Rassegna stampa 24 ottobre

 

Giustizia: consiglio dei ministri diviso, salta il "piano sicurezza"

di Fiorenza Sarzanini

 

Corriere della Sera, 24 ottobre 2007

 

Salta l’approvazione del "pacchetto sicurezza". Il governo non trova l’accordo sulle misure che inaspriscono le pene per i reati di allarme sociale e sulla concessione di maggiori poteri e sindaci e prefetti. E alla fine in Consiglio dei ministri si decide di rinviare l’esame "in attesa di aggiornamenti". Determinante si rivela l’annuncio di astensione di quattro ministri che da settimane avevano manifestato la propria contrarietà a molte norme inserite nei provvedimenti studiati dall’Interno e dalla Giustizia.

Si comincia alle 16 con la relazione di Giuliano Amato. Il responsabile del Viminale sottolinea "il diffondersi di una criminalità che ha tipologie nuove e invade spazi fino ad oggi ritenuti sicuri, che ha sempre più spesso come protagonisti soggetti stranieri irregolarmente in Italia, che colpisce le persone comuni, quelle più deboli, le donne, gli anziani e i bambini. Un fenomeno nuovo che per questo va contrastato con strumenti nuovi e aggiornati".

Emma Bonino della Rosa nel Pugno spiega che non voterà nessuno dei provvedimenti. Paolo Ferrerò di Rifondazione Comunista fa lo stesso su quello che riscrive alcune norme del codice penale e sui poteri agli amministratori locali. È quello che non convince Alfonso Pecoraro Scanio dei Verdi e Fabio Mussi di Sinistra Democratica. Non sono gli unici. Rosy Bindi manifesta con chiarezza il timore che ci siano "norme anti-rom".

Cesare Damiano chiede di inserire articoli di legge per combattere il caporalato. Barbara Pollastrini contesta alcuni punti che riguardano la contraffazione e lo stesso fa Giulio Santagata. Alla fine emerge in maniera netta che c’è bisogno di un’approfondita rilettura dell’intero impianto perché un’intesa è impossibile da trovare.

Se ne riparlerà tra una settimana, ma per il governo si tratta di una posante battuta d’arresto. La sensazione che non ci fosse il clima giusto per trovare l’accordo era comunque apparsa evidente sin dai giorni scorsi quando ministri e parlamentari della sinistra radicale avevano espresso critiche forti all’impianto e Ferrero aveva affermato: "Non mi convince perché è troppo puntato sulle questioni di ordine pubblico.

Dobbiamo evitare di confondere il delinquente, che va messo in galera, con il povero che invece va aiutato a trovare un lavoro e a reinserirsi nella società: non sempre questa distinzione è così netta". Lo ha ribadito ieri uscendo da Palazzo Chigi. "Non è detto che si arrivi ad un provvedimento condiviso: c’è stata una discussione approfondita, vedremo. Ma su alcuni punti, come per esempio i poteri ai sindaci, non so se si riuscirà ad arrivare ad una posizione univoca". E Bonino ha aggiunto: "Potevamo anche essere tutti d’accordo sul fatto che serve più sicurezza, ma il problema era evidentemente quello delle modalità con cui attuare questo obiettivo. Alla fine di questo dibattito il presidente del Consiglio ha concluso che l’esame era stato utile sia in termini di rilievi critici che di suggerimenti e che necessitava di una riscrittura e di un ripensamento".

A difendere le norme ci aveva provato il vicepresidente del Consiglio Francesco Rutelli definendo il pacchetto "uno strumento per difendere i più deboli" e aveva poi sottolineato la necessità di "mettere i sindaci in condizione di proteggere le persone più indifese" e quella di "difendere i minori da chi vuole ridurli ih schiavitù".

Non è servito. E l’opposizione si scatena: "Fino a quando potremo continuare con un governo degli annunci, senza nessuna sostanza? Mentre a Palazzo Chigi litigano, i nostri concittadini muoiono per mano di una criminalità dilagante", si chiede la Lega. E Maurizio Gasparri di An sollecita Napolitano a "pretendere le dimissioni del governo".

Giustizia: quando la sicurezza è da paura, di Giuliano Pisapia

 

Il Manifesto, 24 ottobre 2007

 

Spero che, almeno questa volta, abbia prevalso la saggezza e non motivi che nulla hanno a che vedere con la giustizia! Il pacchetto sicurezza non è stato (ancora) approvato e, forse, vi è la possibilità di un ripensamento e di una maggiore ragionevolezza. Può essere utile, allora - per memoria di chi l’ha persa - ricordare alcuni passi del programma, approvato all’unanimità da tutti i partiti dell’Unione: "la giustizia penale ha urgente bisogno di riforme che riaffermino il principio costituzionali di eguaglianza, della funzione rieducativa della pena e del giusto processo; bisogna garantire una giustizia celere, assicurare a tutti (parti offese e imputati) il diritto di difesa, prevedere pene diverse da quelle carcerarie, finalizzate anche al risarcimento dei danni o ad elidere le conseguenze dannose del reato; priorità assoluta deve essere il contrasto alla criminalità organizzata, che mina le basi della nostra Repubblica e ostacola lo sviluppo di larghe porzioni del territorio".

Ognuno di questi obiettivi era accompagnato da precise, e concrete, proposte che, se approvate, avrebbero dato una svolta alla giustizia penale (e civile) del nostro paese e una risposta anche alla comprensibili, e condivisibile, richiesta di sicurezza dei cittadini.

Ebbene, nulla (o, meglio, ben poco) di ciò che è stato discusso ieri dal Consiglio dei Ministri ha avuto come punto di riferimento il programma votato dagli elettori. Non si contesta, sia chiaro, la necessità della doverosa lotta al crimine e alla criminalità. Si contesta il fatto che, invece di abolire la Bossi-Fini o la legge contro i tossicodipendenti; invece di difendere con tutte le forze una legge, come la Gozzini, che ha permesso il reinserimento di oltre 700 mila persone (che, altrimenti, avrebbero continuato a delinquere), si pensa (forse neppure credendoci) di risolvere problemi reali con misure che non potranno che aggravarli.

