Rassegna stampa 13 febbraio

 

Giustizia: gli "invincibili"... senza la grazia del pentimento

di Miriam Mafai

 

La Repubblica, 13 febbraio 2008

 

Gli "anni di piombo" sono, per fortuna, alle nostre spalle. E rischiano di venire dimenticati i nomi di coloro che in quegli anni ne pagarono il prezzo, di coloro che vennero presi di mira, "gambizzati", ridotti su una sedia a rotelle, uccisi dai fanatici della P38: sono passati trent’anni da allora. Sono invece ancora ben presenti sulla scena mediatica, i loro assassini. Citiamo soltanto gli ultimi due episodi. Viene annunciata, in questi giorni, a Bologna, una conferenza dall’accattivante titolo "Gli invincibili": come dire coloro che non si arrendono mai, che non sono mai sconfitti.

E chi sarebbero gli invincibili? Eccone uno. Racconterà la sua storia presentato dallo scrittore Erri De Luca al teatro Ridotto. Si chiama Vittorio Antonini. Ed è un ex brigatista, condannato, nel 1985, all’ergastolo per aver partecipato al sequestro del generale Dozier. Dal 2000 l’ex brigatista è in libertà provvisoria. Lavora, pare in una biblioteca. Non si è mai pentito. La sua presenza a Bologna, come "invincibile" sta suscitando in città vive proteste. In primo luogo quella del sindaco Cofferati, mentre l’assessore alla cultura. Angelo Guglielmi ha approvato l’iniziativa.

Secondo episodio. È annunciata per la prossima settimana, in una delle librerie Feltrinelli di Roma, la presentazione di un libro, dal titolo "L’uomo nero". L’uomo nero è l’autore del libro. Si chiama Pierluigi Concutelli, ed è stato nel corso degli Anni 70 uno dei più feroci terroristi neri di Roma, comandante militare, così si definiva, del movimento politico Ordine Nuovo. Concutelli è l’uomo che là mattina del 10 luglio del 1976 ha ucciso, per strada, il giudice Vittorio Occorsio che, senza scorta andava al lavoro.

Arrestato un anno dopo, si è dichiarato subito prigioniero politico. In carcere è riuscito ad uccidere due ex camerati sgozzandoli con il fil di ferro. Condannato a quattro ergastoli, anche Pierluigi Concutelli vive oggi in libertà provvisoria. E anche Concutelli, come Antonini, non si è mai pentito. Siamo un paese generoso e dalla memoria corta. Facile al perdono. Gioca forse in questo atteggiamento quello che Giorgio Montefoschi ha chiamato una volta "fattore del figliol prodigo", qualcosa che avrebbe a che fare con la cultura cattolica. Ma può definirsi figliol prodigo solo colui che dopo aver sbagliato si pente e riconosce il suo errore. E solo per questo potrà consumare il pasto della riconciliazione, avvalersi del perdono o della comprensione della sua famiglia e delle sue vittime.

Non è questa la condizione dei due terroristi, Antonini e Concutelli, uno delle Br l’altro di Ordine Nuovo che, dopo avere scontato una parte della pena sono oggi in libertà, senza essersi mai pentiti di ciò che hanno fatto, degli omicidi di cui sono colpevoli. (Siamo un paese generoso e dalla memoria corta. Nessuno dei protagonisti del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, una vicenda che ha sconvolto il nostro paese, è ancora oggi in carcere).

Il pentimento dovrebbe essere condizione essenziale per consentire ai colpevoli di rientrare nel circolo della vita civile. Non vale fare nomi. Conosciamo tutti uomini e donne che hanno partecipato negli "anni di piombo" alla lotta armata, con le Br, con Ordine Nuovo, o con organizzazioni loro affiliate. Uomini e donne che hanno diretto, a vari livelli, queste organizzazioni militari, o che hanno partecipato alle loro azioni. Uomini e donne che hanno sparato e ucciso, scelto le vittime, offerto copertura e sostegno agli assassini.

Uomini e donne che, una volta scontata la pena (tutta o in parte, come previsto dai nostri regolamenti) sono potuti tornare alla vita civile, segnati dal loro passato, dalle loro memorie. E che hanno scritto e scrivono libri, partecipano a incontri nelle scuole, intervengono nei dibattiti, si occupano, in qualche, caso di organizzazioni a sfondo umanitario. Io credo che sia un segno di civiltà, di cui andare orgogliosi, la possibilità che viene data a questi ex terroristi di ricominciare a vivere. Nel rispetto delle nostre leggi. (In altri paesi i colpevoli di azioni terroristiche si sono "suicidati" in carcere o sono stati lasciati morire di fame).

Ma è solo il pentimento, il riconoscimento cioè dell’errore compiuto che può consentire, dopo avere scontato la pena, il ritorno alla vita civile. Non è questo il caso di Concutelli, l’uomo che alle 8 di mattina del 10 luglio del 1976 ha ucciso, sul portone di casa, il sostituto procuratore Vittorio Occorsio, colpevole di indagare sull’eversione di destra. Non è questo il caso di Vittorio Antonini, membro delle Br, che partecipò al sequestro del generale Dozier, e che oggi si colloca tra gli "invincibili". La loro esibizione suona per questo come una provocazione, un insulto alle vittime delle loro sciagurate imprese, una offesa per tutti noi.

Giustizia: Marroni; indulto per gli italiani condannati all’estero

 

Comunicato stampa, 13 febbraio 2008

 

Il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio condanna il silenzio sulla disparità di trattamento per coloro che stanno scontando la pena in Italia in applicazione della Convenzione di Strasburgo.

Il Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni ha espresso il suo "disappunto" e "condannato senza riserve" il silenzio con cui il ministero della Giustizia evita di affrontare la vicenda dei detenuti italiani che, condannati all’estero, stanno scontando la pena in Italia in applicazione della Convenzione di Strasburgo per i quali non è prevista l’applicazione dell’indulto. Alla fine di dicembre il Garante aveva inviato, su questo problema, una lettera all’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella e ai sottosegretari Li Gotti e Manconi, chiedendo "un’iniziativa legislativa" che consentisse "di applicare l’indulto anche a questi detenuti".

A sollevare il caso era stata una lettera, inviata al Garante da alcuni reclusi del carcere di Rebibbia, che denunciavano la discordanza nell’applicazione dell’indulto per i detenuti italiani condannati all’estero, che stanno scontano la pena in Italia in base alla Convenzione di Strasburgo del 1983. Nodo della discordia, l’articolo 12 della Convenzione che afferma che "ciascuna parte può accordare la grazia, l’amnistia o la commutazione della condanna conformemente alla propria Costituzione o ad altre leggi". Secondo una interpretazione giurisprudenziale, poiché l’articolo non parla dell’indulto questo non sarebbe applicabile ai detenuti rientrati in Italia a scontare la pena.

Un altro orientamento assimila, invece, l’indulto alla "commutazione" prevista nell’articolo 12. Il mancato riferimento all’indulto sarebbe dovuto al fatto che non tutti gli ordinamenti riconoscono l’istituto. Tesi sostenuta dal ministero della Giustizia in una nota del 2006 sulla vicenda di Silvia Baraldini. La nota richiamava la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Baraldini, con la quale la Suprema Corte "ha puntualizzato che le norme di diritto internazionale prive di fondamento costituzionale (…) non possono in alcun modo contrastare con i diritti inalienabili e irrinunciabili della persona e i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano, tra i quali rientrano quelli di uguaglianza e di libertà personale, e che in caso di disomogeneità tra ordinamenti, la preminenza spetta indiscutibilmente a quello dello Stato di esecuzione".

"Avevo auspicato un’iniziativa legislativa da parte del ministero che desse una interpretazione autentica della norma e consentisse di applicare l’indulto a questi detenuti - ha detto il Garante Angiolo Marroni - . Dopo diverse settimane non solo non siamo riusciti a sapere dal ministero quanti sono, esattamente, i detenuti in questa condizione ma adesso, con lo scioglimento delle Camere, ogni azione sarà fatalmente rinviata di mesi, e questo perdurante conflitto giurisprudenziale continuerà a produrre inaccettabili disparità di trattamento".

Giustizia: quando le guardie carcerarie... sono più dei ladri

di Gian Antonio Stella

 

Corriere della Sera, 13 febbraio 2008

 

I detenuti rinchiusi nelle carceri italiane sono spaventosamente più feroci e pericolosi di quelli francesi o americani? Deve essere così. Sennò non ti spiegheresti le reazioni all’articolo dove si raccontava che la corsa dei poliziotti penitenziari al trasferimento nel Mezzogiorno sta svuotando le case di reclusione di tutto il Centro-nord fino a una clamorosa sperequazione: fatto il rapporto una guardia per ogni detenuto, mancano 29 poliziotti ogni cento reclusi nel Settentrione e ne abbondano 14 nel Meridione.

Quello è il punto di partenza: una guardia per ogni detenuto. Un rapporto deciso in sede di trattativa sindacale e sostanzialmente "quasi" mantenuto. Non è solo Ettore Ferrara, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a ribadire che non solo ci sono "gravi carenze al Nord" ma che tutta "la pianta organica è sicuramente insufficiente".

Dopo aver definito l’articolo "un’analisi suggestiva dal punto di vista contabile, ma che non chiarisce i motivi del disagio", Leo Beneduci, segretario dell’Osapp (uno dei sindacati), ricorda che "gli organici richiamati sono quelli, fermi al 1993 quando la capacità detentiva si attestava alle 32.000 unità, e gli agenti non erano gli attuali 44.620". Quindi, dato che i detenuti sono saliti a poco più di 43 mila, le cose vanno male.

