Rassegna stampa 21 agosto

 

Giustizia: la riforma di Alfano ripartirà dalla "bozza Boato"

 

Corriere della Sera, 21 agosto 2008

 

Riparte il lavoro sulla riforma organica della giustizia (la cosiddetta "grande riforma") del governo Berlusconi. La novità è che essa recupererà il lavoro della Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema.

O meglio la cosiddetta "bozza Boato" che dieci anni fa aveva già raggiunto un risultato condiviso, sui temi della giustizia, tra maggioranza e opposizione (di allora, a parti invertite rispetto agli schieramenti di oggi). Sul tappeto i nodi costituzionali di un riequilibrio - da molti auspicato - tra politica e magistratura.

I tempi sono stretti perché lo stesso premier sarebbe intenzionato a traghettare in porto il progetto celermente, in contemporanea al federalismo fiscale tanto caro alla Lega.

Il Guardasigilli, Angelino Alfano, ha già messo al lavoro gli uffici del dicastero di Via Arenula. Dopo il Consiglio dei ministri del 28 agosto con all’ordine del giorno la nuova legge elettorale per le elezioni europee, il Guardasigilli comincerà a consultare gli alleati di governo e i presidenti delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato per entrare nel merito delle diverse ipotesi di riforma, tenendo conto anche di alcune proposte avanzate in disegni di legge di esponenti del centrosinistra (D’Ambrosio, Tenaglia).

Al primo posto "dell’agenda Alfano" rimane in ogni caso la riforma del processo civile (che in autunno arriverà in Parlamento come ddl collegato alla Finanziaria). A seguire, accelerazione del processo penale, riforme costituzionali (Csm e obbligatorietà dell’azione penale), ritocchi all’ordinamento giudiziario per una più netta separazione giudici-pm, soluzioni al sovraffollamento delle carceri.

L’idea di affidare la riforma a una commissione di saggi presieduta da Francesco Cossiga sembra invece ormai definitivamente naufragata. Le modifiche ai codici con l’obiettivo di accelerare i processi penali e civili sono una priorità anche per l’Associazione nazionale magistrati.

Più spinosa resta la questione delle riforme costituzionali rispetto alle quali il sindacato delle toghe ha già preannunciato battaglia. E su questo fronte avrà sicuramente l’appoggio dell’Italia dei Valori di Di Pietro e di Rifondazione comunista (dove sembra ormai prevalere l’ala giustizialista, rispetto a quella più garantista e istituzionale incarnata da Giuliano Pisapia). Idv e Rifondazione, insomma, potrebbero mostrare un’inedita alleanza (cementata anche dall’iniziativa referendaria di Di Pietro sul lodo Alfano).

Il Guardasigilli ha deciso di accogliere anche la proposta dì incontro con i Radicali e con l’Udc (parteciperà il 2 settembre a un convegno sulla giustizia promosso dal partito di Casini). La settimana prossima sarà presente al Meeting di Rimini (il settimanale di area Tempi aveva chiesto qualche settimana fa la riforma della responsabilità civile dei magistrati).

Giustizia: Boato; da Alfano scelta giusta, l’Anm fermerà tutto

di Maria Antonietta Calabro

 

Corriere della Sera, 21 agosto 2008

 

"È una scelta giusta e intelligente". Marco Boato, l’esponente di centrosinistra che ai tempi della Bicamerale di D’Alema era riuscito a raggiungere un completo accordo bipartisan sulla riforma della giustizia, approva la svolta del ministro Alfano. Lancia però un allarme: "Non c’è dubbio che ad ore, giorni, al massimo poche settimane, ripartiranno l’alzo zero giustizialista e le polemiche al calor bianco sull’inciucio".

 

Il testo del Comitato da lei presieduto va ancora bene?

"Sì, si poteva e si doveva votare allora, ma va bene anche oggi: perché quello fatto fu un lavoro bipartisan ante litteram, approvato da tutte le forze politiche, tranne Rifondazione. Mi sembra veramente saggio ripartire da lì".

 

Saggio perché?

"Con questa scelta a parti rovesciate (noi allora eravamo al governo e Berlusconi all’opposizione) il governo del centrodestra manifesta l’intenzione di non riproporre su questa materia scelte unilaterali. Dopo che l’inizio di questa legislatura e quella 2001-2006 che ha visto solo l’approvazione di leggi ad personam. Il Parlamento, inoltre, si potrà riappropriare del potere di revisione costituzionale sulla giustizia, mettendo fine a quindici anni di debolezza della politica, che certamente non si cura con la reintroduzione dell’immunità parlamentare".

 

Non servono le vecchie norme dell’articolo 68?

"Dell’immunità si era abusato per decenni prima che venisse riformata. La politica si riprende il suo ruolo solo con il riequilibrio di pesi e contrappesi costituzionali".

 

Quali erano i punti principali della sua bozza?

"Funzioni nettamente distinte tra pm e giudici, con due sezioni diverse del Csm, una Corte disciplinare diversa dal Csm, l’aumento del numero dei membri laici del Consiglio, scelte di politica criminale fissate ogni anno dal Parlamento per evitare che dietro il feticcio dell’obbligatorietà dell’azione penale si celi di fatto la discrezionalità di singole Procure se non di singoli sostituti".

 

Da dove si può ricominciare?

"Dalla mia relazione in Aula del 27 gennaio 1998 e dalla successiva replica del 30. Il mio timore però è che riparta una campagna giustizialista...".

 

Cosa intende dire?

"Voglio ricordare che il 29 gennaio di dieci anni fa, mentre il Parlamento discuteva, il presidente dell’Associazione magistrati attaccò pesantemente la riforma, alla presenza dell’allora presidente Scalfaro (mai prima un Presidente aveva presenziato a un incontro del sindacato delle toghe). Fu un siluro micidiale. Allo stesso modo sono sicuro che anche oggi partirà un attacco frontale".

Giustizia: Osapp; riforma non gravi sul sistema penitenziario

 

Il Velino, 21 agosto 2008

 

"Non vogliamo strapuntini: le forze dell’ordine che rappresentiamo meritano il rispetto che non hanno mai avuto!". L’organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), per voce del suo segretario generale Leo Beneduci mette in guardia sui "possibili rischi di una riforma, quella annunciata dal ministro Alfano, che gravi interamente sul sistema penitenziario e sulle forze dell’ordine impegnate nelle carceri, senza alcun programma che riguardi il senso vero dei problemi da affrontare". "Di riforme annunciate e realizzate a metà se ne sono viste negli anni - afferma Beneduci -, e le carceri sono state quelle che puntualmente hanno pagato il prezzo più alto.

Sul fronte dell’ordinamento giudiziario, per esempio - spiega il segretario generale dell’Osapp -, nelle Legislature passate, c’è stata una battaglia politica che ha di fatto bloccato i processi di miglioramento e trasformazione dell’organizzazione giudiziaria. A danno così di un assetto carcerario sovraccaricato, e che adesso subisce duramente la presenza di metà della popolazione, esclusivamente detenuta in attesa di giudizio".

"Questa volta - aggiunge Beneduci - esigiamo che vi sia un impegno concreto per la soluzione di una crisi che con 55 mila detenuti, solo 8 mila mancanti alla fatidica soglia di tollerabilità, rischia veramente di divenire l’ennesima emergenza sociale degli ultimi 10 anni. In via Arenula si lavora, e questo è meritevole per un ministro che percepisce la reale dimensione dei problemi, ma a parte il proposito di risolverli, non riscontriamo, per quel che ci riguarda, niente che non sia stato già detto e promesso. Mancano i fatti concreti, e quello che è più pericoloso è la prospettiva di un patto tra la Lega, che accelera sul Federalismo, e il Pdl, che spinge per un via libera sul progetto di riforma. Il carcere, a nostro avviso, non è né una merce di scambio, né tantomeno una realtà per la quale siano utili e risolutivi soltanto i sistemi alternativi, come qualcuno continua a sostenere a proposito dei i braccialetti elettronici".

