Rassegna stampa 12 febbraio

 

Giustizia: 9mila magistrati... costano 1 miliardo di euro l'anno

di Ellis Masi

 

www.voceditalia.it, 12 febbraio 2008

 

La spesa lorda per gli stipendi dei circa 9 mila magistrati italiani è di 1 miliardo di euro. Sebbene solo 3 reati su 100 siano perseguiti, negli ultimi 50 anni ci sono stati 4 milioni di errori giudiziari. La magistratura nel 2007 ha perseguito disciplinarmente 1.442 suoi componenti.

Dai pochi dati ufficiali pubblicati, elaborati dall’Associazione "Contro tutte le mafie", risulta che solo 3 reati su 100 vengono perseguiti. Questi i numeri: non si denuncerebbe il 31% dei reati perché sfiduciati da questa giustizia, in quanto al restante 69% dei reati denunciati consegue l’85,8% di archiviazione, il 9,93% di proscioglimenti e solo il 4,27% di condanne. Restano escluse dal conteggio le denunce presentate, ma mai registrate. Le richieste cautelari personali accolte sono il 54,67%.

Nonostante ciò - afferma l’associazione - vi è una popolazione detenuta pari al 61,2% in attesa di giudizio, quindi presunta innocente, e pari all’81,7% in stato di indigenza. Sebbene solo 3 reati su 100 siano perseguiti, si rilevano 4 milioni di errori giudiziari negli ultimi 50 anni. La magistratura nel 2007 ha perseguito disciplinarmente ben 1.442 suoi componenti. Dal 2003 ad oggi sono stati 40.031 i procedimenti per indennizzo di "equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo ai sensi della legge 89/01", senza contare gli indennizzi per "ingiusta detenzione" e per "errore giudiziario". L’associazione "Contro tutte le mafie" stima una spesa lorda per gli stipendi dei circa 9 mila magistrati italiani in oltre 1 miliardo di euro, circa il 30% superiore a quello che la Francia spende per i loro omologhi di Oltralpe.

Friuli: troppi detenuti e pochi agenti, le carceri sono insicure

di Irene Giurovich

 

Il Gazzettino, 12 febbraio 2008

 

A repentaglio la sicurezza. Causa sovraffollamento. Le carceri del Friuli Venezia Giulia stanno scoppiando e i poliziotti sono sempre di meno. Se dovessero verificarsi tensioni, liti, tentativi di sommosse, la cintura di sicurezza, resa quasi impossibile dai pochi organici, farebbe acqua da tutte le parti.

Sedare risse, essere consapevoli di una protezione che regge agli urti imprevisti fanno parte di un bagaglio storico: oggi incombono paure e disagi. "L’indulto è stato un’utopia: le carceri sono peggio di prima e si sono riempite di stranieri". L’allarme è elevato e a chiedere maggiore sicurezza, in primis per le guardie, è la Cisl che denuncia la crisi delle carceri del nostro territorio, attraverso il segretario regionale della Funzione pubblica, Enrico Acanfora: "Il rapporto numerico fra detenuti e poliziotti non garantisce la sicurezza: troppi carcerati, troppo poche le guardie; la nostra prima richiesta è quella di fare in modo che gli stranieri tornino nel paese d’origine a scontare la loro pena, dal momento che il sovraffollamento è causato dalla crescita esponenziale della quota immigrata dietro le sbarre".

Il 60% della popolazione carceraria in Friuli Venezia Giulia è straniera: in pratica si è rovesciata la situazione rispetto a dieci anni fa quando la percentuale si attestava attorno al 20%. Le guardie penitenziarie, sottoposte a turni massacranti e a uno stress lavorativo fuori da ogni limite - come si rileva dal rapporto carceri stilato dalla Cisl e reso noto a Udine - non bastano ad assicurare quel clima di serenità che si dovrebbe respirare anche dentro gli istituti carcerari: a Udine (dove il limite è di 105 persone) si contano 160 detenuti - dichiara Acanfora - su 134 poliziotti; a Gorizia 50 detenuti su 42 poliziotti; a Trieste 170 su 135 guardie; a Pordenone 64 ristretti su 46 poliziotti sulla carta, visto che, operativamente, lavorano solo 25 agenti.

A Tolmezzo, dove vige il regime di 41 bis (detenuti speciali, accusati di reati di mafia, violenze efferate e simili), c’è lo stesso numero fra detenuti e poliziotti (200 circa), un’assurdità, secondo il sindacato, vista la natura "speciale" dei ristretti. Su oltre 630 detenuti complessivamente negli istituti del Friuli Venezia Giulia, ci sono appena 400 poliziotti, come se non bastasse - altra accusa mossa dalla Cisl - gli uomini vengono spesso sottratti agli Istituti per rafforzare altre carceri fuori Regione, come Venezia, magari solo temporaneamente, ma con un grave vulnus alla sicurezza: "In questo modo non possiamo fare bene il nostro lavoro", tuona Acanfora, mentre squaderna un altro capitolo nero: le infrastrutture fatiscenti, tanto che la Cisl chiede la chiusura di Pordenone, dove sembra che ci siano buone possibilità di realizzare una nuova struttura a San Vito al Tagliamento, e del carcere di Gorizia su cui insiste un grave silenzio, a detta del sindacato. Che mette a nudo un’ennesima emergenza: il personale femminile in forza al carcere di Trieste. Qui si contano appena 20 poliziotte che non riescono, da sole, a gestire il carico di lavoro, al punto che la struttura è costretta a chiedere rinforzi alle sedi sparse nel Triveneto.