Sui "distaccati", cioè sui dipendenti "provvisoriamente" prestali ad altri penitenziari altri compiti (sui quali girano irresistibili leggende metropolitane, soprattutto sugli agenti mandati al servizio scorte con variazioni da attaché) il sindacalista una concessione la fa: è vero che si sono perpetrati degli abusi, certamente da accertare, ma...". Resta però il succo: il rapporto uno a uno è giusto.

Ora, vale la pena di ricordare come quel rapporto fu deciso. Perché, in un nobile sussulto socio-pedagogico, l’amministrazione pensò che in un carcere moderno un agente penitenziario dovesse essere diverso dai secondini di un tempo, resi famosi (sinistramente) dai film sulla Cajenna. Doveva essere un po’ poliziotto, un po’ assistente sociale, un po’ confidente dei dolori e delle gioie dei detenuti. Insomma: doveva farsi carico per primo del recupero dei carcerati da avviare al reinserimento. Insomma, alla larga dalle situazioni orribili di certe carceri americane come quelle descritte nel libro "L’America dentro" da Elisabetta Grande.

Ma non è andata così. Meglio: molti poliziotti penitenziari lo fanno davvero coi reclusi il mestiere di psicologo, sociologo, confidente. Ma di propria iniziativa. Per buona volontà e spirito di servizio personale. Come troppo spesso accade da noi, infatti, la seconda parte della riforma, quella della formazione degli agenti, non è mai stata completata.

E a questo punto, se i poliziotti fanno solo o quasi solo i poliziotti, occorre tornare a quella domanda iniziale: i nostri detenuti sono più feroci e sanguinari e pericolosi di quelli reclusi nelle carceri francesi e americane? Ci diranno: ovviamente no. Ma allora, perché da noi deve esserci una guardia per ogni detenuto, in Francia uno ogni 1,8 e negli Stati Uniti uno ogni 4,8? Non sarà che anche le carceri sono state usate per assumere un po’ di gente senza preoccuparsi troppo del servizio?

Giustizia: a proposito degli organici della polizia penitenziaria

di Ettore Ferrara (Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria)

 

Corriere della Sera, 13 febbraio 2008

 

Desidero aggiungere alcune riflessioni all’articolo di Gian Antonio Stella, pubblicato il 7 febbraio, che ha colto aspetti reali che attengono alla gestione della sicurezza degli istituti e al difficile compito, non sempre adeguatamente riconosciuto, svolto dalla Polizia penitenziaria. L’articolo evidenzia, correttamente, le difficoltà con cui si confronta il nostro personale, dovute, tra l’altro, anche alle gravi carenze degli organici presenti negli istituti penitenziari del Nord. Osservo, però, che il problema degli organici riguarda l’intero territorio nazionale, e dipende in gran parte da una pianta organica insufficiente, risalente al 2001, che non tiene conto né dei nuovi istituti aperti successivamente, né dei più gravosi compiti assunti nel tempo dalla Polizia penitenziaria. Il problema è poi gravato dai vuoti che quell’organico presenta, oggi pari a 3900 unità.

Va detto che l’Amministrazione non assiste inerte a tale stato di cose. A tale riguardo mi pare opportuno ricordare che i circa 450 agenti recentemente assunti sono stati, nell’ottobre scorso, tutti assegnati nelle sedi del Nord, ove tuttora prestano servizio. Nel contempo si è realizzata un’inversione di tendenza nei processi di mobilità verso il Sud. Per effetto di questi interventi in Lombardia si è passati dalle 4.148 unità, presenti ad ottobre 2007, alle 4.287 del 31 gennaio 2008, mentre in Emilia Romagna si è passati da 1800 a 1867 unità, in Liguria da 915 a 954 e in Toscana da 2.360 a 2.429. Ciò senza trascurare le esigenze del Centro-Sud, infatti anche qui si registrano gravi carenze di organico che in qualche istituto raggiungono anche le 200 unità. La conseguenza è che non si colgono significative differenziazioni tra il Nord e il Sud con riferimento ai carichi di lavoro oggettivamente rilevabili, anche se è pur vero che condizioni socio-economiche differenziate certamente rendono più gravoso il servizio prestato nelle sedi del Nord.

Ed è per questo che il Dap sta compiendo atti significativi per rendere meno onerose le condizioni di lavoro (ad esempio rafforzando gli strumenti tecnologici di sicurezza) e si sta adoperando per la realizzazione di alloggi per il personale in servizio al nord o per la ristrutturazione e l’ammodernamento delle caserme già esistenti. Tutto questo nell’assoluto e doveroso rispetto della dignità del nostro personale.

Giustizia: Sappe; no alle "ombre" sulla polizia penitenziaria

 

Comunicato stampa, 13 febbraio 2008

 

Dichiarazione del dott. Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe.

Un lavoro come quello del giornalista, impone degli impegni, sia nell’ambito deontologico, sia in quello della serietà mostrata nei confronti dei propri lettori. Ci dispiace leggere ancora una volta nelle pagine del Corriere della Sera un altro intervento di Gian Antonio Stella dal titolo "Quando le guardie sono più dei ladri" che sembra proprio non impegnarsi né nel primo né nel secondo aspetto. Prima di scrivere un intervento o un articolo ci si dovrebbe quantomeno informare e non semplicemente fare dei conti con la calcolatrice per poi gettare ombre sull’operato della Polizia Penitenziaria.

Il rapporto numerico tra detenuti e Poliziotti Penitenziari è sì prossimo all’uno, nonostante questo sia oscillato dopo l’indulto ed ora sia nettamente inferiore all’uno, ma fermarsi a considerare solo questo aspetto significa non conoscere o non voler prendere in considerazione tutti gli altri e questo denota quantomeno una scarsa professionalità.

Comparare il rapporto agenti-detenuti in Italia con quello della Francia o addirittura con quello degli Stati Uniti è semplicemente ridicolo: l’ordinamento giuridico, la cultura della pena e l’organizzazione penitenziaria nelle tre nazioni sono profondamente diverse; negli Stati Uniti addirittura la gestione di molti Istituti penitenziari è affidata al settore privato. Uno sterile rapporto numerico agenti-detenuti non prende nemmeno in considerazione i compiti affidati alla Polizia Penitenziaria tra i quali il Servizio Traduzioni e Piantonamenti e il Servizio Scorte e Vigilanza, etc., che impiegano quotidianamente circa ottomila poliziotti penitenziari.

Se si volessero analizzare seriamente i dati, si dovrebbe andare a vedere il tasso di recidiva tra persone che hanno scontato la pena in uno stato di reclusione e quelli che l’hanno scontata attraverso il ricorso a misure alternative. Per questo il Sappe da tempo ha proposto a Governo e Parlamento di "ripensare il carcere" con una legislazione penitenziaria che preveda un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione e l’adozione di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il braccialetto elettronico) delineando per la Polizia Penitenziaria un nuovo impiego ed un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale.

Nessuno ha fatto nulla e questo è il risultato: le carceri sono sovraffollate e gli agenti stressati. E che nelle ultime settimane si siano registrati diversi casi di suicidio tra gli appartenenti al Corpo è un ulteriore inquietante dato che deve - dovrebbe - fare riflettere. Ma la realtà è che abbiamo parlato con i sordi. Vorrei però chiarire alcune cose fondamentali circa la situazione degli organici del Corpo.

La prima è che le valutazioni sui numeri dei poliziotti penitenziari negli Istituti si riferiscono a piante organiche definite autonomamente nel 2001 da un decreto ministeriale dell’allora Guardasigilli Piero Fassino nonostante la contrarietà di tutte le Organizzazioni sindacali del Corpo che giudicarono non rispondente alla realtà la ricognizione effettuata a livello nazionale ed in ogni singolo Istituto di pena da una commissione dell’Amministrazione penitenziaria, che per altro valutò gli organici senza un confronto con le rappresentanza sindacali delle varie realtà locali.

Alla luce di questa importante precisazione, si converrà che - stanti comunque le gravi carenze di Personale nelle sedi nel Centro-Nord Italia, è quindi improprio parlare di "esuberi di personale" in quelle del Sud. Ad esempio, con riferimento al dato riferito alla regione Lazio che più colpisce per il presunto surplus di Agenti, c’è da dire ad onor di cronaca che si tratta di personale impiegato nei servizi e negli Uffici centrali (Ministero della Giustizia, Dipartimento penitenziario, Uspev e Gom, Ufficio Ispettivo, Ufficio centrale di PG, etc.).

Ed è per questo che il Sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, la prima organizzazione più rappresentativa della Categoria, ha continuato a chiedere, a tutti i vari Ministri della Giustizia che si sono succeduti dal 2001 ad oggi, di rivedere quelle piante organiche e quel decreto ministeriale. Richieste rimaste tutte inascoltate. A nostro avviso due soluzioni si potrebbero adottare per fronteggiare questa emergenza.

Dopo aver accertato le reali carenze di organico, si bandiscano concorsi pubblici per quelle sedi penitenziarie deficitarie. Mancano in Lombardia, in Veneto o in Liguria 500 agenti di Polizia penitenziaria? Si bandisca dunque un concorso per le sedi penitenziarie di Lombardia, Veneto o Liguria. Chi partecipa al concorso sa che andrà a fare servizio in una delle città di quelle Regioni. Ma poniamo però anche un vincolo di permanenza in quelle sedi, ed è questa la nostra seconda proposta.

Oggi vi sono colleghi dell’Italia centro-meridionale (ed insulare) che hanno come prima sede di servizio una città del Nord. La loro legittima aspirazione è avvicinarsi al luogo di residenza, in cui spesso rimane la famiglia perché con un nostro stipendio è impossibile fronteggiare il costo della vita del Settentrione. Spessissimo, però, al Nord ci restano per decenni e addirittura vanno in pensione sempre in servizio in quella sede perché la mobilità del personale dal Nord verso il Sud movimenta poche, pochissime unità.