Porre ulteriori paletti alla Simeone-Saraceni significa mandare in carcere migliaia di persone - oggi libere in quanto giudicate non pericolose - prima che il Tribunale di Sorveglianza decida se siano meritevoli, o meno, di misure alternative alla detenzione (che è cosa ben diversa dalla impunità).

Negare, come pure prevede il pacchetto sicurezza, il patrocinio ai non abbienti imputati di determinati reati, significa a negare il diritto di difesa ai più poveri e, e soprattutto, aumentare il già vergognoso numero di errori giudiziari. Rendere di fatto obbligatoria la custodia cautelare per alcuni specifici reati sarebbe un inaccettabile ritorno a un passato (fascista) e porterebbe all’incarcerazione di migliaia di innocenti. E che dire del potere di espulsione dei prefetti per motivi di "pubblica sicurezza"?

Non più l’esilio o la deportazione, ma una discrezionale, e arbitraria, espulsione, senza alcuna garanzia giurisdizionale, anche per chi partecipa a una pacifica manifestazione. E come non ricordare la dura lotta dell’intero centrosinistra contro i nuovi poteri di polizia dei sindaci arrogantemente voluta, nella scorsa legislatura, dal centrodestra?

Se, infine, si aumentassero le pene per chi vende merce contraffatta o occupa il suolo pubblico (zingari, lavavetri, non certo esercenti di discariche abusive) l’involuzione democratica finirebbe col rischiare di essere irreversibile.

Certo, non possiamo e non vogliamo negarlo. Vi sono state proposte condivisibili: tra queste, le nuove attribuzioni al procuratore azionale antimafia; gli interventi proposti per gli omicidi colposi causati da guidatori ubriachi; i processi immediati, senza limitare le garanzie, per chi si trova in stato di arresto (un vantaggio per gli innocenti e per le parti offese).

Bisogna però essere consapevoli che anche norme giuste finiscono per essere neutralizzate da leggi demagogiche, schizofreniche, inefficaci e controproducenti. Ben venga, quindi, il rinvio, purché la riflessione porti ragionevolezza e non solo polemiche strumentali, che nulla hanno a che vedere con la giustizia.

Giustizia: sei anni fa un "pacchetto sicurezza" fu quasi inutile

 

Il Riformista, 24 ottobre 2007

 

Puntuale, a ogni legislatura di centrosinistra, arriva il momento del "pacchetto sicurezza". La sua ora scocca, di solito, alla fine di una campagna mediatica di forte impatto. In preparazione del pacchetto sicurezza 2007, al voto ieri al Consiglio dei ministri, si segnala, ad esempio, il Tg1 dello scorso weekend, che annunciava una nuova "ondata di morti" sulle strade a causa della droga e dell’alcol. Il servizio, tuttavia, spiegava che solo uno degli otto morti censiti erano causati da "droga e alcol".

Di colpo, improvvisamente, a tutti sembra che di droga e alcol, sulle strade, si muoia come mai prima. E così arriva l’ora di un nuovo "pacchetto sicurezza", costruito più o meno di una ricetta principale: aumento delle pene per i reati che destano "allarme sociale".

Così, ad esempio, chiunque al volante sotto l’effetto di alcol o droghe provochi un omicidio colposo è punito con la reclusione da tre a dieci anni (oggi ci sono pene da uno a cinque anni). E, ancora, i reati che provocano allarme sociale (tra gli altri, furto, scippo, rapina, violenza sessuale, pedofilia, incendio boschivo) vengono equiparati ai reati di mafia o di terrorismo.

E, dunque, per gli imputati ci dovrà essere il processo immediato e chi verrà condannato in primo grado non potrà patteggiare in appello, con conseguente impossibilità di accedere a riduzione della pena. Nel merito si può essere d’accordo o meno (e noi lo siamo meno), ed è legittimo aderire o dubitare. Forse - obiettiamo - poco conta minacciare dieci anni di galera se sulle strade del sabato notte non ci sono agenti sulle strade, unico vero veicolo della funzione preventiva della pena.

Quel che oggi vogliamo sottolineare è soprattutto l’assoluta mancanza di memoria storica minima da parte di un centrosinistra che non si trova per la prima volta ad affrontare epidemie di opinione pubblica come questa. Capitò, per l’appunto, nel 2001.

Al posto di Mastella c’era Fassino e nel paese circolava via etere la paura. Fu approvato un pacchetto sicurezza che aveva i suoi cavalli di battaglia nell’introduzione delle figure autonome di furto con strappo - lo scippo - e della rapina in villa.

Non più semplici aggravanti, passibili di essere controbilanciate dalle attenuanti in sede di giudizio, ma veri e propri reati. Conseguenza: inasprimento delle pene? Rapine in villa e scippi non sono calati, visto che tornano oggi in un nuovo pacchetto. E il centrosinistra perse egualmente le elezioni.

Giustizia: ogni mese nelle carceri ci sono 600 detenuti in più

 

Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2007

 

A quindici mesi dall’indulto le 205 carceri italiane tornano ad affollarsi a un ritmo sostenuto: dal 31 luglio 2006 a oggi è stato registrato un aumento di oltre 9mila detenuti, pari a una media di 600 unità al mese. Un dato, questo, assai elevato se paragonato a quello degli anni precedenti, quando la popolazione carceraria aumentava (nel periodo tra il 1998 e il 2006) mediamente di circa 2mila detenuti l’anno.