Firenze: 66% di detenuti stranieri e 38% di tossicodipendenti

 

Ansa, 12 febbraio 2008

 

Il 66% della popolazione detenuta a Sollicciano è costituita da stranieri, in maggioranza extracomunitari, i tossicodipendenti sono il 38%, dei quali il 23% in trattamento metadonico e il numero delle detenute donne è in media intorno alle 70-80 unità. Sono alcuni dei dati che fotografano la situazione del carcere fiorentino, contenuti nella relazione annuale che Franco Corleone, Garante per i diritti dei detenuti, presentata ieri in Consiglio comunale. Le presenze a Sollicciano si sono stabilizzate su circa 700 unità, cifra che si situa a metà tra il livello dei 1.000, prima dell’indulto, e i 500 immediatamente dopo la sua approvazione. Dalla relazione emerge che, dall’emanazione del provvedimento di indulto al 3 dicembre 2007, sono stati dimessi 582 detenuti, dei quali 400 con procedimento definitivo (157 italiani, 243 stranieri e 182 per revoca della custodia cautelare). Sono invece 137, quelli che hanno fatto rientro dal febbraio 2006 al dicembre 2007.

"Dopo un anno e mezzo dall’indulto - si legge nella relazione - constatiamo una recidiva del 22,12% degli indultati usciti dal carcere, rispetto a quella del 68,5% di chi sconta la pena fino all’ultimo giorno. La previsione dei corvi, che giuravano che in poco tempo tutti i detenuti usciti sarebbero rientrati, si è rivelata fallace".

 

All’Ipm nessuna formazione professionale

 

È critica la situazione dell’istituto "Meucci" a causa della carenza di fondi. Manca il personale docente, lezioni solo due volte a settimana. Il direttore Cerruto: "Non possiamo contare solo sull’aiuto dei volontari".

"La situazione è migliorata rispetto a un anno fa ed è più rosea rispetto ad altre realtà penitenziarie, ma resta pur sempre critica. All’interno del carcere minorile fiorentino manca infatti la formazione professionale per i giovani detenuti e l’insegnamento scolastico risente di gravi carenze di personale". Con queste parole Fiorenzo Cerruto, direttore dell’istituto penale per minorenni "Meucci" di Firenze, fotografa la realtà del "suo" carcere, che fa da punto di riferimento per l’Umbria e la Toscana. "Un anno fa avevamo debiti con i fornitori, arrivarono a mancarci perfino le penne negli uffici - spiega - .

Oggi stiamo uscendo da questa situazione, anche se comunque il quadro generale resta in linea con quello del resto d’Italia e deve fare i conti con una grande carenza di fondi". La struttura fiorentina è in grado di ospitare 28 minori: attualmente ce ne sono 20, per la maggior parte stranieri, dell’età media di 18 anni "Anche se questo non è un periodo di sovraffollamento, il trend dei ragazzi che arrivano in carcere è in aumento progressivo - spiega cerreto - in linea con la tendenza nazionale degli ultimi anni".

La lacuna più grande all’interno dell’istituto, secondo il direttore, è la formazione professionale: "Questo aspetto è stato totalmente dimenticato dalla Provincia - denuncia Cerreto - che invece avrebbe il dovere istituzionale di occuparsene. Da anni non vengono organizzati corsi rivolti ai ragazzi, e le uniche attività sono quelle portate avanti dai volontari che prestano la loro opera da noi.

Fortunatamente abbiamo un terzo settore molto attivo, ma non si può chiedere ai volontari di sopperire completamente a questa grave carenza". Insieme a questa, Cerruto segnala un’altra grave mancanza: "Abbiamo due livelli di istruzione interni all’istituto. Uno elementare, che funziona, e uno di scuola media, che invece risente di grandi problemi. Una scuola normale è aperta almeno 5 giorni a settimana, la nostra solo due giorni su sette".

Il motivo, spiega Cerruto, è la mancanza di insegnanti titolari di cattedre: "Come nel resto della pubblica istruzione, manca il personale, e dunque il provveditorato deve ricorrere a collaborazioni saltuarie, contratti a progetto e a volte finisce che noi rimaniamo scoperti, senza insegnanti. Eppure, se si considera l’età di tanti di questi ragazzi, siamo ancora nella fascia dell’obbligo scolastico, che a maggior ragione andrebbe garantito".

Fortunatamente, aggiunge ancora Cerruto: "L’insegnamento elementare, diviso in due cicli, funziona e offre anche buone basi di alfabetizzazione per i detenuti stranieri". Oggi nella struttura sono all’opera una decina di associazioni di volontari, Auser e Croce Rossa in testa. Tra le attività organizzate, un laboratorio di legatoria, uno di riparazione delle biciclette, e una bottega di pittura.

Cagliari: un ergastolano incendia la cella, intossicati 4 agenti

 

Comunicato Sappe, 12 febbraio 2008

 

"Il grave episodio accaduto al carcere Buoncammino di Cagliari, dove un detenuto ergastolano si è barricato in cella, incendiandola e provocando l’intossicazione di 4 agenti di Polizia penitenziaria immediatamente accorsi per spegnere le fiamme e scongiurare pericoli ben più gravi, dimostra ancora una volta la difficoltà lavorativa con cui quotidianamente si confrontano le donne e gli uomini del Corpo di Polizia penitenziaria.

Vogliamo esprimere agli Agenti intossicati i nostri più calorosi auguri di pronta guarigione, auspicando che per il loro lodevole intervento che ha impedito appunto che conseguenze molto più gravi la Commissione per le Ricompense dell’Amministrazione penitenziaria riconosca loro un adeguato riconoscimento"

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, la prima organizzazione più rappresentativa della Categoria, in merito a quanto accaduto nel carcere cagliaritano di Buonacammino.

Il detenuto, un ergastolano di 55 anni in preda ad una crisi di disperazione, ha appiccato il fuoco nella sua cella accumulando materasso, coperte e lenzuola al centro della cella ed ha appiccato il fuoco con un accendino. Immediatamente è scattato l’allarme è sul posto sono intervenuti quattro agenti di polizia penitenziaria. Il detenuto, per sfuggire alle fiamme e soprattutto al denso fumo, si è barricato nel bagno dove ha aperto la finestra.

Nel frattempo i colleghi sono riusciti a spegnere l’incendio ma sono rimaste tutte intossicate. Se il carcere è, in qualche misura, la frontiera ultima, la più esposta del sistema-giustizia, all’interno del sistema carcerario il personale di Polizia penitenziaria costituisce la barriera estrema. Nonostante la cronica carenza di organico e le mille difficoltà operative - strutturali, tra i detenuti, con compiti di sorveglianza e trattamento, 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, c’è il personale di Polizia penitenziaria.