Attiviamo dunque un meccanismo di assunzioni tali che permetta, raggiunta una certa anzianità di servizio al Nord, il trasferimento nella sede gradita o, in alternativa, si realizzi quel piano di edilizia residenziale a canone agevolato per i nostri Agenti per il quale il Sappe si batte da anni e che consentirebbe, a chi lo desidera, di rimanere in servizio al Nord trasferendovi la propria famiglia. Assunzioni, è opportuno chiarirlo, che servirebbero a "coprire" i posti lasciati liberi dal personale posto in quiescenza. Se non si lavora in queste due direzioni, non risolveremo mai il problema.

Giustizia: i rischi che incombono sugli operatori penitenziari

di Enrico Sbriglia (Segretario Nazionale del Sidipe)

 

Social News, 13 febbraio 2008

 

Negli istituti penitenziari, ai rischi che incombono sugli operatori penitenziari, si aggiungono quelli della mancata attuazione del D.Lgs. 626/94, perché non vengono assicurate le risorse economiche per la gestione ordinaria e minimale degli impianti elettrici, termici, idraulici e antincendio.

Nella cabala dei pubblici amministratori, i numeri 6 2 6 evocano il palindromo della sicurezza mancata, fanno paura. Nel settore penitenziario in particolar modo. Se, infatti, c’è un apparato ministeriale che più di altri abbia mostrato di risentire delle problematicità conseguenti alla mancata, costante, attuazione del D.lgs. 626/94 e delle norme successive, ebbene, certamente non mancherà di essere additato quello dell’amministrazione penitenziaria. L’amministrazione penitenziaria, infatti, può anche vantarsi di avere "ingabbiato" la 626, affinché non nocesse più; in tal modo, questo pericoloso pacchetto di norme, non potrà più aggirarsi negli androni di monumentali, quanto scarsamente manutentati palazzi di giustizia, nei corridoi di antiche carceri sorte all’interno di vetusti manieri, oppure di conventi e di caserme, o di brutture architettoniche moderne fatte non per l’uomo, ma contro di lui, a prescindere se sia detenuto o sorvegliante; prigioni che, in modo irridente, furono appellate come "carceri d’oro" e furono trattate con riguardo, con le "mani pulite" negli anni di Tangentopoli e dintorni.

Bugie? assolutamente no, basterebbe chiedere quante risorse, nelle ultime leggi finanziarie, siano state per davvero assegnate alle direzioni degli istituti penitenziari in tema di sicurezza dei lavoratori e sentire le loro affogate lagnanze. Negli istituti penitenziari, e cioè in quei luoghi che in sé richiamano ataviche preoccupazioni sul reale trattamento riservato alle persone detenute, in tema di tutela della incolumità fisica di quella vasta umanità che negli stessi è costretta a vivere o vi lavora, che spaventano per i rischi "professionali" che incombono sugli operatori penitenziari, dovranno aggiungersi anche quelli, innaturali, della mancata attuazione del D.Lgs. 626/94 e ss., perché - nei fatti - non vengono assicurate le risorse economiche per la gestione ordinaria e minimale degli impianti elettrici, di quelli termici, di quelli idraulici, degli impianti antincendio, si, persino degli impianti antincendio…

Se fino ad oggi non vi sono stati accadimenti gravi ed eclatanti, lo si è dovuto, sostanzialmente, al fatto che, grazie al servizio di sorveglianza della polizia penitenziaria, assicurato per 24 ore su 24, tutti i giorni, senza distinguere la notte dal giorno, il sabato dalla domenica, il Natale dal Ferragosto, ed il concorrente impegno diretto e preoccupato degli altri operatori penitenziari, si è sempre riusciti ad intervenire per tempo, per limitare, per mascherare, per contenere le criticità che potevano verificarsi. Luoghi di lavoro obiettivamente "usuranti", nonché affollati di una utenza prigioniera spesso gravemente ammalata, dove le patologie infettive possono tendere a prognosi infauste (spesso, tra la popolazione detenuta vi sono portatori di Aids e di epatiti C, compaiono non di rado casi, o sospetti casi, di Tbc, etc.)., agorà di acciaio e vetri blindati dove si concentrano rappresentanze multilingue di disperati di tutto il Mondo, ebbene, in questi contesti, lo Stato risulta neanche in grado di assicurare il controllo sanitario, periodico, verso quanti, operatori penitenziari, altri ben tipi di rischio dovrebbero "contrattualmente" correre.

Come fu detto un tempo, quando si sterminavano gli eretici senza distinguerli dai devoti, forse si pensa che "Dio riconoscerà i suoi…". Se non ci credete, provate ad entrare, "liberi nella persona", all’interno degli istituti, rivolgete gli occhi verso le prese elettriche, guardate i pavimenti, osservate i servizi igienici, salite per le scale, affacciatevi alle balaustre e vi renderete conto se queste siano farneticazioni o meno…

Certo, non tutte le realtà sono uguali e ve ne possono essere di positive, ma le istituzioni dovrebbero assicurare in ogni luogo, ove le stesse esercitino le loro funzioni, uguali ed adeguati livelli di qualità e, soprattutto, di aderenza alle norme che il medesimo Stato si è dato. Come si è ipocriti quando, di fronte ad un incidente che accade presso un’azienda privata ci scagliamo, con livore leguleio, verso l’imprenditore-sfruttatore per non avere esso assicurato adeguatamente il lavoratore, semmai in nero…; silenzio invece per quel che riguarda le carceri, se non anche i palazzi di giustizia, le caserme, le scuole, gli uffici pubblici in genere.

L’insieme delle norme che tutelano la sicurezza dei lavoratori sui posti di lavoro comprendiamo certamente come siano economicamente onerose, faticose, impegnative: esse mostrano, senza ombra di ragionevole dubbio, se per davvero la salute psico-fisica del lavoratore sia un valore reale da tutelare, proteggere, garantire da parte del nostro ordinamento giuridico. Le norme e le prescrizioni, di cui spesso manca l’effettiva applicazione, dovrebbero essere la risultante tra le migliori soluzioni scientifiche e tecnologiche con quelle dei reale soddisfacimento del diritto alla salute de lavoratori: la prova di come il primo bene verso il quale si investa sia proprio il "capitale umano", nella sua completezza, nel rispetto della sua integrità fisica e morale…

Invece, il quotidiano ci presenta la realtà costruita di parole, ipocrisie, menzogne, che, in un contesto così delicato come può esserlo un carcere, sono destinate a rappresentare la certificazione della peggiore pedagogia possibile. Quella di quanti, rivolti a coloro che, per percorsi diversi di vita e/o per responsabilità personali, sono tenuti ad espiare una pena, offrono ai secondi il peggior esempio da imitare: "Fate come dico, non fate come faccio…".

Eppure il bollettino quotidiano delle morti e delle mutilazioni, e le conseguenze fisiche, psicologiche, di quanti sono vittime di incidenti sul lavoro nei cantieri edili, nelle industrie siderurgiche, in quelle navali, chimiche, nell’agricoltura, ecc., dovrebbero indurci ad altri atteggiamenti, ad un altra sensibilità. Indossare un casco di protezione, calzare scarpe infortunistiche, usare occhiali che proteggano gli occhi, evitare di sollevare carichi in modo errato, bocciardare i gradini delle scale, controllare la validità di un estintore a schiuma, dotare di idonea cartellonistica per le emergenze i posti di lavoro, usare cautela nell’uso di fiamme libere, avere cura nella conservazione ed uso dei dispositivi individuali di protezione, ecc., dovrebbero essere condotte quasi spontanee, come quando d’istinto calciamo un pallone o andiamo in bicicletta: in fin dei conti tuteliamo noi stessi e quanti ci sono vicini, i nostri dipendenti, i colleghi di lavoro, invece…

Che soluzioni adottare? Sarebbe opportuno evitare di brandire il ricorso alle sanzioni penali: fin troppe sono le ipotesi di reato previste nei nostri codici per ricordarle e seguirle tutte. In realtà, il problema è anzitutto culturale. A ben guardare le norme sulla sicurezza fanno il paio con quelle dei diritti di cittadinanza, con l’aspirazione generale alla legalità "agita" piuttosto che "parlata"…Forse meglio sarebbe lanciare una campagna permanente di sensibilizzazione, impegnando tutte le reti sociali, comprese quelle del mondo della scuola di ogni ordine e grado, le associazioni dei consumatori e finanche quelle delle donne casalinghe.

Si dovrebbero prevedere forme di forte incentivazione nel campo delle detrazioni fiscali, talché ciò che si spenda per la sicurezza dei lavoratori e per qualunque ed in qualunque contesto ove vi siano persone che lavorino, vi sia il relativo vantaggio economico. E poi, per quanto attenga al settore pubblico,quest’ultimo dovrebbe essere il miglior indicatore, la più bella vetrina ove mostrare come, per davvero, le misure previste trovino concreta applicazione, al punto di "misurare" l’efficienza del management anche in relazione alla casistica degli infortuni che si verificano sul posto di lavoro.

Dove trovare le risorse? di primo acchito riducendo le spese altre, gli sprechi, eliminando le incrostazioni contabili, imponendo maggiori imposte sui superalcolici e sulle sigarette, intensificando i controlli sui cantieri e nei posti di lavoro, privilegiando l’inasprimento delle sanzioni economiche amministrative e imponendo il fermo delle attività produttive; iniziando a sperimentare le ipotesi di "tasse di scopo" per la sicurezza dei lavoratori…

I vantaggi sociali, grazie ad un innalzamento delle misure di prevenzione e sicurezza sui posti di lavoro, sarebbero enormi e duraturi: il calo, anche in percentuale, degli incidenti si rifletterebbe sulle già stressate casse dello Stato, sul servizio sanitario nazionale, sulle imprese e sulla cittadinanza. Se insanabile per una famiglia di operai è il dolore per una morte bianca, interminabile e progressiva è la sofferenza, invece, individuale e collettiva per le conseguenze di malattie permanenti, soprattutto se ricadute su soggetti giovani la cui legittima aspettativa di vita farà, inevitabilmente, lievitare i costi dell’assistenza.