Tuttavia, questo incremento che rischia di far tornare nel giro di un anno e mezzo i penitenziari tanto sovraffollati quanto nel periodo pre-indulto (63mila detenuti contro 43.352 posti disponibili) non ha nulla a che fare con il provvedimento di clemenza varato l’estate scorsa dal Parlamento. A precisarlo è il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Ettore Ferrara, nel corso di un’audizione in commissione Giustizia al Senato.

"Già negli anni precedenti, infatti, si registrò un trend costante nel tempo, così da lasciare intendere - ha ricordato Ferrara -come altre cause strutturali fossero alla sua base, essenzialmente legate alle disfunzioni del sistema penale".

A ben vedere, poi, "l’indulto ha evitato che si realizzasse una situazione assolutamente drammatica" perché ai detenuti presenti nell’estate del 2006 si sarebbero aggiunti gli altri 9mila di questi ultimi mesi, anche se il dato va depurato dagli "indultati" che poi sono tornati in carcere perché recidivi, pari a 6.669 unità. Senza l’indulto, dunque, la situazione sarebbe stata esplosiva "e - fa il conto Ferrara - avremmo avuto circa 7omila detenuti".

Il capo del Dap indica, dunque, in altre cause l’aumento della popolazione carceraria di questi ultimi 15 mesi: "Su un flusso di 90mila unità, la seconda causa di carcerazione è costituita dalla violazione della legge sugli stupefacenti, mentre il 6,4% dei detenuti del periodo post-indulto è rappresentato da immigrati che hanno violato la legge Bossi-Fini".

Giustizia: Pino Pisicchio; in Italia ci servono nuove carceri

 

Ansa, 24 ottobre 2007

 

"Sì al giro di vite per i reati che creano allarme sociale, ma al contempo sì anche ad un impegno concreto per la costruzione di nuove carceri. Questo il commento del presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, Pino Pisicchio, sul pacchetto sicurezza previsto dal governo. "Un provvedimento giusto e necessario - spiega Pisicchio - specie per ciò che riguarda l’inasprimento delle pene per reati come la pedofilia on-line o la guida in stato di ebbrezza. Il provvedimento, però, deve essere accompagnato dalla costruzione di nuove carceri, perché per nessun motivo possiamo permetterci di tornare ad una situazione di sovraffollamento nelle galere come quella che, solo un anno fa, rese necessario l’indulto".

Le notizie fornite oggi dal Dap sulla situazione nelle carceri italiane - continua il presidente della Commissione Giustizia -, e che parlano di una crescita pari a 600 detenuti al mese, confermano la nostra preoccupazione di provvedere all’edificazione di nuovi istituti di pena per evitare di trovarci in breve tempo nella stessa situazione dello scorso anno e nell’impossibilità di garantire, ai sensi dell’art.27 della Costituzione, l’umanità della pena e le sue finalità rieducative. La Commissione Giustizia - conclude Pisicchio - si sente impegnata a favorire ogni iniziativa che il governo vorrà assumere per recuperare le strutture carcerarie già realizzate ma rimaste ancora inattive, e per costruirne di nuove e più moderne"

Valle D’Aosta: al via l'Osservatorio tra Regione e Ministero

 

Ansa, 24 ottobre 2007

 

Nuove attività di formazione professionale e iniziative rivolte alla salute dei detenuti della casa circondariale di Brissogne. Sono questi due dei temi discussi oggi ad Aosta nel corso della riunione di insediamento dell’Osservatorio per la verifica dell’applicazione del Protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione autonoma Valle d’Aosta, alla quale hanno preso parte il presidente della Regione, Luciano Caveri, l’assessore alla Sanità, Antonio Fosson, e il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Aldo Fabozzi. "Una riunione molto proficua - ha commentato in una nota il presidente Caveri che ha coordinato l’incontro in videoconferenza da Roma - che ha permesso di avviare un percorso di collaborazione e di individuare delle nuove linee operative con l’istituto carcerario". "Cito in particolare - ha proseguito Caveri - le attività di formazione professionale, che potranno essere inserite nell’ambito della nuova programmazione comunitaria del Fondo Sociale Europeo e che potranno essere oggetto di una pianificazione pluriennale degli interventi di orientamento, di formazione e di reinserimento lavorativo del detenuto". Nel corso dell’Osservatorio è stata ribadita infatti la necessità di integrare la Commissione didattica con rappresentanti della scuola e dell’Agenzia regionale del lavoro.

Per l’assessore regionale alla Sanità Fosson "nel quadro dell’assistenza sanitaria c’é già un punto di partenza che è rappresentato dalla presenza di un medico 24 ore su 24, così come dal servizio del Sert per l’assistenza ai tossicodipendenti. Oggi abbiamo definito la creazione di una Commissione paritetica per monitorare la salute della popolazione dei detenuti oltre che degli operatori, cercando di stabilire delle sinergie e dei protocolli d’intesa tra sistema sanitario carcerario e sistema sanitario regionale".

"L’incontro odierno rappresenta una pietra miliare - ha aggiunto il provveditore Fabozzi - che pone le basi per una migliore integrazione tra i compiti istituzionali che competono all’Amministrazione penitenziaria e a quella regionale. C’é grande sintonia e collaborazione e questo è un primo passo per affrontare i problemi della casa circondariale, sia sotto l’aspetto della formazione che sotto quello della gestione sanitaria".

Perugia: la morte Aldo Bianzino; un suicidio o un omicidio?

 

Ansa, 24 ottobre 2007

 

"Domenica scorsa Aldo Bianzino, 44enne di Pietralunga, arrestato per detenzione illegale di stupefacenti, è morto in carcere. La vicenda ha contorni che è poco definire oscuri e la Procura di Perugia ha deciso di aprire un’indagine sulle cause del decesso del detenuto".

È quanto ricorda, in una nota il capogruppo di Rifondazione comunista Stefano Vinti preoccupato perché "fatti come questi rischiano di assumere un tono scontato, quasi di normalità".

