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Giustizia: da candidati premier solo convergenze apparenti di Giuliano Pisapia (Presidente Commissione riforma Codice penale)
www.radiocarcere.com, 10 aprile
Non è facile fare una sintesi delle risposte che i candidati premier hanno dato al Riformista sui temi della Giustizia. Silvio Berlusconi, col suo silenzio, ha confermato una concezione privatistica della giustizia e il totale disinteresse a un confronto su questioni che pure riguardano milioni di cittadini. Daniela Santachè, invece, coscientemente - in quanto è certo consapevole della differenza tra le tematiche collegate alla sicurezza (di cui nessuno nega l’importanza) e quelle legate al funzionamento della giustizia - ha parlato di altro. Favorevole alla separazione delle carriere (battaglia storica dei socialisti, come rivendicato da Boselli), alla regolamentazione delle intercettazioni e al divieto della loro pubblicazione prima del processo, ha preferito soffermarsi sui temi dell’immigrazione e della prostituzione (proponendo, tra l’altro, la riapertura delle "case chiuse"). Fuori tema, quindi! A meno di sostenere, come pure fanno alcuni, che il processo penale è strumento di lotta al crimine e non mezzo per accertare l’innocenza o la colpevolezza di un imputato e che le garanzie, principale argine agli errori giudiziari e alle ingiuste detenzioni (anche nei Cpt), non debbano valere per tutti. Modifiche delle norme sul segreto d’indagine, sulla pubblicazione arbitraria di atti processuali e sulle intercettazioni (importante strumento di indagine, ma di cui viene denunciato l’abuso) sono ritenute urgenti anche dagli altri candidati premier. La Camera, fin dallo scorso anno, aveva approvato un testo ampiamente condiviso: è quindi auspicabile che - salvo inaccettabili iniziative preannunciate da Berlusconi (tra cui quella di consentire le intercettazioni solo per indagini sul terrorismo o sulla criminalità organizzata) - un analogo possa essere discusso al più presto dal nuovo Parlamento, creando così le condizioni per l’approvazione di una normativa che sappia coniugare la doverosa tutela delle indagini con il diritto di informare e di essere informati e il rispetto della privacy (soprattutto di chi non è indagato). Sanzioni adeguate, pecuniarie e interdittive, potranno essere un efficace freno alle quotidiane fughe di notizie e ai processi mediatici che, con "sentenze" precostituite, danneggiano i singoli e la giustizia. La necessità di interventi urgenti per accelerare i tempi vergognosamente lunghi della giustizia penale (e civile!) è la preoccupazione maggiore che traspare dagli articoli inviati a Radio Carcere. Alcune proposte, tese soprattutto a una maggiore efficienza della "macchina giudiziaria", sono ampiamente condivise: incremento dei fondi per la Giustizia, istituzione dell’ufficio del processo (Veltroni - Bertinotti), uso di mezzi telematici, soprattutto per le notifiche, i cui ritardi sono una delle cause principali dei rinvii dei processi (Veltroni, Casini, Boselli, Bertinotti) ecc. Anche il rafforzamento dei riti alternativi è stato indicato, soprattutto da Casini e Bertinotti, come uno strumento per rendere la giustizia più efficiente, senza incidere negativamente sulle garanzie. Se si passa però all’esame delle proposte di carattere legislativo, le differenze sono radicali. Boselli e Casini ritengono indispensabile limitare, o quanto meno regolamentare, l’obbligatorietà dell’azione penale; Veltroni propone criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale fissati congiuntamente da Parlamento, Csm e Procuratori della Repubblica. Per Bertinotti, invece, l’obbligatorietà dell’azione penale è presupposto dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e prospetta, anche con l’obiettivo di accelerare i tempi della giustizia, un’ampia depenalizzazione e un sistema sanzionatorio con pene principali diverse dal carcere (interdittive, prescrittive, riparatorie etc.). Profonde anche le divergenze sulla "Legge Gozzini". Il leader Udc ne chiede una drastica limitazione, pur in un sistema carcerario "più moderno e umano"; Boselli, invece, la difende con forza; Bertinotti la considera indispensabile per il reinserimento sociale e, quindi, per la diminuzione della recidiva (altissima per chi sconta la pena in carcere e di gran lunga inferiore per chi usufruisce di sanzioni alternative). Veltroni non ne fa cenno: vi è da dire, però, che il programma del Pd ne prevede una forte limitazione e propone anche la carcerazione fin dalla sentenza di I grado e l’aumento dei casi di cd. "custodia cautelare obbligatoria". Carcerazione preventiva che, invece, per Boselli, Casini e Bertinotti, dovrebbe tornare ad essere l’eccezione. In questo contesto, che vede importanti convergenze, ma anche rilevanti divergenze, è fondamentale che si esca dalla logica dello scontro e, soprattutto, che si ponga fine a ogni strumentalizzazione della giustizia per fini che, con la giustizia, nulla hanno a che fare. Solo così sarà possibile confrontarsi e approvare in tempi rapidi quanto meno le proposte condivise, evitando che l’attuale stato fallimentare della giustizia si trasformi in coma irreversibile. Giustizia: i candidati premier ci indicano soluzioni generiche di Vittorio Borraccetti (Magistrato)
www.radiocarcere.com, 10 aprile
Un sistema di giustizia penale ispirato ai principi costituzionali (stretta legalità e tassatività di reati e pene, giusto processo in tempi ragionevoli, umanità della pena e sua tendenziale funzione rieducativa) è in qualche modo evocato con sottolineature diverse da quasi tutti gli scritti degli esponenti politici. Tuttavia le proposte formulate rimangono alla fine generiche, anche perché la complessità e gravità delle questioni è tale che non si possono pretendere in un breve testo contenuti articolati e dettagliati. Vanno colti allora ed evidenziati alcuni punti importanti. Non si può non concordare, innanzitutto, con chi afferma che una buona riforma della giustizia penale non può essere subordinata agli interessi di categorie professionali. Sarebbe, però, bene al contempo ricordare come una buona parte delle riforme riguardanti la giustizia penale degli ultimi anni sia stata fatta a tutela di determinate categorie e talvolta di singoli imputati. Positivo che si parli di riorganizzazione della geografia giudiziaria. È l’annoso tema della ridefinizione della distribuzione degli uffici giudiziari sul territorio nazionale secondo parametri di funzionalità, che costituisce premessa per una distribuzione razionale di magistrati, personale amministrativo, beni strumentali, risorse