Altrimenti, ed al contrario, abroghiamo almeno per gli apparati pubblici le norme (potremmo così dire di stare "nella legge"…), deregolarizziamo tutto, affidiamoci al volo degli uccelli ed al calcolo delle probabilità: forse ci prenderanno per folli e sprovveduti, per egoisti ed irresponsabili, ma non avremo finto, non avremo ingannato la nostra collettività, irridendo quel valore di lealtà e di coerenza verso le leggi e le norme che troppo spesso ci diamo per "buon esercizio", invece che per reale, ordinaria, condotta istituzionale.

 

Enrico Sbriglia

Segretario Nazionale del Si.Di.Pe.

(Sindacato dei Direttori e Dirigenti Penitenziari)

Giustizia: caso Bianzino; comunicato Sottosegretario Manconi

 

Comunicato stampa, 13 febbraio 2008

 

Legittimamente il pubblico ministero che indaga sulla morte in carcere di Aldo Bianzino ha chiesto l’archiviazione del procedimento contro ignoti per omicidio, dopo che l’ultima perizia ha individuato in un aneurisma cerebrale la causa ultima e probabile della morte. Legittimamente la parte civile, la compagna e il figlio intendono opporsi all’archiviazione, ritenendo che la perizia non abbia sciolto tutti i dubbi sulle cause della morte di Bianzino.

In questi mesi, abbiamo detto e ripetuto più volte che è nell’interesse stesso dell’Amministrazione penitenziaria, e di chi presta servizio in essa con abnegazione e senso di responsabilità, che sulla morte di Bianzino sia fatta piena luce. Con queste stesse motivazioni, il Ministero della Giustizia si augura che il Giudice per le indagini preliminari voglia assumere tutte le iniziative necessarie a chiarire i dubbi della parte civile, anche disponendo eventuali nuove perizie, prima di decidere sul destino del procedimento in corso.

 

Luigi Manconi, Sottosegretario alla Giustizia

Emilia-Romagna: istituito il Garante dei diritti dei detenuti

 

Redattore Sociale, 13 febbraio 2008

 

Approvato dal Consiglio regionale il progetto di legge sulle carceri che in 11 articoli riorganizza alcuni settori, a partire da quello sanitario. Previsti sostegno alle donne, formazione professionale, percorsi di inserimento.

Tutela della salute, attività socio-educative, sostegno alle donne, istruzione e formazione professionale dei detenuti e degli operatori penitenziari, attività lavorative, percorsi di inserimento sociale. Tutto realizzato grazie alla collaborazione fra organi statali e locali, insieme alle associazioni di volontariato. È, in sintesi, il contenuto del progetto di legge regionale sulle carceri ("Disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della Regione Emilia-Romagna"), approvato dall’Assemblea legislativa.

In 11 articoli vengono quindi riorganizzati alcuni settori, a partire da quello sanitario. Come previsto dalla finanziaria, infatti, la sanità all’interno degli istituti penitenziari passerà alla competenza regionale: sarà quindi la Regione, sulla base di accordi con l’Ausl, a tutelare la salute dei detenuti. Verranno inoltre promossi nuovi percorsi formativi e progetti di re-inclusione sociale dei detenuti all’interno della programmazione dei piani sociali di zona; in particolare (all’articolo 4), la legge stabilisce che la Regione si impegni nella promozione e nel coordinamento degli interventi per il reinserimento sociale dei detenuti, rafforzando i legami con la famiglia di origine (anche per gli stranieri, con la collaborazione di mediatori culturali).

Con l’articolo 5 la Regione si impegna invece a promuovere interventi di sostegno per le donne detenute, oltre ad organizzare percorsi formativi integrati, collegati alle esigenze del mercato del lavoro (articolo 6), e corsi di aggiornamento interdisciplinari rivolti sia agli operatori dell’amministrazione penitenziaria sia agli operatori delle associazioni di volontariato. L’articolo 8, invece, è dedicato all’attività lavorativa dei detenuti e prevede attività di orientamento, consulenza e motivazione al lavoro, per favorire anche la partecipazione di persone detenute all’interno dell’imprenditorialità sociale. Viene infine istituito (articolo 10) il Garante regionale dei detenuti, una figura in grado di verificare il rispetto dei diritti all’interno delle strutture penitenziarie e rilevare eventuali errori o omissioni delle amministrazioni nell’esecuzione della pena.

"Sono molto soddisfatto - sottolinea il consigliere Gianluca Borghi, primo firmatario della proposta - . Abbiamo concluso un lungo percorso con l’approvazione di una legge importante che attribuisce una nuova responsabilità all’istituzione regionale. Si tratta di un provvedimento necessario, in un momento in cui la situazione delle carceri è tornata a essere come prima dell’indulto, anche in Emilia-Romagna: 3.613 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 2263. La legge intende rafforzare la tutela della dignità dei detenuti, grazie ad azioni per favorire il minor ricorso possibile alle misure privative della libertà, nonché il recupero e il reinserimento nella società dei detenuti stessi".

Emilia-Romagna: come vengono spesi i soldi per la sicurezza

 

Sesto Potere, 13 febbraio 2008

 

L’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna ha ospitato ieri pomeriggio un dibattito sulla sicurezza nelle città. La discussione è stata aperta da una relazione del sottosegretario alla Presidenza della Giunta, Alfredo Bertelli.

"Il problema della criminalità esiste e non va sottovalutato - ha affermato Bertelli -, pur se bisogna considerare che in società avanzate come la nostra la criminalità cambia, ma rimane una componente stabile della vita sociale e richiede che anche gli strumenti per affrontarla siano più variegati, coordinati e non affidati ad interventi una tantum".

Rifacendosi ai numeri delle denunce dei cittadini alle forze dell’ordine, Bertelli ha evidenziato l’andamento crescente di borseggi, rapine e furti a persone e nelle abitazioni, la diminuzione di scippi e furti di autoveicoli, la stabilità, sotto la media nazionale, dei reati violenti: omicidi, lesioni dolose e violenze sessuali, anche per la crescente propensione alla denuncia di questi episodi. Resta invariato anche un altro dato: circa l’80% degli autori di reato rimane ignoto. A fronte di questa realtà statistica, ha proseguito Bertelli, non si può tuttavia ignorare la percezione di insicurezza: i dati dimostrano che la paura in astratto è molto superiore alla paura concreta, localizzata nel proprio paese o quartiere.

Negli ultimi sette anni, la Regione ha finanziato 380 progetti presentati dai Comuni e ha investito nella riqualificazione delle polizie locali e municipali; non a caso, la fiducia nelle forze dell’ordine da parte dei cittadini emiliano-romagnoli è di molti punti superiore alla media nazionale. Occorre sviluppare il coordinamento delle azioni in materia di sicurezza, intrecciando le competenze di Regione, Comuni e Ministero degli Interni, e ponendo particolare attenzione alla crescente vulnerabilità di alcuni gruppi sociali, innanzitutto gli anziani.

L’Aula, dopo il dibattito sulla relazione della Giunta, ha respinto una risoluzione (contrari: pd, prc, pdci, sd; a favore: lega, an, gdl, fi, per l’e-r) presentata dalla Lega nord, che chiedeva al Governo: un incremento delle forze dell’ordine in Emilia-Romagna; una revisione delle loro carriere e dei loro contratti di lavoro; il ripristino di uno stanziamento non inferiore a 400 milioni di euro (quanto previsto nell’ultima finanziaria del centro-destra) per la "specialità". Il testo, inoltre, sollecitava un aumento delle risorse regionali a favore della L.R. 24/2003, ed un maggior controllo sulla presenza di stranieri clandestini.

Per Maurizio Parma (lega nord) "il problema sicurezza nella nostra Regione, affrontato da circa 14 anni con il progetto "Città sicura", è stato fallimentare. In questi anni - ha continuato - abbiamo sentito solo slogan, mentre il degrado delle città e l’insicurezza dei cittadini era in continua ascesa. I dati - ha aggiunto - sono allarmanti. La nostra Regione si trova ai primi posti nella classifica dei reati: furti negli appartamenti e negli esercizi commerciali, spaccio di stupefacenti, rapine e violenza alle donne". Tutto questo, ha concluso, abbinato ai dati allarmanti sull’immigrazione clandestina e sulle nostre carceri, ormai piene di cittadini extracomunitari. Anche per il consigliere Luca Bartolini (an) il giudizio sulle politiche per la sicurezza in Emilia-Romagna è fallimentare.

Il consigliere ha tracciato un parallelo tra gli impegni presi dal governo Prodi e dal precedente governo Berlusconi: con Berlusconi - ha detto - il crimine è diminuito, mentre Prodi, dopo aver messo le mani in tasca agli italiani e aver dato cinque euro di aumento alle forze dell’ordine, ha ridotto di un miliardo e mezzo i finanziamenti sulla sicurezza. Infine, Bartolini ha criticato gli inutili e costosi slogan regionali sulla sicurezza.

"La scommessa contro l’insicurezza - ha detto Roberto Garbi (pd) - è costruire un sentimento di fiducia; una politica dei diritti, dei doveri e delle responsabilità e, soprattutto, far crescere nelle comunità un senso di appartenenza e di integrazione multietnica. Vanno incoraggiate, quindi, le misure poste in essere dalla Regione (si è investito più che in altre realtà italiane) con la partecipazione attiva delle nostre comunità, la capacità di fare sistema con le forze di polizia".

