiudizio.

Ci appare invece purtroppo normale la retorica nazional-populista e securitaria del Sindaco e dell’assessore Mancuso, ormai ci siamo abituati. Forti con i deboli, deboli con i forti; l’uso della forza al posto della ragione; la scomparsa sociale al posto della riabilitazione. Questi sembrano essere i loro valori alla ricerca strumentale di voti sul mercato elettorale. All’esatto opposto noi della Papillon ci orientiamo tra le carceri per mezzo di una bussola che si chiama Carta Costituzionale, il cui ago segna verso l’articolo ventisette. Sempre.

La nostra preghiera quindi, egregi signori, è di lasciarci perdere, di lasciarci continuare il nostro lavoro che è già di per sé difficilissimo. E di usare altri argomenti per risolvere le vostre beghe di potere. Se poi un giorno capirete il danno sociale che state provocando, saremo lieti di ricevere la vostra visita per un confronto pacato e costruttivo, noi di pregiudizi non ne abbiamo. Nemmeno contro di voi.

Se un giorno la ragione illuminerà la vostra strada, quella strada vi porterà da noi. Sapete dove trovarci: in una cella buia e insalubre, in tre in dieci metri quadri, tra topi e scarafaggi, chiusi ventitré ore al giorno. Nel regno dell’illegalità "legale": le vostre galere da medioevo.

 

Valerio Guizzardi

Responsabile Papillon

per l’Emilia Romagna

Udine: a "Innovaction 2008" progetto per detenuti Tolmezzo

 

www.marketpress.info, 14 febbraio 2008

 

Legacoop Fvg parteciperà anche quest’anno a "Innovaction 2008", prevista a Udine Fiere dal 14 al 17 febbraio. Innovaction promuove la cultura dell’innovazione come modello per lo sviluppo di imprese e territorio. Giunto alla sua terza edizione, l´appuntamento di quest´anno ha come tema la qualità della vita ed è promosso e organizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia con Udine e Gorizia Fiere e con l´Università di Udine.

Alla manifestazione sarà presente anche la Cooperativa sociale Itaca di Pordenone. All’interno degli eventi dedicati al Welfare, pare opportuno evidenziare il Convegno "Il nuovo dentro e oltre il carcere", previsto il 17 febbraio alle 9. 30 presso la Sala bianca - ingresso ovest.

Obiettivo principale è focalizzare l’attenzione sul ruolo della Cooperazione sociale per l’inserimento lavorativo dei detenuti ed ex detenuti della Casa Circondariale di Tolmezzo, cui il progetto formativo del Cosm (Consorzio Operativo Salute Mentale) di Udine si rivolge. Particolarmente nutrito l’elenco dei relatori: Gian Luigi Bettoli, presidente Legacoopsociali Fvg, Una nuova frontiera per la cooperazione sociale; Michela Vogrig, direttore del Consorzio Operativo per la Salute Mentale (Cosm) di Udine, I progetti formativi nella Casa Circondariale di Tolmezzo; Gianpietro Antonini, presidente Cosm, Avvio di attività lavorative in carcere: i progetti per la Casa Circondariale di Tolmezzo; Nicoletta Randi, dirigente di Italia Lavoro, Il progetto-indulto per l’occupazione degli ex carcerati o carcerati ammessi alle misure alternative; Antonina Tuscano, dirigente dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna del Ministero della Giustizia di Udine, Gorizia e Pordenone, La Cooperazione sociale come risposta ai problemi di inserimento dei soggetti in esecuzione penale; Domenico Tranquilli, direttore dell’Agenzia Regionale del Lavoro del Friuli Venezia Giulia, Le politiche di inserimento lavorativo di carcerati ed ex carcerati nel quadro delle politiche di gestione del mercato del lavoro regionale.