finanziarie. Da questi interventi strutturali dipende anche l’efficacia concreta della auspicabili riforme in materia di diritto penale sostanziale e processuale. Ma quella delle circoscrizioni giudiziarie si è rivelata una delle riforme più difficili da fare, sempre avversata da localismi e interessi di categoria, per cui sul punto lo scetticismo è inevitabile. Tuttavia l’esistenza di un organo come il Giudice di Pace accanto al Tribunale dovrebbe consentire di soddisfare l’esigenza della prossimità senza pregiudicare quella della concentrazione delle risorse. Si può confermare il Giudice di pace come giurisdizione diffusa sul territorio e invece concentrare Tribunali e Procure in località capaci di servire un ambito territoriale più vasto. Negli scritti degli esponenti politici si accenna al tema del processo penale stabilendo un nesso tra processo e domanda di sicurezza. Ciò può costituire fonte di equivoci. Il processo penale non può essere visto come lo strumento per condannare nel tempo più breve possibile. Esso è essenzialmente strumento di garanzia, la cui ragion d’essere è la verifica della fondatezza o meno dell’accusa mossa ad una persona, nel riconoscimento pieno del diritto di difesa. Certo, la specifica disciplina del sistema processuale influisce sulla tutela della sicurezza. Ma non si può chiedere al processo di essere né soltanto né principalmente funzionale alla tutela della sicurezza. Così come esso non può essere concepito come strumento per dilazionare nel tempo il momento di accertamento della responsabilità o per vanificarne gli effetti. L’insistita richiesta di certezza della pena può essere condivisibile in quanto esprima l’esigenza di non vanificazione della condanna nel caso di accertata responsabilità. Si tratta di una esigenza che si ricollega a quella costituzionalmente sancita della ragionevole durata del processo. È la decisione del Giudice, di condanna o assoluzione che sia, che deve intervenire in tempi che non ne vanifichino il carattere di giustizia e l’effetto di ripristino della legalità violata. Da questo punto di vista sono necessari ed urgenti interventi per dare ragionevolezza ai tempi del procedimento penale, semplificando la procedura, eliminando formalismi ingiustificati, differenziando i riti a seconda del tipo di sanzione da applicare, riformando il sistema delle impugnazioni soprattutto nel senso di restringere l’ambito del ricorso per cassazione. Non è invece condivisibile l’idea di certezza della pena nel senso della sua immodificabilità. Può essere necessaria una più rigorosa disciplina dell’accesso alle misure alternative, con riferimento alla gravità del reato per cui vi è stata condanna, ma va tenuto fermo il principio ispiratore dell’ordinamento penitenziario per cui durata e modalità di esecuzione nel tempo vanno modulate sul percorso di recupero e reintegrazione sociale del condannato. Non si può non essere d’accordo sulla riforma del diritto penale, anche per i riflessi che sul piano processuale può avere la diversificazione della sanzioni e la limitazione della pena detentiva. Se si operasse per la drastica limitazione del diritto penale, anche con l’introduzione generalizzata del criterio dell’irrilevanza del fatto, potrebbe essere sdrammatizzata la discussione sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione da parte del Pubblico Ministero. In ogni caso si può verificare anche la possibilità di indicazioni di priorità, fissate per legge, nell’esercizio dell’azione penale. Alla condizione che non si tratti di espedienti per vanificare il principio di obbligatorietà nei confronti dei reati contro la pubblica amministrazione ed economici. Giustizia: Sinistra Arcobaleno; abrogare le leggi criminogene di Arturo Salerni (Responsabile Carceri del Prc)
Aprile on-line, 10 aprile 2008
Potenziare le politiche sociali, ridurre il numero complessivo di reati per permettere ai magistrati di concentrarsi solo su questioni di grave portata criminale, il ritorno alla Costituzione, recuperare il realismo, riavviare una stagione di riforme. Il tema della giustizia e della tutela dei diritti va rilanciato nell’ambito di questa campagna elettorale. Per questo la Sinistra l’Arcobaleno ha diffuso lunedì scorso, nell’ambito di un dibattito pubblico, i contenuti del suo programma in tema di giustizia. A partire dall’obiettivo della riduzione dell’area dell’illecito penale con l’abrogazione delle leggi criminogene Fini-Giovanardi e Bossi-Fini e l’approvazione del Codice penale predisposto dalla commissione presieduta da Giuliano Pisapia. Il filo rosso che ha unito il confronto tra i parlamentari Balducci, Leoni, Russo Spena e gli operatori della giustizia è stato chiaro: potenziare le politiche sociali, ridurre il numero complessivo di reati permetterebbe ai magistrati di poter concentrarsi solo su questioni di grave portata criminale, riducendo i tempi infiniti della giustizia. L’avv. Borzone delle Camere Penali ha poi lamentato l’assenza di dibattito sulla giustizia da parte di tutte le compagini politiche diverse dalla Sinistra l’Arcobaleno. Addirittura, fa notare Pisapia, sul quotidiano Il Riformista lo spazio dedicato agli interventi dei leader politici in tema di giustizia è stato inevaso da Silvio Berlusconi, attento a parlare di giustizia solo quando è chiamato in questione personalmente. E poi il prof. Moccia ad evidenziare, provocatoriamente, che di giustizia se ne parla e come in questa campagna elettorale, ma sotto le spoglie della sicurezza totale, rilanciando l’idea delle campagne securitarie contro mendicanti, lavavetri, consumatori di droghe leggere e stranieri. Interessante il parallelismo proposto da Russo Spena sulla sospensione dello stato di diritto a Napoli e a Genova e la detenzione amministrativa nei Centri di detenzione per stranieri. Laboratori del controllo totale, della detenzione non per ciò che hai fatto ma per ciò che sei (o rappresenti). Ammette poi le difficoltà, "la sconfitta" di non essere riusciti, in questi due anni scarsi di governo, a chiudere i Cpt, a introdurre il reato di tortura nel codice penale, ad istituire il Garante delle persone private della libertà e una commissione di inchiesta sui fatti di Napoli e Genova. Ma è persuasivo quando incita a non demordere e a rilanciare nella prossima legislatura un’aspra battaglia per la realizzazione di tali obiettivi. D’altronde è chiaro, come fa notare Barbarossa della segreteria nazionale Prc, che la volontà vera del complotto Pd - Pdl è quella di cancellare la Sinistra in Italia, le istanze di lavoratori, donne e interi strati sociali che vivono in situazioni di disagio o di difficoltà. È il