Gabriella Ercolini (pd) ha evidenziato che dal rapporto del sottosegretario Bertelli emerge non solo una "nuova consapevolezza", ma anche "un’attenzione vera e reale" della Regione al problema della sicurezza. La consigliera ha poi puntato il dito su un dato "purtroppo negativo" dell’Emilia-Romagna che è il primato della violenza contro le donne: un’emergenza che va affrontata invocando più attenzione al sociale ed alla vita famigliare.

Le istituzioni devono assumersi la responsabilità di attivare tutte le strategie in grado di contrastare questo fenomeno, partendo anche dalle scuole con attività di educazione al rispetto fra i generi. La crescita progressiva dell’insicurezza è al primo posto fra i problemi dei cittadini insieme a quello economico. Lo ha detto Gioenzo Renzi (an), evidenziando che alle richieste della gente di una maggiore severità, gli amministratori devono dare risposte non estemporanee o emergenziali, ma strutturali per un adeguato controllo del territorio.

E questo sia a livello nazionale che locale. Davanti ai dati preoccupanti, infatti, le chiacchiere contano poco, servono atti concreti anche da parte della Regione. Renzi ha poi stigmatizzato il fenomeno dell’abusivismo commerciale, particolarmente pesante a Rimini, per risolvere il quale non sono sufficienti "iniziative tampone". "I cittadini esasperati stanno chiedendo risposte dalle Istituzioni".

Lo ha detto Fabio Filippi (gdl) evidenziando che questa situazione di escalation dell’insicurezza e della criminalità è frutto delle politiche "sbagliate" del centrosinistra, della tolleranza su droghe e clandestinità, sui disvalori trasmessi alla società. Per Filippi non è ammissibile che in Emilia-Romagna il fenomeno criminoso sia diventato una sorta di consuetudine con cui si è obbligati a convivere, né è concepibile che ci si debba sentire "stranieri in casa propria" con interi quartieri cittadini e addirittura paesi che stanno perdendo la propria identità e le proprie tradizioni. Si è diffuso un sentimento di paura a cui i "pacchetti sicurezza" non hanno dato risposta, peggiorando anzi la situazione, ha detto Donatella Bortolazzi (pdci). La logica del capro espiatorio ha fomentato l’odio e individuato il colpevole nel rom e nella figura dell’immigrato.

La stessa stampa, impegnata a mostrare una società sempre più insicura, non dedica spazio all’insicurezza che tanti vivono rispetto ai contratti di lavoro e nell’ambiente di lavoro, nel rapporto con il sistema sanitario o con l’incerta prospettiva della pensione. Sviluppare le politiche sociali e rivitalizzare gli spazi urbani sono le risposte più efficaci alla domanda di sicurezza. Per Enrico Aimi (an), la sinistra deve registrare un clamoroso fallimento nel bilancio della sua azione di governo, nazionale e locale, sul tema della sicurezza.

Se nelle nostre città sono sempre più numerosi e visibili gli spacciatori e le prostitute, e cresce un giustificato sentimento di paura, non dipende certo dall’enfasi su certi fatti da parte dei media. L’allarme sociale, inoltre, deriva da reati gravissimi compiuti da extracomunitari e il centro-sinistra, anziché contrastare l’immigrazione clandestina, ha scelto di chiudere alcuni centri di detenzione temporanea, tagliando gli investimenti per l’aggiornamento e il potenziamento delle forze dell’ordine. Non è solo un tema di dibattito politico, la sicurezza, ma un problema centrale nelle scelte di governo, ha detto Matteo Richetti (pd), secondo il quale tutti devono sentirsi impegnati a sconfiggere il crescente sentimento di insicurezza.

Verso gli immigrati, occorre mandare un segnale chiaro: punire chi sceglie l’illegalità, garantendo la certezza della pena, e nello stesso tempo aiutare chi si propone di vivere e lavorare onestamente. È stata lungimirante questa Regione, ha aggiunto, che già da 15 anni è impegnata in iniziative concrete per la legalità e l’integrazione delle azioni di controllo del territorio, per la lotta al degrado e la qualità urbana. Fra gli ambiti di intervento da sviluppare, l’attenzione alle vittime dei reati. "Lo Stato e anche gli Enti locali - ha detto Ugo Mazza (sd) - devono poter intervenire a sostegno dei disagiati e dei più poveri.

Costruire una società più equilibrata e giusta per cancellare quella percezione di rischio che finisce, purtroppo, per colpevolizzare poveri e disagiati. Gli Enti locali - ha rilevato - devono impegnarsi per evitare fenomeni di degrado nelle nostre città (più cura e qualità dello spazio pubblico), mentre i centri civici comunali devono tornare ad essere punti di aggregazione e non strutture burocratiche. Occorre, infine, specializzare e coordinare al meglio gli apparati delle forze dell’ordine".

Mauro Manfredini (lega nord) ha chiesto uno sforzo da parte di tutti (Stato, Regione, Enti locali) per dare maggiore sicurezza ai cittadini. "Un impegno - ha sottolineato Manfredini - che deve trovare risposte concrete (per: fermare il flusso migratorio dei clandestini, dare maggiori risorse alle forze dell’ordine e alle guardie penitenziarie, oggi con organici ridotti all’osso. Un appello - ha concluso - anche ai nostri Sindaci, per creare assessorati sulla sicurezza nei Comuni".

Marco Lombardi (fi) ha invitato il partito democratico della Regione "ad affrancarsi maggiormente, come sta avvenendo a livello nazionale, dal retroterra culturale e politico di una parte della sinistra, al fine di contribuire, in maniera autonoma, a politiche più concrete e condivise sul tema sicurezza". Lombardi, nel rilevare che nelle nostra città molto spesso le auto della polizia non possono uscire per mancanza di benzina, ha invitato la Regione a trovare, nel suo bilancio, le risorse necessarie ad aiutare le forze dell’ordine".

I dati sull’aumento della criminalità - ha detto Luigi Francesconi (gdl) - sconfessano il tentativo di minimizzare il fenomeno fatto dalla Giunta. La percezione dell’insicurezza è oggi presente anche in piccole realtà prima risparmiate. Gli elementi di questa crescita sono molti: l’immigrazione irregolare, la non certezza della pena per chi delinque, la crisi dei valori (anche religiosi) della nostra società. A queste questioni la sinistra ha risposto con politiche superficiali e colpevoli, i cui risultati fallimentari sono sotto gli occhi di tutti.

La percezione della sicurezza dei cittadini - ha detto Carlo Monaco (per l’e-r) - non attiene alla semplice lotta alla criminalità, è la ragion d’essere dello Stato. Il problema va quindi affrontato con politiche complessive, in primo luogo finalizzate al buon funzionamento delle istituzioni. In un Paese come l’Italia, in cui l’80% dei detenuti è in attesa di giudizio, è l’intero impianto della giustizia che non funziona, con la conseguente mancanza grave della certezza del diritto. In particolare, Monaco, per affrontare un problema così complesso, ha in particolare chiesto che le Regioni possano attivare, in materia di sicurezza, politiche specifiche.

"Il disordine e l’insicurezza - ha detto Marco Monari (pd) - esistono anche in Emilia-Romagna". Il tema della sicurezza - ha aggiunto - si deve affrontare su due binari: ridurre l’impatto del crimine; rafforzare le politiche di coesione sociale, migliorando lo spazio urbano. La Regione - ha detto - in questi anni si è mossa nella direzione giusta: ha rafforzato il controllo, coordinando le varie forze di polizia (locale, municipale e provinciale) e creando i Corpi intercomunali, che oggi sono al servizio di oltre un milione di cittadini. Ha qualificato gli spazi pubblici che mostravano maggiore criticità, integrando e potenziando i servizi.

"Non ci sono ricette per risolvere un problema che non è né di destra né di sinistra, ma è anche vero che la Regione è stata a fianco delle città, dei cittadini e dei lavoratori della sicurezza". Nella sua replica, il sottosegretario Bertelli ha rimarcato l’utilità dei tanti dati raccolti in modo sistematico dal 1995: servono a conoscere la situazione e offrire gli strumenti con cui perfezionare le azioni pubbliche. Questa Regione ha investito ingenti risorse nelle politiche per la sicurezza: nel bilancio 2007 si è provveduto ad aumentare le risorse di 2 milioni di euro rispetto all’anno precedente e c’è la disponibilità a intervenire anche in fase di assestamento del bilancio, poiché la Giunta è pienamente consapevole di come il contrasto alla criminalità costituisca oggi un aspetto prioritario. C’è una resistenza da vincere, ha concluso Bertelli, affinché si concretizzi una cooperazione fra sistemi istituzionali, fra le forze dell’ordine nazionali e locali.

 

Sicurezza: l’impegno della Regione Emilia-Romagna

 

La Regione Emilia-Romagna ha avviato, fin dal 1994, un filone di attività consolidate e continuative sui temi della sicurezza urbana. Il tema non è mai stato affrontato come "un’emergenza", ma con un lavoro quotidiano e diffuso, che è stato un modello anche per l’attività delle altre Regioni, sia sul piano legislativo che delle relazioni istituzionali.

Le linee generali delle politiche regionali sono sinteticamente: interventi di prevenzione integrata e di rassicurazione sociale; interventi, anche a carattere strutturale e di lungo periodo, su aree e problemi di particolare rilevanza; sostegno e valorizzazione dell’identità professionale delle polizie locali; sviluppo della ricerca e delle relazioni esterne. Centinaia i progetti a livello locale, una ventina quelli più lunghi e complessi, rafforzate le polizie locali, sostenuta la formazione fino ad arrivare alla Scuola interregionale di Polizia locale, esperienza unica in Europa. Gli interventi hanno un obiettivo generale: intervenire sui sintomi, sugli effetti anche contingenti che la criminalità e il disordine producono, senza rinunciare a intervenire sulle cause strutturali di questi fenomeni.