Il carcere, oggi, si configura quasi come una discarica sociale, un grande magazzino dove la società, senza eccessive remore, continua a riversare tossicodipendenti, malati di Aids, extracomunitari, malati di mente, pedofili, mafiosi e camorristi, prostitute, travestiti e transessuali, tutto ciò che non si vuole vedere sotto casa e nelle strade. In mezzo a loro, spesso isolato se non dimenticato, il più delle volte anche giovane, l’agente di Polizia penitenziaria, che deve rappresentare la dignità e la legalità dello Stato, la Legge.

Rispettiamo ovviamente tutte le figure professionali che operano all’interno del carcere, ma sottolineiamo altresì l’importanza del Personale di Polizia penitenziaria, perché è questo Personale che garantisce tutta una serie di attività realizzate nei momenti in cui non vi sono altri operatori penitenziari. Penso alla sera, quando può verificarsi un tentativo di suicidio (come si è verificato e si verifica, purtroppo, abbastanza frequentemente) o quando il detenuto riceve un mortificante telegramma dalla famiglia che incrina la sua serenità.

In tali momenti, insieme a quel detenuto, non vi sono gli educatori o gli assistenti sociali, ma gli agenti di Polizia penitenziaria, pur risultando sotto organico rispetto al sovraffollamento di detenuti nelle carceri del Paese. Ed è per questo che sono frequenti i nostri appelli a Governo e Parlamento perché si occupino di carcere e di chi in esso lavora in prima linea: perché sarebbe gravissimo abbandonare al proprio destino il Personale di Polizia penitenziaria.

Venezia: chiude ex Sat, detenuti vanno a Padova e Treviso

 

Il Gazzettino, 12 febbraio 2008

 

Chiude la Casa Circondariale di Venezia Giudecca ex Sat perché mancano i fondi per mettere a norma le cucine e perché sono pochi i detenuti ospitati. Notizia che le segreterie territoriali di Fp Cisl, Rdb-cub, Unsa Sag Veneto, Coordinamento Regionale penitenziario Cgil Veneto, Uspp Triveneto e Rsu degli Istituti penitenziari ritengono inverosimile e che hanno voluto rendere nota a cittadinanza, enti locali, uffici pubblici, associazioni di volontariato, cooperative sociali e ai volontari operanti nell’ambito della realtà penitenziaria veneziana.

"L’Istituto a custodia attenuata Sat Giudecca nasce nel 1992 e prevede al suo interno un percorso di recupero individualizzato per detenuti semiliberi e soggetti tossico e alcool dipendenti con una partecipazione costante e proficua del Ser.T. di Venezia, finalizzato alla costruzione di un progetto di reinclusione sociale dei soggetti; trattamento più efficace in un circuito differenziato che risponda maggiormente ad esigenze di prevenzione della recidiva e di attenzione alla sicurezza sociale spiega Mario Piranio di Fp Cisl.

La chiusura dell’istituto, anche se temporanea, non solo rappresenta il fallimento degli organi di gestione dell’Amministrazione Penitenziaria, in considerazione anche della collaborazione ricevuta dagli enti locali e del privato sociale di Venezia, ma anche una perdita per la città, per la cittadinanza, per la sicurezza della comunità esterna, che si troverà senza un circuito penitenziario che offra un adeguato quanto decantato reinserimento sociale". Annunciato inaspettatamente e senza alcuna informazione preventiva (a detta dei Sindacati) dalla direzione degli istituti penitenziari di Venezia e dal provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Padova il 25 gennaio scorso, il provvedimento di chiusura è stato motivato con la mancanza di risorse finanziarie per eseguire i lavori di rimessa a norma delle cucine, dichiarate non idonee dal Magistrato alle Acque a luglio scorso, oltre che per l’esiguità dei detenuti ristretti in istituto e della scarsa valenza delle attività trattamentali che vi si svolgono. Motivazioni non condivise dai Sindacati che ritengono eventuali trasferimenti dei detenuti negli Istituti di Padova o Treviso disagevoli per le attività svolte dai detenuti e organizzate dalle cooperative sociali operative per lo più a Venezia centro storico e isole.

Napoli: la prima domenica di quaresima dedicata ai detenuti

di Elio Scribani

 

Il Mattino, 12 febbraio 2008

 

Chiesa gremita, liturgia solenne, uomini in catene. È il giorno dei detenuti, la solidarietà, il contatto con le famiglie, perfino il profumo della libertà. Solo un’ora, solo un minuto, solo un attimo. Liberi dentro, almeno. Le carezze delle mamme, i baci dei bambini, le lacrime delle donne. Undici detenuti del carcere di Poggioreale seggono nei primi banchi della chiesa dell’Annunziata in mezzo a due file di agenti penitenziari in borghese.

È la prima domenica di Quaresima, e resterà dedicata ai carcerati anche negli anni futuri. Parola del cardinale Crescenzio Sepe. Undici uomini. Massimo ha 30 anni, è in carcere per rapina, uscirà solo nel 2010. Si commuove. Forse la messa, forse le parole del cardinale, forse la presenza dei bambini. I papà detenuti se li tengono in braccio tutto il tempo, baci e carezze, il cuore che trabocca di gioia.

L’anima a nudo. Andrea, 56 anni, è dentro per ricettazione. Uscirà tra due mesi. Con lui sulla panca, due nipotini. "Il cardinale ha fatto una cosa buona - dice Andrea - anche noi abbiamo un’anima". Ora, la messa. In chiesa c’è anche il direttore del carcere, Salvatore Acerra, con una folta rappresentanza di guardie penitenziarie guidate dal comandante. Il cardinale chiede un applauso anche per loro. Due detenuti leggono il vangelo. Uno è Aldo, che in galera c’è già stato dieci anni. Furto, droga e altri reati. Ora ha 46 anni, ma uscirà tra meno di un mese. "Torno a lavorare", promette. E, dicendolo, sorride al ragazzino che gli sta accanto. Suo figlio.