"È del tutto evidente - evidenzia il capogruppo del Prc-Se - che la magistratura farà il suo lavoro, ma l’episodio ci lascia inquieti perché il medico legale avrebbe già escluso l’ipotesi di una morte per infarto. Inoltre - aggiunge - un arrestato resta in isolamento fino a quando non lo vede il giudice delle indagini preliminari, senza entrare in contatto con altri detenuti.

Ora - dice - attendiamo i reperti istologici e gli esami tossicologici per capire come è morto il detenuto".Vinti chiede, quindi, di sapere "se la morte in carcere di Aldo Bianzino sia opera del caso o opera dell’uomo. Questo - commenta - perché il carcere resta ancora oggi una realtà chiusa e la chiusura aumenta quando succede un fatto grave come quello di un decesso. Il sistema delle nostre carceri purtroppo lo conosciamo.

La vita delle persone che vi entrano - sottolinea - sembra valere immediatamente di meno. Per questo abbiamo sostenuto con forza l’istituzione nella nostra regione del Garante delle carceri avvenuta con legge regionale il 18 ottobre dello scorso anno. È stata una scelta che abbiamo definito di civiltà perché convinti che la Regione dell’Umbria non possa disinteressarsi dei problemi nelle nostre carceri.

A distanza di un anno, però, - spiega - occorre che l’intera comunità politica regionale riconosca la necessità della nomina del garante, con la duplice funzione di controllo, per le competenze proprie dell’amministrazione regionale, e di moral suasion, per le competenze del ministero della Giustizia, al fine di imboccare un percorso virtuoso per la piena affermazione, senza se e senza ma, del pieno riconoscimento della dignità umana".

"La morte di Aldo, - aggiunge Vinti - incarcerato per possesso di marijuana, non può diventare improvvisamente un fatto normale, proprio oggi che apprendiamo dal decimo rapporto Sos Impresa" (Confesercenti) che l’azienda italiana con il maggior fatturato è la mafia". Vinti, in conclusione, fa sapere che "è contro questa assurda normalità che Rifondazione comunista dell’Umbria si pone, mettendo l’informazione e la trasparenza al centro dei percorsi di cambiamento della cultura penitenziaria. Chiediamo chiarezza sulla morte di Aldo Bianzino, chiediamo la verità, chiediamo una spiegazione coerente con quello che è accaduto".

Perugia: la morte di Aldo Bianzino; interrogazioni al Senato

 

Ansa, 24 ottobre 2007

 

"Se fossero accertate le gravissime lesioni che sarebbero state riscontrate sul corpo di Aldo Bianzino, deceduto nel carcere di Perugia in circostanze oscure, saremmo di fronte a un fatto di inaudita gravità".

Il senatore di "Insieme con l’Unione" Mauro Bulgarelli, ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla vicenda avvenuta la scorsa settimana nell’istituto di pena, dove un uomo, arrestato con l’accusa di coltivare piante di cannabis presso la propria abitazione, è improvvisamente deceduto nella notte tra il 13 e il 14 ottobre senza una valida motivazione.

"È sconcertante che a 24 ore dall’arresto, le cui circostanze sono peraltro da chiarire, un uomo muoia in carcere per cause che potrebbero essere non accidentali e far addirittura ipotizzare un pestaggio. Così come - continua Bulgarelli - è grave che a 10 giorni dalla morte i familiari non abbiano ancora potuto vedere il corpo del loro congiunto e la direzione del carcere non abbia fornito loro spiegazioni su quanto accaduto e non si sappia nemmeno se l’uomo fosse tenuto in isolamento o in compagnia di altri detenuti." Il parlamentare sottolinea infine la necessità di chiarire al più presto le cause del decesso e soprattutto che vengano accertate tutte le eventuali responsabilità, a partire da quelle della direzione dell’istituto di pena.

 

Interrogazione con carattere d’urgenza al Ministro della Giustizia

 

Premesso che, da notizie apprese dalla stampa, nella notte di venerdì 12 ottobre è stato arrestato nella propria abitazione, nel Comune di Petralunga (PG) per violazione dell’articolo 73 del Dpr 9 ottobre 1990, n. 309, il signor Aldo Bianzino; dopo l’arresto, lo stesso sarebbe stato condotto assieme alla moglie nel commissariato di Città di Castello per le formalità di rito e quindi trasferito nel carcere di Capanne (PG); i due coniugi sarebbero stati divisi non appena entrati in carcere, e sarebbero state riscontrate da parte dell’avvocato d’ufficio condizioni normali di salute in entrambi; nella notte di sabato 13 ottobre il signor Aldo Bianzino è deceduto all’interno della struttura penitenziaria; il signor Bianzino, secondo le normali procedure, sarebbe stato ristretto in cella da solo, prevedendo la prassi l’isolamento dell’arrestato prima dell’incontro con il Giudice preliminare; le lesioni riscontrate sul corpo del signor Aldo Bianzino, dopo il suo decesso, configurerebbero la compatibilità con l’omicidio, in quanto il medico legale escluderebbe la morte per infarto, riscontrando quattro commozioni cerebrali, lesioni al fegato, due costole rotte.

Si chiede di sapere quali procedure urgenti il ministro in indirizzo intenda avviare per fare completa chiarezza sulla vicenda.

 

Sen. Erminia Emprin Gilardini

Sen. Giovanni Russo Spena

Sen. Haidi Gaggio Giuliani

 

Comunicato di Luigi Manconi, Sottosegretario alla Giustizia

 

Sto seguendo con attenzione e preoccupazione le notizie relative alle indagini sulla morte, nell’istituto perugino di Capanne, di Aldo Bianzino, deceduto nella notte tra il 13 e il 14 di ottobre, a poco più di ventiquattro ore dall’arresto. Ogni morte in carcere è una duplice tragedia, perché quella morte, e la perdita che comporta, avviene quando la persona si trova sotto la responsabilità dello Stato e nella sua tutela.