 

Le cifre regionali

 

Negli anni tra il 1999 e il 2007 la regione Emilia-Romagna ha finanziato 381 progetti sulla sicurezza: 257 a sostegno di enti locali e 124 di associazioni. Di particolare rilievo il finanziamento di misure finalizzate alla prevenzione sociale (servizi per le vittime, animazione di spazi pubblici, campagne di educazione e informazione), e quelle per la cosiddetta prevenzione situazionale (illuminazione, videosorveglianza, sostegno alla polizia locale). Molto spesso si tratta di programmi che prevedono interventi integrati, composti da diverse tipologie di intervento.

 

La spesa per la sicurezza

 

Nel 2006 la Regione Emilia-Romagna ha speso per la sicurezza oltre 2,65 milioni di euro, e oltre 900 mila euro per la polizia locale. La spesa è cresciuta nel 2007, con 2,5 milioni per la sicurezza e oltre 2,2 milioni per la polizia locale. Le cifre sono comprensive di tutte le attività, e sono spese sia di investimento che correnti. Per quanto riguarda il 2008, le previsioni di spesa sono di oltre 6 milioni di euro.

 

Alcuni interventi di rilievo del 2007

 

Protocollo d’intesa con il Comune di Forlì, per la realizzazione di un software per la raccolta dei dati sulle denunce in modo omogeneo (contributo 48.000 euro).

Intesa con il Comune di Argenta per la realizzazione del progetto "la sperimentazione di modalità innovative per la gestione della Polizia municipale" (contributo 90.000 euro).

Intesa con il Comune di Castelnovo di Sotto per la realizzazione di un laboratorio per l’integrazione delle tecnologie finalizzate all’innovazione tecnologica della Polizia municipale (contributo 160.000 euro).

Intesa con il Comune di Ravenna per la realizzazione del progetto "La sicurezza di genere." (contributo concesso 60.000 euro).

Accordo di programma con il Comune di Bologna per azioni di miglioramento della sicurezza, area Pratello (contributo concesso 70.000 euro + 100.000 da concedere per gli investimenti nel 2008).

Accordo con il Comune di Calderara di Reno per l’acquisizione della proprietà dei locali siti al piano terra del complesso "Garibaldi 2" da destinare ad attività sociali e per le attività programmate nel Piano Sociale di Accompagnamento (contributo concesso 195.000 euro).

Accordo con il Comune di Sassuolo per azioni di miglioramento della sicurezza (contributo concesso 180.000 euro).

Vasto: detenuto morto, non fu un suicidio, ma errore fatale

 

www.primadanoi.it, 13 febbraio 2008

 

L’autopsia sul corpo di Sandro Di Nisio, detenuto pescarese morto la scorsa settimana nel carcere di Vasto ha dato risposte sconcertanti. L’uomo, infatti, secondo la ricostruzione dell’anatomopatologo Ivan Melasecca, non si sarebbe suicidato, ma sarebbe morto "per errore". Ha sbagliato un procedimento, mentre si drogava. L’esito dell’autopsia è stato consegnato al magistrato della Procura di Vasto che ha aperto un’inchiesta sulla morte del giovane. Di Nisio avrebbe perso la vita per un banale errore di calcolo, nel tentativo di sniffare gas dal forellino utilizzato all’interno della cella in dotazione ai detenuti per scaldare le vivande.

Questa sarebbe una tecnica abbastanza diffusa tra i tossicodipendenti che, in crisi di astinenza da sostanze stupefacenti, pare riescano a soddisfare i loro bisogni inalando gas e poi infilando la testa in una busta di plastica. Di Nisio sarebbe svenuto mentre aveva il sacchetto in testa, non riuscendo poi a riprendersi. A trovarlo senza vita erano stati gli agenti della polizia penitenziaria i cui tentativi di soccorso erano stati vani. Le indagini sono affidate al sostituto procuratore della repubblica di Vasto, Anna Rita Mantini.

Vasto: Osapp; vietare ai detenuti l’uso dei fornellini a gas

 

Ansa, 13 febbraio 2008

 

"L’uso del fornellino da cucina è una pratica ricorrente per i detenuti che cercano lo "sballo", e che poi rischiano la vita": l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp) punta il dito contro i mancati divieti da parte dell’amministrazione penitenziaria. Per il sindacato non è casuale la morte del tossicodipendente che a Vasto ha inalato il gas del fornellino utilizzato all’interno della propria cella: "Il detenuto non ha sbagliato, la morte avvenuta è la fine di uno stato mentale che l’Amministrazione non si vuole far carico di alleviare", sostiene Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp.

"Lo prova il fatto che questi episodi - continua l’Osapp in una nota - sono all’ordine del giorno ormai in tutte le realtà carcerarie del Paese. Da Como, come da Busto Arsizio e Piacenza, e da altre parti d’Italia, ci pervengono continuamente segnalazioni di detenuti che sistematicamente vengono ricoverati per le inalazioni di gas". "Nonostante la legislazione in materia di prevenzione degli incendi e quella sulla sicurezza del lavoro vietino il possesso di simili apparecchi in luoghi "chiusi" - continua Beneduci -, l’Amministrazione Penitenziaria continua ancora ad autorizzare la vendita in istituto di simili prodotti con aumento dei casi di ustionati, fino all’estreme conseguenze di chi sceglie questi mezzi per narcotizzarsi alla realtà del carcere".

Cagliari: Caligaris (Sdi); applicare territorializzazione pena

 

Agi, 13 febbraio 2008

 

"Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria deve applicare, salvo casi eccezionali, il principio della territorializzazione della pena previsto dalla legge sull’ordinamento carcerario. In caso contrario si rischiano episodi gravi e preoccupanti come quello accaduto nella tarda serata di ieri nel carcere cagliaritano di Buoncammino".

Lo ha detto il consigliere regionale socialista Maria Grazia Caligaris, (Sdi-Partito Socialista), segretaria della Commissione Diritti Civili, a conclusione della visita all’agente della polizia penitenziaria Italo Sannio, ricoverato in ospedale per un principio di intossicazione durante lo spegnimento dell’incendio di una cella del centro clinico.

Nonostante le fiamme e il fumo acre quattro agenti sono riusciti a salvare il detenuto Gioacchino Oliva, ergastolano, protagonista dell’episodio di protesta per ottenere il trasferimento in un carcere della penisola più vicino ai familiari.

L’agente Sannio - ha precisato Caligaris - sta meglio e ha superato la fase critica che ha suggerito il ricovero. Resta la preoccupazione per la gravità dell’episodio. È una spia del malessere all’interno delle carceri per le decisioni del Dap di respingere le numerose richieste di trasferimento di detenuti, anche ergastolani, che sollecitano, nel rispetto della norma di legge, il trasferimento in case circondariali il più possibile vicine ai luoghi di residenza dei familiari.

In Sardegna, per ovvi motivi legati all’insularità, ai costi dei trasporti, ai tempi necessari per raggiungere le case circondariali della penisola, il problema è avvertito maggiormente. Da tempo - ha ricordato la consigliera socialista - il Consiglio regionale con un ordine del giorno approvato all’unanimità ha chiesto che i detenuti sardi ristretti nelle carceri della penisola siano trasferiti in quelli dell’isola e viceversa le richieste dei detenuti delle altre regioni italiane che chiedono il trasferimento debbano trovare accoglimento.

L’applicazione del principio della territorializzazione della pena è contenuto anche nell’accordo sottoscritto due anni fa dalla Regione Sardegna, dal Ministero della Giustizia e dal Dap. È opportuno - ha concluso Caligaris - che si proceda con atti concreti nel rispetto degli impegni e degli accordi anche perché il numero dei detenuti provenienti dalla Sicilia, dalla Campania e dalla Puglia, a Buoncammino, sta aumentando in particolare nella sezione dell’Alta sicurezza.

Imperia: domani l’Uepe inaugura uno Sportello informativo

 

www.ivg.it, 13 febbraio 2008

 

Domani mattina, alle 11, verrà inaugurato ad Albenga il nuovo sportello Sp.In., su iniziativa della Diocesi di Albenga - Imperia. Lo Sp.In., Sportello Informativo, fa da ponte tra detenzione e libertà: si offrono informazioni rispetto alle problematiche della casa, del lavoro, degli aspetti legali e di quelli sanitari per le persone appena uscite dal carcere o che scontano pene in misura alternativa.

La regia del servizio è affidata all’ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) del Ministero di Giustizia. Lo sportello vuole essere un costante laboratorio di "ricerca-azione" per far sì che operatori e volontari insieme possano implementare un modello di sostegno alle persone con disagi complessi, attraverso la messa in campo di soluzioni creative contestualizzate in percorsi di inclusione sociale. L’azione non fine a se stessa ma banco di esperienza solidale per sistematizzare e teorizzare nuovi percorsi alternativi alla reiterazione di reati.

Catania: seminario sulle funzioni del Garante dei detenuti

 

Comunicato stampa, 13 febbraio 2008

 

Venerdì 15 (dalle ore 15 alle 19) e sabato 16 febbraio (dalle 9 alle 13), la Facoltà di Scienze della Formazione - Dipartimento Processi Formativi, dell’Università di Catania, in collaborazione con la Regione Siciliana e il Garante per i detenuti organizza il seminario "Le funzioni del Garante dei diritti fondamentali dei detenuti nelle azioni di assistenza e di reinserimento sociale e lavorativo dei reclusi", che si terrà nell’Aula 1 di Palazzo Ingrassia (via Biblioteca).