Anche Alessandra sale sull’altare dove è seduto il cardinale Sepe. Leggerà un passo della preghiera del carcerato scritta da Paolo VI. Alessandra, 40 anni, è un detenuto transessuale. Si prostituiva. È in galera per tentata estorsione, rissa e atti osceni. Roba di tanto tempo fa, un’altra vita. Affidata a un istituto, si è poi occupata di assistenza ai disabili. Tornerà a occuparsene fra tre mesi, una volta libera. Intanto, Alessandra sogna il sorriso di un bambino down. "È il più bel regalo", dice. Ora, l’omelia. I detenuti ascoltano, ma ascolta tutta la chiesa accorsa in processione a mostrare solidarietà ai reclusi.

Il cardinale parla la lingua del popolo. "È un’occasione di riflessione e di preghiera - dice Sepe - essere reclusi non significa essere esclusi, dobbiamo sentirli come fratelli e aiutarli a cambiare, perché il passato non continui a pesare sul presente e il presente non condizioni anche il futuro". Dritto al cuore, le sue parole. Qualcuno piange, ma prova a nascondere le lacrime. Le mamme, le mogli, i figli. Sembrano altri uomini, quelli che ora gli stanno accanto.

Durerà un’ora o per sempre? Sono attimi buoni per ricordare, raccontarsi, guardarsi dentro. Entra in chiesa una donna con un bambino piccolissimo in braccio. Cerca suo marito, un detenuto, dice nome e cognome. Lui non c’è, aveva fatto la domanda, ma non ha ottenuto il permesso. La donna piange, un’altra la consola, una suora le asciuga il viso. Pasquale, 33 anni, è in carcere da dieci. Dice che la messa è un’occasione per riscoprire Dio. La messa, intanto, è finita. Il cardinale offre i doni delle parrocchie e si ritira in sagrestia con gli altri sacerdoti. I detenuti lo raggiungono. Ciascuno un incontro, una storia, un abbraccio. E ciascuno una speranza da portare in cella.

Nuoro: delegazione sindacale visita carcere Badu ‘e Carros

 

Agi, 12 febbraio 2008

 

Il Segretario Generale della Uil sarda Francesca Ticca domani visiterà il carcere di Nuoro assieme al coordinatore regionale del Uil penitenziari, Roberto Picchedda. È la prima volta - si legge in una nota - che un segretario generale confederale regionale varca i cancelli di una struttura penitenziaria sarda per una visita ufficiale.

I responsabili della Uil intendono verificare le condizioni di vivibilità della struttura penitenziaria di Nuoro non solo per quanto concerne gli operatori appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria e al comparto ministeri, ma anche dei detenuti. Il sindacato controllerà il rispetto dei parametri di vivibilità, dei diritti fondamentali della persona e del diritto alla salute, soprattutto in prospettiva del passaggio della sanità penitenziaria alle Usl di riferimento. Per quanto concerne la struttura, la Uil vuole verificare la veridicità delle recenti polemiche sul carcere e sul suo decadimento.

Bologna: ergastolano invitato a un dibattito, "no" del sindaco

 

Corriere della Sera, 12 febbraio 2008

 

Invito a Vittorio Antonini Il sindaco: un serio errore. Polemica per un dibattito organizzato con lo scrittore Erri De Luca sugli "Invincibili".

Per il dibattito non c’è una data ma hanno già scelto il titolo: "Gli invincibili", cioè i combattenti che non si arrendono mai, i duri e puri sempre pronti a rialzarsi, come Don Chisciotte. Ne dovrebbero discutere al Teatro Ridotto di Bologna lo scrittore Erri De Luca e Vittorio Antonini, ex brigatista condannato a due ergastoli. Ma il sindaco Sergio Cofferati non ci sta, e rivolge un appello che sa tanto di monito a Renzo Filippetti, il direttore del teatro: "Spero che rifletta seriamente su quello che considero un errore".

Vittorio Antonini è in carcere a Rebibbia dal 1985, dove sta scontando due ergastoli. Partecipò al sequestro di James Lee Dozier, il generale americano rapito dalle Br nel dicembre dell’81 e liberato da una incursione dei Nocs nel gennaio dell’82. Antonini, che dal 2000 è in regime di semilibertà e oggi lavora in una biblioteca, non si è mai pentito.

L’annuncio dell’intervento dell’ex terrorista a Bologna risale a venerdì scorso. Data da destinarsi. Ma dallo staff del sindaco erano immediatamente arrivate delle critiche: la scelta di dare la parola a un ex brigatista in una città come Bologna era ritenuta assai poco opportuna. Soprattutto perché si sarebbe trattato di un’iniziativa a spese del Comune. Per l’assessore alla Cultura Angelo Guglielmi, invece, non ci sarebbe stato alcun problema. Filippetti, direttore del Ridotto, aveva messo le mani avanti, affermando che non avrebbe in nessun modo accettato alcuna ingerenza di Palazzo d’Accursio.

Ieri, infine, l’intervento di Cofferati. Che non ha usato giri di parole: "L’eventuale conferma dell’invito ad Antonini provocherebbe un danno al suo lavoro - ha detto riferendosi a Filippetti -, un lavoro verso il quale potrebbero venire meno parte delle simpatie per una scelta che considero un errore".

Messina: la Provincia avvia corsi di formazione per detenuti

 

www.tempostretto.it, 12 febbraio 2008

 

Un progetto che mira al reinserimento dei detenuti nella società, quello voluto dalla provincia regionale di Messina e presentato questa mattina nel corso di una conferenza stampa presso la sala Giunta di palazzo dei leoni, dall’Assessore all’agricoltura Orazio Miloro e dall’Assessore alla pesca Rosario Sidoti.

L’iniziativa che avrà inizio già dal prossimo mese, così come affermato dalla vice direttore dell’area trattamentale della Casa Circondariale di Messina Romina Taiani, si articolerà nella realizzazione di due percorsi teorici-pratici che consentiranno la valorizzazione degli antichi mestieri in ambito marittimo ed agricolo. Nel primo caso, ai detenuti verranno forniti gli elementi base par la costruzione di strumenti da pesca.