"Il ministro sa benissimo che di nuovi carceri se ne vedranno solo tra qualche anno - lamenta Beneduci - e sa altrettanto bene che se di riforme si deve trattare, questa è una questione che vede un processo lento di mesi, se non di anni. Il problema del sovraffollamento, allora, non deve essere considerata la scusante che contraddistingue l’immobilità’ gestionale di qualsivoglia iniziativa, come è accaduto per il precedente governo. È una realtà da affrontare con politiche costanti e continue - auspica - che vadano di pari passo anche con le sperimentazioni. Sappiamo benissimo che il ministro sta approntando proprio l’utilizzo dei braccialetti su larga scala, da introdurre stabilmente nel progetto di Riforma.

Come sindacato rappresentativo, e interlocutore autorevole, anche noi vogliamo le riforme, e come gli altri, infatti, rivendichiamo un progetto che parifichi il corpo di Polizia penitenziaria alle altre forze di Polizia; ma a proposito dei cambiamenti auspicati dal ministro Alfano, ci chiediamo quale ulteriore prezzo ci si prepari a pagare, e se non sia il caso di cominciare a prendere in considerazione, invece, il singolo istituto, o il singolo detenuto, non più inserito nella logica dei grandi numeri"

"Se non sia più logico pensare - continua l’Osapp - alle questioni che attengono la sua condizione, i suoi problemi igienici e di sicurezza, a come si integra nel tessuto sociale, se subisce violenza o se viene rapinato dalle stesse mafie che si combattono all’esterno, e che in carcere stanno aumentando il loro potere. E dall’altro riannodare il discorso di un figura importante come quella del poliziotto penitenziario, costretto suo malgrado a subire tutto questo per l’assenza di un riconoscimento giuridico e professionale promesso da tanti governi e mai mantenuto. Chiediamo esplicitamente al ministro della Giustizia, e al capo del Dap, se a questo non sia il caso di badare più che alla sperimentazione, o alla questione massimale del sovraffollamento nei cui confronti è indispensabile l’idea definitiva".

Giustizia: 5 mln di porti d’arma, e l’Italia impugnò il revolver

di Massimo Numa

 

La Stampa, 21 agosto 2008

 

Armi detenute legalmente in Italia: 10 milioni. Cinque milioni di italiani hanno in casa almeno un fucile o una pistola. Un business da capogiro, grazie anche alle vendite di munizioni, gadget, e vestiario. Eppure fatti recenti di cronaca dovrebbero far riflettere il legislatore. Perché le norme attuali, soprattutto per la detenzione, sono apparse, in molti frangenti, inadeguate.

Viaggio nel tempo. In Piemonte, il 15 ottobre 2002 Mauro Antonello, un tipo dall’aria anonima e con la casa piena di armi anche da guerra, con i certificati medici in regola, uccise sette persone, l’ex moglie e i suoi familiari, e poi si tolse la vita. Nel giardino della sua villetta, vicino a Torino, aveva allestito una specie di poligono insonorizzato. Nelle rastrelliere c’erano alcune mitragliette, un fucile a pompa, pistole e munizioni.

Ci furono polemiche, dopo, per i certificati d’idoneità firmati dal medico di famiglia e da quello dell’Asl. Tutto ok, secondo loro. Antonello, per chi lo visitò, era l’uomo più normale ed equilibrato del mondo. Ma per sterminare i nemici si era vestito e armato come Rambo.

Aveva scelto la mitraglietta: una Sites Spectre M-4 a puntamento laser, costruita a Cuneo, in dotazione anche ai servizi segreti, Mossad compreso. Esplode sino a 900 colpi al minuto ed è, a detta degli esperti, "la miglior mitraglietta del mondo per l’impiego a corta distanza in locali chiusi".

Caricata con 80 colpi ne sparò 40, quasi tutti a segno. Poi due pistole: due semiautomatiche Tanfoglio T 21 S 9x21 con cui abbatté, uno per uno, i suoi bersagli. Vuotò quattro caricatori da 15 colpi, uno fu quello di grazia alla nuca dell’ex moglie. Mauro Antonello si suicidò, secondo il piano. Scelse, da intenditore, una Smith & Wesson 38 special modello 70, un revolver che non s’inceppa mai. La storia di questo uomo introverso e preciso diventò un simbolo delle mancanze e degli errori dello Stato.

La strage di Chieri è stata seguita da fatti simili. L’ultimo, novembre 2007, a Guidonia (Roma). Angelo Spagnolo, 52 anni, ex capitano dell’Esercito, uccise, in 180 minuti di terrore sparando dal balcone di casa, due persone. Ne ferì otto, comprese due bambine.

Oggi il problema degli arsenali fai-da-te s’è aggravato. Il porto d’armi per difesa personale nel 2007 ha raggiunto quota 34 mila; sono state rilasciate 800 mila licenze di caccia e 178 mila per uso sportivo. È sempre più facile procurarsi armi, anche micidiali. Internet è un gigantesco mercato, spesso illegale. Poi ci sono i canali "coperti" dov’è possibile, pagando cifre modeste, acquistare armi d’ogni tipo, con pezzi provenienti dai depositi degli eserciti smobilitati dell’Est. Persino detonatori e timer per ordigni esplosivi.

Infine c’è la questione, non risolta, dei permessi sportivi. Troppi e incontrollabili, secondo polizia e carabinieri. "È un’emergenza grave, sempre più inquietante - spiega il portavoce nazionale del Sap, Massimo Montebove - ci vuole una stretta, rapida, da parte del governo per limitare il possesso di armi per uso sportivo e anche per la caccia. Spesso le questure sono costrette, dalla legge, a concedere i permessi a persone note per utilizzarle in tutt’altro modo. Ci vogliono più controlli nei poligoni, per verificare chi veramente spara per sport. Se il signor X non s’è mai presentato, questo dovrebbe far scattare una verifica e, nei casi più significativi, la sospensione immediata.

Molti delitti vengono consumati proprio con armi regolari, tanto è facile procurarsele e detenerle. Hanno firmato stragi familiari e delitti passionali. Noi siamo convinti che in Italia debbano circolare sempre meno pistole o fucili. È lo Stato - sottolinea Montebove - che deve avere il compito di tutelare la sicurezza. La filosofia americana dell’autodifesa personale non è compatibile con la nostra cultura. E anche in America sta fallendo".

Giustizia: nelle carceri del nord i detenuti stranieri sono il 70%

di Giovanni Bianconi

 

Corriere della Sera, 21 agosto 2008

 

La cifra assoluta ha raggiunto il 38% del totale, ma il numero di detenuti stranieri nelle carceri italiane cresce di continuo. Nel 2007, su 94.000 "nuovi ingressi" più di 45.000 erano di stranieri: quasi la metà. Provenienti da 140 Paesi diversi. In maggioranza, com’è agevole immaginare, extracomunitari; in gran parte di un pugno di Stati nord-africani. Ma c’è anche una buona quota di romeni che - da quando il loro Paese è entrato a far parte dell’Ue - hanno il primato dei detenuti stranieri comunitari: il 73% del totale. Il sorpasso sembra un traguardo vicino, sebbene il Sud Italia garantisca ancora un margine di sicurezza per il primato nazionale. Ma proprio questo è un dato considerato di grande interesse per chi lavora alla gestione delle prigioni: se nel Meridione i detenuti sono quasi tutti "locali", al Nord gli stranieri hanno da tempo superato la maggioranza, raggiungendo punte che arrivano al 70 ma anche all’85%, com’è accaduto a Milano dove i non italiani rappresentano ormai la quasi totalità dei "nuovi ingressi".