Chairmen il prof. Santo Di Noto, ordinario di Psicologia generale presso la facoltà di Scienze della Formazione e l’on. Salvo Fleres, Garante regionale dei diritti dei detenuti e vicepresidente nazionale della Conferenza dei garanti dei detenuti. Interverranno il prof. Salvo Aleo, ordinario di Diritto Penale, il prof. Giuseppe Santisi, associato di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, la dott.ssa Tiziana Ramacci, docente di Psicologia Sociale, il dott. Rino Fatuzzo, già direttore di Assindustria Catania, il dott. Diego Sciuto, esperto in attività finanziarie e promozione d’impresa, l’avv. Lino Buscemi, dirigente dell’Ufficio del Garante e il sacerdote don Enzo Giammello. Per gli studenti la partecipazione al seminario verrà riconosciuta ai fini dell’acquisizione dei crediti per il tirocinio formativo.

Modena: un incontro - spettacolo sul tema "reato e pena"

 

Vita, 13 febbraio 2008

 

Lunedi 25 febbraio, dalle ore 18.30 alle ore 22.30, al Teatro delle Passioni di Modena in viale Sigonio 382. Nasce dalla collaborazione tra Comune di Modena e Associazioni di volontariato del settore (Gruppo Carcere - Città; Porta aperta al carcere e Il triangolo) l’incontro-spettacolo dal titolo "Reato e pena: è il carcere la punizione più efficace? O ci sono alternative possibili che offrano sicurezza per i cittadini e recupero per la persona?".

Il programma prevede dopo i saluti del sindaco di Modena che è anche vice - presidente del Forum europeo di sicurezza urbana, Giorgio Pighi in apertura, un’intervista a Luciano Eusebi (docente di diritto penale e membro della Commissione di studio per la riforma del c.p.) sulla riforma del Codice Penale. A condurre l’intervista Daniela De Robert, volontaria al carcere di Rebibbia e giornalista del Tg. Dopo un buffet curato dai volontari Ceis - Bar Arcobaleno. La sera si apre con "Vita prigioniera", monologo tratto dal libro "Sembrano proprio come noi" a cura di Beatrice Schiros per la regia di Riccardo Bellandi. L’iniziativa è introdotta e coordinata da Paola Cigarini del Gruppo Carcere - Città. Durante la serata sarà visitabile la video-installazione Abitanti, opera realizzata da Umberto Stefano Benatti, in collaborazione con il gruppo di danza - movimento - terapia della Sezione femminile della Casa Circondariale Sant’Anna condotto da Cristina Lugli. Info: segreteria organizzativa tel. 059.2033419.

Diritti: violenza sulle donne, in Italia 6 milioni e mezzo di vittime

 

Redattore Sociale, 13 febbraio 2008

 

Sei milioni 743 mila vittime di violenze fisiche o sessuali e 482 mila vittime di stupri. Un milione 400 mila ragazze violentate prima dei 16 anni, quasi sempre dal partner o da un parente: è "una denuncia grave" quella raccontata dai dati di una ricerca Istat sulle violenze di genere in Italia, pubblicata lo scorso febbraio 2007. Il 31,9% delle donne sopra i 16 anni ha subito una violenza fisica o sessuale. Quattro milioni hanno subito violenze fisiche e 5 milioni violenze sessuali. Quasi mezzo milione gli stupri e 700 mila i tentati stupri. La maggior parte degli stupri sono eseguiti dal partner (69,7%) o da un conoscente (17,4%). Solo nel 6% dei casi gli autori sono estranei, soprattutto per quanto riguarda le molestie (68%). E un milione 400 mila donne hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni, il 6,6% del totale. La violenza è meno frequente per le giovani tra i 16 e i 24 anni ed è minore il peso dei parenti fra gli autori.

 

Ma la violenza non è solo fisica

 

Già la "Dichiarazione delle Nazioni unite per l’eliminazione della violenza contro le donne" nel 1993 definiva la violenza sulle donne come "qualsiasi atto di violenza di genere che comporta o può sfociare in danni fisici, sessuali o psicologici o sofferenza alle donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la limitazione arbitraria della libertà, sia nella sfera pubblica che in quella privata". In Italia sono 7 milioni e 134 mila le donne che hanno subito violenza psicologica da parte del partner: il 43,2% del totale. Nella maggior parte dei casi si tratta solo di violenza psicologica (isolamento, controllo, violenza economica, valorizzazione e intimidazione), ma in un caso su sette alla violenza verbale seguono maltrattamenti fisici. Diffusissimi anche i comportamenti persecutori dopo la separazione. Lo subisce una donna su cinque (18,8%), e in un caso su due è sfociato in violenza fisica o sessuale. Molte donne non denunciano le violenze subite (94% delle violenze e il 93% degli stupri non viene denunciato), mentre solo una donna su quattro considera reato o stupro subito da parte del partner. Molte non ne parlano con nessuno, e il silenzio è maggiore in caso di violenza subita dal partner (33,9%). La violenza è nella maggior parte dei casi ripetuta, nel 67,4% delle volte quando l’autore è il partner. L’11,2% delle donne che hanno subito violenza dal partner era incinta al momento della violenza. Il 46% delle vittime non sa quantificare il numero di violenze subite. Tra il milione e mezzo di donne che hanno subito violenze ripetute, una su due di perdita di fiducia e disturbi del sonno e una su tre di depressione e ansia. Mentre il 23% ha ideato il suicidio.

 

A chi si rivolgono le vittime

 

Il 33,9% delle vittime che subiscono violenza dal partner non si rivolge a nessuno. Il 36,9% ne parla agli amici e il 32,7% ai familiari. Solo il 2,8% si rivolgono ai centri antiviolenza, e il 4% agli assistenti sociali e ai consultori. Nonostante le violenze la separazione da un partner violento è difficile. Solo il 19,5% delle donne ha vissuto separata per almeno un periodo dopo violenze ripetute. Di queste però, solo una su quattro non è più tornata a vivere dal marito/convivente. Le donne che hanno assistito alla violenza contro la madre da parte del padre sono più frequentemente vittime di violenza da adulte (58,5% contro 29,6%). Così come la quota di uomini violenti con la propria partner è pari al 30% tra chi ha assistito a violenze in famiglia, contro il 6% di chi non ha assistito o subito violenze da bambino. Un triste ciclo destinato a riprodursi, se è vero che delle 674 mila donne madri, che hanno subito violenze ripetute dal partner, nel 61,4% dei casi i figli hanno assistito.

 

Violenza per ristabilire il potere maschile

 

"Un fenomeno pervasivo ed endemico". Definisce così la violenza contro le donne il secondo rapporto Urban, redatto sulla base di oltre 22mila interviste ai cittadini di 25 città italiane coinvolte nel progetto europeo (Genova, Trieste, Carrara, Pescara, Torino, Milano, Salerno, Cosenza, Bari, Siracusa, Catanzaro, Caserta, Misterbianco, Crotone, Taranto, Mola di Bari, Cagliari, Brindisi). La ricerca analizza soprattutto il contesto in cui la violenza si genera e il radicamento culturale che consente alla violenza di attecchire. Il 98% degli intervistati è consapevole del problema e la maggior parte ne ha sentito parlare dalla televisione. A prevalere è una lettura "passiva e fatalista" del fenomeno. Tra le cause riportate maggiormente compare la predisposizione genetica dei soggetti violenti, certi comportamenti delle donne, la bassa istruzione, il modo in cui gli uomini considerano le donne, o più semplicemente "perché l’uomo è fatto così". Secondo Maura Misiti, una delle curatrici della ricerca, rispetto alla precedente rilevazione Urban del 1999, si consolida tra gli intervistati la consapevolezza di come "la crescente autonomia femminile e la crescente presa di coscienza dell’asimmetria dei rapporti di potere, possa comportare alterazioni nei rapporti uomo-donna, dove la violenza è un tentativo di ristabilire il potere di un’identità maschile in crisi".

Una visione stereotipata del fenomeno è più radicata tra le persone anziane e poco istruite, come pure la maggiore tolleranza verso le violenze. Al contrario, a essere più intolleranti sono le donne giovani, laureate e occupate. Interessante il divario tra la percezione dei servizi che dovrebbero aiutare le vittime e quelli che nella realtà di tutti i giorni sono più sollecitati dalle vittime stesse. Secondo il 50% degli intervistati dovrebbero essere servizi sociali, famiglia, polizia e volontariato a farsi carico del problema. Ma nella realtà dei fatti, secondo le 1200 donne vittime di violenza intervistate, la grande maggioranza dei casi si risolvono tra le mura domestiche, cercando supporto tra i familiari e le reti amicali. E solo nei casi più gravi con l’intervento delle forze dell’ordine. Tre le soluzioni proposte dagli intervistati: più prevenzione, più controllo delle forze dell’ordine e più centri antiviolenza. Soluzioni in qualche modo previste nella proposta di legge sulla "prevenzione della violenza in famiglia e di genere", licenziata nel dicembre 2006 dal Consiglio dei Ministri e depositata in Parlamento.

 

Sono emancipate, ma spesso si incolpano delle violenze

 

Consapevoli dei diritti conquistati faticosamente in una società ancora dominata da una cultura maschilista, ma anche intrappolate in un perverso meccanismo psicologico che le porta a colpevolizzarsi e a giustificare, in qualche modo, gli abusi commessi contro di loro. È questa, in sintesi, la fotografia delle donne vittime di violenza che emerge dall’indagine condotta dall’istituto di ricerche PublicaRes, su iniziativa della Commissione sicurezza della Regione Lazio, presentata oggi dal presidente di Telefono Rosa, Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, dall’assessore regionale alle Politiche sociali e presidente della Commissione sicurezza, Luisa Laurelli, e dall’assessore provinciale alla Politiche scolastiche, Daniela Monteforte.

La ricerca, effettuata telefonicamente e on-line su un campione di 1100 donne tra i 18 e i 70 anni, analizza la situazione in tutte le cinque province del Lazio. Secondo il 17% delle intervistate, a provocare la violenza è l’atteggiamento degli uomini che tende a vedere la donna come un oggetto di sua proprietà, mentre l’11% imputa il fenomeno alla maggiore autonomia di cui godono le donne.