Fondamentale in questo senso sarà l’apporto fornito da esperti del mare quali Peppe Arena e Marco e Pietro Mancuso, in collaborazione con l’Associazione pescatori dello stretto di Messina. I prodotti, direttamente realizzati dai detenuti, verranno esposti e venduti nei locali della Lega navale italiana e il ricavato verrà impiegato per l’acquisto di ulteriori strumenti da mettere a disposizione dei carcerati.

Il secondo corso avrà una durata minore, 30 ore anziché 56, sarà organizzato in collaborazione con l’Associazione Zoe e cercherà di istruire le detenute su elementi di botanica e giardinaggio oltre alla realizzazione di uno spazio verde all’interno del penitenziario.

"Si tratta di un’iniziativa dall’alto valore morale, - ha affermato la dott.ssa Taiani - perché nel carcere è necessario coltivare la speranza di queste persone, i cui reali problemi cominciano proprio nel momento del loro reinserimento in società". Come sottolineato anche dall’Ass. Miloro, spesso infatti i detenuti che hanno finito di scontare la loro pena carceraria, non sono preparati a doverne scontare una ben più gravosa, quella con la società civile. "Ulteriori iniziative - ha poi aggiunto l’Ass. Sidoti - si stanno organizzando nel settore agricolo, un ambito decisamente in via di sviluppo, dove sarà possibile orientare le attitudini di queste persone."

"La collaborazione con la Provincia di Messina - ha infine dichiarato la dott.ssa Carbone, dirigente del dipartimento di esecuzione penale esterna - dura ormai da ben tre anni. L’istituzione ha mostrato una grande sensibilità in merito al problema e non soltanto rispetto alla situazione dei carcerati, ma anche a quella di coloro che stanno scontando pene alternative alla galera. Lo strumento fino a questo momento utilizzato per preparare queste persone al ritorno ad una vita normale è quello del tirocinio formativo, in modo da garantire loro non solo un’esperienza teorica, ma mettendoli praticamente a confronto con la realtà lavorativa.". La partecipazione al progetto avverrà sulla base di un’adesione spontanea da parte degli stessi detenuti.

Roma: detenuto 72enne ai "domiciliari", grazie al Garante

 

Comunicato stampa, 12 febbraio 2008

 

Nonostante l’età avanzata (72 anni) e le condizioni di salute tutt’altro che compatibili con il regime carcerario, era stato arrestato lo scorso mese di ottobre per scontare una pena fino al 2012 per cumulo di reati contro il patrimonio. Protagonista della vicenda Romano Z., originario di Roma che ora, grazie all’intervento del Garante dei diritti dei Detenuti Angiolo Marroni, sconterà la sua pena in un casa di accoglienza della Regione.

Dopo il suo arresto l’uomo era stato trasferito nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso e qui subito ricoverato in Infermeria a causa delle sue pessime condizioni di salute (enfisema polmonare, problemi di deambulazione, cardiopatia, diabete).

La necessità di provvedere ad una pena alternativa al carcere è subito apparsa evidente ai collaboratori del Garante che hanno proposto intervento del Centro Domiciliare della Asl competente per territorio. Dal canto proprio, il direttore del carcere ha autorizzato l’ingresso nell’istituto di pena della commissione medico- legale che ha effettuato la visita necessaria ad accertare lo stato di salute di Romano.

Dopo vari passaggi burocratici e l’intervento dell’assessorato regionale alla Sanità l’uomo - nel frattempo ricoverato nella struttura protetta del "Sandro Pertini" per il peggiorare delle sue condizioni fisiche - è stato inserito nelle liste di attesa per l’accesso nelle case di accoglienza e, infine, accolto in una Rsa di Cineto Romano.

"Il felice epilogo della vicenda di Romano testimonia che quando le istituzioni decidono di collaborare insieme ogni risultato è possibile - ha detto il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni -. L’altro lato della medaglia è che, per un caso che finisce felicemente, ce ne sono decine di altri in attesa di soluzione. Il sistema ha assoluto bisogno di essere ripensato: non è più concepibile che detenuti comuni in età così avanzata siano chiamati a scontare in carcere il loro conto con la giustizia".

Immigrazione: negare l’istruzione è un atto discriminatorio

 

Redattore Sociale, 12 febbraio 2008

 

Una donna marocchina aveva denunciato per discriminazione il Comune dopo il divieto di iscrizione alle scuole materne dei figli di immigrati irregolari. Il Tribunale ha deciso che la figlia dovrà essere inserita nelle liste.

Prima vittoria per la donna marocchina, senza permesso di soggiorno, che ha denunciato per discriminazione il Comune di Milano per la circolare che vieta l’iscrizione alle scuole materne dei figli di immigrati irregolari. Il Tribunale civile di Milano ha deciso che la figlia della donna dovrà essere inserita nelle liste di iscrizione alle scuole materne. Ne dà notizia il legale della donna, l’avvocato Livio Neri, che, alle ore 13, terrà una conferenza stampa per illustrare la sentenza, di 20 pagine, del Tribunale di Milano.

La causa civile intentata dalla donna, che è rimasta senza permesso di soggiorno perché con la seconda gravidanza ha perso il lavoro e non è più riuscita a mettersi in regola, si basa sull’art. 44 del Testo unico sull’immigrazione ("Azione civile contro la discriminazione") e sul presupposto giuridico che la condizione dei genitori non può precludere i diritti dei figli.

 

Tribunale: quella circolare è discriminatoria

 

L’ordinanza dà ragione alla marocchina che aveva denunciato il Comune perché le impediva di iscrivere la figlia a scuola. L’avvocato: "Non si può fare distinzione fra bambini in base della condizione giuridica dei genitori".

La circolare del Comune di Milano, che vieta ai figli di immigrati irregolari l’iscrizione alle scuole materne, è "discriminatoria". È quanto ha stabilito il giudice Claudio Marangoni, del Tribunale civile di Milano, nell’ordinanza che dà ragione alla donna marocchina, priva del permesso di soggiorno, che aveva denunciato il Comune perché le impediva di iscrivere la figlia più piccola alla scuola materna. Il giudice, inoltre, ordina al Comune di inserire il nome della piccola nella graduatoria di iscrizione alle scuole materne e di rimuovere gli effetti discriminanti della circolare. "Ci auguriamo che il Comune ora cambi queste norme - afferma l’avvocato Alberto Guariso, legale, insieme all’avvocato Livio Neri, della donna-.