Vicenza: un progetto di formazione e di cultura della legalità

 

Comunicato stampa, 14 febbraio 2008

 

Proseguono gli incontri con gli studenti degli Istituti Superiori della Provincia di Vicenza da parte di Claudio Stella, Presidente dell’Associazione di volontariato penitenziario "Utopie Fattibili" di Vicenza, per una "Educazione alla legalità, rispetto delle regole e prevenzione della devianza". Il progetto è giunto al suo 4° anno e migliaia di studenti sono stati partecipi su una problematica spesso dimenticata perché "fastidiosa", ma altamente di attualità quotidiana.

Le difficoltà degli adolescenti, la problematica del "branco", la mancanza di riferimenti e regole, gli "Insegnamenti" devianti di Tv, stampa e media portano sempre più alla devianza con ultima ratio il carcere. La prevenzione alla devianza è uno dei punti fondamentali dell’Associazione "Utopie Fattibili" che punta al dialogo informativo con i giovani affinché maturino una coscienza veicolata alla legalità per evitare le conseguenze negative della carcerazione.

Il grande successo della nostra Associazione è la comprensione totale delle problematiche Penitenziarie e la collaborazione con una fitta rete di associazioni, avvocati, magistrati, etc. che aiutano a risolvere anche i casi più disperati. Il nome "Utopie Fattibili" nasce dalla contrapposizione che esiste tra "utopia" e "fattibilità". Quando si parla di recupero e reintegrazione dei detenuti, subito si pensa ad una utopia. Noi, nella breve esistenza, abbiamo dimostrato il contrario e desideriamo spezzare questo luogo comune cominciando con il nome dell’Associazione.

La detenzione pone molteplici problemi di ordine sociale, in particolare sul piano familiare e del lavoro; questi problemi restano poco studiati nella loro realtà attuale. La pena privativa di libertà mal garantisce il principio della personalità della pena: la famiglia della persona incarcerata subisce, a causa della detenzione di uno dei suoi membri, degli effetti sussidiari alla pena principale, se non altro per il deterioramento della situazione economica.

Il principio della temporaneità della pena è palesemente sconfitto; l’effetto della pena si prolunga aldilà del tempo della carcerazione e la prova consiste nella difficoltà di un ex detenuto a reinserirsi nel mondo del lavoro. Di fronte agli effetti negativi della detenzione sul piano familiare e sociale, effetti che contraddicono direttamente la funzione del reinserimento e della riabilitazione, sarebbe auspicabile un ricorso più limitato della pena di reclusione almeno per i reati minori.

È sconvolgente constatare che tutti indistintamente siano consapevoli che il Carcere attuale sia un Fallimento, ma si continua a gestirlo e costruirne di nuovi sulla stesso modello. Il Diritto alla "dignità" - alla "incolumità fisica" - alla "libertà di pensiero e credo - in campo giuridico - economico e sociale - alla riservatezza personale - alla salute - al rafforzamento dei diritti dell’uomo - alla lotta contro il razzismo e la xenofobia - il diritto di non essere discriminati e alla sicurezza sociale di base". Questi sono i principi insindacabili che il Carcere futuro dovrà farsi carico di non violare mai.

Riteniamo che attualmente il problema maggiore della questione penitenziaria, sia la scarsa informazione data all’opinione pubblica, alla società in genere, ma addirittura alle Istituzioni stesse sul reale stato della situazione Carceraria e dell’assistenza sociale reintegrativa post - detenzione. Informazione e ancora informazione, sensibilizzando la Società tutta che senza Casa - lavoro - assistenza - educazione, non potrà esseri reinserimento e che "un detenuto recuperato è un pericolo in meno per la società"

 

Associazione di volontariato "Utopie Fattibili"

Udine: Cisl; all’Uepe soltanto 9 assistenti sociali... invece di 24

 

Comunicato stampa, 14 febbraio 2008

 

Lettera al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dott. Ettore Ferrara.