Per il 16% del campione, invece, la violenza è generata dall’abuso di alcol e per il 7% da comportamenti sbagliati delle donne, come l’indossare abiti succinti o uscire la sera da sole. Ma c’è anche un 9% che ritiene responsabili i messi di informazione e un 5% e un 3% che individuano rispettivamente nella povertà e nella disoccupazione la causa delle violenze.

Chiedere aiuto e denunciare risulta più difficile quando l’autore delle violenze è il partner: soltanto il 24% delle donne che hanno subito maltrattamenti da parte del proprio compagno trova il coraggio e la forza di rivolgersi a qualcuno. Molte vittime, inoltre, decidono di rimanere accanto a un uomo violento perché, secondo le risposte del campione preso in esame, hanno paura (28%), sono sole e non hanno appoggi (17%) e per non creare disagio ai figli (22%). Ad un’amica che confessasse la violenza subita, il 69% delle intervistate la incoraggerebbe a ribellarsi e a rivolgersi a qualcuno che, con maggiore competenza ed efficacia, possa aiutarle. L’88%, inoltre, indica il Telefono rosa, i centri antiviolenza e, in generale, tutte le associazioni di settore che operano sul territorio come i principali soggetti in grado di fornire supporto alle vittime.

Immigrazione: il "promesso sposo"… può essere espulso

 

Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2008

 

Le nozze imminenti, con una fidanzata italiana, non salvano l’immigrato clandestino dall’obbligo di tornare nel suo paese d’origine e obbedire al decreto di espulsione inflitto per mancanza di documenti regolari. Lo sottolinea la Cassazione, con la sentenza n. 6605 della Prima sezione penale, depositata ieri, che ha annullato l’assoluzione di un cittadino extracomunitario dall’accusa di non aver obbedito all’ordine di rimpatrio emesso dal Questore di Rimini il 19 agosto 2006. L’uomo pensava di poter rimanere in Italia, dal momento che il suo matrimonio con una cittadina italiana era stato fissato per il 5 febbraio 2007, e lui era in attesa che i documenti fossero pronti. Per questo il tribunale di Bergamo, il 19 febbraio 2007, lo aveva assolto ritenendo che avesse avuto una valida ragione per pensare di non dover rientrare in patria.

La Cassazione, però, su reclamo della Procura della Corte di appello di Brescia, ha disposto un nuovo processo nei confronti dell’immigrato perché Inefficacia paralizzante" delle espulsioni può essere riconosciuta nei confronti di chi, tornando in patria, corre il rischio di essere perseguitato per motivi di razza, sesso, religione, opinioni politiche eccetera e non per esigenze definite di "seconda categoria" dei "migranti economici", come possono essere quelle dell’attesa dei tempi burocratici necessari al disbrigo delle pratiche matrimoniali tra un cittadino extracomunitario e una italiana. Per la Cassazione, il verdetto di assoluzione appare almeno frettoloso, basato su un giudizio "presuntivo e probabilistico, tenuto anche conto del significativo lasso di tempo intercorso tra la data dell’ordine di allontanamento e quella del matrimonio".

Immigrati: ricerca di Censis e Cnel; la scuola è impreparata

di Angela Manganaro

 

La Repubblica, 13 febbraio 2008

 

Li definiscono "piccoli eroi volenterosi" e le mamme non hanno molto da lamentarsi. Eppure loro, gli insegnanti di scuole elementari e medie, sono i primi ad ammettere che quando hanno in classe alunni stranieri devono studiare di più. La ricerca sul livello di integrazione dei seimila bambini immigrati nelle scuole italiane (il 6% della popolazione scolastica), realizzata dal Censis per conto del Cnel, tranquillizza sulla buona volontà dei singoli, non sulla preparazione della scuola a gestire studenti che provengono da 191 Paesi diversi.

Sono stati intervistati 414 docenti e 608 madri e analizzate elementari e medie di Porta Palazzo a Torino, di Rozzano a Milano, del Pigneto a Roma e dei Quartieri Spagnoli a Napoli per concludere che "nel complesso la situazione è positiva", anche se prevalgono gli interventi "a

termine" privi "di continuità e solidità". La conseguenza è che nel breve termine si rischia che i figli degli immigrati non si integrino e la classe non finisca il programma; nel lungo che chi non è di madre lingua arrivi alle superiori senza conoscere l’italiano come dovrebbe. La lingua è il problema chiave e si sente a Nord come a Sud. La situazione si aggrava quando i figli degli immigrati sono tanti - si mette in guardia dal rischio di scuole-ghetto - o quando si inseriscono a metà anno 0 metà percorso.

I ricercatori mettono in evidenza che "gli insegnanti fanno autocritica": il 75,9% degli intervistati ammette la "scarsa preparazione" ad affrontare culture diverse, il 73,1% denuncia la carenza di strumenti e materiali di supporto all’insegnamento, il 72,7% l’assenza di formazione e confronto con altri colleghi. Maestri e professori ammettono le loro mancanze, ma sono compatti nell’individuare i principali problemi che impediscono l’inserimento: l’83,5% risponde che la causa è la carenza di esperti e mediatori, l’8o% dà la colpa a istituzioni locali e nazionali assenti, il 78,4% alle difficoltà di comunicazione. Le mamme straniere, dal canto loro, si dicono soddisfatte dell’accoglienza, anche se solo un terzo dei docenti cerca un rapporto con loro. Il 44,4% lamenta però la scarsa conoscenza dell’italiano, il ritardo nei programmi e l’incapacità di seguirei figli a casa.

"Questa ricerca esaspera i punti deboli della scuola italiana nel. suo complesso: poche risorse, rapporto debole con le famiglie, assenza delle istituzioni" spiega Giorgio Alessandrini, presidente dell’organismo che al Cnel si occupa di integrazione. "La capacità di accoglienza c’è ma non basta - continua - mancano i mediatori culturali e soprattutto docenti specializzati nell’insegnamento dell’italiano a studenti che hanno una lingua madre diversa". In questo quadro è facile capire perché Antonio Marzano, presidente del Cnel, presentando la ricerca ha definito gli insegnanti "piccoli eroi".

La cosa strana è che il 67,7% degli intervistati dichiara che nella propria scuola sono rispettate le linee guida del ministero. Tre in particolare: inserire il bambino nella classe che corrisponde alla sua età, evitare un tetto massimo di alunni stranieri per classe, accogliere la domande di iscrizione in qualsiasi momento dell’anno. "Il punto non sono le norme - spiega Carla Collicelli, vicedirettore del Censis -. Il fatto è che in mancanza di risorse e interventi strutturali, l’unica cosa che si fa è rispettare le regole burocratiche. Il resto è fatto dagli insegnanti volenterosi che in molti casi hanno adattato i programmi di italiano e storia". Insomma i tipi di interventi non vanno bene. "Le forze spontanee non bastano, siamo in ritardò", conclude Collicelli. - scarica la ricerca (pdf)

Olanda: i "coffee shop" provocano un incidente diplomatico

 

Notiziario Aduc, 13 febbraio 2008

 

Il braccio di ferro dura da due anni e ora, dopo una nuova offensiva diplomatica, rischia di finire in tribunale: tornano accesi i toni tra Belgio e Olanda sulla localizzazione alla frontiera tra i due paesi dei coffee-shop, i locali dove si può fumare liberamente hashish e marijuana.

Nessuno vuole il turismo dello spinello. In Olanda, che pure consente i coffee-shop, non lo vuole il comune di Maastricht che non desiste dall’ idea di spostare almeno la metà dei quindici bar del fumo dal centro della città in zone periferiche di frontiera. Ma non ne vogliono sentir parlare neppure i vicini del Belgio che si oppongono con tutte le loro forze contro questa scelta.

L’ultima puntata dello scontro è andata in scena con una mobilitazione generale dei sindaci di una decina di comuni belgi di frontiera che hanno tenuto un vertice nella cittadina di Visè. A dare loro manforte il ministro degli interni belga Patrick Dewael e quello della giustizia Jo Vandeurzen, nonché i governatori delle province di Liegi e del Limburgo. Insieme hanno tracciato la strategia da seguire nei confronti del sindaco di Maastricht, Gerd Leers, "colpevole" di non rinunciare al suo progetto di delocalizzazione.

La strada, almeno per un po’, sarà ancora quella della diplomazia, dopo che anche in occasione dell’ultimo consiglio dei ministri Ue in Slovenia, i responsabili degli interni e della giustizia del Belgio hanno affrontato la questione con i loro colleghi olandesi, mentre il premier Guy Verhofstadt a più riprese ha protestato con l’Aja.

Se il sindaco olandese dovesse fare ancora orecchie da mercante, sostengono in Belgio, non resterà altra strada che quella dei tribunali. La Corte di giustizia del Lussemburgo potrebbe essere chiamata ad esprimersi sul rispetto dello spirito del trattato di Schengen.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il via libera del consiglio comunale di Maastricht, il 18 gennaio scorso, allo spostamento di tre coffee-shop che entro l’estate dovrebbero dar vita ad un vero e proprio supermercato dello spinello: duemila metri quadri nella olandese Eijsden, ma a pochi chilometri dalla belga Visè.

Il sindaco di Maastricht, per niente contento del via vai di migliaia di ragazzi - dal Belgio ma anche dalla Francia e dalla Germania - che solo per poche ore soggiornano in città per comprare un po’ di fumo e ripartire, risponde piccato di non comprendere la posizione dei belgi dato che nel Paese è autorizzato il possesso di cannabis per uso personale, ma poi per gli acquisti i loro ragazzi devono recarsi in Olanda.

 

 

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