sessantesimo anno della nostra Costituzione. Ridare forza ai suoi principi, permettere al nostro sistema processuale penale di riprendere a funzionare. La Sinistra l’Arcobaleno ha ben chiaro tale scopo: evitare la produzione inutile di scartoffie e procedimenti destinati ad essere abbandonati, concentrarsi sulla repressione dei fatti più gravi, ridurre la durata dei procedimenti,evitare le sofferenze inutili e dannose prodotte da un sistema sempre più teso a criminalizzare alcune fasce marginali o emarginate, riavviare politiche di inserimento sociale e lavorativo, oggi è possibile. D’altronde, contrariamente ai dati proclamati in pompa magna da politici sceriffi e media, in Italia non vi un allarme sicurezza tale da rendere la situazione più complessa del passato perché il numero di crimini è sostanzialmente lo stesso da 10 anni. Se aumenta il senso d’insicurezza dei cittadini ciò è dovuto alle campagne mediatiche orchestrate per mascherare la propria responsabilità politica del fallimento del welfare state. Se aumentano di mille unità al mese i detenuti ciò è dovuto alla creazione di nuove figure criminali (il consumatore di droghe, il clandestino) e non ad un imbarbarimento di chi popola (straniero o autoctono) questo paese. Non promettiamo e non vogliamo, dunque, più "poliziotti di quartiere" ma politiche sociali e una giustizia più equa ed efficace. Ritornare alla Costituzione, recuperare il realismo, riavviare una stagione di riforme è il cammino che la Sinistra ha davanti. Giustizia: sulle linee - guida per la salute mentale in carcere di Ardea Moretti (Cooperativa Sociale Itaca)
Vita, 10 aprile 2008
Questi vogliono essere solo alcuni brevi cenni di invito alla riflessione, che deve essere estesa anche ad un altro importante atto del Ministero della Salute e della Giustizia: le Linee di indirizzo per gli interventi del Servizio Sanitario Nazionale a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale. Si parte dalla legislazione già vigente (che già afferma che anche i detenuti ed internati hanno diritto alla salute, anche quella mentale) e dall’esigenza di una sua necessaria applicazione, che (forse) può essere resa possibile proprio dal passaggio previsto delle competenze e della titolarità delle funzioni sanitarie esercitate all’interno degli Opg e nelle Case di cura e custodia dal sistema penitenziario al Servizio sanitario nazionale. Si danno tempi precisi: un anno affinché i Dsm, nel cui territorio di competenza insistono gli Opg, provvedano alla stesura di un programma che preveda la dimissione di chi ha concluso la misura della sicurezza, l’attivazione di sezioni di cura e riabilitazione all’interno delle carceri, l’accertamento delle infermità psichiche in istituti ordinari. Nel successivo anno una "territorializzazione" dei ricoveri negli Opg, per favorire la predisposizione di programmi di cura, riabilitazione e recupero sociale, basati su stretti rapporti tra servizi sociali e sanitari. Quindi, nel terzo anno, la "restituzione ad ogni regione italiana della quota di internati in Opg di provenienza dai propri territori e dell’assunzione della responsabilità della presa in carico, attraverso programmi terapeutici e riabilitativi da attuarsi all’interno della struttura, anche in preparazione alla dimissione ed all’inserimento nel contesto sociale di appartenenza", anche attraverso "livelli diversificati di vigilanza, strutture di accoglienza e affido ai servizi psichiatrici e sociali territoriali, sempre e comunque sotto la responsabilità assistenziale del Dsm dell’Azienda sanitaria". Forse i tempi non saranno proprio questi, ma è un progetto da cogliere, seguendo con interesse anche il trasferimento delle risorse e dei fondi. Giustizia: Polizia Penitenziaria, in 10 anni 64 agenti suicidi
Redattore Sociale, 10 aprile 2008
Nel 2008 sono già 4. Le cause? "Personali, ma manifestano un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni". Sindacati e Dap studiano un programma di interventi: un call-center e un osservatorio per l’ascolto dei bisogni. Sono 64 gli agenti di Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita in 10 anni (1997/2007); già 4 nel 2008. I dati sono stati diffusi oggi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria secondo cui "si tratta di un fenomeno sostanzialmente comune a tutte le Forze di Polizia". "È certo che l’amministrazione penitenziaria non può restare inerte di fronte al drammatico fenomeno dei suicidi che, negli ultimi mesi, si sono verificati tra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria", ha affermato il capo del Dap, Ettore Ferrara, nel corso dell’incontro che si è tenuto con le organizzazioni sindacali per discutere della particolare situazione di disagio vissuta dagli appartenenti alla Polizia penitenziaria. Era presente il ministro della Giustizia Luigi Scotti, che ha voluto sottolineare l’attenzione al problema. I suicidi si sono verificati sia al nord che al sud, ma raramente all’interno della sede di servizio: dal 2006 ad oggi solo 1 caso su 13. Le cause, secondo quanto riferito dal Dipartimento, sono legate soprattutto a problemi finanziari, sentimentali, dolore per la perdita di un familiare, preoccupazione per una diagnosi infausta. Insomma personali. Tuttavia, sottolinea il Dap, "sembrerebbe emergere che i recenti episodi di suicidi di appartenenti alla Polizia Penitenziaria, benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, sono, in taluni casi, le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni. Un disagio, peraltro, significativamente comune a tutte le Forze di Polizia". Sindacati e ministero hanno avanzato alcune soluzioni immediate, di medio e lungo termine, convenendo sulla necessità di "mettere in campo un programma articolato di interventi" che abbia l’obiettivo di migliorare la qualità dei vita degli agenti, mettere in rete le esperienze maturate in questo ambito all’interno delle Forze di Polizia e coinvolgere le forze politiche perché adottino interventi concreti. In questa prospettiva, i primi passi dell’Amministrazione penitenziaria, in accordo con i sindacati, prevedono una direttiva ai Provveditori regionali per "recuperare attenzione alla cura dei rapporti interpersonali e alle esigenze di comunicazione", un servizio di call-center da mettere a disposizione del personale per il sostegno in situazioni di disagio e un osservatorio nazionale per l’analisi dei bisogni e l’individuazione delle soluzioni più adeguate. Si punta anche a rafforzare la formazione, aiutando gli agenti a sviluppare strumenti psicologici idonei a fronteggiare situazioni di stress e di burnout. Il Dap e le organizzazioni sindacali, inoltre, hanno infine convenuto sulla opportunità di procedere a una verifica periodica dell’efficacia degli interventi individuati, al loro eventuale potenziamento e a programmare ulteriori interventi. Giustizia: caro Napolitano, io insisto sulla grazia per Sofri… di Franco Corleone (Garante dei diritti dei detenuti di Firenze)