La geografia della popolazione carceraria dipinge dunque un Paese diviso in due: maggioranza di stranieri al Nord e di italiani al Sud con Roma che - da capitale sistemata al centro - sembra proporsi come punto di equilibrio essendo arrivata a una distribuzione vicina al 50% tra le due categorie. È una situazione monitorata ed elaborata di continuo dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e alcune relazioni sono già sul tavolo del neo-ministro della Giustizia. A due anni dall’indulto che liberò oltre un terzo dei detenuti, arrivati alla punta massima di 60.710 a fronte di 43.000 posti "regolari", la situazione si sta velocemente riavvicinando a quel record.

Secondo dati diffusi pochi giorni fa dal Sappe, principale sindacato della polizia penitenziaria, i carcerati al 31 luglio 2008 erano risaliti a quota 55.250. Le stime del Dap valutano la crescita media a un ritmo di 800 detenuti al mese: significa che in meno di un anno il livello cui si giunse nel 2006 (considerato così preoccupante e ingestibile da imporre l’intervento-tampone dell’indulto, votato ai tempi della maggioranza di centrosinistra anche grazie all’appoggio di una parte del centrodestra, in particolare Forza Italia) sarà raggiunto e superato. Anche perché ai flussi normali si aggiunge il rientro di una buona fetta degli scarcerati due anni fa, tornati a delinquere e riarrestati.

All’interno di questi allarmanti numeri, la situazione dei reclusi non italiani, vicini al 40% del totale - in gran parte di origine nord-africana e dell’Est europeo -, rappresenta un problema nel problema del sovraffollamento. Perché sono un fenomeno nuovo, e perché mettono in crisi la funzione stessa della detenzione e della pena. Che dovrebbe "tendere alla rieducazione del condannato", come stabilisce la Costituzione: missione difficile sempre e per tutti, ma meno quando - come avveniva fino a 20 anni fa - gli stranieri non erano più del 5% dei detenuti. Negli anni ‘90, con i primi massicci sbarchi di clandestini, sono diventati il 15%, per arrivare in breve alle cifre attuali. Dovute ad arresti sempre più frequenti per piccoli reati, spesso giudicati "per direttissima" con pene basse (soprattutto se si tratta del primo processo) che provocano - com’è normale - scarcerazioni quasi immediate. Ne consegue un continuo turnover che mette in difficoltà il sistema carcerario.

La "novità" del fenomeno è anche la causa della prima differenza rispetto ai detenuti italiani: la quota degli stranieri in attesa del giudizio finale è molto più alta. Dei 20.175 in cella all’inizio di giugno, solo 6.991 (34%) scontavano una pena definitiva; gli altri aspettavano il primo processo (6.718), o l’appello (4.696), o l’ultimo appuntamento in Cassazione (1.770). Si tratta di una forbice molto più ampia rispetto a quella degli italiani, dove il totale degli imputati è di poco superiore a quello dei condannati.

Il ricambio degli imputati stranieri in prigione arriva al punto che nei primi cinque mesi del 2008 ne sono entrati oltre 9.000, ma l’85% sono rimasti dentro meno di una settimana, e all’inizio di giugno solo 208 erano ancora detenuti. Una quota inferiore al 2%, talmente irrisoria che nell’ultima relazione al ministro i responsabili del Dap scrivono: "Il fenomeno si presenta come realmente dirompente per l’organizzazione penitenziaria, occorre chiedersi se una permanenza così breve per un numero così alto di detenuti soddisfi le esigenze processuali e quelle di difesa sociale sottese all’applicazione di misure cautelari, in considerazione, anche, dell’assenza di una procedura effettiva di espulsione".

Quella delle espulsioni è una nota dolente dell’"emergenza stranieri" nelle carceri italiane. Mentre si discute dell’introduzione del reato di immigrazione clandestina, dimenticando che un mancato adempimento del decreto di allontanamento costituisce già un reato per le norme vigenti, la contabilità dice che per le violazioni della legge Bossi-Fini entrano in prigione ogni anno circa 12.000 extracomunitari.

A giugno ce n’erano 2.914 che scontavano una condanna inferiore a 12 mesi, evidentemente per reati "minori"; usciranno di qui a un anno, ma è probabile che torneranno ad avere "condotte illecite" (a cominciare dalla mancata partenza dall’Italia) e possano rientrare nel circuito penitenziario. Le espulsioni dal carcere sono pochissime. Anche quando servirebbero ad alleggerire il sovraffollamento. Tra gli stranieri detenuti per condanne definitive, ce ne sono circa 4.500 ai quali restano meno di due anni da trascorrere dietro le sbarre. Per legge potrebbero essere rimpatriati, ma il meccanismo previsto dalla procedura e i costi da sostenere producono un numero di provvedimenti eseguiti molto inferiore: 282 nel 2007 e 158 nei primi cinque mesi del 2008.

In assenza di espulsioni, gli stranieri che si trovano in prigione (anche se entrati illegalmente in Italia) hanno il diritto - ribadito dalla Corte Costituzionale - di accedere ai benefici e alle misure alternative previste per i detenuti. L’amministrazione provvede a trovare, almeno per alcuni di loro, un impiego fuori dagli istituti, a volte una casa.

Ma a pena scontata quel lavoro e quella casa spariscono, perché legati all’esecuzione della condanna, e l’ormai ex detenuto torna a essere un clandestino con decreto di espulsione in tasca. Esempio di come il carcere, anziché al reinserimento nella comunità (che magari è avvenuto, grazie a quel lavoro e a quella casa persi a fine pena) possa contribuire piuttosto alla messa al bando di chi c’è passato.

Giustizia: Sappe; più accordi con paesi d’origine per i rimpatri

 

Asca, 21 agosto 2008

 

Il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, attraverso le parole del segretario generale, Donato Capece, denuncia l’elevata presenza di detenuti stranieri nelle carceri italiane. "I dati sono incontrovertibili - sottolinea Capece - oggi abbiamo in Italia più di 55mila detenuti. Di questi, più di 20mila sono stranieri. Il 65% sono imputati e solo il 35% condannati. Si deve allora incrementare il grado di attuazione della norma che prevede l’applicazione della misura alternativa dell’espulsione per i detenuti extracomunitari i quali debbano scontare una pena, anche residua, inferiore ai due anni, potere che la legge affidata alla Magistratura di Sorveglianza".

Il Sappe, prosegue Capece, "chiede dunque al Governo Berlusconi di recuperare il tempo perso su questa criticità e quindi di avviare le trattative con i Paesi esteri da cui provengono la maggior parte dei detenuti a partire da Romania, Tunisia, Marocco, Algeria, Albania, Nigeria etc., affinché scontino la pena nei paesi d’origine.

Tutte le misure al vaglio del Governo per ovviare all’emergenza delle carceri, a partire dalla costruzione di nuovi penitenziari, alla depenalizzazione di alcuni reati che non provocano alcun allarme sociale, al maggior ricorso all’esecuzione penale esterna, al braccialetto elettronico hanno bisogno di tempo, mentre bisogna far presto. Il Sappe ritiene invece che trovare accordi affinché gli stranieri scontino la pena nei Paesi d’origine, oltre a mettere un freno ad una grave emergenza, potrebbe rivelarsi un buon affare anche per le casse dello Stato,(con risparmi di centinaia di milioni di euro), nonché per la sicurezza dei cittadini. Un detenuto costa infatti in media oltre 250 euro al giorno allo Stato italiano: garantire una piccola parte di questa cifra allo Stato Estero che si impegna a detenere nelle sue carceri, fino a fine pena, chi ha compiuto dei reati sul nostro territorio porterebbe molti benefici tra i quali l’interesse dello Stato Estero affinché venga scontata tutta la pena nelle sue carceri poiché assicurerebbe una buona contropartita economica.

La certezza che la persona che ha commesso un reato e che è stato espulsa o consegnata alle Autorità del suo Paese non ritorni dopo breve tempo in Italia per continuare a delinquere. Una minore probabilità che lo stesso una volta fuori possa tornare a delinquere in Italia, considerato che la sua pena non la sconterà in un penitenziario Italiano che, pur con tutte le emergenze del sistema, è sicuramente più confortevole dei penitenziari del proprio Paese d’origine".