Non avrebbe senso che accettasse l’iscrizione della figlia della nostra assistita e non di altri che sono nelle stesse condizioni". Lo studio legale Guariso-Neri ha già altri quattro nomi di stranieri (segnalati da alcune associazioni di volontariato), che potrebbero fare causa al Comune, se non verranno cambiati i requisiti per accedere alle scuole materne.

Il Tribunale ha emanato l’ordinanza con urgenza, come chiesto dagli avvocati della donna, per permettere l’iscrizione della bambina prima della scadenza fissata dal Comune per tutte le scuole materne. La causa verrà poi discussa più ampiamente il 15 maggio. "Pensiamo che il giudice confermerà la decisione presa, viste la ampie motivazioni presenti nell’ordinanza", spiega Alberto Guariso.

Per il giudice Claudio Marangoni ogni bambino, straniero o no, ha diritto all’istruzione, anche alla scuola materna. Gli avvocati del Comune avevano infatti sostenuto che il diritto esiste solo per la scuola dell’obbligo. "La scuola dell’infanzia, pur non obbligatoria e non indirizzata direttamente all’istruzione del minore in senso stretto, - scrive il giudice - è comunque pienamente inserita nell’ambito del più complessivo sistema scolastico nazionale". Il giudice sostiene questa tesi citando il decreto legislativo 59 del 2004, firmato dalla stessa Letizia Moratti, allora ministro dell’Istruzione e oggi sindaco di Milano.

Sui figli degli immigrati irregolari non devono ricadere le colpe dei genitori. Per il giudice milanese "la posizione del minore nell’ambito della regolamentazione del soggiorno dello straniero sul territorio dello stato appare del tutto peculiare ed autonoma rispetto a quella dei suoi familiari, presenti o meno anch’essi sul territorio dello Stato". I minori non possono essere espulsi e non possono essere considerati irregolari. "La legge Bossi Fini non ha cambiato questa tutela particolare dei minori - spiega l’avvocato Alberto Guariso -. Pertanto non si può fare distinzione fra bambini sulla base della condizione giuridica dei genitori".

 

De Corato: "Caso atipico, ma rispettiamo la sentenza"

 

"Il caso della donna marocchina è atipico e occorre prudenza prima di generalizzare le sue conseguenze. Rispettiamo l’ordinanza del Tribunale, ma abbiamo anche l’obbligo di rispettare una legge sull’immigrazione, la Bossi-Fini, che è tuttora in vigore. Ecco perché questa decisione deve essere contestualizzata nel quadro normativo vigente, altrimenti si rischia di strumentalizzare la questione". Lo dichiara il deputato di An e vice Sindaco di Milano, Riccardo De Corato, in merito alla decisione del Tribunale amministrativo di accogliere il ricorso di una donna marocchina contro la circolare del Comune di Milano sulle scuole materne.

Milano, spiega De Corato, "già oggi accoglie 350 figli di immigrati non in regola col permesso di soggiorno. Dunque chi accusa il Comune di Milano di discriminazione o di diritto all’istruzione negato straparla". Anche perché, aggiunge il vice sindaco, il Comune cerca "di tutelare sia le famiglie con bambini italiani sia i genitori di quei 4809 bambini stranieri che frequentano le scuole materne nel rispetto delle regole". Ora, conclude l’esponente di An, "leggeremo con attenzione le venti pagine del dispositivo del Tribunale. Ma siamo consapevoli che l’assessore Moioli finora ha agito con correttezza, applicando la legge".

Droghe: in affidamento anche per la dipendenza psicologica

 

Notiziario Aduc, 12 febbraio 2008

 

La sua dipendenza dalla cocaina è meramente psicologica, e non più fisica, come hanno accertato i medici del carcere di Pavia e quella dipendenza è sufficiente per ottenere la scarcerazione e darle accesso all’affidamento terapeutico. Protagonista della vicenda è una donna di 43 anni con una condanna per traffico di stupefacenti che sarebbe scaduta nel marzo dell’anno prossimo, e che ora è libera di lavorare di giorno in un ristorante dell’hinterland di Milano con il solo obbligo di tornare a dormire in una comunità e soprattutto di sottoporsi alle cure per disintossicarsi pienamente.

Lo ha stabilito il Tribunale di Sorveglianza di Milano, recependo una sentenza della Suprema Corte, davanti al quale il procuratore generale della Cassazione Enrico Delehaye ha sostenuto che è stata giustamente eccepita l’erronea limitazione dell’affidamento ai soli casi di dipendenza fisica dagli stupefacenti, escludendo la necessità di prevenire il pericolo di una ricaduta nell’uso della droga né in alcun modo valutare quelle forme di assuefazione psichica alle sostanza psicotrope, ancora più subdole e difficili da superare della semplice "crisi d’astinenza", in forma acuta solo per pochi giorni.

La questione era stata discussa davanti alla Cassazione in seguito al ricorso presentato dal legale della donna, l’avvocato Alessandra Silvestri, con cui si impugnava il precedente diniego dei giudici di sorveglianza. A ottobre la Cassazione ha accolto il ricorso, che è stato a quel punto recepito dai giudici milanesi il 17 gennaio scorso. "Considerato che trattasi di soggetto affetto da dipendenza psicologica da cocaina - scrivono i giudici della Sorveglianza - che ha in corso un programma comunitario di recupero", deve essere concesso alla detenuta l’affidamento in prova ai servizi sociali, con l’obbligo di cure.

Francia: il carcere a vita per i criminali "a rischio di recidiva"?