Il Manifesto, 10 aprile 2008
Caro Presidente, rispondo alla Sua lettera (il manifesto 15 marzo) e in particolare alla risposta del consigliere Loris D’Ambrosio da Lei definita obiettiva e puntuale. La ringrazio della sollecitudine ma non sarei sincero se non Le manifestassi il mio dissenso nel merito. Per motivare il sostanziale rifiuto della grazia, si cita la sentenza n. 200 del 2006 della Corte costituzionale, secondo la quale la grazia sarebbe un istituto di natura extra ordinem destinato a far fronte a "eccezionali esigenze di natura umanitaria", non tutelabili attraverso gli ordinari strumenti penitenziari. Mi permetto di osservare che questa è una visione riduttiva del potere di grazia e che le ragioni umanitarie di un atto di clemenza non possano essere ristrette alle condizioni di salute del detenuto interessato. D’altronde un potere assoluto per compiere un "atto gratuito e straordinario di generosità" non può essere limitato a una condizione di salute; altre sono le considerazioni che giustificano un atto affidato proprio ai valori della Costituzione e che proprio nell’aderenza agli obiettivi della Carta non assume il carattere di arbitrarietà. Del resto così Ella si è determinato nella concessione della grazia a Ivan Liggi e ai cinque condannati per gli attentati in Alto Adige/Sudtirol negli anni sessanta. Questa concezione mi pare confermata dalla stessa sentenza n. 200 del 2006, che ha fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica in tema di concessione di grazia. La Corte costituzionale nella sentenza citata ha ricordato come " l’esercizio del potere di grazia risponda a finalità essenzialmente umanitarie, da apprezzare in rapporto ad una serie di circostanze, inerenti alla persona del condannato o comunque involgenti apprezzamenti di carattere equitativo, idonee a giustificare l’adozione di un atto di clemenza individuale, il quale incide pur sempre sull’esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie formali e sostanziali offerte dall’ordinamento del processo penale. La funzione della grazia è, dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, consacrati nel terzo comma dell’art. 27 Cost., garantendo soprattutto il "senso di umanità", cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio desumibile dall’art. 2 Cost., non senza trascurare il profilo di rieducazione proprio della pena". Per altro lo stesso consigliere D’Ambrosio chiarisce che nel caso di malattia gravissima in corso è prevista nell’ordinamento l’incompatibilità con la detenzione in carcere e il differimento dell’esecuzione e nel caso di una condizione di salute seria ma non patologicamente irreversibile, il magistrato di sorveglianza può decidere la prosecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare. Si dimostra cioè che esistono strumenti assai sofisticati per risolvere ordinariamente tutti i casi in cui sia compromessa la salute del condannato. Dunque il collegamento della grazia alle problematiche di salute appare improprio. Il caso di Adriano Sofri è peraltro del tutto eccezionale, come bene aveva colto il consigliere Salvatore Sechi quando il 9 gennaio 2002 affermava: "Il Presidente Ciampi conosce bene la complessa vicenda processuale che ha portato alla condanna definitiva di Adriano Sofri e dei suoi coimputati ed è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo, soprattutto se restrittiva della libertà personale". A mio parere, Signor Presidente, qui sta il nocciolo della questione. Adriano Sofri è stato condannato a 22 anni di carcere con l’accusa di essere il mandante (rectius: per avere confermato il mandato) dell’omicidio del commissario Calabresi avvenuto nel 1972. L’arresto avvenne a fine luglio del 1988 e la vicenda giudiziaria con diversi gradi di giudizio (compresa una sentenza di assoluzione inficiata da una motivazione "suicida"), e rinvii si concluse nel 2000 dopo il processo di revisione a Venezia che confermò la condanna, auspicando nella sentenza una soluzione di non carcerazione ulteriore attraverso la concessione della grazia. Il nodo è il senso di una detenzione che si rivela inutile giacché l’obiettivo previsto dall’art. 27 della Costituzione sullo scopo della pena, la rieducazione e il reinserimento sociale, è ictu oculi evidente, trattandosi di uno degli intellettuali italiani più lucidi e impegnati, che in questi anni dal carcere ha fortemente contribuito a sollecitare l’opinione pubblica sulle grandi questioni della pace e della guerra, dei diritti umani, del destino del pianeta, della pena di morte. Presidente Napolitano, una detenzione, seppure domiciliare, per questi motivi si configura come pura afflizione in violazione della Costituzione. Non mi pare di esagerare nel dire che assistiamo a una sorta di sequestro di persona in funzione del principio retorico della certezza della pena. Tutti coloro che erano impegnati su questo fronte salutarono la concessione della grazia a Ovidio Bompressi come il primo passo per chiudere un capitolo doloroso della storia del nostro paese. Invece nulla è accaduto nonostante la malattia improvvisa che colpì Sofri nel carcere di Pisa e nonostante la tragedia familiare avvenuta lo scorso anno. Mi auguro che la decisione di non concedere la grazia a Sofri non sia definitiva. Mi sono permesso di esprimerle con rispetto alcune valutazioni per me fondamentali, di principio e di diritto, augurandomi che Lei voglia considerarle e tornare a riflettere su una decisione che non può essere condizionata dallo spirito dei tempi o dal timore di reazioni strumentali. Chi salva un uomo, salva l’umanità: soprattutto sarebbe bello ed educativo dare un segnale contrario allo spirito di vendetta e di rancore che sembra animare il nostro presente. Non si tratta di un atto che riguarda solo Adriano Sofri. Mi auguro che questo scambio di opinioni inneschi un confronto più largo, che coinvolga giuristi, studiosi ed esponenti della società civile sul carattere della grazia dopo la pronuncia della Corte costituzionale. A Lei solo, caro Presidente, la parola! Consideri questa condizione un privilegio e non un peso. Lettere: Giovanni e "il diritto di uscire migliori dal carcere"
Il Mattino, 10 aprile 2008