Capece sottolinea che "i detenuti stranieri in Italia attualmente rappresentano ben il 37% del totale dei 55mila detenuti presenti. Ma come ha recentemente verificato uno studio del Dap, tale rapporto cresce ulteriormente se si prendono in esame le nuove immatricolazioni: in tal caso la quota imputabile ai soggetti di cittadinanza non italiana è risultata essere, per i 2007, pari al 48% dell’ammontare complessivo degli ingressi in istituto penitenziario dalla libertà. Ma il numero degli espulsi per effetto dell’applicazione della sanzione alternativa alla detenzione, prevista dall’articolo 15 della legge Bossi-Fini, è ancora a nostro giudizio troppo contenuto: 1.161 espulsi nel 2003, 1.038 nell’anno successivo, 1.242 nel 2005 e 1.012 nel 2006. Nel 2007 furono solo 381, drastica riduzione a causa della flessione dei potenziali beneficiari dovuta all’effetto dell’indulto, e, nel primo semestre del 2008, sono state 256".

Giustizia: Radicali; in 80 penitenziari forti carenze di organico

 

Il Velino, 21 agosto 2008

 

I deputati Radicali eletti nelle liste del Pd (Rita Bernardini, Maurizio Turco, Marco Beltrandi, Maria Antonietta Farina Coscioni, Matteo Mecacci ed Elisabetta Zamparutti) hanno presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Alfano sulla condizione degli agenti di Polizia penitenziaria.

Dai dati provenienti dagli 80 Istituti che hanno risposto al questionario inviato qualche giorno prima di ferragosto da Radicali italiani risulta che, a fronte di una pianta organica che prevede 18.509 agenti di polizia penitenziaria, ne sono stati effettivamente assegnati 16.411 cioè 2.098 in meno di quanti ne servirebbero, pari all’11,3 per cento.

Ma la carenza di organico, denunciano i radicali nell’interrogazione, si fa sentire soprattutto nel nord e centro italia dove, a fronte di una pianta organica che prevede 10.714 agenti, ne sono stati effettivamente assegnati 8.909 con un deficit di 1.815 agenti, pari al 16,8 per cento; al sud e nelle isole, invece, a fronte di una pianta organica che prevede 7.795 agenti, ne sono stati effettivamente assegnati 7.502 con un deficit di 293 agenti, pari al 3,7 per cento. Inoltre, come hanno sottolineato rispondendo al questionario alcuni direttori, degli agenti assegnati, solo una parte sono effettivamente in servizio perché diverse unità sono distaccate presso altri Istituti, Provveditorati, Uepe, Dap, etc., soprattutto del Sud Italia.

La carenza di organico, evidenziano nelle premesse dell’interrogazione i deputati radicali, sottopone gli agenti a turni stressanti con molte ore di straordinario e questa situazione, nonostante la grande professionalità acquisita negli anni dal corpo della Polizia penitenziaria, si ripercuote sulla vivibilità negli istituti di pena dove, spesso, gli agenti sono costretti a far fronte alla custodia di un numero elevatissimo di detenuti il che comporta inevitabilmente, soprattutto nelle carceri più sovraffollate, non solo una drastica riduzione dei tempi di socializzazione per i reclusi, ma anche la difficoltà concreta di intervento nei casi di tensioni fra i detenuti, o di episodi di autolesionismo o di tentato suicidio.

Quanto agli straordinari, i deputati radicali rivelano che nel corso delle visite effettuate nel giorno di ferragosto, è stato loro riferito che le ore extra orario degli agenti sono retribuite con cifre che variano dai 6 ai 9 euro all’ora, cifre che ormai non vengono più corrisposte nemmeno per i lavori meno qualificati. Al ministro i deputati Radicali chiedono: se sia a conoscenza di quanto descritto in premessa e se intenda rendere pubblico il numero totale degli agenti di Polizia penitenziaria previsti in pianta organica, di quelli assegnati nei singoli istituti e di quelli effettivamente presenti di cui, al momento, non si dispone dei dati; a cosa sia dovuta la differenza di carenza di organico fra nord-centro Italia e sud e isole; in che modo intenda intervenire per coprire la ormai cronica carenza di organico e per adeguare la retribuzione degli straordinari effettuati dagli agenti di Polizia penitenziaria.

Giustizia: i bambini in carcere, uno scempio cui porre rimedio

 

Asca, 21 agosto 2008

 

In occasione delle visite che Radicali Italiani hanno organizzato il giorno di ferragosto in alcuni Istituti Penitenziari, si è potuta verificare la presenza di alcune detenute madri e dei loro figli, come quella dei due bambini presenti nel nido di Sollicciano rispettivamente di 6 e 14 mesi. Dai dati emersi dal V Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, redatto dall’Associazione Antigone e presentato a Roma il 16 luglio 2008, sarebbero 2.385 le donne detenute, di queste 68 sarebbero madri e 70 i bambini di età inferiore ai tre anni reclusi con le mamme, mentre altre 23 donne detenute risultavano in stato di gravidanza. Più in generale sono 800.000 in Europa i bambini figli di genitori detenuti di cui 43.000 sono italiani.

Una situazione intollerabile, che contraddice espressamente i contenuti della Convezione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, e che avrebbe dovuto trovare una soluzione con la legge Finocchiaro la 4/2001 che prospettava una serie di misure volte a evitare la pena detentiva all’interno delle strutture carcerarie alle donne con figli minori di 10 anni (e di conseguenza ai loro bambini sotto i tre anni). Fra le condizioni di ammissione alle misure, in particolare, vi è la non sussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti, condizione questa che mal si adatta ad un tipo di reati come quelli connessi all’uso di sostanze stupefacenti e alla prostituzione, che tipicamente presentano un alto tasso di recidiva e di cui sono incriminate la maggior parte delle detenute-madri.

Più in generale purtroppo la normativa è stata largamente disapplicata e presenta dei limiti nell’accesso ai benefici soprattutto per chi è in attesa di giudizio; in particolare, le mamme straniere, non avendo spesso un’abitazione dove scontare gli arresti domiciliari, sono costrette a tenere i bambini nelle strutture di detenzione fino al compimento del terzo anno di età, poi soffrire di un ulteriore trauma che è quello della separazione. Bambini innocenti che prima si trovano reclusi e poi in molti casi inviati in un istituto, passando così dall’istituzione totale del carcere a quella dell’istituto, senza la madre.

Nel corso della XV legislatura la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati aveva approvato la proposta di legge a prima firma Enrico Buemi che muoveva dalla considerazione del contesto sociale da cui provengono le "detenute tipo", donne che spesso vivono in contesti sociali degradati ed hanno riportato più di una condanna penale, realizzando case-famiglia protette.

Alla ripresa dei lavori parlamentari presenteremo un disegno di legge, ma nel frattempo chiediamo con una interrogazione ai ministri della Giustizia e alle Pari opportunità di attivarsi sia per avere un quadro completo del numero dei bambini detenuti con le loro madri e dove, quali Istituti di pena hanno organizzato dei nidi al loro interno, o convenzionandosi con l’esterno; sia affinché, con urgenza, sia posto rimedio allo scempio dei bambini della prima infanzia che continuano a trascorrere dentro gli istituti di pena italiani il loro tempo più significativo, delicato e costruttivo, per salvaguardare lo sviluppo armonico della loro personalità, anche se sono nati da madri che si sono rese colpevoli di delitti puniti dalla legge con la detenzione.

Giustizia: Concutelli; ancora ergastolo per un po’ di "fumo"?

di Sandro Padula

 

Liberazione, 21 agosto 2008

 

Sabato 9 agosto, al rientro nella sezione dei semiliberi del carcere romano di Rebibbia Penale, Pierluigi Concutelli viene perquisito come al solito e gli agenti di Polizia Penitenziaria gli trovano in tasca 6 grammi di hascisc, una droga leggera che secondo il dizionario De Mauro ha un "effetto rilassante".