Gli uffici centrali del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria stanno attivamente collaborando con il pubblico ministero, affinché siano accertate le cause e le responsabilità del decesso. Sia chiaro sin d’ora che il Ministero della giustizia opererà affinché siano accertate nella maniera più completa ed esauriente le circostanze di quella morte, affinché non resti ombra alcuna sulla dinamica e le eventuali responsabilità dell’accaduto.

Roma: a Rebibbia nasce il centro sanitario pilota "Psocare"

 

Apcom, 24 ottobre 2007

 

È stato inaugurato oggi il primo Centro Pilota Psocare all’interno della Casa Circondariale Rebibbia "Nuovo Complesso". Nato dalla volontà di far fronte all’aumento dell’incidenza della psoriasi tra la popolazione carceraria, il Centro Pilota Psocare è il primo in Italia in grado di fornire ai detenuti cure all’avanguardia nel trattamento di questa patologia.

"Siamo orgogliosi" - ha detto Carmelo Cantone, direttore della casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso - di essere i primi in Italia ad avere attivato un progetto con queste caratteristiche". "In una prima fase - ha proseguito - il nostro centro si occuperà del trattamento dei detenuti maschi affetti da psoriasi, ma non è escluso che in futuro vengano coinvolte anche le detenute donne". "La nostra casa circondariale - ha concluso Cantone - è impegnata a migliorare la qualità della vita dei detenuti e questo centro pilota, che fornisce risposte avanzate nell’ambito dell’assistenza sanitaria è un’ulteriore dimostrazione del nostro impegno in questo senso".

"La psoriasi - ha spiegato Pasquale Frascione, responsabile Ssd dermatologia Ire-Ifo - colpisce in Italia 1 milione e 600 mila persone, pari al 3% della popolazione". "Questa percentuale è significativamente più alta all’interno della popolazione carceraria. Attualmente, infatti si calcola che circa il 5% dei detenuti siano affetti da psoriasi". "Il centro pilota di Rebibbia Nuovo Complesso - ha concluso Frascione - è stato istituito per rispondere a questa esigenza e ci auguriamo che possa diventare un centro di riferimento per l’apertura di nuovi centri Psocare presso le maggiori carceri italiane".

"Il Centro Pilota Psocare" - dichiara il Dr. Sergio Fazioli, Dirigente Sanitario della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso - "garantisce l’accesso a cure all’avanguardia, i farmaci biologici, per i detenuti che non hanno ottenuto risultati con terapie di routine". "È dotato di un ambulatorio dedicato in infermeria e" - prosegue Fazioli - "opera attraverso un team multidisciplinare". "Inoltre" - conclude Fazioli - "il Centro Pilota Psocare assicura la continuità delle cure poiché, una volta terminato il periodo di detenzione, il paziente potrà facilmente proseguire il piano terapeutico presso uno dei numerosi centri Psocare distribuiti sul territorio nazionale".

"Le terapie biologiche per il trattamento della psoriasi da moderata a grave" - afferma il Prof. Sergio Chimenti, Direttore della Clinica Dermatologica Università Tor Vergata - "rappresentano una rivoluzione epocale". "Ce ne sono di due tipi" - continua Chimenti - "alcuni interagiscono nel meccanismo di modulazione dei linfociti T; altri, come ad esempio etanercept, bloccano il Tnf (tumor necrosis factor) una proteina che ha un ruolo importante nella funzione immunitaria e nei meccanismi responsabili dei processi infiammatori della psoriasi. Etanercept è un recettore solubile, non un anticorpo, che si lega al Tnf rendendolo biologicamente inattivo". "Con questi nuovi farmaci biologici" - conclude Chimenti - "siamo in grado di bloccare la malattia nella maggioranza dei pazienti".

"La nostra Associazione" - dichiara la Dr.ssa Mara Maccarone, Presidente Adipso - "è una delle realtà coinvolte nella realizzazione di Psocare, uno studio osservazionale sulla psoriasi promosso da Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco)".

"Noi siamo fortemente impegnati" - continua Maccarone - nella tutela dei diritti del paziente psoriasico e nel riconoscimento della psoriasi come malattia sociale che incide pesantemente su tutti gli aspetti della vita quotidiana del malato". "L’attivazione di un Centro Pilota Psocare in una struttura penitenziaria" - conclude Maccarone - "è un grande passo in avanti verso l’accesso paritario alle opzioni terapeutiche più all’avanguardia, da parte di tutti gli psoriasici".

Trapani: associazione antiracket da sindacati e terzo settore

 

Redattore Sociale, 24 ottobre 2007

 

Diventerà un punto di riferimento di tutti i commercianti ed imprenditori del trapanese vittime abituali degli estorsori. Vi aderiscono 8 organizzazioni.

Vi aderiranno otto associazioni che hanno deciso di esaminare e definire il testo dello Statuto della nuova associazione in un prossimo incontro al quale saranno invitate a partecipare tutte le forze sociali, imprenditoriali e professionali presenti a Trapani. L"associazione diventerà un punto di riferimento di tutti i commercianti ed imprenditori del trapanese vittime abituali degli estorsori. L’obiettivo principale sarà quello di realizzare un’associazione antiracket ed antiusura in una città come Trapani dove i fenomeni di racket ed usura sono molto presenti. La notizia è stata data ieri nel corso di un incontro che Confindustria Trapani, Cgil, Cisl, Uil, Api, Confesercenti, Confcooperative, Upia Casartigiani, hanno tenuto presso la sede di Confindustria Trapani sui temi connessi alla lotta alla mafia. All’incontro hanno preso parte il presidente di Confindustria Davide Durante, il segretario della Cgil Saverio Piccione, il segretario della Cisl Giorgio Tessitore, il segretario della Uil Giovanni Angileri, Matteo Giurlanda dell’Api, il presidente della Confesercenti Giuseppe Cicala, Rosario Incandela della Confcooperative, Mario Toscano dell’Upia Casartigiani.