 

Il Giornale, 12 febbraio 2008

 

Il Parlamento francese ha approvato ieri un via definitiva la controversa legge sulla possibile reclusione a vita in cosiddetti "centri di sicurezza" dei criminali considerati a rischio di recidiva, anche dopo che questi abbiano scontato la pena. Previsti inizialmente solo per criminali pedofili, questi centri "socio-medico-giudiziari" accoglieranno tutti gli autori di "reati multipli" commessi con circostanze aggravanti, anche su maggiorenni.

Il provvedimento era stato promesso dal presidente Nicolas Sarkozy dopo diversi fatti di cronaca, fra i quali il caso Enis, dal nome del bambino rapito e violentato nell’agosto scorso da un pedofilo recidivo. Il piccolo era stato ritrovato a Roubaix dieci ore dopo il sequestro. Il bruto che aveva rapito e abusato del bimbo era stato più volte condannato per violenza su minori e, dopo breve detenzione, scarcerato. Fuori della prigione, tornava a colpire.

Il sequestratore e violentatore di Enis aveva lasciato il carcere solo un mese prima, in luglio, e si trovava in stato di libertà vigilata poiché, secondo i magistrati, c’era il rischio che si macchiasse nuovamente dello stesso reato. In considerazione di ciò, magistratura e medici avevano consigliato per il pedofilo, 61 anni, un trattamento ormonale. Ciononostante era di nuovo in circolazione.

Ieri, a votare a favore sono stati i deputati della maggioranza Ump e i centristi, mentre la sinistra ha votato contro giudicando la legge contraria alla Costituzione. In particolare, l’ex ministro della Giustizia, il socialista Robert Badinter, al quale si deve l’abolizione della pena di morte in Francia, parla di una "svolta pericolosa". Il primo di questi centri sarà probabilmente a Fresne, nella regione parigina.

Gibuti: missionario incarcerato, l'intervento di Napolitano

di Barbara Marino

 

www.korazym.org, 12 febbraio 2008

 

Dal 28 ottobre il missionario trentino è in carcere a Gibuti, sulla base di accuse palesemente infondate che variano da pedofilia a corruzione di minori, dietro una campagna diffamatoria che ha radici altrove. Indetto un giorno di digiuno a Trento.

L’arcivescovo di Trento, Luigi Bressan, ha consegnato ieri a Trento, al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, le 4.100 adesioni all’appello promosso dal settimanale di informazione diocesano Vita Trentina per la liberazione di don Sandro De Pretis, missionario trentino detenuto nel carcere di Gibuti dal 28 ottobre scorso, con l’accusa, prima pedofilia, poi detenzione di materiale pedopornografico, quindi depravazione, ma è convinzione dell’arcidiocesi di Trento, che si tratti di un pretesto per attaccare la Chiesa cattolica e per fare pressione sulla comunità internazionale.

Nel Teatro Sociale è stato conferito al presidente Napolitano - colto per alcuni minuti da un lieve malore - dall’Università degli Studi di Trento il titolo di professore onorario nel corso di una cerimonia solenne presieduta dal rettore Davide Bassi. La Laudatio è stata tenuta da Ferdinando Targetti, presidente del Comitato scientifico della Scuola di Studi Internazionali, seguita dalla Lectio magistralis di Napolitano. Nel pomeriggio ha partecipato alla presentazione del Centro Europeo di Studi sull’Impresa Cooperativa e Sociale

Il presidente Napolitano, informa una nota della curia arcivescovile di Trento, ha offerto la sua disponibilità a prendersi a cuore la vicenda del missionario trentino. L’arcivescovo, accompagnato dal direttore di Vita Trentina, dal fratello e dalle due sorelle di don Sandro, ha esposto al segretario generale e al consigliere del Quirinale, Carlo Guelfi e Alberto Ruffo, la situazione di don Sandro De Pretis. Nel colloquio sono state esaminate le accuse mosse al missionario ed è stata ricostruita la situazione esistenziale nella quale ora egli versa. I responsabili della segreteria particolare del presidente della Repubblica hanno inoltre acquisito un dossier di documentazione, contenente il riferimento a tutti i servizi giornalistici offerti da quotidiani e televisioni locali, nonché dai mezzi di informazione nazionali, tra cui anche korazym.org. Un giorno di digiuno per don Sandro. L’invito a manifestare la propria solidarietà venerdì 15 febbraio

Un giorno di digiuno, venerdì 15 febbraio. La Chiesa di Trento invita con questo gesto a manifestare la propria vicinanza alla vicenda di don Sandro De Pretis, in carcere a Gibuti ormai da più di cento giorni. Il digiuno è pratica abituale nel periodo quaresimale. Predispone infatti all’ascolto della parola di Dio. E vale la pena sottolineare che tutti gli avvenimenti che hanno segnato una svolta nella storia della salvezza sono preceduti da un digiuno. Gesù stesso passa 40 giorni nel deserto digiunando, prima di avviarsi alla sua missione salvifica. Riprendendo il genuino insegnamento biblico sul digiuno, si vuole così invitare alla preghiera per il nostro missionario che soffre ingiustamente. Alla drammatica vicenda che sta vivendo saranno improntate le riflessioni della celebrazione in programma proprio alle ore 18 di venerdì 15 nella chiesa di S. Francesco Saverio a Trento, animata dal Centro Missionario Diocesano.

Nello stesso giorno si chiuderà idealmente la raccolta di firme di solidarietà avviata sul sito di Vita Trentina alla metà di gennaio (e rilanciata in Home page di Korazym.org). Le adesioni giunte dopo quelle già consegnate al presidente della Repubblica in visita a Trento (il conto era a 4.150 firme fino alle ore 21.10 di ieri 11 febbraio, a 105 giorni dall’arresto) e quelle che ancora giungeranno fino al 15 febbraio (manca ancora la tua?) saranno consegnate al Ministero degli Esteri, quale segnale della volontà di non dimenticare il nostro concittadino e della necessità di compiere ogni passo possibile per sbloccare la sua difficile situazione.