Apriti cielo! Quello che per lui è un modo terapeutico per abbassare la pressione e contrastare le sue cattive condizioni di salute derivanti da un’ischemia, è diventato un argomento per sospenderlo dal beneficio della semilibertà in attesa che sulla questione si pronunci in maniera definitiva il Tribunale di Sorveglianza.

Dopo più di 31 anni di carcere il "gioco dell’oca" carcerario fa brutti scherzi. Pierluigi sa benissimo di aver commesso un errore, una maledetta leggerezza. Ha lasciato un po’ di droga leggera nelle sue tasche proprio quando stava rientrando in carcere. Questo è vero, ma non si può fingere di non sapere che nel suo caso ci sono delle gigantesche attenuanti.

Concutelli non è affatto una persona ipocrita. Chiama pane il pane e vino il vino. Ammette di fare uso di canne solo ed esclusivamente per motivi di salute. E questa è la semplice verità che tutti i detenuti in semilibertà e tutti gli agenti di polizia penitenziaria presenti nel carcere di Rebibbia Penale sanno benissimo.

Quello che perciò bisognerebbe dire è che da anni Concutelli dovrebbe essere libero anche in considerazione delle sue precarie condizioni di salute. In 31 anni di carcere dell’uomo robusto di un tempo è rimasto un uomo magrissimo. Trenta chili in meno e tanti acciacchi in più. Pochi parenti e amici rimasti fuori, ma grande stima da parte di tutti coloro - soprattutto da parte di ex avversari politici - che hanno avuto l’occasione di conoscerne la straordinaria generosità umana.

Nell’ultimo decennio ha svolto numerose attività di volontariato, ad esempio a favore di Lega Ambiente. Ha aiutato decine di detenuti a trovare percorsi utili ad un dignitoso reinserimento sociale. Con i prigionieri per "eversione di sinistra" non ha condiviso delle canne, come stupidamente e arbitrariamente afferma Virginia Piccolillo (vedasi "Corriere della Sera" del 13 agosto). Ha condiviso qualcosa di assai diverso e di ben più importante: la necessità di criticare il carattere classista del sistema carcerario, che punisce solo ed esclusivamente i poveracci, e di promuovere una cultura nuova, capace di mettere in discussione alla radice le misure penali infernali come il "fine pena mai" .

Ecco chi è oggi Concutelli. Parlare del suo passato pre-carcerario non serve a nulla. Può servire a qualche giornalista a riempire un articolo. Ma non serve davvero a nulla. Parliamo invece dei suoi 31 anni di carcere, una pena che, ben peggiore della pena di morte, pochi hanno subito in questo Paese.

Parliamo della necessità di considerare legale l’uso terapeutico della cannabis o, quantomeno, consideriamo tale uso come qualcosa che non possa eliminare la semilibertà ad una persona di 64 anni che ha passato quasi metà della propria esistenza in carcere.

La giustizia senza umanità non è giustizia. Un piccolo errore non può eliminare il diritto alla libertà per chi, oltre ad aver trascorso un sovrabbondante numero di anni in carcere, da tempo si trova nelle condizioni di poter di chiedere la libertà condizionale.

Ogni cosa ha il suo peso relativo. Un piccolo errore, come quello di avere un po’ di "fumo" in tasca per uso personale e terapeutico, potrebbe giustificare un’ammonizione verbale, ma non potrebbe giustificare il far tornare indietro nel tempo chi ha già conosciuto sulla propria pelle i labirinti e i circuiti del sistema carcerario italiano!

A tutti i garantisti rimasti nel nostro Paese e anche a coloro che fanno parte della Commissione europea dei diritti dell’uomo è necessario chiedere di prestare attenzione al caso Concutelli. Risulta infatti importante promuovere una campagna in difesa del suo diritto al ritorno in semilibertà e, perché no, anche del suo diritto a ottenere in tempi rapidi la libertà per gravi motivi di salute.

Giustizia: ragazzo tolto a madre perché frequenta i comunisti

di Stefano Bocconetti

 

Liberazione, 21 agosto 2008

 

Puzza di persecuzione la decisione del tribunale di Catania con cui un 16enne viene tolto alla madre perché frequenta "brutti ambienti", ovvero i Giovani comunisti/e. Ferrero: "Intervenga Napolitano".

Avevano sperato che fosse un "errore". Del resto nell’articolo su Repubblica di ieri c’era qualche piccola imprecisione, qui e là, che li faceva ben sperare. Invece è tutto vero. I Giovani comunisti di Catania hanno letto coi loro occhi una "relazione" dei servizi sociali e la conseguente sentenza emessa da un giudice. Per il tribunale della città etnea, un ragazzo di sedici anni va affidato al padre anziché alla madre con la quale ora vive, perché la donna non sarebbe in grado di garantirgli una corretta educazione.

La prova? È nell’iscrizione di quel ragazzo ad un circolo di giovani comunisti. Covo di "estremisti", dove si fa uso di droghe, di alcol. Dove si ascoltano "cattivi maestri", insegnanti di amoralità. Dove i giovani vengono plagiati. Sembra un salto all’indietro, un ritorno agli anni ‘60, quando un paese moderato - sostenuto da una stragrande maggioranza moderata - portò in tribunale un filosofo, comunista, partigiano, omosessuale: Aldo Braibanti. Accusandolo e condannandolo, appunto, per plagio. Nell’unico processo in Italia per quel reato, che oggi non esiste più nel nostro codice.

Una storia d’altri tempi, di allora. Come d’altri tempi sembrano le burocratiche "spiegazioni" fornite dal giudice, ieri pomeriggio. Quando ormai il caso era scioppiato su tutte le tv. Il Presidente della prima sezione civile di Catania, Massimo Esher, ha provato a spiegare che nel suo provvedimento la politica non c’entra. "Nell’ordinanza non ci sono riferimenti all’appartenenza del ragazzo a partiti politici", dice. C’è invece la sua "frequentazione di luoghi di ritrovo giovanili dove è diffuso l’uso di sostanze alcoliche e psicotrope". Luogo di ritrovo che è appunto la sezione "Tienammen" dei giovani comunisti. Il giudice, insomma, conferma tutto, facendo finta di smentire.

Una storia d’altri tempi, si diceva. Con una difficoltà in più, però. Una difficoltà in più nel raccontarla. Perché la vicenda catanese ha un risvolto politico evidente - e, infatti, sono insorti tutti, a cominciare dai leader di Rifondazione, da Ferrero a Bertinotti, da Russo Spena a Grassi, fino ad arrivare al ministro Rotondi, della nuova Dc: "Essere comunista significa appartenere a una delle culture che hanno fatto la Repubblica italiana"; unici assenti nei commenti, i democratici, come sempre -; la vicenda ha una "conseguenza politica" palese ma investe anche una sfera privata.

Entra direttamente nella casa di una famiglia, alle prese con un problema: una separazione difficile. Una storia, insomma, che imporrebbe il rispetto della privacy. Tanto più che c’è di mezzo un ragazzo. Ed è esattamente il favore che la madre chiede al telefono. Lei, dottoressa piuttosto conosciuta e assai stimata in città, per il suo lavoro ma anche per il suo impegno nelle fila del volontariato, si rivolge così al cronista: "Per favore, almeno voi di Liberazione , evitate di accendere i riflettori su una vicenda che può essere drammatica per mio figlio".

Una vicenda che può essere raccontata, allora, solo per grandi linee. La vicenda di una famiglia che da un anno - non di più - è alle prese con una separazione sofferta. Lui, il padre, avvocato, è un uomo di destra. Non un militante ma le sue idee sono piuttosto conosciute in città. Vorrebbe che una sentenza gli assegnasse l’affidamento dei tre figli: una ragazza diciottenne, il ragazzo di 16 e un altro, poco più che bambino, di 12 anni. Figli che per ora stanno con la madre. Di mezzo ci sono molti litigi, qualcuno anche sopra le righe. Compreso un durissimo scontro fra padre e figlio. A questo punto, entrano in scena i giudici.