Sono uno studente di giurisprudenza, ma sono anche un detenuto. Nel discorso d’apertura dell’anno giudiziario, 66 pagine, il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, la parola "giustizia" è riportata 130 volte, solo sei volte la parola "certezza" della pena, solo una volta la parola "penitenziari", ma neppure una volta la parola "carcere" o "carceri" o la parola "detenuto" o "detenuti". C’è qualcosa che non va. Il magistrato è simbolo di giustizia, legalità, di rispetto della legge, al cospetto del quale ogni cittadino si rivolge nella speranza di ricevere giustizia, prescindendo dalla condizione sociale o personale. Da detenuto, da studente, da cittadino italiano mi interrogo su quale sia la funzione della pena e se gli strumenti voluti dal legislatore per darle il giusto senso, in una regione come la Campania in particolare, debbano essere totalmente ignorati. Se la pena ha una funzione, questa trova possibilità di concretezza proprio attraverso gli strumenti della legge 26 luglio 1975 n. 354 dell’Ordinamento penitenziario. La legislazione dà realmente tante opportunità che la pena diventi un momento di formazione, di costruzione di una personalità disarticolata. Il percorso liberatorio è tracciato in una stringente progressione: dal permesso premio all’ammissione al lavoro all’esterno, alla semilibertà, all’affidamento sociale e via dicendo. Peraltro, la tendenza a un’applicazione più ampia si è avuta con l’introduzione, nel 1986, della legge Gozzini, dall’art. 30ter che ha contribuito a eliminare ogni dubbio sulla natura del permesso esistente fin dal 1978 per mezzo dell’art. 30. La caratterizzazione del permesso è rimasta indiscussa quale strumento di umanizzazione della pena idoneo a soddisfare solo il primo dei due principi enunciati dal comma 3 dell’art. 27 della Costituzione. La caratterizzazione è confermata dal fatto che la concessione dei permessi non è esclusa nemmeno dalla rigorosa disciplina dell’art. 4 bis D.P. modificato più volte dalla Corte Costituzionale e riscritto dalla legge 23/12 del 2002, n. 279. È un compito che deriva dalla Costituzione e dalla legge ordinaria, che non ammette riserve e obiezioni. Soddisfatti i presupposti giuridici, legati al tempo e al tipo di reato, il giudice deve valutare l’evoluzione possibile della persona, attraverso i vari momenti di osservazione, intramurari fin quando non è possibile un’ammissione all’esterno. Tra l’altro, la legislazione dei permessi è stata voluta proprio per "attenuare l’isolamento della vita carceraria mediante la concessione di brevi uscite destinate a favorire il mantenimento delle relazioni familiari e sociali e ad attenuare gli effetti della privazione sessuale" (Di Gennaro, Breda, La Greca). L’esecuzione penale non può essere guardata, aridamente, solo nel suo schema strettamente giuridico. Essa è il maggiore impegno dello Stato in quanto la pena è diretta non solo a reprimere, ma anche a ottenere la rieducazione del condannato, che consenta il suo reinserimento nella società. La Costituzione aggiunge che la pena non può consistere in trattamento contrario al senso di umanità. Siamo di fronte all’umanizzazione della pena. Perché si realizzi non è sufficiente la norma di legge. Come in tutti i settori della vita regolati dalle leggi, ma specialmente in questo, a nulla servono i principi e le regole senza l’opera degli uomini preposti all’esecuzione: dal Giudice di Sorveglianza all’ultimo agente di Polizia Penitenziaria occorre che si guardi al condannato come una creatura umana; anche se colpevole del più atroce dei delitti e colpito dalle più grave delle pene, è meritevole della più umana considerazione. Ciò non significa tradire l’afflittività della pena - che consiste nella sola privazione della libertà - se si tende amorevolmente la mano al condannato, in cui è accesa sempre la fiammella del Divino, che lo può far risalire dal profondo dell’abisso allo splendore della resurrezione.
Giovanni Prinari - Teverola (Ce)
Risponde Pietro Gargano
Il signor Prinari sconta l’ergastolo da 15 anni. Da 30 mesi è a Teverola, poco dopo aver preso la maturità nel carcere di Lecce ed essersi iscritto all’università. In rete una sua poesia, "Le gioie dei miei sogni", e uno scritto intitolato "Da bullo a bullo" in cui esorta: "Non fare mai ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" e chiede: "Come pensi che sia finito in questa vita? Non certo facendo il bravo ragazzo". Ferma restando la sacrosanta certezza della pena, troppi sono convinti che il carcere debba essere solo dura espiazione. Invece la civiltà di un paese si misura dal numero di detenuti ai quali ha dato modo di riabilitarsi. Rovigo: Cgil; un detenuto fotografato con cartello di scherno
Comunicato Fp-Cgil, 10 aprile 2008
Alcuni agenti prelevano una persona detenuta dalla sua cella. Quel detenuto viene portato nel corridoio del carcere. Gli viene dato un cartello con varie scritte e viene fotografato dagli stessi agenti. Fotografato, preso in giro e umiliato. Non si tratta di un fatto accaduto nella prigione di Abu Ghraib. È quanto successo in un carcere italiano. Quello di Rovigo. Questo il testo della lettera dei dirigenti della Cgil - Polizia Penitenziaria: Come Fp-Cgil del Veneto sentiamo il dovere morale e etico di denunciare un fatto che si è consumato all’interno del Carcere di Rovigo e che ha visto come vittima un detenuto extracomunitario. Il fatto riguarda una foto scattata dal personale appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria che ritrae un detenuto extracomunitario che regge in mano un cartello. Tale cartello porta la seguente dicitura: "Grazie Minniti per la terapia data, che mi ha fatto guarire" ed altre squallide frasi. Il direttore del Carcere di Rovigo è stato informato di quanto accaduto attraverso una relazione ma la sua non è stata una reazione colma di sdegno bensì propensa a sottovalutare l’episodio definito in termini di "bonarietà". La foto oltre al detenuto ritrae altre persone, inequivocabilmente individuabili. Riteniamo gravissimo questo episodio ma altrettanto inquietante la reazione, che assume aspetti di complicità, del Direttore dell’Istituto. Crediamo non esistano deroghe ai dettati degli art. 2 e 3 della Carta Costituzionale che riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo, la pari dignità sociale e l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. È doloroso per noi denunciare questo increscioso episodio in quanto pensavamo che i soprusi di Genova 2001 facessero ormai parte degli archivi. Chiediamo l’impegno di tutti affinché questo fatto rimanga isolato, ma contemporaneamente chiediamo anche l’intervento autorevole di quanti ricoprono ruoli di responsabilità nella gestione del sistema carcerario in Italia.