Si spera che Trapani possa dare in questo modo un segnale forte alla lotta alla criminalità organizzata molto radicata nel suo territorio. In provincia di Trapani vi operano attualmente tre associazioni, rispettivamente a Alcamo, Marsala e Mazara del Vallo che però, fino a questo momento, hanno stentato a decollare.

Gorgona: nella colonia penale... un "paradiso" per prigione

di Maria Brigida Langellotti

 

Quotidiano Nazionale, 24 ottobre 2007

 

Nel Tirreno l’ultima colonia penale su un’isola, una nostra collaboratrice racconta tre giorni a contatto con i detenuti. Qui gli "ospiti" hanno l’opportunità di svolgere le mansioni liberi (sotto il controllo degli agenti) e vengono retribuiti.

Non c’è vento, si parte. Mentre in tv impazza l’Isola dei Famosi, io decido di visitare l’Isola dei detenuti. Gorgona, la più piccola e la più settentrionale delle isole dell’Arcipelago Toscano. Niente fusi orari, basta prendere un traghetto, anzi la motovedetta della polizia penitenziaria. Per raggiungere l’isola serve un permesso speciale, bisogna essere o residenti o parenti di un detenuto o di un agente. Io sono autorizzata dal ministero della Giustizia. Mi fermerò tre giorni.

Arrivo di domenica, e la passo a osservare da lontano i protagonisti dell’Isola: i detenuti. Sono già nelle sezioni, non posso avvicinarli ma solo scrutarli. La serata scorre lenta, allo spaccio della caserma e in spiaggia. Sono le onde del mare, lo stridere acuto e incessante dei gabbiani e le sgommate delle jeep della polizia penitenziaria che scandiscono il resto della mia domenica. Il lunedì mi sveglio presto: è un giorno di novità, sull’Isola arriva il nuovo direttore del carcere, Ester Ghiselli, accompagnata dal suo predecessore Salvatore Iodice. Il loro ok dà inizio al mio tour carcerario.

Tre giorni a stretto contatto con i detenuti. Non devo spiare dal buco della serratura, non devo sbirciare oltre le sbarre per incrociare gli sguardi. A Gorgona gli "ospiti" hanno l’opportunità di svolgere le mansioni liberi, ma sempre sotto il controllo degli agenti, e vengono retribuiti: chi alleva gli animali, chi coltiva orti, oliveti e vigneti, altri fanno il meccanico, il fornaio, il muratore. Ne incontro molti, posso ricambiare sorrisi e saluti. Carlo, Luciano, Giulio, Adil, Gianni, Antonio: tanti nomi (di fantasia) legati a storie diverse, ma accomunati da un’unica condizione. Molti considerano un privilegio scontare la pena a Gorgona, perché qui tutti lavorano all’aria aperta. La domenica possono fare il bagno in mare, tuffandosi da un trampolino naturale nella piccola insenatura di Cala Martina. Chi vuole può partecipare alla messa.

Carlo è di Domodossola, ha 34 anni. Siamo nel magazzino, si racconta: è un fiume in piena. Ha un aspetto curato, è stato istruttore di body building. È arrivato il 21 agosto e ha realizzato, con le stesse mani che l’hanno condotto in carcere, un’insegna per l’infermeria. Ha fatto anche l’insegnante di tennis, poi gli incontri clandestini di kick-boxing, fino al giorno in cui la sua vita si è fermata. E anche quella di qualcun altro. "Sono in carcere da cinque anni e mezzo. A Terni ho conosciuto l’isolamento per 40 giorni, è stato orribile". "Il primo ricordo di Gorgona? Poter usare posate di ferro", risponde imbarazzato.

La giornata inizia presto a Gorgona, l’ultima colonia penale agricola in attività su un’isola dopo le dismissioni dell’Asinara e di Pianosa. Ci sono una settantina di detenuti, tutti maschi, qualcuno è straniero. L’ispettore superiore Giovanni Martano mi spiega che chi arriva qui deve scontare un residuo di pena non superiore ai 10 anni (15 in via eccezionale), godere di buona salute, non avere legami con la criminalità organizzata. L’accesso è anche regolato da "interpelli" ì indetti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

 

A tratti sembra di essere in un villaggio vacanza, ma i segni della prigione sono inequivocabili: "La guardia non va mai abbassata", sostiene il vicecommissario Gisberto Granucci, sull’isola da aprile per gestire il personale di polizia. Così, salendo dal porto si incontrano posti di sorveglianza e agenti, e le "conte" sono lì a ricordare che si è in carcere. Nelle sezioni dette di transito vivono gli "articolo 21" (possono lavorare con le ditte esterne che operano sull’isola), e le "capanne" per i detenuti comuni. Vivono in un palazzo giallo, con guardie all’entrata e celle dalle porticine blu. Sui balconi intravedo panni stesi, nel cortile c’è chi ascolta musica, chi gioca a pallone, chi sonnecchia al sole e chi va a mensa. Alcuni si prestano ai flash e alle domande per raccontare come si sta in una "prigione-paradiso".

Raggiungo Luciano nella sala hobby delle "capanne". È il falegname dell’Isola. Ha 53 anni, padre romano e madre tunisina. Sconta un cumulo di pena per vari reati. Nel tempo libero realizza oggetti in legno, ha partecipato a mostre organizzate dall’Unicef e dalla Caritas, ha appena finito una nave, "con un’imbarcazione così bella vorrei tornare a casa". Intanto, si infervora parlando di politica, la segue in tv, è favorevole all’indulto ma più propenso a un uso corretto della legge Gozzini.