E come sempre in questi casi, si chiede una sorta di relazione ai servizi sociali. Il padre non sta a guardare. In qualche modo collabora attivamente all’"indagine". Sostiene che il figlio non frequenta regolarmente la scuola, sostiene - addirittura - che la madre consente al ragazzo di uscire la sera qualche volta, nonostante il suo parere contrario. Sostiene che il figlio frequenta "brutte persone", frequenta persone che lo spingerebbero verso brutte idee, verso la droga. E a conferma delle sue tesi, porta anche una fotocopia, con la riproduzione della tessera dei Giovani comunisti. Circolo "Tienanmen", di Catania.

Un circolo di ragazzi, un circolo studentesco. Una sede famosa, a suo modo: le loro bandiere, i loro striscioni, i volti di quei ragazzi li ritrovi in tutte le fotografie delle manifestazioni contro la mafia, contro la precarietà e il razzismo. In una città che secondo la commissione parlamentare ha un altissimo livello di infiltrazione mafiosa nelle istituzioni. Il ragazzo prova a tranquillizzare il padre. Addirittura, volontariamente, si sottopone al test antidroga. Negativo. Ma non basta, il padre continua a pensare che anche quei risultati siano stati manomessi.

Quella fotocopia, la fotocopia della tessera dei giovani comunisti - sottratta al ragazzo senza che lui lo sapesse - è stata "allegata" al rapporto dei servizi sociali. Il giudice ieri ha spiegato che la sentenza non è stata presa solo per quel "documento". Ma cambia poco. M.P. frequenta "ambienti" poco chiari, dove circolano droga e strane idee, va assegnato al padre, ha sentenziato il dottor Massimo Esher.

Una brutta storia che ancora non si sa come andrà a finire. Il ragazzo non ci pensa proprio ad accettare l’ordinanza del giudice. E a questo punto c’è anche il rischio - come denuncia Mario Giarrusso, il legale della madre - che il tribunale possa nientemeno che valutare l’ipotesi di un "internamento coatto in una comunità". La legge arriva a prevederlo, in casi drammatici. E con quei giudici, in quel clima, nulla è da escludere, anche se tutti sperano che prevalga il buon senso. Lui, però, M.P., vorrebbe solo essere lasciato in pace. Deve preparare gli esami, deve recuperare alcune materie. Per il padre, anche i debiti che ha contratto col liceo che frequenta sono un ulteriore prova dell’incapacità della madre ad educare il figlio. Per gli altri, per tutti gli altri, sono solo la conseguenza di quanto il ragazzo ha dovuto sopportare in questi mesi.

Questa, in pillole, la storia. Una difficile, dura storia familiare. Poi c’è tutto il resto. C’è un’ordinanza che, anche se in maniera non diretta - come ha tentato di spiegare ieri il giudice - alla fine arriva a "condannare" la militanza di un giovane in un partito. In un partito che fino a quattro mesi fa esprimeva la Presidenza della Camera, la terza carica dello Stato. Una notizia che "preoccupa", come ha detto proprio Bertinotti, uno dei pochi che sia riuscito a parlare con la madre, alla quale ha telefonato. Una notizia che indigna. Al punto che Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione ha chiesto l’intervento di Napolitano. "Ho scritto al Presidente perché nella sua veste di garante della Costituzione e di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura intervenga per porre rimedio a questa situazione inaccettabile". Una notizia, ancora, che non può essere sottovalutata, come dice Russo Spena: "Tutto questo sarebbe facilmente derubricabile nella categoria del grottesco e dell’assurdo, se non fosse grave e pericoloso, vero segno dei tempi di un paese e un’opinione pubblica che mostra chiari segni di afasia, degrado e illiberalità". Una notizia alla quale, in qualche modo bisogna reagire. Claudio Grassi, anche lui di Rifondazione: "Altrimenti ne dovremmo dedurre che in Italia non c’è più democrazia e che tutti noi, facenti parte di gruppi di estremisti, come ci definisce il Tribunale di Catania saremo a breve nelle condizioni di essere posti fuori legge e, perché no?, condannati da un nuovo Tribunale speciale".

Una notizia che indigna qualunque democratico. Compreso, s’è detto, il ministro Rotondi, ministro del governo Berlusconi. Che usa parole chiarissime per commentare quel che è avvenuto. Chiare e belle: "Vorrei ricordare che il comunismo italiano non ci ha negato la libertà ma, anzi, ce l’ha portata col sangue dei partigiani".

Ora si aspetta la decisione definitiva del tribunale. Neanche a farlo apposta quarant’anni esatti dopo la sentenza che condannò a nove anni di reclusione Aldo Braibanti. Anche allora, una cultura clerico-moderata, una cultura di destra portò sul banco degli imputati una persona, vista come simbolo di una marea montante che avrebbe destabilizzato l’ordine esistente. Esattamente come i servizi sociali e qualche giudice vedono i giovani comunisti di Catania: scomodi. Nel ‘68, però, tre mesi dopo quella sentenza, tutte le università italiane erano occupate.

Giustizia: ora è inutile piangere, questo l’abbiamo voluto noi

di Carmelo Musumeci (detenuto a Spoleto)

 

Lettera alla Redazione, 21 agosto 2008

 

Maggiore sicurezza e minore libertà, un problema su cui é necessario aprire gli occhi per non perdere la dignità e persino la vita: perché tanta meraviglia riguardo alla morte in carcere per fame dell’irakeno Alì Jubury? Perché tanta anche per la foto della donna riversa sul pavimento della cella della polizia municipale di Parma?

E ancora perché meravigliarsi dinnanzi alla notte passata in cella dalla studentessa di Roma prelevata perché trovata seduta sulla scalinata di una chiesa e quindi presa per una prostituta?

Una nota rivista cattolica, "Famiglia Cristiana" avverte: "Può tornare il fascismo". Si voleva più sicurezza. Ora c’è. Parlando dell’esercito al lavoro nelle strade delle città italiane, il Sottosegretario della Presidenza del Consiglio dichiara: "Belle le donne marziali. La gratitudine del paese e del governo per il lavoro esemplare che stanno svolgendo con abnegazione e sacrificio" (fonti: "Il Manifesto" e "Liberazione" del 14/08/08).

Ma se "fuori" accade questo, potete immaginare cosa accade "dentro"! Purtroppo non abbiamo fotografie da mostrare e non ci sono più parlamentari di Rifondazione che vengono a visitare i carceri. Mentre i parlamentari del centrodestra, del centro e dei Ds facevano la fila per andare a trovare l’ex Presidente della Regione Abruzzo ristretto in carcere, nessuno si è preoccupato di verificare le condizioni del detenuto irakeno che intanto moriva di fame.

L’applicazione congiunta del 14 bis e del 41 bis corre però rischi d’incostituzionalità (fonte: "la Sicilia 03/08/08). Quello che sta avvenendo in questo periodo nelle carceri non è lontanamente paragonabile al passato della storia penitenziaria italiana, né a quella irakena, né a quella statunitense. In 8 anni nelle carceri italiane sono morti 1.200 detenuti, di cui oltre un terzo per suicidio (Fonte: "Ristretti-Orizzonti"). Ci sono detenuti che da moltissimi anni vivono con la proibizione di parlare, toccare un familiare, vedere oltre le sbarre il cielo, la luna e le stelle.

Ci sono detenuti murati vivi che vengono puniti nello stesso giorno per mezzo di tre regimi diversi applicati in successione o contemporanea: l’isolamento diurno, lo stato di tortura del 41 bis e il regime di sorveglianza speciale del 14 bis. Ci sono detenuti che sono entrati a 18 anni, a diciannove, a venti, i quali sono invecchiati in carcere e moriranno in carcere di vecchiaia. Ci sono detenuti che per legge (art. 4 bis del primo periodo dell’ordinamento penitenziario) non potranno mai uscire dal carcere se non useranno la giustizia facendo la spia".