 

Tra spiragli e chiusure

 

I rappresentanti di Romano Prodi hanno incontrato finalmente il presidente di Gibuti: "Impressione positiva ma per ora niente arresti domiciliari", informa Vita Trentina. A 100 giorni esatti dal suo arresto, qualcosa si muove a livello diplomatico per la liberazione di don Sandro. A metà gennaio l’interpellanza del parlamentare trentino Mauro Betta aveva spinto il presidente Prodi a parlare del "caso De Pretis" al presidente francese Sarkozy (nel corso di un incontro a Malta, qualche settimana fa) e aveva sollecitato ulteriormente gli sforzi diplomatici della Farnesina.

Più volte il nostro Ministero degli Esteri aveva chiesto un incontro diretto con il presidente Ismail Omar Guelleh, figura di spicco nell’intera vicenda, nel tentativo di sbloccare quell’intervento politico ritenuto da tutti necessario in questa situazione. "Spesso posticipato, l’incontro ha potuto tenersi il primo febbraio a Gibuti - riferisce Vita Trentina -: c’erano il rappresentante personale del presidente Prodi per l’Africa, Armando Sanguini e l’ambasciatore italiano ad Addis Abeba, Raffaele De Lutio, che hanno manifestato al presidente gibutino la loro preoccupazione per don De Pretis e anche la protesta dell’opinione pubblica italiana di fronte all’infondatezza delle accuse.

Hanno lasciato capire che l’Italia è intenzionata a proseguire i rapporti con Gibuti, ma "prima va risolto il caso di don Sandro". La richiesta al presidente Guelleh è di favorire subito la fuoriuscita dal paese africano del sacerdote trentino, accogliendo in questo senso anche la disponibilità offerta subito dopo l’arresto anche dal vescovo Giorgio Bertin. I diplomatici italiani, che si sono detti ottimisti dopo l’incontro, avevano prospettato anche la misura degli arresti domiciliari. Essa non è stata però concessa dal procuratore Djama Souleiman Ali, al suo rientro pochi giorni fa dall’Aja dove ha difeso il proprio Paese alla Corte Internazionale di Giustizia nel contenzioso contro la Francia in merito al cosiddetto "Affaire Borrell", la vicenda che ancora "pesa" sull’innocente sacerdote trentino.

 

Un’intera pagina anche su Famiglia Cristiana

 

"Don Sandro in carcere ingiustamente a Gibuti": titola così il lungo articolo che Famiglia Cristiana, il settimanale di ampia diffusione dei Paolini, ha dedicato alla vicenda di don Sandro De Pretis nel numero del 3 febbraio 2008. Il pezzo, accompagnato da due fotografie, firmato da Luciano Scalettari, ripercorre le tappe principali della vicenda di don Sandro ("accusato di pedofilia, è detenuto da ottobre"), riassunta dal direttore del settimanale di informazione diocesana Vita Trentina, don Ivan Maffeis e dalle parole del vescovo di Gibuti, mons. Giorgio Bertin: "Ho appurato che le accuse sono calunnie". Si sottolinea l’inconsistenza delle accuse di un caso che più che giudiziario appare politico e di cui "il sacerdote trentino rischia di essere vittima innocente". "Famiglia Cristiana" rilancia anche l’appello di Vita Trentina per la liberazione del sacerdote. Il testo integrale:

"So che moltissime persone non mi hanno dimenticato e pregano per me, che sono nella prigione di Gabote, a Gibuti. Pregando i salmi delle Lodi e dei Vespri comprendo meglio il grido verso Dio affinché difenda il debole dall’ingiustizia. Porto una croce molto pesante e posso solamente aver fiducia in Dio, perché non duri troppo a lungo".

È un passo della lettera di don Sandro De Pretis mandata a Vita Trentina, il settimanale diocesano di Trento, che nei giorni scorsi ha lanciato un forte appello (si può aderire sul sito www.vitatrentina.it) per la sua liberazione. Don Sandro dal 28 ottobre è in "detenzione preventiva in attesa di giudizio" a Gibuti. Le accuse? Variabili. Prima pedofilia, poi detenzione di materiale pedopornografico, quindi depravazione. Accuse che il vescovo di Gibuti, monsignor Giorgio Bertin definisce pure invenzioni: "Ho accertato che le voci di pedofilia sul suo conto sono semplicemente calunnie".

"Finora", dice il direttore di Vita Trentina, don Ivan Maffeis, "si è mantenuto il silenzio nella speranza di una rapida soluzione. Ma i mesi di carcere sono ormai quattro, con seri rischi per la salute di don Sandro. Il problema è che potrebbero prolungarsi ulteriormente, perché non si tratta di un caso giudiziario, ma politico, nelle mani del presidente della Repubblica, Ismail Omar Guelleh".

Un caso politico di cui il sacerdote trentino rischia di essere la vittima innocente. L’inconsistenza delle accuse è presto spiegata: "Le prove principali sarebbero delle foto trovate nel computer di don Sandro", aggiunge Maffeis. "Quello immagini ce le ha portate lui stesso: foto di bambini sulla spiaggia, e in una don Sandro ha un bambino nudo in braccio. Il missionario mostra che è malato: è ben visibile il bubbone che lo affligge".

L’oscura morte del magistrato

Tutto è cominciato quando la Francia ha riaperto il caso di presunto suicidio del giudice Bernard Borrel, nel 1995: il magistrato aveva in corso una delicata indagine su traffici d’armi e altri illeciti che stavano per coinvolgere Guelleh, ex capo della polizia segreta e poi presidente. La vedova Borrel ha sempre sostenuto che si trattasse di omicidio, forte di un’autopsia che riscontrava segni di aggressione. Le autorità gibutine non la presero mai in considerazione. Dall’ottobre scorso i magistrati francesi hanno riaperto l’inchiesta, anche perché c’è un nuovo testimone, un’ex guardia personale di Guelleh, che lo accusa di coinvolgimento nell’omicidio.

Che c’entra don Sandro? All’epoca era l’unico prete europeo a Gibuti, e il suicidio fu motivato come una crisi di coscienza di Borrel per aver "ceduto" alle proprio pulsioni nel giro di pedofilia che gravitava intorno alla cattedrale. E così, alla riapertura dell’inchiesta francese è partita una campagna stampa contro la Chiesa cattolica. Di lì a poco, i provvedimenti contro don Sandro.

 

 

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