Fp-Cgil Segreteria Regionale Veneto Alessandro Biasioli
Il Coordinatore Regionale Veneto Fp-Cgil Veneto Penitenziari Giampietro Pegoraro
Lettera di Giampietro Pegoraro
Per me è difficile dover denunciare fatti come quello accaduto a Rovigo, in quanto rivesto due ruoli: sono un sindacalista e anche un tutore della legge. Per la mia carica sindacale sono visto da sempre come un corpo estraneo, considerato "comunista" e per la "tutela dei detenuti" e non come "poliziotto". Mi sono sempre opposto con vigore alle affermazioni di chi affermava che "una pallottola costa meno di un detenuto". Come rappresentante dell’Istituzione non posso far altro che sottostare agli ordini, ma non posso far finta di non vedere certe situazioni, come quella di Rovigo, denunciando l’abuso. Di certo alcuni miei colleghi, quelli che sono per l’omertà, mi definiranno un "infame" o un "pezzo di merda", e seguiranno attacchi alla mia organizzazione sindacale e a me personalmente. Altri colleghi mi ringrazieranno: questi sono pochi, ma grandi nei valori. Quello che mi rimane è la dignità e la coerenza nei valori dettati dalla nostra Costituzione e che mi sono stati insegnati dai genitori.
Il Coordinatore Regionale Veneto Fp-Cgil Veneto Penitenziari Giampietro Pegoraro
Manconi: chiarezza su episodio nel carcere di Rovigo
La Cgil del Veneto ha segnalato un episodio che, se fosse confermato, sarebbe grave: un detenuto straniero fotografato all’interno del carcere di Rovigo con in mano un cartello dalle scritte umilianti. Ho chiesto al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e al Capo dell’ufficio ispettivo che vengano effettuati tempestivi e completi accertamenti affinché sia fatta chiarezza sull’accaduto e che - qualora il fatto venga confermato - siano presi provvedimenti nei confronti degli eventuali responsabili di atti che, per come sono stati descritti, sarebbero lesivi della dignità personale.
Il Sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi Catania: partirà un Progetto per la salute orale dei detenuti
Agi, 10 aprile 2008
Partirà dal carcere di Catania la realizzazione del progetto per la promozione della salute orale negli istituti penitenziari, il cui protocollo d’intesa sarà firmato e presentato alla stampa venerdì alle 11 presso il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria a Palermo, dal direttore Orazio Faramo, dai dirigenti Gianfranco De Gesu e Franco Luppoli e dal presidente della Fondazione Andi Onlus Marco Landi. L’obiettivo è quello di promuovere la salute orale e la prevenzione delle infezioni nella popolazione carceraria degli istituti siciliani, stimata in circa cinquemila detenuti. Il progetto, che avrà la durata di un triennio, prevede la realizzazione di un incontro formativo nel carcere di San Pietro in Clarenza a Catania, rivolto ai dentisti volontari dell’Andi e al personale interno (agenti di polizia penitenziaria, educatori, personale sanitario medico ed ausiliario); l’accesso dei volontari dell’Andi nelle tre più grandi carceri della Sicilia per incontri con i detenuti in cui si terranno lezioni specifiche sulla corretta igiene orale e sulla prevenzione delle infezioni; la distribuzione ai detenuti di un kit composto da spazzolino e dentifricio. Genova: domani la manifestazione della Polizia Penitenziaria
Dire, 10 aprile 2008
Tutte le organizzazioni sindacali denunciano "l’assurda gestione del Corpo da parte del provveditore regionale che non ha fatto nulla per migliorare il sistema carcere della Liguria". Tutte le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria manifestano domani a Genova per denunciare le precarie condizioni di lavoro e "l’assurda gestione del corpo da parte del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Salamone che nulla ha fatto per migliorare il sistema carcere della Liguria, assistendo inerte ai tentativi di evasione, alle risse, alle aggressioni perpetrate dai detenuti, di contro, invece, utilizzando spropositatamente per gli appartenenti alla polizia penitenziaria, le sanzioni disciplinari, senza la possibilità di una democratica istruttoria". "Le relazioni sindacali sono praticamente azzerate, infatti il provveditore ha emanato disposizioni e organizzato i suoi uffici senza la preventiva consultazione con le organizzazioni sindacali. Inoltre ha sottratto alla Polizia penitenziaria l’organizzazione della formazione ovvero ha demandando l’incombenza dell’elaborazione e dell’organizzazione della formazione per gli appartenenti alla polizia penitenziaria - sia al livello di provveditorato cioè competente per tutta la regione Liguria sia a livello periferico, cioè nella scuola di polizia penitenziaria di Cairo Montenotte - agli assistenti sociali che non hanno nessuna conoscenza delle peculiarità ed esigenze della polizia penitenziaria. "Abbiamo ragione di ritenere che i corsi organizzati dal provveditorato siano inutili, mal gestiti e non rispondenti alle reali esigenze del corpo tanto è vero che in Liguria si è perso il senso della sicurezza". Sono ormai troppi gli episodi di criticità avvenuti in Liguria, che vanta il primato della regione con il tasso di criticità più alto in Italia, facendo ricadere la colpa sempre sulla Polizia Penitenziaria, che oltre a tentare di assolvere la sua funzione in assenza di qualsiasi strumento (sistemi di allarmi inefficaci o addirittura assenti, sale di controllo risalenti agli anni 70, inefficaci sistemi di comunicazione, ecc), oltre ad intervenire quotidianamente per salvare vite umane, viene puntualmente inquisita per gli errori gestionali del Provveditore la cui sola preoccupazione è quella di risparmiare senza preoccuparsi dei bisogni della Polizia penitenziaria e delle esigenze degli istituti senza mai essersi speso a favore della Polizia Penitenziaria che è costretta a ricoprire contemporaneamente più posti di servizio aumentando esponenzialmente il rischio di errore, mettendo a repentaglio la sua incolumità e la sicurezza dell’istituto. Per questo, "chiedendo pari dignità, rispetto della professionalità del corpo e la giusta sicurezza all’interno degli istituti penitenziari liguri, ormai allo sbando, dichiariamo fallita la nebulosa gestione dell’attuale Provveditore e la necessità del suo avvicendamento", conclude la nota. Torino: il carcere scoppia, troppi detenuti e poca sicurezza