Alcuni episodi gravi sono stati realizzati da persone che usufruiscono della legge a favore dei "pentiti". Per lo Stato ufficialmente redenti ecco i pentiti con licenza di uccidere (fonte: "Il Giornale" del 10/07/08). Nelle carceri italiane avvallata dalla scusa che ciò faccia parte della lotta alla criminalità organizzata, i detenuti vengono ormai annientati con una sofferenza sterminata e incommensurabile.

I detenuti d’Italia oggi non vengono torturati nel corpo come era solito nel medioevo, ma vengono torturati nell’animo, negli affetti e nella dignità. Uno strano modo davvero di fare giustizia quello che prevede che ad una persona venga proibito di dare o ricevere una carezza per più di 15 anni, persino alla madre che lo ha messo al mondo. Questa é l’Italia di Berlusconi. Questa é l’Italia che avete voluto. Questa é l’Italia che avete votato.

Per avere più sicurezza la sicurezza la state perdendo. Sopratutto state perdendola libertà anche voi là "fuori". Io non rinuncerò mai alla libertà di parlare e di pensare neppure stando dentro una cella. E come me la pensano molti ergastolani che il primo dicembre 2008 inizieranno uno sciopero della fame per chiedere la certezza della pena tramite l’abolizione dell’ergastolo. In carcere é più difficile rivendicare e denunciare le ingiustizie, può essere pericoloso. ma bisogna farlo perché insieme alla libertà stiamo perdendo la vita, la speranza, la dignità.

Milano: Luigi Pagano; San Vittore diventato un enorme Cpt

di Mario Porqueddu

 

Corriere della Sera, 21 agosto 2008

 

C’è stato un tempo nemmeno troppo lontano in cui San Vittore era il carcere di Milano e anche un carcere "milanese". Lo cantavano i poeti; aveva un posto nell’immaginario delle persone, i cittadini lo riconoscevano. Si chiamava "Mue", perché è quello il numero civico del portone d’ingresso, in piazza Filangieri. Quando quel portone si chiudeva rimanevi dentro un po’. E da lì sono passati criminali dai nomi evocativi: Francis Turatello, Renato Vallanzasca. Altre epoche. Le cose cambiano velocemente, e a volte dietro le sbarre i mutamenti sono più rapidi rispetto a "fuori". Oggi nella grande casa circondariale oltre 7 detenuti su 10 sono stranieri. E capita sempre più spesso che quelli che entrano, in piazza Filangieri ci rimangano soltanto pochi giorni. "È vero - dice Luigi Pagano - ormai San Vittore è diventato una specie di grande Cpt".

Pagano ha 54 anni, è stato direttore di San Vittore per quindici anni, e dall’estate del 2004 è Provveditore regionale per le carceri lombarde. "Quando arrivai io - ricorda - nell’istituto c’erano 2.400 detenuti". Da allora, Pagano ha sempre sostenuto che la più grande difficoltà con la quale si scontra chi fa il suo mestiere è l’affollamento delle strutture.

Non ha cambiato idea. "Oggi a San Vittore - dice-il 75% dei reclusi non è italiano. E nelle carceri lombarde siamo al 50-60 per cento. Ma il problema non è mai "chi" affolla, è il numero eccessivo delle presenze". Semmai, spiega, è la natura dell’affollamento a essere cambiata. "In questo momento i reclusi sono circa 1.500, anche se la capienza è 700. Fra due 0 tre mesi - prevede Pagano - il carcere sarà ancora troppo affollato e sempre più o meno da 1.500 persone, ma i detenuti saranno cambiati quasi tutti.

Diciamo che è un affollamento "dinamico". Su 100 nuovi ingressi, oltre il 50% degli arrestati torna in libertà nel giro di qualche giorno. Intanto altri arrivano a prendere il loro posto e si va avanti così. È un ciclo continuo". Conseguenze? "Prima prendevi in custodia delle persone e potevi determinare che sarebbero state in carcere 6 mesi. Potevi impostare un trattamento, pianificare il lavoro. Oggi le risorse sono impiegate per persone che dopo poco non ci sono più".

Insomma, a volte tutto quello che si riesce a fare è la cosiddetta "accoglienza", cioè la trafila che aspetta ogni nuovo detenuto in un carcere italiano: "Visita medica, visita psicologica, accompagnamento da parte di personale e volontari, verifica del livello di ansietà, perché va tenuto sotto controllo il pericolo che i nuovi si facciano del male o siano violenti nei confronti di altri reclusi". Un tempo tutto questo era "la base" sulla quale cominciare a lavorare. "Ora capita che sia l’unico obiettivo perseguibile. Oltre a evitare che ci siano evasi o feriti, s’intende...".

In questo modo però, dice il Provveditore alle carceri lombarde, "il rischio è che l’istituto perda le sue caratteristiche, quelle scritte all’articolo 27 della Costituzione, che parla di rieducazione del condannato". Certo, il problema riguarda soprattutto le Case Circondariali delle grandi città, nelle case di reclusione più piccole è diverso: "Ma quando le tue risorse le investi per le "permanenze giornaliere" - sospira Pagano - il trattamento rieducativo c’entra poco. Rischi di non raggiungere nemmeno l’obiettivo della dignità dei reclusi, per non parlare del loro reinserimento".

 

Resta quel dato numerico impressionante. Tanti stranieri in carcere non c’erano mai stati. Che succede?

"Per un verso - dice Pagano -, è vero che vengono arrestati di più. Ma è anche vero che, a parità di imputazioni, per loro e per gli italiani la realtà carceraria può essere parecchio diversa. Per fare un solo esempio: è facile che un extracomunitario in custodia cautelare non sia in possesso di documenti utili a dimostrare che ha un alloggio. Quindi non otterrà misure alternative alla detenzione, perché il magistrato non sa dove mandarlo".

Almeno una buona notizia però c’è : "Le tensioni sono poche, meno di quanto ci si immagini da fuori. E da molto prima dell’indulto, direi almeno da un decennio, che in carcere conviviamo con l’aumento degli immigrati. Siamo già alle seconde o terze generazioni. I primi reclusi stranieri avevano problemi di lingua e relazioni, occorreva una mediazione. Oggi trovi gente non dico italianizzata ma con un corredo culturale molto diverso".

Detenuti come i 50 che a Ferragosto sono usciti da San Vittore per pulire un parco. "Questo è scontare la pena - dice Pagano -. Un lavoro all’esterno, con agenti a controllare, in modo che i reclusi non pesino troppo sul carcere. Ma è un fatto su cui dovremmo riflettere tutti assieme".

Roma: ladro ucciso; anche Tenaglia (Pd) difende il tabaccaio

 

Corriere della Sera, 21 agosto 2008

 

Quel colpo sparato dal balcone al ladro in fuga non "merita" l’accusa di omicidio volontario. Dopo il ministro della Difesa Ignazio La Russa, anche il deputato del Pd Lanfranco Tenaglia, ministro ombra della Giustizia, si schiera dalla parte del tabaccaio di Aprilia: "L’omicidio volontario mi sembra una contestazione eccessiva - sostiene -. Di fronte a una rapina, è giusto che la vittima si difenda".

Anche a costo di uccidere, come è successo? "Mi pare necessario - replica Tenaglia - riflettere sulla particolare situazione in cui si trovano i commercianti che subiscono ripetute rapine. Bisogna verificare se sia necessaria una norma che preveda un’esimente specifica per situazioni del genere".

Al di là, dunque, di quanto già oggi stabilisce il codice, secondo cui la difesa è legittima "quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione". Il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, giudica "la legge sulla legittima difesa una buona legge". Che però deve "essere applicata nel modo più coerente possibile".