Egregio Presidente Ferrara, sottopongo alla sua attenzione le gravi difficoltà che il personale affronta nell’ambito dell’Uepe di Udine. Come anche le SS.LL. possono verificare risultano in servizio presso quell’Ufficio solo 9 assistenti sociali, nonostante la dotazione organica prevista sia invece di 24 unità.

Questo Uepe ha un bacino d’utenza notevolissimo e deve assicurare lo svolgimento della propria attività in un territorio esteso e talvolta non facilmente raggiungibile (si pensi alle attività da assicurare nell’ambito delle zone montane della carnia, con centri urbani spesso isolati). La competenza territoriale di tale Ufficio deve assicurare la copertura anche delle provincie di Gorizia e di Pordenone, oltre alle esigenze istituzionali richieste per seguire la popolazione detenuta degli Istituti Penitenziari di Udine, Tolmezzo,Gorizia e Pordenone.

La S.V. comprenderà che in tali condizioni non è possibile andare avanti. Non bastassero le difficoltà dovute alle carenze di risorse umane è di tutta evidenza anche l’insufficienza della parte strumentale. L’Amministrazione ha infatti rescisso il contratto di leasing per l’autovetture a noleggio e l’Ufficio dispone solo di un paio di autovetture di servizio che sono vecchie di anni e carenti sotto il piano dell’affidabilità nei ripetuti viaggi.

La Cisl chiede pertanto alla S.V. di disporre una verifica urgentissima della situazione all’Uepe di Udine, potendo valutare l’opportunità di affrontare concretamente i problemi segnalati. Confidiamo che la S.V. - congiuntamente ai Dirigenti Generali in indirizzo per conoscenza, potrete fornire un chiaro segnale di attenzione anche per restituire dignità e un po’ più di serenità al lavoro degli assistenti sociali di Udine.

 

Cisl Penitenziari

Il Coordinatore Responsabile

Marco Mammuccari

Lamezia: Uil-Penitenziari chiede la costruzione di nuovo carcere

 

Comunicato stampa, 14 febbraio 2008

 

Una delegazione del Coordinamento regionale Uilpa Penitenziari della Calabria ha incontrato nella mattinata odierna, presso il Palazzo di Città, il Sindaco di Lamezia Terme, prof. Gianni Speranza. Oltre allo scrivente ed al Sindaco sono intervenuti l’assessore Crimi e l’ingegnere Benedetto, per l’Amministrazione comunale, e Salvatore Paradiso, per la Uilpa Penitenziari.

Obiettivo della riunione è stato quello di sottoporre all’attenzione del Primo cittadino della Città della piana talune preminenti questioni che investono la situazione penitenziaria e che riguardano da vicino anche Lamezia Terme e tutti i comuni dell’hinterland ed alcune importanti prospettive che non possono essere sottovalutate. Svaniti gli effetti dell’indulto, la situazione penitenziaria correlata al numero sempre crescente di detenuti si aggrava costantemente con l’aumento di circa 1.000 presenze al mese. Anche in Calabria il numero dei ristretti ha eguagliato la capienza regolare nei 12 istituti penitenziari distribuiti in Regione.

Al di là di ogni auspicabile revisione del sistema penale che consenta anche di risolvere in maniera strutturale, efficiente ed efficace, la grande questione penitenziaria che investe il Paese, la politica con l’ultima legge finanziaria, al fine di fronteggiare l’emergenza, ha autorizzato la spesa complessiva di 70 milioni di euro in tre anni per l’avvio di un programma straordinario di edilizia penitenziaria che può prevedere anche la realizzazione di nuovi edifici.

Il Carcere di Lamezia Terme, recentemente ammodernato, è una delle poche strutture penitenziarie in Italia che risponde ai più importanti requisiti previsti dal regolamento penitenziario varato nel 2.000 ed è, certamente, uno dei fiori all’occhiello dell’Amministrazione penitenziaria calabrese. Tuttavia si tratta di una struttura nata nel 1.300 come convento e successivamente riadattata ad istituto penitenziario.