La Stampa, 10 aprile 2008
Nel carcere "Lorusso e Cotugno" di Torino il numero dei detenuti è tornato quello del periodo precedente al luglio 2006. Ieri i reclusi erano 1.220 - a fronte di una capienza di mille e 100 detenuti -, ma dieci giorni fa i reclusi erano all’incirca duecento in più. Al carcere di Ivrea - l’altra struttura penitenziaria per adulti del Torinese - non c’è sovraffollamento vero e proprio, ma manca il servizio anti-incendio. Il Ministero della Giustizia è informato ma il guaio ancora persiste. Benvenuti nel pianeta carcere, dove l’effetto del provvedimento "svuota galere" è svanito non appena sono terminate le uscite forzate dalla struttura penitenziaria. Benvenuti in un mondo in cui i guai sono tanti, anzi tantissimi. E il "Lorusso e Cotugno" struttura poliedrica, adatta a tutte le esigenze ne è un po’ la bandiera, nel bene e nel male. Manca il personale (come quasi ovunque al nord), ci sono casi di depressione tra gli agenti di Polizia Penitenziaria. E, come se non bastasse, i detenuti in semilibertà stanno costantemente a contatto con "normali" (ovvero quelli che non godono di benefici vari). L’Osapp, Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria, l’altra settimana ha organizzato una veglia notturna per far conoscere a chi sta fuori dal carcere i problemi di chi lavora "dietro le sbarre". "C’è sempre stato grande disinteresse verso le condizioni di chi si guadagna il pane lavorando in posti come quello" dice Gerardo Romano, segretario regionale Osapp, e da sempre in prima fila sui temi della sicurezza in carcere. Spiega: "Quando, nell’estate di due anni fa, si disse che l’indulto avrebbe garantito condizioni di lavoro migliori per gli addetti alla sicurezza, si è pronunciata una grande menzogna. Vuole la verità? Oggi stiamo peggio del periodo pre-indulto. Troppi detenuti e poca sicurezza". Un guaio soltanto torinese? "Non soltanto, ma a Torino la situazione si evidenzia in modo particolare" tuona Romano. Che aggiunge: "Questa è la ragione per cui abbiamo chiesto l’avvicendamento del Provveditore regionale e del dirigente del Centro di giustizia minorile. Chi comanda deve farsi carico delle esigenze di tutti: la polizia penitenziaria non è carne da macello". E allora via con l’elenco dei guai. Accanto al sovraffollamento, ci sono i problemi di dotazione personale della polizia penitenziaria, scarsa o inadeguata. Ci sono i guai derivanti da una promiscuità (semiliberi - detenuti) sfociata a metà marzo nell’arresto di un semilibero. Gli addetti alla vigilanza lo sorpresero una sera mentre portava in carcere 48 ovuli di eroina. E ci sono quelli che vengono chiamati "problemi di carattere sanitario". Pochi servizi igienici, e talvolta mal funzionanti. Numero insufficiente di docce che - in caso di sovraffollamento - costringerebbero i detenuti a "lavaggi rapidi". E ancora infiltrazioni di pioggia in alcuni locali comuni riservati al personale e tensioni frequenti tra chi deve vigilare e chi si trova in carcere per scontare una pena. "Gli insulti - raccontano gli agenti - non si contano; e questo perché i detenuti riversano su di noi frustrazioni derivanti da situazioni di convivenza impossibili". E se i ritmi di ingresso in carcere saranno rispettati anche nei prossimi giorni, a fine settimana, in via Pianezza 300, ci saranno 100 detenuti in più. Aosta: 65% di detenuti stranieri, presto due nuovi educatori
www.aostasera.it, 10 aprile 2008
Le due nuove figure, che verranno selezionate sulla base di un concorso in corso, andranno ad affiancare l’educatore che attualmente opera nel carcere. La popolazione carceraria è attualmente composta 122 persone, di cui 79 stranieri e 43 italiani. Due nuovi educatori, entro la fine di quest’anno, entreranno a lavorare presso la Casa Circondariale di Brissogne. Le due nuove figure, che verranno selezionate sulla base di un concorso attualmente in corso, andranno ad affiancare l’attuale educatore che opera nel carcere. L’annuncio arriva dalla riunione, svoltasi ieri mattina, dell’Osservatorio per la verifica dell’applicazione del Protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione autonoma Valle d’Aosta. La popolazione carceraria è attualmente composta 122 persone, di cui 79 stranieri e 43 italiani. 140 sono le unità di polizia penitenziaria mentre il personale sanitario è composto da un medico, nove medici di guardia in convenzione con l’Usl e tre infermieri. A questi si aggiunge l’Ufficio di esecuzione penale esterna che, coordinandosi con le istituzioni e i servizi sociali che operano sul territorio, supporta i percorsi di reinserimento sociale. "Con l’entrata in vigore del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri concernente le modalità e i criteri per il trasferimento al servizio sanitario nazionale delle funzioni di sanità penitenziaria, la Valle d’Aosta - ha annunciato il Presidente della Regione Caveri - dovrà definire un’apposita norma di attuazione." Tra le novità della struttura: l’istituzione di una Commissione didattica, che si è data come primo impegno quello di predisporre un programma pluriennale che tenga conto delle caratteristiche della popolazione carceraria; l’avvio a breve del progetto di lavanderia industriale all’interno della Casa circondariale di Brissogne, a seguito di un percorso formativo realizzato con il contributo del Fondo sociale europeo, che ha coinvolto otto detenuti e che oltre ad assolvere le esigenze di servizio interno in prospettiva potrà acquisire anche commesse esterne. Alla riunione erano presenti, tra gli altri, il presidente della Regione Valle d’Aosta, Luciano Caveri, il rappresentante del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Tullia Ardito, e il Direttore dell’istituto carcerario, Giorgio Leggieri. Roma: sul Teatro e carcere alla "Settimana per la Legalità"
Ansa, 10 aprile 2008