La maggior parte di questi detenuti ha chiesto di essere trasferito qui. "Cercavano un macellaio, ho fatto domanda", scelta sofferta quella di Giulio, leccese 38enne: così è lontano dalla figlia di 11 anni che vive in Puglia. È dentro per una rapina costata la vita a un gioielliere, dice che in gioventù era "una testa calda, un ragazzo viziato".

A Gorgona è venuto per lavorare e mettere da parte qualche soldo. Riesce a guadagnare 350-380 euro al mese. "Il mio ricordo più bello di Gorgona? Quando ho fatto il bagno in mare dal trampolino. Quello più triste? La lontananza da mia figlia". L’ultimo pensiero della sera è rivolto a Santa Rita: "Papà prega pure tu - gli dice la sua bimba - così se siamo in due a farlo forse Santa Rita ci ascolta".

Adil è un turco di 27 anni. È musulmano, ha appena osservato il ramadan. Lo hanno arrestato a Fiumicino, tornava dal Venezuela ed era diretto in Siria, "ma quella valigetta mi ha incastrato". Qui si occupa delle mucche. Sembra imbarazzato e parla un italiano stentato. Dal carcere cerca di aiutare i genitori: "È un modo per ripagare i miei di tutta la vergogna che hanno provato quando mi hanno arrestato". A Gorgona guadagna quasi 500 euro, più che in Turchia dove lavorava negli alberghi e ne prendeva 300.

La detenzione non ha smorzato il campanilismo di Gianni: sulla parete della sua cella ha la ‘bandiera dei Quattro Morì, mentre sul comodino c’è la foto del padre, che è morto. Ha 25 anni, è un ragazzo sardo muscoloso e bruno. È in carcere dal 2004. A Gorgona si occupa dei maiali. Il suo preferito l’ha chiamato Igor, lo accarezza grattandogli la pancia: "Non posso coccolare le persone - ammette - così do il mio affetto a lui".

Antonio è un calabrese di 35 anni. Fa il fornaio, è a Gorgona da 8 mesi. Qui prepara pizze e pane per il fabbisogno dell’isola. È fidanzato da 19 anni. Il martedì è il giorno dei colloqui, i parenti arrivano con la nave Toremar che va a Capraia. Non può attraccare, è la vedetta a portare i passeggeri sull’Isola. Talvolta trasporta i detenuti che beneficiano del permesso.

Assisto al passaggio da un mezzo all’altro e mi viene in mente la figura mitologica di Caronte, il nocchiere delle anime. Martedì scendono sei parenti, c’è la nipote di Antonio con il marito, sono in viaggio di nozze. Antonio ha preparato per loro pizze e pasticcini. E prima di tornare in Calabria hanno fatto capolino a Gorgona per riabbracciare lo zio. Antonio ha preparato per loro pizze e pasticcini. Quando l’agente gli comunica che i suoi parenti sono arrivati nella sala colloquio, comincia ad agitarsi e dall’emozione diventa tutto rosso. Mi saluta e si allontana saltellando.

Incontro anche Giuliana, agente scelto. Abita a Livorno, ha un bimbo di un anno, prima lavorava a San Vittore. Di solito raggiunge l’isola il martedì con la Toremar e ha il compito di sorvegliare i colloqui, in biblioteca dalle 10.30 alle 16.30. "È un po’ imbarazzante - dice - negli altri carceri i colloqui sono solo visibili e non udibili".

Sull’isola vivono e lavorano anche gli agenti, alcuni civili dipendenti del penitenziario e pochi altri residenti. Ma Gorgona non è vissuta da tutti come un paradiso. Il motivo principale che spinge il personale della polizia penitenziaria a prestare servizio sull’isola è la possibilità di accumulare quattro punti, anziché uno, per ogni anno di permanenza.

Questo perché Gorgona è considerata una zona disagiata. Rocco è un agente lucano, da un anno sull’isola: prima era ad Aosta. In Basilicata ci sono sua moglie e tre bambini. Sull’isola non potrebbero stare, mancano le scuole. "A livello lavorativo - dice - mi trovo bene, in un carcere chiuso ci sono più problemi, ma mi rammarica molto non poter stare con la mia famiglia".

Nei primi mesi del 2004 due omicidi tra i detenuti avevano messo in crisi le attività e la sopravvivenza del carcere. Ma non le hanno spente. Comunque non mancano i problemi: dalla carenza di personale, di vedette e di rappresentanza sindacale all’assenza di acqua potabile fino alla mancanza di elettricità: per generare energia si usa il gasolio, è una spesa forte, ma è ancora lontana l’installazione di pali eolici.

Il numero degli indigeni si conta sulle dita di una mano. Prima di partire, scambio due chiacchiere con la famiglia Brozzi. Conosco Valentina che, con il suo bimbo di un anno e mezzo, raggiunge il padre che sta pescando su una barchetta. Lei è nata e cresciuta a Gorgona, qui ha trovato anche l’amore sposando un agente. Dice di essere felice: "Sto bene, non mi sento sola, andrò via solo quando il mio bambino andrà all’asilo". Per me, invece, è arrivato il momento di andare.

Ci sarebbe molto da esplorare e da descrivere qui, a cominciare da un cielo sorprendentemente azzurro e da un mare incantevole. Il vento, intanto, si è calmato: non c’è più nessun pericolo e la vedetta può ripartire. Sono le 18.30 di martedì. Mi imbarco e mi allontano piano piano da quest’isola affascinante e silenziosa.

Erba: giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione di Azouz

 

Il Giorno, 24 ottobre 2007

 

Tre giornalisti sono stati rinviati a giudizio oggi dal Giudice dell’Udienza Preliminare di Milano, Fabrizio D’Arcangelo con l’accusa di diffamazione ai danni di Azouz Marzouk, il tunisino inizialmente indicato come l’autore della strage di Erba, mentre, in realtà, si trovava in Tunisia dai genitori al momento del massacro. Sul banco degli imputati finiranno Giusy Fasano e Claudio del Frate, entrambi del "Corriere della Sera" e Paolo Moretti del "Corriere di Como" e corrispondente lariano del "Corrierone".

