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Palermo: detenuto 36enne suicida, era accusato da pentito
Apcom, 11 febbraio 2008
Si è suicidato in carcere impiccandosi con un lenzuolo l’imprenditore palermitano Giovanni Cataldo di 36 anni, che era stato arrestato il 25 gennaio dello scorso anno per associazione mafiosa nell’ambito dell’operazione "Occidente". L’uomo era detenuto nel carcere Pagliarelli. Proprio venerdì era iniziato al processo con il rito abbreviato nei suoi confronti e la procura di Palermo aveva depositato dichiarazioni del pentito Gaspare Pulizzi con accuse nei suoi confronti. Cataldo, classe 1972, era in regime di carcerazione preventiva a seguito dell’ordinanza di custodia cautelare del 24 gennaio 2007, con la quale sono stati emessi i provvedimenti di arresto per 50 presunti mafiosi e favoreggiatori. Tra questi il latitante Salvatore Lo Piccolo (arrestato in seguito lo scorso 5 novembre) considerato il successore di Bernardo Provenzano. L’accusa per l’imprenditore edile Giovanni Cataldo, riportata nell’ordinanza di cui sopra era la seguente: "Alla luce di quanto sopra esposto, è possibile individuare in Giovanni Cataldo uno degli imprenditori le cui imprese edili erano nella piena ed assoluta disponibilità dei Pipitone e di Cosa Nostra di Carini. Una persona dotata di un alto profilo criminale, e di rilevanti collegamenti con tutte le figure apicali della famiglia mafiosa di Carini". Giustizia: la Sezione Eiv di Benevento, un carcere senza cielo di Checchino Antonini
Liberazione, 11 febbraio 2008
Da quando è arrivato a Benevento Khaled Hussein non ha più visto il cielo. Né lui, né i suoi colleghi di pena nell’Eiv della città sannita. "Eiv" sta per Elevato Indice di Vigilanza, "un po’ meno duro del 41 bis, un po’ peggio del regime di alta sicurezza. Un carcere nel carcere per il quale non esiste alcun istituto di reclamo. A differenza del 41-bis, stabilito da una legge, l’Eiv è solo un’invenzione amministrativa", spiega Francesco Caruso, deputato eletto nel Prc dopo la visita di ieri al detenuto palestinese di 78 anni che sconta l’ergastolo per le vicende del dirottamento dell’Achille Lauro. Il 7 ottobre 85 un commando del Fronte di liberazione della Palestina (Flp) di Abu Abbas, mescolatosi tra i passeggeri, bloccò la nave da crociera italiana appena salpata da Alessandria d’Egitto. I quattro presero in ostaggio 450 passeggeri e l’equipaggio chiedendo in cambio la liberazione di 52 palestinesi detenuti in Israele. La trattativa ebbe una immediata svolta drammatica: l’8 ottobre, a bordo della nave, fu ucciso a sangue freddo un cittadino americano disabile, Leon Klinghoffer. La resa avvenne il 9: il commando lasciò la nave a bordo di una motovedetta egiziana e il giorno dopo la "Achille Lauro" attraccò a Porto Said. L’11 ottobre un aereo egiziano che stava portando il commando di sequestratori e Abu Abbas in Tunisia fu dirottato da quattro aerei americani e fatto dirigere verso la base Usa di Sigonella, in Sicilia. Reagan telefonò a Craxi per chiedere l’autorizzazione per l’aereo egiziano di atterrare a Sigonella, autorizzazione che venne accordata ma Craxi però rifiutò di consegnare agli Usa i sequestratori e i militari italiani della base di Sigonella si opposero alle truppe speciali statunitensi. Le autorità italiane presero in consegna i dirottatori, mentre l’aereo egiziano con a bordo Abu Abbas si trasferì a Ciampino e successivamente a Fiumicino. I quattro dirottatori furono accusati di omicidio volontario, sequestro e detenzione di ostaggi e trasferiti nel carcere di Siracusa il 12 ottobre. Ma Abu Abbas, considerato dall’Italia un semplice testimone, fu lasciato partire da Fiumicino con un aereo jugoslavo alla volta di Belgrado. In seguito Abu Abbas fu riconosciuto colpevole come mandante del sequestro e condannato all’ergastolo dal Tribunale di Genova. Sarebbe stato rapito dai marines a Bagdad nel 2003 e torturato in carcere. Morirà dopo due mesi. Hussein fu arrestato ad Atene nel ‘93 ed estradato in Italia tre anni dopo con l’accusa, da lui rigettata, di essere il pianificatore del dirottamento che, a suo dire, non era previsto ma fu un incidente. Ora ha 78 anni ma, dice ancora Caruso a Liberazione , "ne dimostra molti di più". Sta scrivendo un libro e le gambe non lo sostengono nemmeno per l’ora d’aria, il colloquio con Caruso è stato rimandato per motivi di salute. Tuttavia ha fatto in tempo a chiedere al deputato di spiegare la situazione paradossale in cui si trova. L’Eiv di Benevento, nell’edificio dove, prima dell’indulto trovavano posto i collaboratori di giustizia, è stato destinato a contenere i terroristi islamici. Ce ne sono 3 detenuti per l’inchiesta sulla moschea milanese di Via Jenner, due presi in un’inchiesta napoletana, in tutto sono nove. "La mia è un’altra storia. Spiegatelo alla direzione", s’è sentito domandare Caruso. Ma la direttrice del penitenziario, dopo aver ascoltato dal deputato un excursus sulla sinistra palestinese, avrebbe solo ribattuto: "Sì, ma è musulmano". Così, da Parma, è stato trasferito in questo carcere senza cielo, una mini Guantanamo senza tute arancioni e, si spera, senza torture: le finestre, nonostante affaccino su un cortile, sono oscurate, oltre le sbarre, da una barriera di plexiglass, "lo stesso materiale dei nostri scudi di Genova", annota Caruso. "E un altro povero cristo ha la broncopolmonite ma colleghi e guardie gli fumano vicino, impossibile guarire se non si può aprire la finestra per cambiare l’aria. Quali sono i motivi di sicurezza che impediscono a un detenuto di vedere le stelle?", si chiede Caruso intenzionato a sfruttare fino all’ultimo minuto di carica (decadrà quando sarà convocata la nuova camera dei deputati) per ispezionare il circuito penitenziario. Le barriere di plexiglass, Caruso, le ha trovate anche a Catanzaro. Anche lì la medesima risposta: "Disposizioni ministeriali". Giustizia: Forum salute detenuti; servono i decreti attuativi
Comunicato stampa, 11 febbraio 2008
La Presidente del Forum Nazionale per il diritto alla salute dei detenuti e delle detenute e l’applicazione del D.lgs 230/99, On. Leda Colombini rivolge un sentito augurio di buon lavoro al nuovo Ministro della Giustizia Luigi Scotti. "Sono certa - dichiara la Presidente - che il Ministro Scotti pur nei pochi mesi a disposizione, e in regime di ordinaria amministrazione, porterà avanti l’attività già avviata dai due Ministeri congiuntamente (Giustizia e Salute) per l’attuazione del D.Lgs 230/1999 sulla riforma della medicina penitenziaria". Con l’approvazione del commi 283 e 284 dell’articolo 2 della legge finanziaria 2008 il Parlamento ha trasferito, infatti, al Servizio Sanitario Nazionale le risorse finanziarie relative all’assistenza sanitaria ai detenuti, alle detenute e agli internati ed ha disciplinato la fase transitoria nell’attesa del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che dovrà essere fatto entro il 31 marzo p.v. e dovrà individuare il personale, i servizi e i beni materiali che passeranno alle Asl competenti per territorio. Il Forum, a tal riguardo, evidenzia come, a questo punto, sia indispensabile che la Commissione Interministeriale Giustizia-Salute termini formalmente i suoi lavori e offra, il prima possibile, la bozza di atto di indirizzo alla Conferenza delle Regioni per i successivi atti di competenza e al Presidente del Consiglio la bozza del Decreto. È convinzione diffusa che la riforma ha bisogno, in primo luogo, d’essere conosciuta e valorizzata all’interno del sistema penitenziario e nella comunità nazionale, così come essa deve essere accompagnata da un permanente e coerente spirito di solidarietà e di leale collaborazione tra Istituzioni diverse, a livello nazionale, regionale e locale e della partecipazione attiva e consapevole degli operatori, delle Organizzazioni sindacali e delle Associazioni di cittadini. A tal fine, la Regione Toscana e il Forum nazionale per il diritto alla salute dei detenuti promuovono, nella prima decade di marzo, un Convegno Nazionale, in Firenze, nella sede di Palazzo Vecchio, dal titolo " La salute dei detenuti e degli internati nel Servizio sanitario nazionale". Giustizia: braccialetto elettronico, al via la sperimentazione
Il Giornale, 11 febbraio 2008
Braccialetto elettronico, si ricomincia. Ma stavolta tutto è ripartito in silenzio. Memori forse dello sfortunato esordio del 2001 - quando il peruviano Augusto Cesar Tena Albirena, scelto per sperimentare l’attrezzo nella sua casa di via Sismondi, ci mise due giorni a sparire nel nulla - stavolta i responsabili dell’Operazione Braccialetto hanno deciso di evitare la grancassa mediatica. Una ripartenza in sordina per una novità che nel resto d’Europa da anni non è più una novità, il congegno elettronico destinato (in teoria) a coniugare svuotamento delle carceri e sicurezza delle strade. Da una settimana un signore milanese di quarant’anni, arrestato e condannato per direttissima a sei mesi per rapina impropria, sta scontando la pena a casa sua. A controllare che non esca di casa, il cinturino di plastica grigia che un tecnico gli ha fissato alla caviglia, collegato da un microchip alla linea telefonica speciale installata nell’appartamento. A ordinare l’applicazione dell’attrezzo è stato il giudice Angelo Mambriani, della terza sezione penale. Il carcere, per la lievità del reato e per la vita precedente dell’uomo, sarebbe stato eccessivo. Ma gli arresti domiciliari classici sarebbero stati impossibili da tenere sotto controllo. Così il giudice ha chiamato i tecnici che in questi anni hanno continuato a lavorare al progetto e ha chiesto aggiornamenti: "Siete pronti a partire?". Hanno risposto di sì. E Mambriani ha deciso la pena: sei mesi, a casa, guardato a vista dal braccialetto. Che ovviamente non impedirà all’uomo, se lo vorrà, di evadere: ma avviserà in diretta il 113. Nel giro di pochi giorni, al primo braccialetto se ne dovrebbe aggiungere un secondo: il candidato è un italiano condannato (stavolta per furto) dal medesimo giudice Mambriani. Ad affossare l’esperimento, sette anni fa, erano state (nell’ordine) l’impreparazione tecnica, le aspettative eccessive e le scelte sbagliate dei destinatari: ai domiciliari col braccialetto era andato persino un boss pluriomicida, che ovviamente era subito tornato "in bandiera", ovvero alla macchia. Ma negli ultimi tempi, su spinta di una parte della magistratura, del Dap (la direzione delle carceri), e del sindacato della polizia penitenziaria, si è tornati a lavorare ad allestire la struttura tecnica. Non è stato un lavoro semplice. In ognuna delle 103 province italiane sono state costituite tre centrali in grado di ricevere l’allarme: una ciascuna per carabinieri, polizia e guardia di finanza (anche se da tempo la polizia penitenziaria chiede di prendere in gestione l’intera rete di controllo sui detenuti elettronici). Queste 309 centraline sono collegate 24 ore su 24 alla centrale unica nazionale di Roma, una struttura di Telecom Italia che tiene sotto controllo in diretta i braccialetti e che viene allertata appena un braccialetto esce dal raggio d’azione della linea telefonica piazzata in casa del "detenuto". E da Telecom l’allarme viene girato alla forza di polizia territoriale incaricata di tenere d’occhio il soggetto in questione. A governare il tutto è una tecnologia sperimentata da anni e con successo in Inghilterra, dove i braccialetti controllano 13mila persone: non solo detenuti, ma anche hooligan colpiti dal divieto di recarsi allo stadio. Ora, anche da noi tutto è pronto a ripartire: sperando che il signore destinatario del braccialetto numero uno non decida di scappare anche lui, dando di nuovo il via al valzer inevitabile delle polemiche. Il braccialetto elettronico (sperimentato per la prima volta in Italia nel 2001 e abbandonato dopo sei mesi di prova) è un blocco unico di plastica grigia contenente un trasmettitore radio. Viene bloccato alla caviglia del condannato e non può venire tagliato. La sua batteria ha autonomia di un anno ma l’attrezzo viene prudenzialmente sostituito ogni sei mesi, anche per motivi igienici. Il trasmettitore manda un segnale ad una centrale installata nell’appartamento e collegata a una linea telefonica. Se il braccialetto si allontana di oltre 50 metri scatta l’allarme. In caso di appartamenti più piccoli la distanza può venire ridotta. A curare l’installazione sui detenuti sono tre società (due italiane e una israeliana) mentre la rete d’allarme è di Telecom Italia. Per saperne di più: http://only4justice.net. Giustizia: caso Aldrovandi; la verità su quella fine assurda di Matteo Collusa
Corriere della Sera, 11 febbraio 2008
Non sappiamo cosa possa aggiungere a quanto si sa già sulla morte di Federico Aldrovandi questo video (a quanto pare scoccante, al punto che la madre di Federico ne ha dovuto interrompere la visione). Non lo sappiamo e forse, a pensarci bene, non è neanche indispensabile al fine di una completa ancorché impossibile ricostruzione della verità. Quella mattina, a Ferrara (era l’alba del 25 settembre 2005), il diciottenne Federico morì, ammanettato, mentre quattro poliziotti tentavano - questa la loro versione - di calmarlo, per evitargli gravi atti di autolesionismo. Non c’era nessun altro con Federico. Solo lui e quei poliziotti: prima due, poi altri due chiamati in rinforzo. Quattro agenti (uno dei quali donna) armati e alle prese con un ragazzo disarmato, in preda a una strana furia, forse accesa dallo stupefacente che, secondo i risultati dell’autopsia, egli aveva assunto durante quel sabato notte. Quattro poliziotti e un ragazzo che muore, i polsi costretti dietro la schiena dalle manette. No. Non si può accettare. Per questo dico di non sapere, oggi, cosa possa aggiungere il nuovo filmato all’orrore di questo caso assurdo. E se poi fosse vero, come apparirebbe da queste immagini finora inedite, che attorno al cadavere di Federico vi erano altri poliziotti oltre a quelli imputati (una piccola folla di agenti radunatisi prima che arrivasse un’ambulanza), la solitudine di questo povero ragazzo, da vivo e da morto, si mostrerebbe ancora più tragica e definitiva. Non sono un esperto di diritto penale, ma in certi casi le circostanze aggravanti penso siano più onerose del reato stesso. Ho già scritto, raccontando la morte di Federico Aldrovandi, che è giusto attendere come andrà a finire il processo. Di fronte a questo filmato, nuovo per noi allibiti spettatori esterni, non posso che ripeterlo: aspettiamo l’esito del processo. Ma una verità c’è già; c’è sempre stata da quell’alba tragica. Ed è la morte di Federico Aldrovandi. Morte avvenuta non in un banale incidente d’auto, come tanti purtroppo se ne registrano, vittime ragazzi assonnati di ritorno dalle discoteche nelle aurore domenicali, ma durante un controllo di polizia effettuato da una pattuglia chiamata in un’appartata via di Ferrara, per calmare - così dice il rapporto della polizia - un tale che si comportava in modo strano, che urlava e scalciava senza apparente motivo. Può morire così e per questo un ragazzo di diciotto anni?
Una registrazione choc: lui a terra, gli agenti ridono
"Il corpo di mio figlio disteso sull’asfalto, ci sono molti agenti attorno, si sente una risata, come se nessuno fosse interessato a un ragazzo che era stato ucciso". Così ieri al Tg1 la madre di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso a Ferrara il 25 settembre 2005 dopo l’intervento della polizia, ha commentato le immagini di un video girato dalla polizia scientifica quel giorno ed elemento nuovo del processo in corso contro quattro agenti accusati di omicidio colposo. Tra le scene più forti del filmato, Patrizia Moretti ha citato quelle in cui si vede il corpo del ragazzo a terra mentre intorno si sentono voci e risate. "Lui non ha mai fatto niente di male nella sua vita, era un ragazzino - ha continuato con la voce rotta - non faceva niente e l’hanno lasciato a terra". Poi ha aggiunto altri particolari: "Le sue mani erano livide, quindi è stato picchiato anche sulle mani. Alcuni testimoni l’hanno sentito chiedere aiuto". La madre di Federico, che ha aperto un blog per raccontare la sua morte, ha anche ricordato che "i testimoni sentiti finora nessuno li ha visti, i manganelli sono ricomparsi solo il giorno dopo in questura, puliti, e solo in quel momento acquisiti". A Ferrara per la morte di Federico è ieri corso, davanti al giudice monocratico Francesco Maria Caruso, il processo ai quattro agenti di polizia accusati di eccesso colposo per aver "cagionato o comunque concorso a cagionare il decesso" del ragazzo. Per il reato, come riportato dal capo di imputazione, è prevista la pena edittale dell’omicidio colposo. Durante una delle ultime udienze l’ispettore della Digos Nicola Solito, amico ventennale della famiglia Aldrovandi, che comunicò la terribile notizia ai genitori di Federico, nella sua deposizione ha anche puntato il dito contro il vicequestore aggiunto Gennaro Sidero: a fronte della sua richiesta circa la convocazione sul posto del magistrato, il vicequestore rispose facendo spallucce. L’ispettore però ha anche negato il ruolo di "supertestimone" a lui attribuito da mamma Patrizia Moretti, negando di aver mai detto alla donna di voler rivelare quanto a sua conoscenza solo in sede tutelata per timore di ripercussioni per il suo lavoro. Giustizia: caso Contrada; difesa attacca "giudice prevenuto"
Apcom, 11 febbraio 2008
I difensori di Bruno Contrada, l’ex funzionario del Sisde condannato a 10 anni di reclusione, in via definitiva, per concorso esterno in associazione mafiosa, insistono sulla richiesta di revisione del processo. Confutando, punto su punto, la memoria del sostituto procuratore generale di Caltanissetta, Luigi Birritteri, che aveva chiesto il rigetto dell’istanza, gli avvocati Grazia Volo e Giuseppe Lipera chiedono alla Corte d’appello nissena di accogliere la loro istanza di revisione "e in via cautelare che venga disposta, la sospensione della esecuzione della pena e quindi la liberazione di Bruno Contrada" sollecitando, "in subordine l’applicazione di una misura coercitiva meno afflittiva quale quella degli arresti domiciliari". Nella memoria, fra l’altro, i difensori di Contrada lamentano quello che a loro dire è un pregiudizio di tipo ideologico dal parte del Pg Birritteri che, nel 2003, era stato candidato nelle fila del centrosinistra: pregiudizio nato dal fatto che proprio il centrosinistra, di recente, si è detto contrario anche alla possibilità che il presidente della Repubblica possa concedere la grazia a Contrada. "Non è colpa nostra - scrivono i due legali - se in certi processi penali in Italia si sono formati stranamente degli schieramenti per così dire ideologici. Se difendi un imputato coinvolto negli scontri del G8 di Genova o un ultras dello stadio, tutta la sinistra è con te, mentre la destra ti attacca; se difendi un imputato di mafia, a prescindere se sia colpevole o innocente, tutta la sinistra è contro di te, la destra è invece garantista". "Manco a farlo apposta - scrivono gli avvocati Lipera e Volo - il magistrato chiamato a formulare il parere sulla domanda di revisione sarà, e senz’altro lo è, un buon magistrato ed un fine giurista, ma, guarda il caso, è stato candidato nelle liste del centro sinistra". Bruno Contrada, 77 anni, è gravemente malato, sostengono i legali, ed attualmente è detenuto presso il carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Umbria: Radicali; doveroso nominare Garante dei detenuti
www.spoletonline.com, 11 febbraio 2008
Una delegazione di radicali umbri ha avviato in questi giorni una serie di incontri con i Presidenti dei Gruppi Consiliari Regionali, sul tema della legalità nelle istituzioni. Al centro della nostra iniziativa la richiesta di applicazione di leggi regionali a partire dalla nomina del garante delle persone private della libertà personale (garante dei detenuti) e del difensore civico regionale. In particolare , per quanto riguarda la figura del "garante dei detenuti",a nostro avviso, la sua nomina si impone in tempi certi poiché la morte di Aldo Bianzino, nonostante i ripetuti comunicati del Sinappe (Sindacato Nazionale Autonomo di Polizia Penitenziaria), ha aperto molti interrogativi sulla trasparenza delle procedure nel carcere perugino oltre che sulla pericolosa mancanza di scambio/integrazione tra mondo carcerario e città. Quest’ultimo aspetto è stato denunciato dallo stesso Direttore del Carcere di Perugia, Giacobbe Pantaleone, nell’ambito dell’audizione della Commissione Consiliare Permanente del Consiglio Comunale di Perugia il 14 novembre scorso.
Tommaso Ciacca, Comitato Nazionale di Radicali Italiani Andrea Maori, Responsabile Radicale della Rosa nel Pugno-Umbria Pierfrancesco Pellegrino, Segretario di radicaliperugia.org (ass. G. Nuvoli) Fancesco Pullia, Direzione Nazionale di Radicali Italiani Sicilia: progetto "Legalopoli", legalità e tecnologia a scuola
www.key4biz.it, 11 febbraio 2008
La versatilità di strumenti come internet, la posta elettronica, i videogiochi e più in generale la virtualità e l’interattività rese possibili dalle Tic, permettono, potenzialmente, di esplorare in modo approfondito ogni genere di argomento. Contrariamente a quanto pensano "gli apocalittici", ovvero i refrattari alle innovazioni tecnologiche (e fra questi molti insegnanti di materie tradizionali), gli strumenti e le logiche interne alle Tic sono strettamente funzionali tanto all’acquisizione di contenuti quanto al loro uso critico ed efficiente. L’intento del progetto è quello di promuovere l’uso critico delle Tic (incluso internet), in modo che queste possano incoraggiare il dialogo, il confronto e la multiculturalità, attraverso la realizzazione, da parte degli stessi ragazzi, di prodotti multimediali di carattere didattico/ludico. L’occasione offerta dal progetto, sul quale faranno perno le attività e i risultati, è la realizzazione partecipata di un videogioco interattivo, all’interno di laboratori da realizzarsi all’interno delle scuole. Gli approcci, gli strumenti didattici, le tecniche di animazione ed insegnamento adottate prendono spunto dalla esperienza di "Legalopoli" già sperimentata, con successo, in Sicilia. Il gioco, che verrà realizzato dagli stessi ragazzi nelle scuole con gli insegnanti e attraverso il lavoro di animazione e assistenza tecnica del partenariato avrà un tema comune: la legalità. Attraverso le vicende dei personaggi, il videogioco sarà strutturato in modo che i percorsi "legali" si rivelino convenienti e vincenti mentre quelli "illegali", in modo variabile, condurranno a situazioni scomode e negative, limitando progressivamente gli spazi di gioco fino al completo stallo. Ma attenzione: nella costruzione dei plot alla base dei videogiochi sarà cruciale evitare una semplicistica e aprioristica affermazione delle scelte improntate al rispetto delle leggi in quanto "migliori in sé". Anziché un ritualistico rispetto delle leggi, la legalità verrà coniugata come ponderata e critica scelta individuale. Le scuole della rete di ogni singolo paese partner sceglieranno il tema specifico da approfondire e su cui riflettere rispetto alle priorità sociali. All’interno dei laboratori in classe questi temi verranno dapprima sviluppati attraverso attività di animazione sul territorio che porteranno i ragazzi, coadiuvati da operatori specializzati reclutati dai partner, a intervistare gli attori locali che potranno fornire contenuti ed informazioni utili alla costruzione delle storie che saranno alla base del videogioco, quali poliziotti, magistrati, giornalisti, operatori sociali etc. I partner del progetto consentiranno agli insegnanti e ai ragazzi di entrare in contatto con questi testimoni privilegiati, organizzando incontri collettivi ed interviste individuali. A livello contenutistico il partenariato si prefigge la sensibilizzazione dei giovani e degli insegnanti ai pericoli connessi al mondo dell’illegalità con attenzione specifica ai problemi di aree geografiche e di estrazione sociale diversa. Si promuove il lavoro di gruppo e l’interazione con la realtà esterna al mondo scolastico, come metodo per la crescita e la formazione culturale e sociale. La costruzione delle storie attraverso ricerche basate su fatti reali produrrà un insieme di personaggi vicini alla realtà dei ragazzi coinvolti e dei fruitori del videogioco. La combinazione fra strumenti tecnologici e tradizionali sarà la chiave per la realizzazione dei laboratori. I livelli di verosimiglianza, il valore didattico e la fattibilità tecnica, stimoleranno la collaborazione dei ragazzi attraverso divisioni di competenze e lo sviluppo di logiche complesse di cooperazione e di divisione dei compiti (interviste, approfondimenti, ricerche telematiche, concezione delle storie, discussione dei contenuti con gli esperti). Sul piano creativo, gli studenti verranno coinvolti in attività secondo le proprie capacità e vocazioni (disegno ed arti grafiche, fotografia, musica, recitazione). Sul piano tecnico, gli studenti svilupperanno la conoscenza di nuovi strumenti e tecniche della tecnologia (montaggio, animazione, computer grafica, videoscrittura ecc). I ragazzi e gli insegnanti saranno così introdotti non solo a tematiche di alta rilevanza sociale, ma anche a mestieri moderni molto specializzati e strettamente connessi all’uso Tic. Il gioco, specialmente quello elettronico, ha in sé potenzialità maggiori rispetto ad altre attività di coinvolgimento per raccogliere partecipazione ed interesse, sviluppare il senso critico e far passare un messaggio nel modo più efficace; si evita così la trasmissione dall’alto di contenuti teorici considerati astratti, noiosi, spesso in palese contraddizione con gli impliciti insegnamenti provenienti dal complesso degli ambiti nei quali i giovani vivono (famiglie, amicizie, bar, palestre). Un altro aspetto fortemente innovativo è quello di porre contenuti potenzialmente avvincenti per i ragazzi (il bene e il male, la giustizia e il crimine, la violenza e la sopraffazione…) su un tavolo di lavoro e renderli suscettibili di riflessioni concrete, finalizzate alla realizzazione di storie verosimili attinenti a tematiche di alto valore formativo e derivate da testimonianze di esperienze reali. Lo scambio di esperienze su temi comuni e trasversali, l’interculturalità, la solidarietà, le pari opportunità, la legalità e la didattica laboratoriale dovranno fornire all’alunno gli strumenti atti a cogliere, analizzare e sintetizzare le categorie concettuali e operative per l’interpretazione, la costruzione, l’elaborazione critica del sapere svilupperà la dimensione europea del partenariato e lo scambio delle esperienze locali con altri contesti. I ragazzi comunicheranno fra loro e con realtà altre, nella nuova Europa. I percorsi formativi si prefiggono di fornire gli strumenti per la formazione di una mentalità flessibile, capace di rispondere efficacemente ai mutamenti veloci e alla complessità dello scenario socio-economico e culturale attuale. Ogni partner intrattiene già all’interno delle proprie attività dei rapporti continuativi con delle scuole che saranno coinvolte. Saranno 3 le scuole in ciascun paese e all’interno di queste si progetterà un laboratorio che coinvolgerà 15-20 alunni. Saranno 3 le categorie dei beneficiari del progetto: gli insegnanti in materie umanistiche, almeno 36 insegnanti di 18 scuole secondarie di 6 paesi diversi; gli studenti, almeno 270 studenti di scuola secondaria in una fascia di età compresa tra i 10 e i 14 anni di 18 scuole secondarie di 6 paesi diversi e che parteciperanno ai laboratori; la popolazione locale, i bacini territoriali delle scuole partecipanti nei 6 paesi partner; gli altri alunni delle scuole coinvolte, altri insegnanti, altre scuole, il pubblico dei media coinvolti nel partenariato, gli utenti del sito del progetto. Il progetto affronta direttamente il problema del digital divide: le scuole e i ragazzi saranno infatti selezionati fra quelli maggiormente a rischio di esclusione sociale. Sfruttando la capillarità della fruizione di videogiochi anche in contesti sociali marginalizzati (vedi l’esperienza siciliana), verrà incoraggiata la partecipazione da parte di alunni particolarmente deprivati culturalmente, proprio perché i laboratori richiedono competenze creative ed esperienziali tendenzialmente non convenzionali o scolastiche. Inoltre, i contesti di riferimento maggiormente degradati e a rischio saranno privilegiati come contesti più interessanti per esplorare le dimensioni della cultura della legalità. La durata del progetto prevista è di 21 mesi e copre 2 annualità scolastiche. Tale durata consentirà di sviluppare un’approfondita attività laboratoriale e, in seguito ad una attività estiva, permetterà la realizzazione di una forte strategia di disseminazione locale e nazionale, sfruttando al massimo le vocazioni e competenze dei partner. Saranno 3 i risultati attesi dal progetto: circa 20 insegnanti in materie umanistiche coinvolti dal progetto sperimenteranno le potenzialità di coinvolgimento, approfondimento, espressività, esplorazione meta-testuale delle Tic rispetto a temi affini alle loro materie di insegnamento; circa 300 studenti dai 10 ai 14 anni saranno coinvolti in laboratori integrati finalizzati a integrare esperienze concrete (vissuti personali e testimonianze dirette) all’interno di storie verosimili da essere trasformate in prodotti interattivi di fiction e quindi in videogame; i bacini territoriali di riferimento delle scuole coinvolte, ovvero altri studenti e le loro famiglie, altri insegnanti, altre scuole, verranno investiti da una campagna di sensibilizzazione alle tematiche della cittadinanza e della legalità attraverso la diffusione di un Cd Rom contenente i prodotti realizzati durante i laboratori, parzialmente fruibili anche attraverso una costellazione di siti parzialmente dedicati al progetto nell’ottica dell’apprendimento interattivo di contenuti multimediali e strumenti tecnologici in conformità all’e-learning Action Plan. Busto Arsizio: "Mezzo Busto", un giornale da primo premio
www.varesenews.it, 11 febbraio 2008
La testata del carcere di Busto realizzata dai detenuti si è classificata prima al concorso Guido Vergani. Il segreto? Passione, lavoro di gruppo… e la grafica. Niente è lasciato al caso in questo giornale: i testi, la grafica, l’impaginazione sono curati al minimo dettaglio. E tutto quello che viene pubblicato su Mezzo Busto passa sotto la lente d’ingrandimento di ogni redattore. Sette teste pensanti sfornano idee, si scambiano opinioni, scrivono, poi correggono e rileggono. È così che lo "strumento d’informazione del carcere di Busto" ha vinto il primo premio del concorso "Carcere e comunicazione - premio regionale cronisti Guido Vergani 2007". A vincere è stato proprio il primo numero di questa testata realizzata interamente - ad eccezione della stampa - all’interno della casa circondariale bustocca. Il "Numero 0" è nato dall’iniziativa di Sergio Preite dell’Enaip di Busto che ha coinvolto nel progetto anche alcune volontarie, prima fra tutte Carla Bottelli. Insieme hanno proposto ad alcuni detenuti di imbarcarsi in questa esperienza e così è nata la redazione di otto persone (compresa Carla) di cui Preite è responsabile. "Alcuni di noi avevano già avuto una piccola esperienza con il giornale della scuola del carcere - spiega Marco Longhi, il "portavoce" dei redattori -, ma poi è naufragata. Quando ci hanno proposto questa occasione abbiamo aderito volentieri. Stavolta siamo partiti con il piede giusto e siamo appoggiati da persone che ci tengono e ci seguono". Durante le riunioni di redazione ognuno mette sul tavolo le sue idee e dopo uno scambio di opinioni si inizia a buttar giù le prime bozze. A questo punto si torna insieme a leggere, a discutere e solo quando c’è l’approvazione generale gli articoli vengono mandati in stampa. Così è nato il primo numero: una pagina con un articolo sulla giornata tipo, l’autobiografia di un viaggiatore e il primo numero della rubrica sulla "salute dietro le sbarre" curata da un centometrista professionista. L’articolo di apertura è una lucida e impietosa riflessione sul mondo dell’informazione: "Credere o non credere ai mass media?". Il tutto corredato non da foto, ma dai disegni di un detenuto rumeno, che è diventato anche l’autore della "rubrica letteraria". "È anche grazie alla grafica che abbiamo vinto, lo rende unico" ci spiegano. Chi ha avuto la fortuna di leggerlo - oltre al passaparola e alla distribuzione ai mercatini di Natale, è stato diffuso nelle scuole di Busto - ha potuto apprezzare delle storie di vita di cui difficilmente si viene a conoscenza, ma anche una scrittura chiara e immediata. "Prima sembra facile - ci raccontano -, ma quando scrivi tutto è più confuso. Nella tua testa è chiaro, ma è difficile far capire agli altri". È qui che interviene Carla, ex insegnante ora in pensione e volontaria da 26 anni. "Quando le idee di fondo ci sono, la scrittura si può correggere". Ed è così che il progetto di un giornale si è rivelato qualcosa di più profondo: un laboratorio di scrittura, di lingua italiana e non, ma anche di vita. "La parte più interessante - sottolineano in coro - è la possibilità di lavorare in gruppo. Per noi questa esperienza significa molto: è una scommessa con noi stessi, qui noi ci mettiamo del nostro. Speriamo che anche tu lo abbia capito: se solo a 10 o 15 lettori di Varese News arriva il nostro messaggio, per noi vuol dire già molto". A fine mese dovrebbe uscire il nuovo numero. Oltre alle due rubriche (per la salute, si parlerà dello stress in carcere) ci saranno vari articoli fra cui uno sui corrieri di droga e un’intervista a un’agente dell’area colloqui perché "vogliamo creare un legame con il personale e ascoltare la loro voce". Infine, come è giusto, spazio anche alla notizia del premio vinto a dicembre. Con il pensiero però già si corre al futuro. Oltre ai "progetti imprenditoriali" del grafico che pensa a sponsor e pubblicità, l’idea è quella di instaurare un colloquio con chi "sta fuori" attraverso una rubrica di lettere (mezzo_busto@libero.it) e magari inserire anche qualche foto. Inoltre, con il sorriso sulle labbra, ci fanno notare che non saranno sempre loro i redattori. Uno di loro - ad esempio - a maggio esce, ma assicura di aver già trovato un sostituto. Naturalmente solo se tutti approvano la scelta
I detenuti raccontano la realtà "dentro"
Questa è una storia che parla di realtà sconosciute e falsità troppo diffuse. Una storia che ha come protagonisti sette uomini, dai 25 ai 40 anni, che lavorano insieme. Ma anche vivono, mangiano, studiano, dormono, passano il tempo libero sempre uno a contatto con l’altro. Per ascoltarla siamo andati nel carcere di Busto Arsizio, nella biblioteca dove su un ripiano campeggia una targa color oro. Sopra c’è scritto: "Premio carcere e comunicazione Guido Vergani 2007. Primo classificato: "Mezzo Busto - Carcere di Busto". Per riuscire ad incontrare i redattori di questa testata giornalistica c’è voluto un mese, questione di permessi. Dopo i controlli all’ingresso entriamo nell’edificio in cui si trovano i detenuti "comuni". Fuori il carcere è grigio, dentro le pareti e le porte delle celle sono blu. Il corridoio che ospita le sale per le varie attività invece no, è tutto colorato. Le pareti qui sono interamente coperte da un lunghissimo murales, opera di un ex detenuto. Sono circa un ventina, forse di più, le stanze che si affacciano sul corridoio: vere e proprie aule di scuola per i corsi ad esempio di italiano e dell’Ipc. In fondo ci sono la palestra e la biblioteca. Sono sette in tutto i membri della redazione. La composizione - tre italiani e quattro stranieri - è in linea con quella del carcere, in cui il 60 per cento dei detenuti non è italiano. Oggi erano solo in sei: sono arrivati un pò alla volta a causa degli altri impegni di lavoro. Seduti intorno a un tavolo, con a fianco il responsabile del progetto Sergio Preite e una "storica" volontaria Carla Bottelli, ci raccontano come è nato il loro giornale. Soprattutto ci spiegano cosa vogliono raccontare a "chi sta fuori" attraverso le loro parole. "Anche se possiamo avere idee diverse - chiarisce il "portavoce" Marco Longhi originario del modenese - un punto comune c’è. Vogliamo usare questo giornale per far conoscere la realtà dentro al carcere. Fuori arrivano troppe falsità". Il messaggio, chiaro e diretto, è ai mass media. Sono loro infatti, giornali e televisioni, l’argomento dell’articolo di apertura del primo numero di Mezzo Busto: "Credere o non credere ai mass media?". "I telegiornali fanno troppe generalizzazioni sia sulle carceri che sui detenuti. Insomma, chi una volta fuori torna a delinquere fa notizia, chi ha pagato i suoi errori e riesce a rifarsi una vita non interessa". La verità invece è un’altra, molto più semplice, molto più reale. "Non siamo tutti mostri, non siamo tutti "spiriti stolti". Se quindi i mass media non aiutano e spesso danneggiano, la parola adesso hanno deciso di prendersela loro e raccontare anche con dei disegni (realizzati da un membro della redazione) la vita quotidiana nel carcere. Si scopre leggendo che "una giornata tipo" non è fatta solo di "cella e tv", ma di scuola, lavoro, pranzi insieme. Ancora che la detenzione può essere un’occasione per "rivedere gli errori, analizzare le proprie esperienze e attingere nuova forza". Inaspettatamente leggiamo che "dentro" ci si può e ci si deve preoccupare della propria salute e che c’è chi ha trovato un "gruppo di persone intelligenti che capisce e apprezza l’importanza di essere mentalmente e fisicamente sano". Ed è semplicemente questo che Marco e i suoi compagni vorrebbero leggere sui giornali e sentire in televisione. "Cosa può fare un detenuto in prigione, le sue esperienze. Ma anche quello che succede una volta fuori a chi, scontata la pena, segue la retta via. La gente non sa che qui c’è chi studia, che si fondano cooperative di lavoro. È di questo che vogliamo sentir parlare, di queste persone".
Carla, da 26 anni in prima linea in carcere
È entusiasta come il primo giorno. Carla Bottelli ha iniziato a fare volontariato nel carcere di Busto Arsizio 26 anni fa. "Ho vissuto in prima persona tutti i cambiamenti - ci racconta, seduta a fianco dei redattori di Mezzo Busto, il giornale interno al carcere -. E ogni volta mi sono adatta e mi "sono riciclata": perché qui c’è sempre qualcosa da fare". La casa circondariale di Busto infatti è nata come carcere di massima sicurezza. A quel tempo Carla, ex insegnante all’Itis di Busto Arsizio ora in pensione, è entrata come volontaria per insegnare al biennio di Liceo scientifico. La struttura è poi diventata una "casa circondariale". A quel punto insieme ad altri colleghi, sempre volontari, hanno dato vita alla prima esperienza di Ipc (legato all’istituto di Busto "Verri"). "Abbiamo portato i detenuti non solo al terzo anno, ma fino alla maturità di quinta - ci racconta -. Credevamo in quello che facevamo e, grazie all’aiuto dell’allora provveditore, siamo riusciti a statalizzare il corso di Ipc all’interno del carcere". L’ultimo "riciclo" è invece iniziato con l’apertura dell’aeroporto di Malpensa. "Più della metà dei detenuti è straniera. Al mattino quindi insegno italiano". Ma non finisce qui. Carla infatti è la "correttrice di bozze" ufficiale di "Mezzo Busto" il giornale interno al carcere, anche se a vederla in mezzo agli altri redattori si capisce che è molto di più. È lei che li aiuta con la scrittura, che insegna i trucchi per far risaltare un termine piuttosto che un altro, che svela i segreti dell’ "italiano". "Io mi limito a prestate loro la lingua italiana - spiega -. Se di base ci sono le idee giuste, poi la scrittura si può correggere. Ancora Carla, insieme al responsabile e mente del progetto Sergio Preite, è quella che si è prodigata per distribuire il maggior numero di copie del giornale a Busto. "Abbiamo attivato una catena di solidarietà. Oltre alla distribuzione nelle scuole, abbiamo ottenuto dall’amministrazione comunale uno spazio nelle casette di Natale al Museo del Tessile. La risposta della gente è stata assolutamente positiva. Il nostro obiettivo era quello di fare comunicazione ai giovani adulti e magari anche prevenzione soprattutto con i più giovani. Invece inaspettatamente siamo riusciti anche a creare molta curiosità e interesse". Dopo 26 anni insomma l’impegno è ancora quello dell’inizio, anzi forse è aumentato. "Sono sorretta sempre dall’entusiasmo e quando a sera vado a casa anche se sono stanca e stressata - scherza - sono contenta e mi sento a posto con me stessa. Siamo un gruppo forte e solidale". Lodi: il progetto "Lavoro Debole" continua... e con Susanna
Comunicato stampa, 11 febbraio 2008
Grazie anche alla mobilitazione e all’adesione di centinaia di cittadini all’appello nazionale e al documento delle associazioni lodigiane, la partecipazione di Susanna Ronconi al progetto "Lavoro debole", per il reinserimento lavorativo delle persone ex detenute, ha trovato, attraverso un confronto con le istituzioni locali, una conclusione condivisa e positiva, sulla base del rispetto dell’autonomia delle associazioni partner del progetto stesso. L’articolo realizzato dal Corriere della Sera metteva in discussione il diritto di Susanna, a causa dei suoi trascorsi nella lotta armata degli anni ‘70, a svolgere la propria attività con le associazioni lodigiane nell’ambito di un’iniziativa coordinata dalla Provincia di Lodi, alla quale riconosciamo, sul tema del carcere e del reinserimento dei detenuti, un’attenzione che colma un bisogno, finora trascurato, del territorio. Le significative adesioni agli appelli, giunte da persone di diverse culture, appartenenze professionali e ruoli istituzionali, hanno evidenziato e sostenuto la legittimità dell’attività professionale che Susanna sta realizzando in collaborazione con le associazioni - collaborazione che avviene a pena scontata e dopo vent’anni di presa di distanza dal quel passato politico - in quanto iscritta nella Costituzione e nella sua cultura della pena. Tutta questa vicenda ha inoltre reso ancora più evidente come sia dannoso, per la società e la sua coesione, la riproposizione di una accezione vendicativa della pena, che nel rispetto e nella comprensione per le vicende umane, non trova riscontro nella legge, crea "sentenze mediatiche" strumentali senza spiegare il perché delle iniziative in corso, con l’obiettivo di creare continui casi politici, disorientare e disinformare l’opinione pubblica. A fronte del positivo esito, rispetto al quale ringraziamo tutti per il sostegno, rimangono l’amarezza e lo sconcerto per la strumentalizzazione posta in atto. Spiace, inoltre, che pur riconoscendo la validità del lavoro svolto dal progetto e non ponendo veti alle associazioni che lo promuovono, non sia stato possibile aprire un dialogo e un confronto sul senso e sulla cultura della pena. Forse, anche in questo caso, si può parlare di occasione mancata, ma ci auguriamo sia possibile rilanciare il dialogo in un prossimo futuro. Lo diciamo, nel modo più efficace, con le parole di uno dei sottoscrittori dell’appello, Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale: "Garantire il diritto al lavoro e al reinserimento sociale degli ex detenuti non è in conflitto con la solidarietà e l’attenzione alle famiglie delle vittime del terrorismo. Sono entrambi principi sacrosanti, che le istituzioni devono seguire con eguale impegno".
I promotori degli appelli per Susanna Ronconi Bologna: scuola di sartoria in carcere, a marzo le selezioni
Adnkronos, 11 febbraio 2008
Le detenute del carcere della "Dozza" di Bologna a scuola di sartoria. Prendendo lezioni dalle già esperte "colleghe" del carcere milanese di San Vittore che "esportano" le loro creazioni sulla strada, le detenute bolognesi impareranno a tagliare e cucire vestiti che hanno già una rete di vendita. Il nuovo laboratorio di sartoria partirà i primi di marzo e le 60 potenziali corsiste verranno selezionate. Il progetto durerà un anno, ma se produrrà i risultati sperati potrà ripetersi; infatti a Milano va avanti da cinque anni e sta dando ottimi risultati, tanto che oltre a Bologna anche Roma vorrebbe uniformarsi a questa esperienza formativa e rieducativa per le detenute-sarte. Le detenute milanesi producono ormai circa 1.000 pezzi l’anno venduti sulle strade di Milano, Torino, Palermo, Forte dei Marmi, a bordo di un Ape Piaggio. La stessa Ape da marzo inizierà a girare anche a Bologna, vendendo per il momento i modelli milanesi. Inizialmente si fermerà in punti strategici, come le scuole per attirare le mamme, poi una volta sviluppata la clientela andrà anche a domicilio. Treviso: "passaporto per il carcere", ma per non entrarci di Mattia Zanardo
Il Gazzettino, 11 febbraio 2008
Un passaporto per il carcere. Per non entrarci mai. Dopo il successo dell’anno scorso, ritorna "Codice a sbarre", il progetto per aiutare i ragazzi finiti "dentro", in particolare quelli dell’Istituto penale minorile trevigiano (ma verranno coinvolti anche i detenuti diciottenni del carcere "senior") a riabilitarsi e per far conoscere a quelli "fuori" la realtà carceraria. Per l’edizione 2008, Emergenze Oggi e Itaca, le due associazioni, presiedute da Massimo Zanta e da Giorgio De Faveri, che promuovono l’iniziativa, hanno ideato un libricino, di dimensioni simili, appunto, a quelle di un passaporto, da distribuire in 12 mila copie nelle scuole trevigiane. All’interno, una carrellata di tutti i reati che un giovane può compiere e che possono portare in galera, dall’omicidio allo spaccio, dal furto al vandalismo, alla violenza sessuale, divisi in tre "capitoli": criminalità, microcriminalità e violenza, e le relative pene. Il tutto raccontato con linguaggio chiaro e diretto, grazie anche a brevi strisce a fumetti, e corredato storie vere di adolescenti condannati alla galera, di consigli, visti dalla parte dei ragazzi, e di alcune segnalazioni di libri, film, fumetti sull’argomento. In fondo al volumetto si trova un buono: presentandolo quando si va a mangiare una pizza con gli amici, una "margherita" sarà omaggio. E soprattutto si riceverà un scatola per le pizze da asporto: ispirandosi ai temi del "passaporto", si potrà disegnarlo e decorarlo e partecipare così al concorso riservato agli studenti delle prime superiori della Marca. "Il box è una metafora - spiega Zanta -: è vuoto, ma può diventare un oggetto d’arte. Allo stesso modo la vita e la società, che molti ragazzi vedono prive di valori e inutili, possono essere "riempite"". Le duecento migliori creazioni saranno pubblicate in un catalogo, mentre le cinquanta più meritevoli verranno esposte in una mostra in programma a Ca dei Carraresi ad aprile, per poi essere battute in un’asta benefica: parte del ricavato servirà per premiare gli artisti stessi. Altri cartoni per pizza, invece, copriranno una grande gabbia, una sorta di carcere virtuale, che sarà montata in una piazza del centro, tra marzo e aprile. La copertura sarà poi dipinta da un gruppo di "writer" e i vari pezzi distribuiti, come i mattoni del muro di Berlino. I ragazzi del carcere minorile realizzeranno invece un lungo metraggio sull’esperienza di tre di loro e la voglia di uscire "rinnovati", mentre in alcuni istituti scolastici verrà portato uno dei furgoni per il trasporto detenuti , per far "toccare con mano" la carcerazione. Genova: il 5 marzo convegno sulla riforma del Codice penale
Comunicato stampa, 11 febbraio 2008
Il nostro Codice penale, approvato in periodo fascista, ha compiuto 77 anni. Numerose commissioni (ben 14!) si sono succedute nel tempo per riformarlo: l’ultima, la commissione Pisapia, ha elaborato una proposta di riforma attenta ai cambiamenti sociali e ai nuovi orientamenti della riflessione giuridica. Il convegno promosso dalla Crvgl - Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Liguria, che si terrà presso l’università Genova il 5 marzo, avrà come tema: "Ripensare la pena: la riforma del Codice penale" e vedrà come relatori il prof. Luciano Eusebi, membro della Commissione Pisapia, e i prof. Marco Pelissero e Paolo Pisa, della Facoltà di Giurisprudenza di Genova. Il convegno sarà l’occasione per riflettere sugli orientamenti che hanno guidato la proposta di riforma, ormai sempre più urgente, del nostro sistema penale. Particolarmente interessanti le novità significative nel sistema sanzionatorio in cui, accanto alle pene detentive previste come extrema ratio, un ventaglio di sanzioni diversificate si propongono di rispondere più adeguatamente sia all’esigenza di prevenzione che a quella di certezza della pena.
Per la Crvgl, Anna Grosso Alessandria: conferenza sull'accompagnamento dei detenuti
Comunicato stampa, 11 febbraio 2008
Si svolgerà presso il cinema Ambra di Alessandria una conferenza su "Detenzione e accompagnamento fuori dal carcere". All’organizzazione della serata ha partecipato la redazione di "Altrove", che ha realizzato delle interviste ai reclusi e curato la scaletta. Ai video seguiranno brevi interventi del Magistrato di Sorveglianza, della Direttrice del carcere di San Michele di Alessandria, dell’educatore, del Direttore responsabile di Altrove e di un detenuto in permesso. Seguirà un dibattito. La conferenza avrà inizio alle ore 21.00 dell’11 marzo 2008.
La redazione di "Altrove" Lecce: "Fine pena mai"; un film che racconta la mafia pugliese
Dire, 11 febbraio 2008
Girato interamente nel Salento, il lungometraggio narra la storia di Antonio Perrone, boss della Sacra Corona Unita condannato a 49 anni di carcere, tratta dal suo romanzo autobiografico. Uscita prevista per il 29 febbraio. Era atteso da tempo nelle sale cinematografiche pugliesi. Si tratta del lungometraggio "Fine pena mai" di Davide Barletti e Lorenzo Conte, del collettivo Fluidvideocrew, girato interamente nel Salento e liberamente tratto dal romanzo autobiografico "Vista d’interni" di Antonio Perrone, elaborato dai diari personali dell’autore. Il film racconta le vicende del protagonista, condannato a 49 anni di carcere, scontati per la maggior parte in stato di totale isolamento, con l’articolo di legge 41 bis. È la storia drammatica di un percorso personale travagliato e denso di vicende che risucchiano il protagonista in una spirale senza fine. Nei primi anni Ottanta, Antonio Perrone è il primogenito di una benestante famiglia salentina. Ma la sua natura è inquieta come quella di tanti suoi coetanei dell’epoca. Desidera una vita migliore, libero dai legami e dalle norme sociali. Antonio vuole di più, sempre di più, entra nel mondo dello spaccio di droga, e pian piano si trova a rivestire gli abiti del malvivente. La sua corsa sembra inarrestabile: da rapinatore diventa un vero e proprio boss della neonata Sacra Corona Unita, la cosiddetta "quarta mafia", che ha devastato per un decennio la Puglia, fino ad allora terra di contadini e artigiani. Nel giro di poco tempo il sogno lascia il posto a un vero e proprio incubo. La Sacra Corona Unita è una mafia che presenta un percorso tutto nuovo e molto diverso dalle altre mafie. Nonostante sia la più giovane tra quelle italiane, riprende tradizioni molto vecchie, dalla struttura verticistica, ai riti di iniziazione, fino al codice d’onore. È una mafia violenta e irrazionale. Perrone finisce schiacciato dai gorghi di meccanismi inarrestabili con la sola volontà. L’epilogo della propria vita sarà una pena che sconterà senza fine. Il film si presenta con un sottotitolo, "Paradiso perduto", che evoca il celebre poema epico di John Milton (pubblicato nel 1667) sulla caduta dell’uomo, ovvero la cacciata dal giardino dell’Eden di Adamo ed Eva, dopo la tentazione. La citazione, quindi, del noto episodio biblico, per raccontare la giovinezza bruciata dei protagonisti e l’innocenza perduta del territorio salentino. Interpretato, nei ruoli principali, da Claudio Santamaria e Valentina Cervi, il film uscirà il 29 febbraio e sarà distribuito dalla Mikado. Roma: "Psycopathia Sinpathica", e i detenuti vanno in scena
Asca, 11 febbraio 2008
Psycopathia Sinpathica, da Psycopathia Criminalis di Oskar Panizza, con i detenuti-attori della Compagnia teatrale E.S.T.I.A. della Casa di Reclusione di Bollate. Regia Michelina Capato Sartore, in scena al Teatro Eliseo di Roma il 9 e 10 febbraio 2008. Sensibilizzare l’opinione pubblica sulle problematiche carcerarie non è cosa semplice soprattutto se lo si fa attraverso il teatro. "Psycopathia Sinpathica" è un buon esempio di come una realtà lontana e articolata come quella del carcere possa essere veicolata con la duttilità del linguaggio artistico. Gli attori-detenuti della compagnia teatrale E.S.T.I.A. della casa di reclusione di Bollate mettono in scena l’opera di Oskar Panizza "Psycopathia Criminalis", un vero e proprio saggio di satira politica della psichiatria pubblicato nel 1898. Lo spettacolo, in scena al Teatro Eliseo, rientra all’interno della rassegna "Teatro e carcere" non solo testimonianza della reclusione carceraria ma forte spinta verso un reinserimento sociale attraverso l’espressione artistica. L’opposizione al sistema, tema centrale della rappresentazione, viene letta come un disturbo mentale con un elenco dettagliato di sintomi che esplodono attraverso le mimiche accentuate degli attori in scena. Due schermi bianchi, sui cui scorrono fin dall’inizio filmati pre-registrati, affiancano la scena che raffigura un cortile ovale in cui si muovono vite alla ricerca di gesti e contatti che li rendano normali al cospetto del mondo. Il rimbalzo continuo tra la rappresentazione e i contributi filmici amplifica il senso di realtà e spaesamento a cui lo spettatore non può sottrarsi. Il conflitto tra realtà (la vita in prigione) e verosimile (la ricostruzione della stessa) sembra essere insolubile. Chi è disturbato mentalmente? Chi subisce una condizione o chi la detta? La regia di Michelina Capato Sartore crea un fil rouge tra questi due flussi di pensiero con il solo fine di lasciare appesi e sospesi i bisogni umani che oscillano continuamente da una sensazione all’altra. Euforia, tristezza. Follia, genio. La società in cui viviamo si trova nel mezzo? Brasile: ragazza di 14 anni rinchiusa nel carcere degli adulti
Apcom, 11 febbraio 2008
Ha passato undici giorni in una cella con donne adulte in un padiglione dove c’erano anche centodieci uomini. Quello della minore, 14 anni, accusata di un piccolo furto in una farmacia, ha rischiato di trasformarsi in un nuovo caso che viola i diritti umani nel sistema carcerario brasiliano. È successo a Planaltina, nello stato nordestino di Goias. La giovane era stata arrestata il 28 gennaio in flagrante insieme al suo fidanzato dentro una farmacia. La ragazza è stata scarcerata ieri su diretto intervento della Segreteria Speciale per i Diritti Umani della Presidenza della Repubblica. La ragazza non è però tornata in famiglia ma è stata affidata a un tutore nominato dalla giustizia. Il caso rinnova le polemiche dopo quello della ragazza di 15 anni rinchiusa in una cella con venti uomini nello stato del Parà, dove aveva subito violenze e abusi di ogni tipo, e che aveva scosso il Brasile lo scorso dicembre: caso definito "una barbarie" dal ministro della giustizia Tarso Genro e "cosa da fiction" dal presidente Luiz Inacio Lula da Silva. Ora, da un altro degli stati a maggior rischio sociale del Paese giunge un nuovo caso che spalanca le porte su una realtà affatto eccezionale in Brasile. Secondo il direttore del carcere di Planaltina, Reinaldo da Rocha, secondo quanto informa Agencia Brasil, una situazione come questa è comune e si verifica normalmente: "Se si fa una ricerca nel sistema carcerario del Paese - ha affermato Rocha - si scopre una situazione allarmante dove i minori sono rinchiusi spesso insieme agli adulti". Il funzionario ha poi spiegato che la ragazza è rimasta undici giorni in cella perché la madre si è rifiutata di responsabilizzarsi per la figlia, dopo l’arresto. La situazione è giudicata illegale da giuristi e organizzazioni per la tutela dei diritti umani. "Anche le donne e i maggiori si sessanta anni, secondo la legge, devono essere ospitati in penitenziari separati o adeguati" precisa il penalista Romualdo Sanches Calvo Filho, presidente dell’Accademia Paulista di Diritto Criminale: "Dunque - aggiunge - la situazione di quel carcere è illegale, poiché le donne convivono con gli uomini, anche se in celle separate". Lo stato di sovraffollamento nelle carceri brasiliane è cronico. Sono numerosi e frequenti le ribellioni e gli scioperi della fame per chiedere migliori condizioni. Guantanamo: il Pentagono vuole pena morte per 6 detenuti
Apcom, 11 febbraio 2008
Il Pentagono chiederà la pena di morte per sei presunti terroristi detenuti a Guantanamo, che si apprestano a essere incriminati per l’attacco all’America dell’11 settembre 2001. Lo hanno reso noto fonti militari, citate dai media negli Usa, in vista di un annuncio ufficiale atteso nelle prossime ore. Le sei incriminazioni riguardano Khalid Sheikh Mohammed, ritenuto l’autore del piano di Al Qaida che prese di mira New York e Washington e altri cinque detenuti di Guantanamo coinvolti a vario titolo nel più grave attacco terroristico nella storia. Le incriminazioni apriranno la strada a processi di fronte alle "commissioni militari" create dal Pentagono dopo l’11 settembre e per ora mai entrate in azione. Si tratterà dei primi casi giudiziari discussi a Guantanamo che prevedono la pena di morte.
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