Seconda giornata della "Settimana per la Legalità" dedicata al dibattito dal titolo Teatro e carcere. Presenti il magistrato di Cassazione Raffaele Cantone, il direttore del carcere di Rebibbia Carmelo Cantone, il musicista Nicola Piovani, il cantante Raiz, una giovane dell’associazione ‘Addiopizzò, il regista teatrale Fabio Cavalli e un ex carcerato. Il magistrato Raffaele Cantone ha esortato gli oltre 200 studenti presenti al teatro Piccolo Eliseo di Roma "a conoscere il fenomeno della mafia e a partecipare alle iniziative sociali perché è non lasciando solo chi denuncia estorsioni che la si può battere". Nel rispondere alle domande dei ragazzi, lette dai "pizzini" scritti dagli studenti, il magistrato che ha un trascorso professionale alla procura di Napoli, ha spiegato che "la criminalità organizzata è riuscita ad attecchire nel territorio grazie al consenso esplicito o tacito della popolazione". Il direttore del carcere di Rebibbia Carmelo Cantone ha descritto l’Istituto di Rebibbia "non come un carcere all’avanguardia, ma un carcere possibile, dove da tempo la riabilitazione è tra le priorità e consiste anche nell’aprire le porte alla musica (Nicola Piovani ha tenuto un concerto apprezzatissimo) e al teatro, ex-detenuti hanno trovato proprio nella recitazione una strada per ricominciare". . Roma: "Insieme si vince", progetto del Csi per minori detenuti
Vita, 10 aprile 2008
È stato presentato ieri, presso l’Istituto Centrale di Formazione di Roma, il progetto "Insieme si vince, fare sport e lavorare nello sport come strumento d’integrazione culturale e sociale". Il progetto è finanziato dal Ministero della Solidarietà Sociale, si avvale della collaborazione del Dipartimento di Giustizia Minorile, ed è portato avanti operativamente dal Csi (Centro Sportivo Italiano): si rivolge a tutti i minori ad oggi presenti nel circuito penale italiano (3.500 maschi e 1.500 femmine) per favorirne l’inserimento sociale e lavorativo. Il progetto "Insieme si vince" prevede la concessione di 72 borse di lavoro che consentiranno ai ragazzi ospiti degli istituti penali minorili di prestare servizio nelle sedi territoriali del Csi o nelle società sportive affiliate all’associazione. L’offerta di formazione on the job prevede la prestazione di 25 ore lavorative a settimana per 2 mesi e un compenso mensile di 450 €. I giovani coinvolti nell’iniziativa saranno chiamati, tra l’altro, ad un’attività di supporto nella preparazione di gare e tornei, di animazione negli eventi sportivi in piazza, nella manutenzione e gestione degli impianti sportivi del Csi, nell’organizzazione degli eventi formativi e nell’assistenza all’attività sportiva ordinaria. Ai partecipanti, che saranno seguiti dai tutor per circa 10 ore settimanali, sarà data anche la possibilità di prender parte ad attività extra-lavorative come i corsi per animatori culturali sportivi, corsi per allenatori, corsi per arbitri e per volontari dell’equipe nazionali. Il progetto "Insieme si vince" prevede anche delle attività all’interno degli Istituti minorili. In tal senso, in sinergia con il Dipartimento di Giustizia Minorile, sono state identificate quattro realtà territoriali (Napoli, Firenze, L’Aquila, Treviso) in cui poter promuovere circuiti di attività a carattere polisportivo. Il fine del progetto, ha spiegato Michele Marchetti, Coordinatore dell’area Formazione, Cultura, Promozione e Sviluppo della Presidenza nazionale del Csi, "è quello di far passare il reinserimento attraverso lo sport e l’acquisizione delle sue regole". Roma: sport nelle carceri, protocollo tra l'Uisp e il Ministero
www.giustizia.it, 10 aprile 2008
È stato siglato oggi a Roma il nuovo Protocollo di intesa tra Uisp e Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Si tratta di una vera e propria svolta nell’interlocuzione tra il mondo delle carceri italiane e un’associazione di promozione sociale e sportiva come la nostra che vanta oltre vent’anni di esperienza con i detenuti e con il personale della polizia penitenziaria e civile degli istituti penali italiani. Spiega Giuliano Bellezza, responsabile diritti e welfare Uisp: "Le novità del protocollo, che aggiorna quello firmato nel 1997, sono l’accreditamento dell’Uisp nel sistema penitenziario come ente gestore e promotore di iniziative sportive e culturali, la centralità dello sport come occasione e strumento di formazione e di reinserimento sociale per i detenuti". La firma sancisce l’impegno comune di Uisp e Dap nella modernizzazione delle carceri con particolare riferimento alla creazione e all’allestimento di spazi specifici per lo sport. Filippo Fossati, Presidente nazionale dell’Uisp, accompagnato da Andrea Ciogli del Settore nazionale diritti e welfare Uisp, firmerà giovedì 10 aprile alle 15.30 presso la Sala Verde del Ministero della Giustizia, il protocollo con il Sottosegretario alla Giustizia Prof. Luigi Manconi e con il Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Dott. Ettore Ferrara. Droghe: Bertinotti; sì a depenalizzazione, no a legalizzazione
Notiziario Aduc, 10 aprile 2008
"Non siamo per la legalizzazione, ma per la depenalizzazione delle droghe" e riteniamo che le droghe leggere vadano distinte da quelle pesanti "anche per evitare che i giovani finiscano sullo stesso mercato della droga". A sostenerlo, nel corso della trasmissione Viva voce, su Radio 24, è Fausto Bertinotti, candidato premier per la Sinistra l’Arcobaleno. Secondo il presidente della Camera, "siccome abbiamo la massima attenzione nell’evitare che più gente possibile finisca in questi tunnel drammatici", bisogna considerare la dipendenza da sostanze stupefacenti "una gravissima malattia sociale". Pertanto, per Bertinotti occorre "intervenire sui grandi traffici di droga, cosa che la legge Fini-Giovanardi non ha fatto". "La nostra- osserva- è una linea di riduzione del danno" ed è per questo che "in altri paesi europei c’è quella che con un termine orribile viene chiamata stanza del buco, in realtà si tratta di una sala di assistenza per chi non riesce a sottrarsi a questa piaga, e viene accompagnato affinché non si faccia un male troppo grande". Insomma, sottolinea il leader della Sa, "un’idea sanitaria ed umana di un caso limite con dei luoghi" in cui prevalgano "l’assistenza, la professionalità e la solidarietà umana".
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