Occorre, precisa Mantovano, "trovare un equilibrio", perché "troppo spesso criminali incalliti vengono rimessi in libertà prima del tempo e persone oneste vengono imputate di gravissimi reati quando si sono solo difese". Gli esercenti però non si appassionano al dibattito sulle norme. Più semplicemente, hanno paura. "Le tabaccherie sono sotto assedio - sottolinea Antonio Rocco, presidente della Federazione italiana tabaccai a Latina -. Siamo esasperati, tanto che più volte abbiamo denunciato la gravità del fenomeno al prefetto".

Sarà la Fit a farsi carico delle spese legali sostenute da Davide Mariani, indagato per la morte del romeno Daniel Margineau, 21 anni. Una brutta storia che fa lanciare un grido d’allarme anche alla Confcommercio, attraverso il presidente di Roma e Lazio Cesare Pambianchi: "La situazione non è più tollerabile, la mancanza cronica di qualsiasi misura di sicurezza a tutela dei commercianti è diventata insostenibile".

Nelle stesse ore davanti all’obitorio la sorella di Margineau, Mioara, si dispera: "Quell’uomo deve pagare - piange -. Mio fratello stava fuggendo, non era armato. E inammissibile quello che è successo". Le è accanto l’avvocato Palma Seminara: "È lo Stato che deve garantire la sicurezza dei cittadini. Qui nessuno vuole vendette, ma si sappia che non è stato ammazzato un cane". Mioara, il marito muratore e il legale sono al Santa Maria Goretti di Latina per l’autopsia sul corpo di Margineau. Dall’esame, affidato al medico legale Gianluca Marcila e al perito balistico Martino Fameti, il primo consulente del caso Marta Russo, emerge che il romeno è stato ucciso da un solo colpo, sparato dall’alto in basso e da destra verso sinistra. È una conferma al racconto del tabaccaio ma, annuncia il pm Vincenzo Saveriano, "valuteremo tutti i profili della condotta". Per il momento, dunque, l’accusa resta di omicidio volontario.

Torino: dalla Regione un aiuto per le vittime della criminalità

 

La Stampa, 21 agosto 2008

 

La Regione ha stanziato i contributi on si può dire che siano grandi cifre ma se non altro colmano un vuoto importante nella legge regionale 23 sulla sicurezza. Ora la Regione ha definito chi e a quali condizioni potrà beneficiare del "Fondo di solidarietà ed assistenza per le vittime di criminalità e terrorismo" previsto dalla legge medesima. Come spiega l’assessore Luigi Ricca (Promozione della sicurezza), gli indirizzi, che a settembre verranno approvati dalla giunta dopo l’ultimo passaggio in commissione (in quella sede potrebbe essere apportata qualche modifica), "puntano a dare un aiuto concreto ai familiari delle vittime o a chi resta invalido: "Un dovere nei confronti di chi si prodiga per il prossimo".

Chi ha diritto - Esponenti di forze dell’ordine, vigili del fuoco e polizia locale deceduti in servizio, più i civili caduti sotto il fuoco del terrorismo. Ad oggi la Regione non è in grado di stimare quante potranno essere le domande. Le condizioni Prima: saranno considerati i casi dal primo gennaio 2007, in ordine cronologico, da parte di una struttura presso l’assessorato. Seconda: i contributi verranno concessi solo a chi non ha già ottenuto benefici a carico del bilancio regionale per lo stesso fatto. Terza premessa: i benefici valgono anche per i cittadini piemontesi comandati in servizio fuori dal territorio regionale.

I contributi Come riconosce lo stesso Ricca, non si tratta certo di cifre esorbitanti. Prevista una "elargizione speciale" di 10 mila euro una tan-tum a chi è caduto nell’espletamento del servizio e ai civili deceduti per cause di terrorismo. Per le vittime che riportano invalidità permanente pari o superiore all’80% e per i minori figli delle vittime civili la Regione riconoscerà un contributo da 16 a 20 mila euro a seconda del grado di invalidità.

In caso di morte, gli aiuti verranno assegnati al coniugo, anche se separato, ai figli legittimi, naturali, riconosciuti e riconoscibili, adottivi anche se non coabitanti, nonché i componenti della famiglia anagrafica. In assenza di queste figure familiari, ad avvalersi del beneficio saranno i genitori della vittima, anche se non coabitanti, o i fratelli e le sorelle.

Previsto un contributo pari al 10% dei progetti attivati dagli enti locali e dai Consorzi dei servizi sociali. Le domande Dovranno essere presentate entro dicembre 2008 per i fatti verificatisi da gennaio 2007 e per i casi successivi sempre entro 120 giorni dalla data dell’evento. L’organo di gestione è incaricato di formare ed aggiornare una graduatoria unica regionale dei casi.

Varese: l’imam accetta estradizione, stanco delle persecuzioni

 

La Repubblica, 21 agosto 2008

 

Tutti si aspettavano un’altra puntata di una già lunga battaglia giudiziaria. E invece lui, Abdelmajid Zergout, ex imam di Varese che il Marocco vuole processare in patria per terrorismo, accusa dal quale la giustizia italiana l’ha assolto per due volte, ieri mattina ha spiazzato tutti. "Do il mio consenso all’estradizione", ha fatto mettere a verbale. "Sono stufo - ha aggiunto - e con grande dolore accetto la sfida di affrontare la giustizia del mio paese con l’obiettivo di sbarazzarmi di dieci anni di sospetti sul mio conto".

Quindi ha abbracciato il suo avvocato, Luca Bauccio - che dirà poi: "E’ stata una decisione che ha preso in solitudine e che mi ha sconvolto - e al giudice di corte d’Appello, Amedeo Santosuosso, ha chiesto: "Prima di partire, lasciatemi incontrare mia moglie e i miei bambini". Ma saranno loro, presto, a raggiungerlo: "Se mio marito andrà in Marocco, io non aspetterò qui un giorno", giura Jemmi Hind, la moglie di Abedlmajit Zergout, appena ricevuta la notizia.

I tempi della riconsegna del predicatore alle autorità marocchine ora si accorciano. Davanti ai magistrati di Rabat, che lo considerano vicino alla cellula islamica responsabile delle stragi di Madrid e di Casablanca, dovrà difendersi dalle accuse di due testimoni, Noureddine Nafia e Mohamed Raouiane, che lo chiamano in correità sostenendo che Zergout faccia parte di una rete marocchina di un gruppo islamista.

"Il pericolo della tortura fisica che potrebbe subire in Marocco è diventato secondario rispetto a quella psicologica subita in questi dieci anni in Italia", dice ora Bauccio. "Se ha il coraggio di accettare l’estradizione, è sicuro di poter dimostrare la propria innocenza", commenta l’imam di Torino Bouriqi Bouchta, anche lui costretto a tornare in Marocco nel 2005 per un provvedimento di espulsione dell’allora ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu.

In Marocco, dice Bouchta, "le torture non ci sono più". Più cauto Stefano Dambruoso, esperto di terrorismo e responsabile dell’ufficio coordinamento attività internazionali del ministero di Giustizia, per il quale "in assenza di strumenti di cooperazione giudiziaria che consentano alle magistrature di Italia e Marocco di verificare il reciproco rispetto dei diritti fondamentali degli indagati, le diplomazie potrebbero dare un supporto, verificando il rispetto delle garanzie".

Camerun: incendio in carcere sovraffollato, 9 morti e 20 feriti

 

Ansa, 21 agosto 2008

 

Nove detenuti sono morti in un incendio scoppiato nel carcere di Douala, riferisce il ministero della Giustizia. Altri venti prigionieri sono rimasti feriti. Si tratta del carcere di massima sicurezza New Bell, costruito nel 1933 per contenere 800 internati; tuttavia all’interno del centro penitenziario ci sono adesso 3mila carcerati, più del triplo. Le associazioni in difesa dei diritti dell’uomo sostengono che le carceri camerunesi sono spesso sovraffollate e carenti in igiene e prestazioni sanitarie.

 

 

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