Il processo, ironia della sorte, inizierà il 29 gennaio, lo stesso giorno in cui in Corte d’Assise a Como si aprirà quello nei confronti di Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi, i due coniugi che confessarono dopo un mese di aver massacrato la moglie di Azouz, Raffaella Castagna, il figlioletto Youssuf di poco più di due anni, e la suocera Paola Galli.

Azouz si ritiene diffamato dai contenuti degli articoli scritti in quei giorni dai tre giornalisti (anche sulla base delle affermazioni rese la notte del massacro dagli inquirenti, in primis il Procuratore capo Alessandra Maria Lodolini che diede per certo il coinvolgimento del giovane tunisino, (all’epoca uscito da soli tre mesi e mezzo dal carcere grazie all’indulto) e per questo aveva depositato, attraverso il suo avvocato della prima ora, Pietro Bassi, un esposto alla Procura di Milano chiedendo, fra l’altro, un milione di euro come risarcimento danni.

Droghe: studio dell'Osservatorio epidemiologico dipendenze

 

Dire, 24 ottobre 2007

 

Il 60% fuma cannabis, il 55% è dedito all’alcool, poco più del 20% sceglie i funghi allucinogeni, il 18% invece si "fa" di cocaina e l’11% di ecstasy. È la fotografia che ritrae "solo" 1.167 giovani intervistati in circa cinque mesi a Bologna, ma dà una prima e chiara impressione sul potenziale consumo di sostanze stupefacenti in provincia di Bologna. Chi sono? L’età media è di 26 anni (di cui la metà femmine), il 53% ha un diploma di scuola superiore ed è residente a Bologna (un 30% ha invece la laurea), con un reddito tra gli 800 e i mille euro. I dati sono stati presentati oggi dall’Osservatorio epidemiologico metropolitano, che però, nell’illustrare la situazione sulle dipendenze a Bologna e dintorni, ha messo l’accento anche su un altro fenomeno: mille nuove persone ogni anno che hanno problemi con le sostanze pesanti.

Il rapporto 2006, curato da Raimondo Pavarin e dallo staff dell’Osservatorio, conta 3.865 soggetti che rischiano a causa del consumo problematico: 2.902 eroinomani, 2.013 che si "fanno" in vena, 1.477 poliassuntori, 1.377 cocainomani, 351 alcolizzati, 131 oppioidi. Il rischio di morte per overdose, poi, è in calo per gli utenti Sert, ma è in aumento in città. Ma chi ammette di avere problemi è inferiore al numero reale di persone che li hanno, e l’Osservatorio presume dal 2004 al 2006 un passaggio da 5.500 a 7 mila nella stima dei consumatori problematici di qualsiasi sostanza; da poco meno di 3.500 a poco più di 4.500 con l’eroina, mentre è appena in calo, dopo un picco nel 2005, la "coca" (sempre sui 1.500 consumatori problematici stimati).

Un ulteriore studio su 3.524 persone inquadra l’identikit dei consumatori di sostanze pesanti: il 52,6% non lavora, ha una età media di 35 anni, nel 32,5% non è residente a Bologna, il 30% ha l’epatite C, il 18% è femmina, il 16% è straniero, il 7% è positivo al test Hiv.

Intanto, sono in aumento tra i residenti compresi tra 15 e 45 anni i consumatori di qualsiasi sostanza, ma non va tanto meglio con i non residenti e con gli stranieri che fanno uso di sostanze pesanti. Tra i cittadini non italiani con una età media di 30 anni, i consumatori di droghe pesanti sono in netta prevalenza maghrebini (quasi il 70%), non lavoratori (quasi il 90%) e non residenti (quasi l’80%) L’ipotesi infatti è che gli stranieri residenti che lavorano siano più integrati e abbiano meno problemi.

Una novità del rapporto, ottenuta dall’incrocio coi dati del 118, è la localizzazione delle zone della città dove si consuma in maniera più rischiosa: i numeri indicano 171 interventi nell’area di piazza Verdi, 106 in zona stazione, 102 in Don Minzoni, 55 al Navile, 49 a San Donato, 42 in via Carracci e limitrofe, 39 tra via Massarenti e San Vitale.

Il rapporto sulle dipendenze 2006 conta anche 3.389 contatti con i Sert e come capita ogni anno, una prevalenza di morti tra coloro che lo hanno abbandonato o che non si sono lasciati aiutare. I morti per overdose nel 2006 sono 30 (19 nel 2005) metà dei quali sconosciuti ai Sert, con una età media di 34 anni, più della metà non residenti: cinque stranieri (Algeria, Marocco, Tunisia), otto fuori regione (Puglia, Sicilia, Lazio, Campania e Veneto). Nei Sert negli ultimi anni tra gli eroinomani sono aumentati gli stranieri e i non residenti, sale l’età media, le persone con un titolo di studio medio alta, la quota dei poliassuntori. Sono in crescita anche le donne, le persone con carcerazioni pregresse, mentre scendono i soggetti positivi al test Hiv e epatite c.

E come accade da qualche hanno, invece, i cocainomani hanno un profilo tipico: un’alta percentuale lavora, ha alta scolarità e una situazione abitativa normale, poche persone sono state in carcere, mentre molte bevono grandi quantità di alcolici. E l’alcool è la croce dichiarata di circa 2.500 persone nell’area metropolitana di Bologna nel 2006 (erano 2 mila e rotti nel 2005), pure se le stime prevedono 7 mila cittadini che hanno un problema con l’alcool. Intanto, i ricoveri per patologie correlate all’alcool hanno toccato quota 1.376: diminuiscono i ricoveri per danni epatici (51%), dipendenza (33%) e aumentano invece quelli per abusi che sono più di 100, per una percentuale del 15% del totale.

 

 

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