Nonostante le ristrutturazioni che hanno interessato l’edificio nel corso degli anni ed i miglioramenti ottenuti è del tutto naturale, dunque, che sotto il profilo logistico esso non possa avere i requisiti previsti dai moderni canoni di edilizia penitenziaria e, soprattutto, da solo non possa garantire in termini di ricettività le risposte di cui un territorio come quello lametino necessita.

La capienza regolare della Casa Circondariale di Lamezia Terme è difatti di soli 30 posti. Proprio per le deficienze logistiche assai difficili divengono le attività trattamentali a favore dei detenuti. Per non parlare degli spazi molto ridotti destinati al personale dipendente e che non consentono nella maniera più assoluta neanche di pensare ad aree ricreative e sportive. Il carcere lametino è l’unico in Calabria che non dispone neanche di un bar interno a favore dei dipendenti. Inesistente la caserma.

Da qui la richiesta della Uilpa Penitenziari della Calabria al Sindaco di Lamezia Terme affinché vengano avviate urgenti e pragmatiche iniziative al fine di individuare un sito e candidare la Città per la realizzazione di un nuovo e moderno carcere, da affiancare a quello esistente. La Uilpa Penitenziari ritiene che un territorio come quello lametino che comprende la terza città della Calabria non possa farsi sfuggire questa occasione, che sarà con ogni probabilità anche l’ultima.

Un nuovo carcere a Lamezia, oltre a rispondere a ragioni di coerenza giuridica in riferimento alla presenza del Tribunale, consentirebbe a molti detenuti del comprensorio di poter scontare la pena in prossimità della residenza delle proprie famiglie, evitando a queste ultime i costi conseguenti a lunghe trasferte per effettuare un’ora di colloquio ed allo Stato le spese connesse ai trasferimenti per le udienze e le varie esigenze giudiziarie.

Ma, soprattutto, una nuova struttura penitenziaria in città determinerebbe un considerevole incremento dell’organico della Polizia penitenziaria assegnato, aumentando la presenza di donne e uomini dello Stato a difesa della sicurezza dei cittadini e della libertà delle istituzioni repubblicane in un territorio ancora martoriato dalla criminalità organizzata e non. Da non trascurare, inoltre, gli ingenti riflessi che la struttura avrebbe sull’economia locale anche per l’enorme indotto che l’accompagnerebbe. Dopo un’ampia analisi congiunta della situazione e di quanto sinora accennato, il Sindaco e la sua delegazione si sono dichiarati molto interessati al progetto e si sono impegnati valutarne la fattibilità e ad intraprendere l’eventuale percorso istituzionale per realizzarlo.

 

Uil-Penitenziari Calabria

Olanda: i coffee-shop venderanno cannabis on-line all’estero?

 

Notiziario Aduc, 14 febbraio 2008

 

Una soluzione al litigio tra Belgio e Olanda per i coffee-shop, i locali dove si può vendere liberamente droghe leggere, che il comune di Maastricht intende delocalizzare alla frontiera tra i due paesi, potrebbe venire dalla diffusione della vendita all’estero degli spinelli on-line. La proposta è arrivata ieri, dalle pagine del quotidiano belga in lingua fiamminga De Standaard, dal sindaco di Lanaken, Guido Willem. Il sindaco, che teme per la sua città di frontiera una serie di effetti negativi - dal traffico alla piccola criminalità - con lo spostamento di diversi coffee-shop olandesi alla zona di confine con il Belgio, sottolinea che la diffusione della vendita online potrebbe "essere una buona soluzione". Da tempo gli olandesi possono procurarsi cannabis su diversi siti - non utilizzabili fuori dall’Olanda - senza per forza recarsi ai coffee-shop. Unica condizione è quella di aver compiuto i 21 anni e non acquistarne più di quattro grammi al giorno".

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva