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Giustizia: 38% detenuti è straniero, la "babele" delle carceri di Andrea Maria Candidi
Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2008
La "Babele" delle carceri Gli stranieri sono il 38% dei detenuti, oltre 4mila dal Marocco c Quattro detenuti su dieci sono stranieri. Degli attuali 51.763 "ospiti" delle prigioni italiane,19.583 vengono dal resto del mondo: a voler essere precisi gli immigrati sono 38 su cento, con un trend che spinge velocemente verso il punto di pareggio: tanti italiani quanti stranieri presenti. È questa l’impietosa fotografia scattata il 31 marzo scorso dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, al nostro sistema carcerario. È la fotografia di una "città" che conta provenienze da 140 Paesi dei cinque continenti; abitanti che comunicano in altrettanti idiomi e lingue. Un’autentica Babele, dove un norvegese sta a fianco di un maori e un marocchino deve spiegarsi con un uruguagio. In ambienti ristretti, gomito a gomito, condividendo non di rado spazi insufficienti per una sola persona. Una fotografia cruda, che mette a nudo tutta la drammaticità di una situazione già definita, su queste stesse pagine (lo scorso 7 aprile), al limite del collasso. Anzi, un gradino già più in là, ineluttabilmente verso il punto di non ritorno che ha portato due anni fa ad approvare la legge sull’indulto con il solo scopo di svuotare le celle e che ha invece raggiunto l’unico obiettivo di aumentare il senso di insicurezza dei cittadini. Complice anche la ruggine che inceppa i meccanismi della giustizia penale. Basti ricordare che per l’Istat - statistiche sull’andamento annuale dei fenomeni criminali - a fronte di 100 denunce presentate le condanne comminate sono solo otto. E mentre ci si chiede dove siano finiti gli altri 92 reati, nelle carceri si torna al punto di partenza: solo negli ultimi tre mesi l’incremento del numero dei detenuti è stato del 6.3% (del 32%, invece, rispetto alla fine dei 2006). Quest’ultimo censimento penitenziario, dunque, testimonia ancora una volta come il tasso di sovraffollamento continui a crescere, avendo abbandonato ormai da un pezzo la normalità, e viaggiando invece sulla soglia dei 120 detenuti per 100 posti disponibili. A farla da "padroni" in questi angusti spazi, oltre naturalmente ai connazionali, ci sono i marocchini, con un contingente di 4.199 unità (praticamente un quinto del totale degli stranieri detenuti), in compagnia di romeni (a quota 2.738) e albanesi (2.380). Una Babilonia nella quale puoi trovare persone provenienti dagli angoli più sperduti del pianeta, addirittura uno dalle Seychelles. Difficile immaginare quale "forza" lo abbia spinto fin qui. Vero è che tale eterogeneità non sembra distinguere solo i nostri penitenziari: l’analisi del fenomeno negli altri Paesi europei mostra infatti come, tutto sommato, l’Italia non sia una mosca bianca, sebbene Francia, Germania e Regno Unito siano ben al di sotto delle nostre medie. Un’altra immagine, ancor meno consolante per un Paese civile, emerge dalla composizione della popolazione carceraria in base alla "posizione giuridica": solo il 40 per cento si trova "dentro" per aver subito una condanna definitiva. Il resto è in attesa, in una sorta di limbo, parcheggiato. Avendo ormai scambiato, con allarmante leggerezza, la carcerazione preventiva per un anticipo di pena. Qui, peraltro, la differenza di nazionalità gioca un ruolo determinante. Scorporando infatti i detenuti nelle due grandi famiglie degli italiani e degli stranieri, le disparità sono ancora più marcate. Nel primo caso i rinchiusi in attesa di sentenza definitiva sono il 49 per cento; nel caso degli stranieri, invece, la percentuale sale fino al 68.2%. Più di due detenuti di altra nazionalità su tre sono quindi in attesa della parola conclusiva sulla propria sorte processuale. E spesso non c’è stata neanche la sentenza di primo grado. Troppo spesso: 31 volte su 100 complessivamente, a prescindere dal Paese di origine. Questi dati possono forse non sorprendere gli addetti ai lavori, perché di spiegazioni tecniche ce ne saranno pure. E più d’una. Ma è singolare che sei volte su dieci, quando si parla di qualcuno rinchiuso in carcere, nessuno sia in grado di dire se effettivamente è "giusto" che sia così. E in modo definitivo. Giustizia: Progetto "Indulto", assunto il 19% dei tirocinanti
Ansa, 28 aprile 2008
Dodici regioni e trentanove province coinvolte, contatti diretti con 1.831 persone che hanno beneficiato dell’indulto (di cui 562 facenti parte del censimento di Napoli), delle quali 956, pari al 52%, sono state inserite in un tirocinio. Questo, in sintesi, il bilancio dell’azione nazionale del Progetto Indulto, promosso dai Ministeri del Lavoro e della Giustizia con l’assistenza tecnica di Italia Lavoro, al 31 marzo 2008, che ha portato all’assunzione di 79 persone. Uomo, tra i 31 e i 50 anni, di nazionalità e nascita italiana: questo il profilo medio di chi ha iniziato un percorso di reinserimento lavorativo. Il 91% dei tirocinanti è costituito da uomini, mentre solo una minoranza (86 persone pari al 9%) da donne. Guardando, poi, alle fasce di età, più del 72% dei beneficiari è compreso tra i 31 e i 50 anni, mentre solo l’11% ha tra i 18 e i 30 anni e appena il 7% ha più di 55 anni. Anche gli stranieri rappresentano solo il 5% dei beneficiari del progetto. A livello territoriale la Sicilia è la regione con il maggior numero di tirocini attivati: ben 196, pari al 20,50% del totale dei progetti formativi nazionali. Seguono Puglia (175), Lazio (134), Toscana (84), Liguria e Piemonte (ambedue 75), Emilia Romagna (70), Veneto (52), Sardegna (48), Campania (21), Lombardia (20), Friuli Venezia Giulia (6). I dati risentono di alcuni fattori peculiari del territorio: è il caso della Campania, dove i tirocini sono partiti in ritardo rispetto alle altre regioni, perché è stato eseguito un censimento degli indultati, che ha richiesto molto tempo. I tirocini attivi al 31 marzo sono 534, pari al 55% dei 956 progetti formativi sottoscritti. Solo 8 sono stati momentaneamente sospesi, ma saranno riattivati quanto prima, e spesso per motivi legati allo stato di salute della persona. Ben 414 (pari al 43% del totale), invece, sono i tirocini terminati a vario titolo, dei quali 79 conclusisi con un’assunzione. La maggior parte dei tirocini (136 casi, pari al 40% di coloro che hanno chiuso il ciclo formativo) si è naturalmente chiusa a fine percorso, ma non mancano anche casi di interruzione volontaria da parte del beneficiario dell’indulto (73 casi, pari al 21% dei tirocini terminati). Pochi, invece, i casi di interruzione del tirocinio da parte dell’azienda (52 casi, pari al 15%): un segnale positivo sulla disponibilità delle imprese ad accogliere questo tipo di progetti. Fra i 79 che hanno visto trasformare il loro tirocinio in un contratto di lavoro, 47 (pari al 59%) hanno raggiunto l’obiettivo prima del termine del tirocinio stesso: 26 a tempo determinato, 15 a tempo indeterminato e 6 senza contributo. Per i restanti 32 il contratto è arrivato al termine (o dopo) del tirocinio: 12 assunti a tempo determinato, 11 a tempo indeterminato e 9 senza contributo. Importante sottolineare che i 79 assunti rappresentano il 19% dei 414 tirocini terminati a vario titolo". La divisione dei tirocini per durata (4 o 6 mesi) mostra un’equa ripartizione, forse con una leggera prevalenza dei tirocini di 6 mesi. Giustizia; Sappe; serve maggiore ricorso a misure alternative
Il Velino, 28 aprile 2008
"Auspichiamo una svolta bipartisan di governo e Parlamento per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, anche alla luce della sostanziale inefficacia degli effetti dell’indulto. Destra, Sinistra e Centro concentrino sforzi comuni per varare una legislazione penitenziaria che preveda un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione, l’adozione di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il braccialetto elettronico) delineando per la Polizia Penitenziaria un nuovo impiego e un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale, la costituzione di una direzione generale della Polizia penitenziaria nell’ambito del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria". È quanto chiede in una nota indirizzata agli oltre 950 parlamentari del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati la segreteria generale del sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, organizzazione più rappresentativa della categoria con 12 mila iscritti. La lettera, a firma del segretario generale Sappe Donato Capece, sottolinea come "la questione penitenziaria deve essere posta tra le priorità di intervento di governo e Parlamento, anche con il suo prezioso contributo. Negli ultimi dieci anni c’è stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane: oggi rappresentano il 40 per cento del totale dei detenuti che è arrivato a quota oltre 52 mila e quindi sarebbe opportuno prevedere la loro immediata espulsione dall’Italia per fargli scontare la pena nelle carceri del loro paese d’origine". Il Sappe evidenzia che ogni anno le celle delle 205 carceri italiane si aprono per 90 mila detenuti di cui, però, 88 mila escono nel giro di 12 mesi. A questo turnover molto alto si aggiunge un periodo di permanenza in carcere assai breve: in cella, nella maggior parte dei casi, non si resta più di 90-120 giorni (il 62 per cento degli imputati fino a un mese, mentre circa il 31 per cento dei condannati da 6 a 12 mesi). Questo meccanismo di flusso viene definito "endemico" dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e su di esso l’indulto, approvato più di un anno e mezzo fa da Parlamento, ha avuto una incidenza bassa. "Il carcere dei nostri giorni - prosegue nella sua nota Capece - è diventato il luogo di raccolta delle espressioni del disagio sociale ed è quindi caratterizzato sempre più per la transitorietà delle permanenze e per la presenza di patologie, anche infettive, conseguenza di stili di vita inadeguati. E ciò si ripercuote principalmente sulle donne e gli uomini del Corpo di Polizia penitenziaria, che in palesi e gravi carenze di organico, svolgono questo duro e difficile lavoro 24 ore su 24. Urgono interventi concreti in materia di esecuzione della pena, di assunzione di personale, di dotare finalmente il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di quella direzione generale assolutamente necessaria e che non più attendere oltre: la direzione generale del Corpo di Polizia penitenziaria, che ponga in capo a sé tutte le attività di competenza del Corpo oggi frammentate tra le varie articolazioni del Dap". Proprio perché quella della sicurezza è una priorità per chi ha incarichi di governo e legislativi, auspichiamo una larga intesa politica per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile". Torino: detenuto suicida in Sezione osservazione psichiatrica
Ansa, 28 aprile 2008
Si è suicidato in carcere, a Torino, Giuseppe Clemente, 44 anni, di Castelvetrano, insospettabile imprenditore che ebbe un ruolo preminente nei "gruppi di fuoco" dei corleonesi di Totò Riina nel trapanese, condannato all’ergastolo in via definitiva dalla Cassazione nel febbraio del 2004 insieme a Matteo Messina Denaro, ultimo padrino di Cosa Nostra ancora latitante, nell’ambito del maxi processo Omega. Clemente, come anticipato da notizie di stampa, si è suicidato, impiccandosi con un lenzuolo ad una finestra, in un bagno del reparto Sestante, la Sezione di "Osservazione e trattamento psichiatrico dei detenuti", dove era ricoverato dal febbraio scorso. Soffriva di disturbi della personalità a causa di una forte depressione ma negli ultimi tempi sembrava avere recuperato i suoi problemi e stava per essere dimesso. Aveva chiesto di andare agli arresti domiciliari ed era in attesa di una risposta dal Tribunale di Sorveglianza. Il suicidio è avvenuto nonostante il reparto fosse controllato da telecamere. L’inchiesta che aveva portato all’ergastolo Giuseppe Clemente prese il via dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonio Patti, affiliato alla famiglia mafiosa di Marsala. Le sue rivelazioni consentirono di fare luce su una sessantina di omicidi ordinati da Cosa nostra e commessi nel trapanese dal 1960 al 1990. Empoli: "Ragazze Fuori" compie dieci anni di pubblicazioni
Comunicato stampa, 28 aprile 2008
Il progetto è del Comune di Empoli, gestito dall’Arci Empolese Valdelsa. Una rivista che ha il sapore di donna. È Ragazze Fuori, il giornale in "rosa" della Casa Circondariale Femminile a Custodia Attenuata di Empoli, che oggi, lunedì 28 aprile 2008 compie dieci anni di ininterrotte pubblicazioni. Il numero zero uscì il 28 aprile 1998 e nacque come strumento di informazione dal e sul carcere, ma soprattutto per dare voce alle donne detenute, che volevano farsi conoscere all’esterno come delle persone che devono pagare i propri errori ma che hanno anche altre capacità. Un progetto pensato all’interno di quella struttura, al tempo dell’Arci Empolese Valdelsa, poi ripreso dal Comune di Empoli che attraverso una convenzione con il carcere, offrì due posti di lavoro a due ex detenute di quell’Istituto, utilizzando le loro capacità giornalistiche per il giornale dell’amministrazione comunale Empoli che nacque nell’ottobre del 2000. Negli anni la rivista ha cambiato volto, nella veste grafica e nei contenuti. Si producono inchieste, interviste, si raccontano storie di vita, testimonianze. Si coinvolgono personaggi politici importanti, associazioni, persone comuni, detenuti o detenute di altri carceri, Ser.T., e tanto di altro. Un giornale che ha la sua testata autonoma, diretto dalla giornalista Barbara Antoni che ha creduto in questa idea fin dal primo giorno in cui la pensò insieme alle donne detenute di quel tempo e che oggi continua ad affiancare la redazione esterna come supervisore, occupandosi di rivedere tutto il materiale prodotto e disponendo l’impaginazione. A questo appuntamento non potevano mancare le parole della direttrice del carcere empolese, Margherita Michelini: "Un affettuoso buon compleanno per i dieci anni di vita del periodico Ragazze Fuori, con la speranza di poter festeggiare pubblicamente l’evento prima dell’estate. Con tale mezzo si è potuto, come era nostra intenzione, comunicare con i cittadini liberi, entrare nelle loro case, "abbattere" simbolicamente le mura che delimitano la vita delle abitanti del carcere del Pozzale dalla comunità esterna. Un periodico - prosegue la direttrice - che ha raccontato le storie, le emozioni, le speranze di oltre cento donne che nel corso degli anni sono state ospiti di questa custodia attenuata. Un periodico che ha rappresentato e che spero rappresenterà sempre più fortemente quel necessario dialogo tra il "dentro" ed il "fuori" indispensabile per un reale reinserimento nella società civile. Un vivo ringraziamento al Comune di Empoli che ha reso possibile la nascita e la vita del giornale, al direttore responsabile del periodico, alla redazione ed a tutti i cittadini che hanno interagito con noi facendoci sentire inclusi nel territorio". Ragazze Fuori continuerà ad impegnarsi per migliorare il suo percorso e crescere. Con l’Arci proseguirà questa fattiva collaborazione che potrà solo che arricchire il lavoro di squadra. Nei prossimi gironi uscirà il numero 1 del 2008 dove i lettori potranno leggere sulla legge 194; la sanità in carcere; ricette da leccarsi i baffi; poesie; interventi di amministratori; le voci delle donne che si raccontano. La rivista è consultabile sul sito Internet del Comune di Empoli; sul blog dei detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cotugno di Torino, Dentro e Fuori; sul sito del garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze; sul sito dell’Arci Empolese Valdelsa; sul sito www.espressioni.info e su tanti altri. Roma: al via Corso di formazione per i volontari del carcere
www.romasette.it, 28 aprile 2008
Due appuntamenti di formazione per chi vuole prestare la sua opera a favore dei detenuti. Spiega l’iniziativa padre Vittorio Trani, cappellano di Regina Coeli. Il Vo.Re.Co. (Volontari Regina Coeli), con i cappellani di Rebibbia Femminile e di Rebibbia Penale, organizza un corso di formazione per chi vuole prestare la sua opera a favore dei detenuti nelle carceri romane. Due gli appuntamenti: uno in primavera, su iniziativa del Vo.Re.Co., e l’altro in autunno, curato dal Vic (Volontari in carcere) di Rebibbia. Ad annunciarlo è il presidente del Vo.Re.Co. e cappellano di Regina Coeli, padre Vittorio Trani.
Padre Vittorio, c’è interesse verso questa forma di impegno sociale? Direi di sì. L’apertura verso il carcere va di pari passo con la crescita di una certa sensibilità verso il mondo del disagio, che negli ultimi anni è andato sempre crescendo.
Il volontariato rappresenta una ricchezza in tutti i settori della vita sociale. Lo è anche nel mondo del penale? Sì, e doppiamente. Lo è perché esprime una testimonianza di attenzione a una categoria di cittadini particolarmente scomoda e difficile. Lo è anche perché è come il prolungamento della società civile, che arriva a essere presente dentro un mondo che, a causa di curiosi meccanismi, tende a essere autoreferenziale.
Per il cristiano quanto è importante essere vicini ai detenuti? Un cristiano non può girarsi dall’altra parte. Una delle situazione umane dove Cristo si fa incontrare è quella di chi vive privo della libertà. Gesù non precisa se da innocente o da responsabile di atti antisociali. No. Quella valutazione spetta ad altri. Al credente serve uno sguardo che vada oltre. Vada ad incontrare la dignità della persona, che nessun reato e nessuna condanna possono far perdere. La condizione di uomo detenuto - privo della libertà e dei rapporti affettivi, relazionali e sociali - è messa da Gesù sullo stesso piano di quella del malato, dell’affamato, dell’assetato.
In concreto il corso cosa offre? Consente di prendere contatto con la realtà del carcere. Attraverso la presentazione dei temi più rilevanti che attengono il settore, si comincia ad avere un’"infarinatura" dell’impegno successivo. Sarà poi il lavoro sul campo che darà una conoscenza vera della realtà carceraria.
Quindi è importante inserirsi in un gruppo già collaudato… Non solo importante, ma assolutamente necessario. Il gruppo affianca nella fase di ambientamento, offre sostegno ed esperienza. In carcere il volontariato non può essere che un impegno svolto "in cordata". Assisi: vietato mendicare e "foglio di via" per i pregiudicati
La Repubblica, 28 aprile 2008
È la città santificata dall’apostolo della povertà, ma Francesco mica era un accattone. Assisi è serafica, però s’arrabbia se dietro la mano tesa a chièdere elemosina scorge il professionismo della mendicità. E poi i bivacchi, brutto spettacolo sulle scalinate sante, turisti armati di panini e soda che rotolano sui gradini, di bermuda e magliette alzati a prendere il sole. Allora no, neanche il patrono, così gioviale e leggero, avrebbe forse approvato. Ieri c’erano file ovunque per il Grand Tour francescano. C’era anche una nuova ordinanza in vigore in città, quella contro i mendicanti del sindaco eletto con Forza Italia nel 2006 Claudio Ricci. "Preciso subito: sono anni che lavoriamo per la legalità. Questa iniziativa non è che una naturale evoluzione, sollecitata da molte segnalazioni di cittadini, ospiti, comunità religiose". A Firenze, dopo quello sui lavavetri, un provvedimento simile ha fatto un certo scalpore. Padova e Vicenza pure, per decoro, schierate contro l’accattonaggio. Si ricordano altre celebri reprimenda: contro saccopelisti e torsi nudi a Venezia, contro le contrattazioni in strada con le prostitute a Padova (provocano traffico), persino contro gli snack consumati sulla pubblica piazza a Verona. Però questa di Assisi sembra quasi un paradosso. Sembra, ma le misure già in atto sono queste: campi nomadi sgombrati, locali chiusi all’una d’inverno e una mezz’ora dopo d’estate, niente bottiglie in vetro in piazza dopo le 22,un circuito di 60 telecamere, 2mila nuovi punti luce, un numero verde per la sicurezza e un corpo di volontari che dal 2004 controlla il territorio (molti sono ex militari). Non proprio ronde, però girano con le auto del comune e con i telefonini e avvertono se qualcosa non va. La nuova ordinanza per "salvaguardare i luoghi di culto e la decenza", fa "divieto di mendicare nei luoghi pubblici situati a meno di 500 metri da chiese, luoghi di culto, monumenti, piazze ed edifici pubblici". Cioè, in tutto il centro storico. È vietato "sdraiarsi, o sedersi a terra, in prossimità dei luoghi di culto, edifici pubblici, sotto i portici, sulle soglie e sui lati degli ingressi nonché lungo i muri perimetrali di detti edifici". Accattoni di professione e turisti scostumati rischiano sanzioni. Dice Ricci che "l’applicazione seguirà il buonsenso. Abbiamo formalizzato una prassi già diffusa: chi è risultato con precedenti penali, foglio di via dal comune". Assisi è città sicura, lo ammette anche il primo cittadino, "però se ci sono segnali di potenziale pericolo non vogliamo fare finta di niente". Non è un’ossessione politica, il sindaco lo nega, "molte comunità religiose locali ci hanno pregato di provvedere. L’obiettivo è preservare la sacralità di questi luoghi, senza rinunciare all’accoglienza". Certo la tentazione dei simboli. È forte, Francesco (anche) a mendicare è diventato santo. Ora la miseria, le sue evoluzioni di mercato, messa alla porta dalla città che dell’elemosina ha fatto una Regola. "Però quella francescana prevede prima il lavoro. Solo per necessità i frati possono andare "alla mensa del Signore"". Padre Vincenzo Coli è il custode del Sacro convento di San Francesco, "la mappatura di questo territorio la conosco bene, è cresciuto il business della mendicità professionale. Alcuni pensano di stare a Rimini, se al mare in bikini è giusto, qui serve rispetto". Immigrazione: Pdl; stretta sui flussi d’ingresso e nuovi Cpt di Vladimiro Polchi
Metropoli, 28 aprile 2008
Stretta sui flussi d’ingresso. Apertura di nuovi Cpt. Chiusura dei campi nomadi. Espulsione immediata degli irregolari. Giro di vite contro "l’invasione di romeni". La nuova maggioranza di centrodestra si prepara a irrigidire la legge sull’immigrazione. Dalla Bossi-Fini alla Bossi-Bossi? Non proprio. Finora a dettare la linea è principalmente la Lega Nord. Eppure, nessuna riforma radicale viene annunciata, "basterà - dicono - l’applicazione alla lettera della legge vigente" e il ritiro delle direttive del governo Prodi, che hanno attenuato per via amministrativa i caratteri più restrittivi della Bossi-Fini. E i flussi? "Mai più mega-decreti - avverte il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni -. Apriremo le quote col contagocce: troppi italiani sono infatti oggi senza lavoro". Per capire quali saranno le linee d’intervento dei partiti usciti vincitori dalle elezioni del 13 e 14 aprile scorso, basta dare un’occhiata ai loro programmi elettorali. Tra le "Sette missioni per il futuro dell’Italia", il Popolo della Libertà include: "Iniziative del governo italiano in sede di Unione europea affinché non si attuino più sanatorie indiscriminate per i clandestini; apertura di nuovi Centri di Permanenza Temporanea per l’identificazione e l’espulsione dei clandestini; contrasto dell’immigrazione clandestina, attraverso la collaborazione tra governi europei e con i Paesi di origine e transito degli immigrati; contrasto all’insediamento abusivo di nomadi e allontanamento di tutti coloro che risultino privi di mezzi di sostentamento legali e di regolare residenza; precedenza per l’immigrazione regolare ai lavoratori dei Paesi che garantiscono la reciprocità dei diritti, impediscono la partenza di clandestini dal proprio territorio e accettino programmi comuni di formazione professionale negli stessi Paesi; conferma del collegamento stabilito nella legge Bossi-Fini fra permesso di soggiorno e contratto di lavoro e contrasto allo sfruttamento illegale del lavoro degli immigrati; incentivi alle associazioni, alle scuole e agli oratori per la conoscenza della lingua, della cultura e delle leggi italiane da parte degli immigrati". Più esplicita la Lega Nord, che nella seduta del 2 marzo scorso del suo "Parlamento del Nord" chiedeva di "legare la residenza anagrafica alla salubrità dell’alloggio, alla reale dimostrazione di un lavoro e di un reddito minimo proveniente da fonti lecite e prevedere un generale riordino della normativa che disciplina l’anagrafe; regolamentare e controllare le dichiarazioni di "ospitalità" temporanee effettuate da stranieri, anche mediante il monitoraggio del sovraffollamento degli alloggi, indicando un numero massimo di persone che possono risiedere in ciascun alloggio e prescrivere alla questura l’organizzazione di un archivio unico informatico; non consentire i campi nomadi anche se non sono abusivi". Due dunque le linee d’intervento: la prima nazionale, a colpi di decreti; la seconda internazionale, in sede di Unione Europea. Per quanto riguarda i neocomunitari, a spiegare le intenzioni della nuova maggioranza politica ci pensa infatti il leghista Roberto Maroni, ministro dell’Interno in pectore: "Il nuovo Governo - ha annunciato il 21 aprile scorso - prenderà provvedimenti rigorosi sugli immigrati neocomunitari e valuterà l’opportunità di rinegoziare le regole con l’Ue. Non escludo - aggiunge il dirigente del Carroccio - una consultazione con la Commissione europea perché non possiamo accettare di essere il ricettacolo di chi esce dalle galere dei Paesi dell’Est". Dello stesso avviso il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni: "La Bossi-Fini va solo attuata - dichiara a Metropoli - dopo che il governo Prodi l’ha svilita con mille circolari che hanno aperto le porte ai clandestini. Quanto ai rom e ai romeni, bisogna fare come l’Austria, che prevede un diritto di transito sul proprio territorio di sole 24 ore, e rivedere gli accordi di Schengen". Che la Bossi-Fini non si tocca, lo ha ribadito anche Gianfranco Fini il 7 aprile scorso: "L’impianto della legge va salvaguardato - ha spiegato il leader di An -. La prima cosa da fare è rimuovere gli interventi del Governo Prodi". Sulla stessa linea Silvio Berlusconi: "La legge Bossi-Fini è stata completamente disattesa. Vogliamo arrivare alla vera identificazione dei clandestini". Quanto alla concessione del diritto di voto amministrativo agli immigrati le posizioni restano distanti: favorevole An, nettamente contraria la Lega. E comunque, nei programmi della coalizione vincente non ve n’è cenno. Immigrazione: status di irregolare è prima causa di devianza di Andrea Di Nicola (Ricercatore in Criminologia, Università di Trento)
Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2008
L’equazione "stranieri uguale criminalità" serpeggia tra i media, i politici e la gente comune. Le notizie sulla sicurezza sono urlate e i cittadini hanno paura. Bisognerebbe fare chiarezza, riportare oggettività in un dibattito "emotivo", per ragionare sulle possibili soluzioni. Come emerge dai dati del Dap e dagli studi condotti dal Centro interuniversitario Transcrime (Università di Trento e Cattolica), il quadro dei dati sugli immigrati presenti nei penitenziari italiani certo non appare roseo: sono tanti e in aumento e anche il confronto con altri Paesi evidenzia che la situazione italiana, pur non essendo la peggiore è complicata. I dati significano però poco se non sono interpretati. I perché di così tanti stranieri sono spesso legati, infatti, a cause oggettive che sfavoriscono i migranti e di cui all’opinione pubblica si da raramente conto. Vediamole. La criminologia da tempo insegna che sono i maschi giovani a delinquere di più. Poiché la popolazione straniera ha più maschi giovani di quella italiana, essa è statisticamente più a rischio di commettere reati. Inoltre, che cosa ci aiuta a conformare le nostre condotte alle regole, a comportarci bene? I legami sociali, gli affetti, la rete di persone intorno a noi, il nostro livello di integrazione nella società. Tutte cose che, non di rado, gli stranieri non hanno. Possono poi sentire il peso della delusione di aspettative non corrisposte; e le frustrazioni, a volte, generano devianza. Un altro fattore da considerare è la condizione - di regolarità o irregolarità - dello straniero. La maggior parte della criminalità degli immigrati - tra il 70 e il 90% a seconda dei reati - è appannaggio degli irregolari. Analisi scientifiche dimostrano che i regolari hanno invece tassi di criminalità più bassi degli italiani. È quindi l’irregolarità a produrre criminalità, e non, come una lettura superficiale dei dati potrebbe far pensare, la semplice nazionalità straniera di una persona. E più le norme sull’immigrazione contribuiranno involontariamente a generare irregolarità, più le nostre carceri traboccheranno di immigrati. Gli extracomunitari sono poi sovra rappresentati perché molti sono perseguiti per violazione delle leggi sull’immigrazione, reati che gli italiani, per ovvi motivi, non possono commettere. Si tratta di delitti per i quali entrano e rimangono in prigione solo per pochi giorni, facendo lievitare i numeri. Oltre a queste violazioni, i reati degli immigrati sono per lo più furti, scippi, rapine e spaccio di stupefacenti. Crimini ad alta visibilità, che allarmano l’opinione pubblica, che attraggono l’attenzione delle polizie più di altri e per i quali è spesso previsto l’arresto in flagranza: questo significa più probabilità, rispetto agli italiani che si concentrano anche su altre forme di criminalità, di essere denunciati e di finire in galera. Così come è più alta la probabilità di denuncia, così, dopo la denuncia, per lo straniero è più elevata la probabilità di rimanere in carcere in attesa di giudizio. Il rapporto tra stranieri e giustizia italiana è difficile. Possono avere problemi a esercitare il diritto alla difesa, per scarse possibilità economiche o per la carenza di una rete di rapporti familiari e/o amicali stabili. Inoltre la limitata conoscenza della lingua può penalizzarli durante l’intero processo penale. Raramente, d’altro canto, propongono appello contro la sentenza. In attesa di giudizio, all’immigrato di rado sono concessi i domiciliari: la custodia cautelare è spesso eseguita in carcere per mancanza di una fissa dimora e perché esiste un concreto pericolo di fuga. Ma anche nel caso di condanna a pena detentiva, le alternative alla detenzione sono usate poco. I motivi sono, anche qui, lo stato di irregolarità unito alla scarsità di strutture lavorative e abitative in grado di accogliere gli extracomunitari. Questi ultimi, in aggiunta, usufruiscono raramente di trattamenti disintossicanti al di fuori del carcere. Per la sostanza prevalentemente usata (la cocaina), la dipendenza è meno forte e con sintomi di astinenza meno violenti di quanto accade per gli italiani. La gestione di stranieri tossicodipendenti in carcere diventa più semplice. Il loro stato di irregolarità o clandestinità non permette poi la copertura sanitaria "fuori". Gli immigrati sono i nuovi ultimi. E nelle carceri finiscono gli ultimi. Le nostre prigioni sono sempre più un grande contenitore di disagio sociale. Un disagio che dovremmo sentire, ma che non ascoltiamo. Immigrazione: Regina Pacis; ma non è giusto criminalizzare
Ansa, 28 aprile 2008
Riconosciamo che ci sono casi in cui gli immigrati, come anche i cittadini italiani, commettono dei reati o vengono sottoposti a giudizi, che spesso si concludono anche con il riconoscimento della innocenza. Le cifre confermano tutto ciò, infatti nelle carceri italiane solo 4 detenuti su dieci sono immigrati. Ma nessuno mette in evidenza la minima possibilità che gli immigrati hanno di usufruire di benefici di legge, come gli arresti domiciliari, perché questi ultimi non hanno una dimora stabile, contrariamente agli italiani. L’immigrato è anche destinatario dell’azione criminale, quindi una vittima. Le ultime vicende italiane hanno visto destinatari a Roma, a Torino, a Treviso anche degli immigrati. Ma l’immigrato è spesso vittima occulta di un sistema di sfruttamento, come nel commercio del sesso, nel lavoro in fabbrica o in famiglia. Il crimine, purtroppo, fa parte del disagio sociale e scaturisce dalla volontà dell’uomo, italiano o immigrato che sia, di mettere in atto delle azioni a danno di altri soggetti indifesi e deboli, anch’essi italiani o immigrati. Il giusto richiamo alla sicurezza sociale non può essere stravolto ed inteso come aggressione al mondo degli immigrati, bensì come un richiamo alla società civile che deve isolare i violenti e malavitosi, per fare spazio ad una convivenza civile di alto valore morale, dove l’immigrato si inserisce responsabilmente e nel rispetto delle leggi, e l’italiano, usando un termine elementare, da il buon esempio. I reati sono legati ai territori ed al disagio sociale, che spinge frange diverse di soggetti ad essere autori di crimini inaccettabili. Questo accade nei luoghi ad elevata presenza mafiosa, come accade nei sobborghi dei grandi agglomerati, dove gruppi malavitosi composti da immigrati gestiscono i diversi traffici illeciti di sostanze stupefacenti e persone da sfruttare. Altrettanto accade lì dove domina la violenza di corpi estranei della società che negli stadi come nelle piazze del conflitto politico si lasciano andare in azioni devastanti. La nostra società genera purtroppo corpuscoli sociali violenti i quali con azioni solitarie o di gruppo commettono crimini che vanno debellati. La provenienza è straniera, come anche italiana. La nostra gente non vuole giustamente tutto questo ed invoca la sicurezza. La soluzione non è nella criminalizzazione del diverso, ma nella consapevolezza che stiamo mettendo su un mondo che non ha più rispetto dell’altro. Riflettiamo un po’ su questo aspetto!
Fondazione Regina Pacis Immigrazione: Miazzi; il clandestino va espulso, non arrestato di Giovanni Parente
Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2008
Depenalizzare condotte non connesse ad aggressioni alla persona o al patrimonio. Un circolo vizioso che alimenta insicurezza. L’inefficienza del sistema giudiziario rischia di esasperare i rapporti con gli stranieri. Troppo lunghi i tempi di definizione delle cause. Troppi i procedimenti penali. Perché "si cerca di dare una risposta in quest’ambito a comportamenti che criminali non sono". Almeno stando all’esperienza di Lorenzo Miazzi, 48 anni, Magistrato al Tribunale di Rovigo.
Da circa un ventennio si occupa delle problematiche connesse all’immigrazione tanto da ammettere di essere "cresciuto insieme" allo studio del fenomeno. È cambiata la delinquenza straniera in Italia? I dati sugli stranieri in carcere "ricalcano in linea di massima i flussi migratori che sono avvenuti. C’è una maggiore presenza negli istituti del Nord e del Lazio in relazione al più elevato numero di ingressi in queste regioni.
Eppure da qualche anno la criminalità quantificata in termini di reati emersi si è assestata, anche se l’incidenza è superiore nelle aree urbane. Ad aumentare è l’insicurezza dei cittadini. Una sorta di proiezione della propria paura? Si scarica sulla figura del diverso un’incertezza sociale. Le faccio un esempio. La percentuale di denunciati e detenuti degli stranieri regolari è più bassa di quelli italiani. A dimostrazione che, una volta avvenuto l’inserimento, è più difficile delinquere. Il problema sono i clandestini. I reati contro il patrimonio sono commessi più da stranieri. Per le violenze personali si registra una sostanziale parità. Mentre gli autori di altri tipi di reati sono prevalentemente connazionali.
Allora perché la sensazione della minaccia è più forte? È vero, si sono verificati episodi singoli molto gravi. Però non è possibile generalizzare. Gioca molto la potenza evocativa dei casi specifici. Il reato viene amplificato, anche mediaticamente, se è commesso da un immigrato.
Qualche colpa la macchina giudiziaria ce l’ha? Gran parte dei problemi nascono dall’inadeguatezza del sistema penale. Se la risposta di giustizia è tempestiva, anche l’immigrato ha tutto l’interesse a non delinquere. Quando, invece, è lontana nel tempo, non funziona da deterrente. E ciò porta a una percezione di impunità, specialmente per lo straniero di passaggio nel nostro Paese.
Un difetto di efficienza? Sì, bisognerebbe recuperare aumentando le risorse a disposizione e diminuendo gli illeciti sottoposti a disciplina penale. Allo stato attuale, se non si riesce ad espellere gli irregolari, li si arresta. Ma questo non fa altro che aumentare le statistiche sulla presenza di stranieri in carcere. E ritorniamo al punto di partenza. L’idea dell’immigrato si trova così ad essere più facilmente associata a quella del delinquente.
Soluzioni? Si potrebbe iniziare dalla depenalizzazione dei comportamenti che non sono connessi ad aggressioni alla persona o al patrimonio. Droghe: Provincia Bologna contraria al "kit" per le famiglie
Dire, 28 aprile 2008
Giuliano Barigazzi, assessore alla Sanità della Provincia di Bologna, boccia il kit antidroga che dà ai genitori la possibilità di verificare se i propri figli hanno assunto sostanze stupefacenti. Rispondendo nel corso del Consiglio provinciale di martedì scorso ad un’interrogazione di Giuseppe Sabbioni (Fi), Barigazzi cita anche una recente indagine sulle 38 farmacie milanesi in cui è possibile procurarsi il kit: in media sono stati distribuiti solo due kit sui 10 forniti dal Comune. "Quell’esperienza non ha dato i frutti sperati", è il commento dell’assessore. Ma il tema è ancora più complesso. "Molti giovani cominciano ad assumere diverse sostanze in modo occasionale - spiega Barigazzi - senza arrivare ad una dipendenza vera e propria". Barigazzi cita ad esempio la chetamina, "che non risulta con il test compreso nel kit". Gli strumenti su cui puntare, quindi, sono altri: "Servizi di prossimità nei luoghi dove i giovani si riuniscono e consumano", ad esempio. L’obiettivo, per Barigazzi, è "informare i ragazzi e offrire consulenza a genitori ed insegnanti". Piuttosto che diffondere i kit, serve "un’azione massiccia a scuola contro l’uso di stupefacenti", e "un’informazione vasta, capillare e vicina all’uso che i giovani fanno delle droghe". Sabbioni replica con una battuta: "Visto che a Milano di kit ne sono avanzati, sperimentiamoli sul nostro territorio così almeno diamo una chance a quei pochi che vorrebbero usarlo". Droghe: Usa; con pene alternative buoni risultati e risparmio
Ansa, 28 aprile 2008
I tribunali delle tossicodipendenze e le comunità di riabilitazione sono la risposta ai tossicodipendenti criminali e alle carceri sovraffollate, ha detto mercoledì il presidente della Corte Suprema dell’Alabama, Bell Sue Cobb. Parlando ad un Rotary Club, il supremo giudice ha avvertito che, a meno che il Tribunale di Stato ottenga un aumento di $ 8 milioni nel suo bilancio per il prossimo anno fiscale, questi programmi fondamentali potrebbero essere tagliati e 400 giudici potrebbero perdere il loro posto di lavoro. Essendo stato detto che le carceri sono al 200 per cento della loro capacità, Cobb ha affermato che il giudice della tossicodipendenza "è l’unica e migliore via" per riabilitare i tossicodipendenti e tenerli fuori dalle prigioni. "Una pena comunitaria", ha detto ad una folla di imprenditori e amministratori, "che riuscirà a cambiare le cose e a farci risparmiare soldi pubblici". I tribunali della tossicodipendenza tengono fuori di prigione i possessori o consumatori non violenti, immettendoli in un percorso di recupero in comunità che comprendono consulenza, servizio alla comunità, test antidroga e monitoraggio intensivo. Nel mese di agosto, erano 18 le contee dove operavano i tribunali della droga. Oggi, Cobb ha detto, sono in 63 delle 67 contee dello stato. Il Commissario statale per le Prigioni di Stato, Richard Allen, ha dichiarato alla Associated Press che nel mese di agosto circa un terzo dei 24.500 carcerati sono stati condannati per reati di droga e circa l’80 per cento di questi ha commesso reati a causa della dipendenza alla droga. Droghe: Canada; "controlli preventivi" con i cani sono illegali
Ansa, 28 aprile 2008
Non sempre l’utilizzo dei cani antidroga da parte delle forze dell’ordine può ritenersi legittimo. Anzi, in alcuni casi rappresenta una violazione della privacy. Lo ha stabilito la Corte Suprema del Canada, dando ragione ad uno studente dell’Ontario, già assolto in appello dall’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti e possesso illegale di droga. Il giovane, che frequentava la St. Patrick’s High School di Sarnia, venne sottoposto ad un controllo casuale da parte della polizia, che utilizzò cani antidroga nell’operazione di prevenzione condotta a campione fuori dell’istituto scolastico. Nello zainetto, gli venne trovata marijuana e dei funghi allucinogeni. Da qui le pesanti accuse, contro le quali il giovane ha citato in giudizio la polizia sostenendo che l’uso dei cani antidroga violava la privacy e la Carta dei Diritti. Dopo aver ottenuto ragione in Corte d’Appello, il caso dello studente è approdato in Corte Suprema. Confermando la sentenza di secondo grado, il massimo organo della giustizia canadese ha ribadito che i cani devono essere utilizzati per annusare la droga a distanza e che la polizia, in occasione del controllo a campione effettuato a Sarnia, non era in possesso di mandati di perquisizione che gli consentissero di frugare nello zainetto dello studente. Honduras: nove detenuti uccisi nel corso di scontri tra bande
Ap, 28 aprile 2008
Resa dei conti a colpi di machete in un carcere dell’Honduras: secondo le autorità penitenziarie del Paese centro-americano, i detenuti rimasti uccisi nella prigione di San Pedro Sula sono nove. Si tratta del penitenziario di San Pedro Sula che ospita circa tremila detenuti anche se era stato progettato per ospitarne molti di meno. A innescare la sommossa pare sia stato un prigioniero che ha sparato a un altro detenuto. Alcune delle vittime facevano parte di bande. Il commissario di polizia Victor Lopez ha detto che i galeotti si sono fronteggiati con machete e coltelli. Una delle vittime, tuttavia, sarebbe stata uccisa da un colpo di arma da fuoco. I 24 penitenziari dell’Honduras ospitano circa 12mila detenuti. Anche a causa di un personale carcerario alquanto ridotto, sono spesso teatro di rivolte sanguinose ed evasioni. Filippine: concerto di detenuti in internet, 15 milioni di visite
Reuters, 28 aprile 2008
L’isola filippina di Cebu è rinomata come destinazione per le vacanze ma ultimamente è il penitenziario provinciale e non le sue sabbiose spiagge ad attrarre visitatori. I detenuti hanno messo in piedi un videoclip in cui cantano e ballano "Thriller" di Michael Jackson e il filmato è diventato una hit su YouTube, con 15 milioni di spettatori on-line. Ma adesso la gente ha cominciato ad affluire ogni mese tra le mura della prigione per assistere allo spettacolo live. "È stato molto divertente, veramente", racconta Kathleen, studentessa universitaria tra le centinaia di persone che hanno visto lo show. Al termine dell’esibizione, che si tiene l’ultimo sabato di ogni mese, i visitatori possono scattare foto con i detenuti e acquistare souvenir e magliette del penitenziario. Byron Garcia, direttore del carcere che ha introdotto questo particolare esercizio per i detenuti, dice che questi se ne giovano molto, soprattutto in termini di autostima. "Sono molto orgogliosi che in tanti vengano a vederli".
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