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Roma: suicida a Rebibbia un detenuto di origine marocchina
Garante dei detenuti del Lazio, 25 ottobre 2007
Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: "servono urgentemente misure di supporto psicologico per quanti, soprattutto stranieri, entrano in carcere". Si è tolto la vita nel primo pomeriggio impiccandosi alle sbarre della sua cella di isolamento, nel braccio G12 del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso. La vittima era un cittadino di origine marocchina di 31 anni, Chinane L. A quanto risulta al Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni - che ha segnalato l’accaduto - l’uomo era stato condannato in primo grado a 3 anni e 10 mesi di carcere per un reato di natura sessuale, aveva presentato appello ed era in attesa di essere trasferito nel carcere di San Remo. Sempre a quanto risulta al Garante, l’uomo era stato posto in isolamento perché aveva litigato nei giorni scorsi con gli altri detenuti nel braccio G9 e, un paio di giorni fa, aveva già tentato di togliersi la vita. Per questo motivo stamattina aveva avuto un colloquio con uno psichiatra. "Questa morte è la conferma di come, a volte, il carcere possa anche uccidere - ha detto il Garante dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni - Credo che l’episodio di oggi conferma ancor di più la necessità di avere misure di supporto psicologico e di accompagnamento per quanti, soprattutto stranieri, entrano in carcere. Un mondo duro, difficile, che può schiacciare chi non è preparato ad affrontarlo". Giustizia: Amato ottimista, ma il "pacchetto" resta a rischio
Il Manifesto, 25 ottobre 2007
Una corsa contro il tempo, e tutta in salita. Anche se non ha l’aria di trasformarsi in un vera e propria crisi, l’ennesima lite consumata nel governo sul pacchetto sicurezza di certo contribuisce ad alzare ulteriormente la tensione nella maggioranza. Lo sa bene Romano Prodi che martedì sera, vista l’aria che tirava a palazzo Chigi con ben sei ministri (Pecoraro Scanio, Mussi, Ferrero, Bonino, Bindi e Pollastrini) decisi a non votare le norme messe a punto da Amato e Mastella, ha deciso di prendere tempo. Sette giorni, appunto, una settimana durante la quale i tecnici dei ministeri interessati dovranno lavorare alla ricerca di un compromesso che accontenti tutti, garantendo così la sopravvivenza dell’esecutivo. Nel frattempo si minimizza quanto accaduto facendo passare l’ennesimo slittamento del pacchetto per un normale incidente di percorso. A farlo è prima di tutto il Guardasigilli, che ieri è arrivato a negare una spaccatura all’interno dell’esecutivo: "Si è trattato di una discussione su una materia che è delicata", ha spiegato Clemente Mastella ancora galvanizzato per averla spuntata sul rivale Antonio Di Pietro. Sulla stessa linea anche Giuliano Amato: "Alcuni ministri era la prima volta che si trovavano il testo davanti - ha detto -. Mi aspetto che il pacchetto venga approvato la prossima settimana con degli arricchimenti". Un ottimismo che rischia di risultare fuori luogo. L’elenco dei punti controversi è infatti lungo: si va dall’inasprimento delle pene per chi vende merce contraffatta - che i ministri dissidenti leggono come troppo punitive nei confronti degli immigrati extracomunitari - al giro di vite nei confronti dei writer, ai soggetti da sottoporre al test del Dna. Ma anche, e forse soprattutto, alla custodia cautelare obbligatoria estesa a chi commette furti e scippi, e ai nuovi poteri previsti per i sindaci. Su quest’ultimo punto, in particolare, si concentrano le critiche di praticamente tutti i dissidenti. Messe così le cose, uscirne per il governo sarà un’impresa. Anche perché, sul fronte opposto, ci sono i sindaci che premono. Al punto da non nascondere il malcontento per quanto accaduto durante il consiglio dei ministri. "Qual è la novità? Basta vedere quello che succede", ha chiesto ieri ironico Sergio Cofferati, con una chiara allusione alla difficoltà che ormai quotidianamente il governo è obbligato a superare. Più esplicito del sindaco di Bologna, è stato il vicesindaco di Milano Riccardo De Corato, che ha parlato dell’ennesimo voltafaccia da parte dell’esecutivo, mentre il primo cittadino di Firenze e presidente dell’Anci Leonardo Domenici ha mandato a palazzo Chigi un messaggio che ha tutti i toni dell’ultimatum: "Vorrei che le proposte presentate dal ministro Amato in consiglio dei ministri fossero approvate integralmente nel consiglio dei ministri di martedì prossimo, e che non si perdesse altro tempo". La strada, però, è davvero tutta in salita, tanto che al Viminale non nascondono la preoccupazione. Amato, poi, su alcuni punti non avrebbe proprio intenzione di cedere. Come le sanzioni per chi vende merce contraffatta, ad esempio, ma anche sulla possibilità per i prefetti di espellere i cittadini comunitari, misura pensata praticamente per i rumeni. Nessun cedimento, però, neanche sul fronte opposto. "C’è in corso un confronto importante - ha spiegato il segretario del Prc Franco Giordano -perché noi siamo determinatissimi nel contrastare le mafie, la criminalità, però una cosa è fare questo, un’altra cosa è invece fere la guerra alla povertà, fare la guerra ai poveri". "Le politiche per la sicurezza - ha ribadito il ministro Paolo Ferrero - devono reprimere i delinquenti e integrare i soggetti poveri e marginali. Altrimenti si usano le forze dell’ordine per sequestrare borsette false e si intasano i tribunali di processi contro poveracci che cercano solo di sbarcare il lunario". Sulla stessa linea, infine, anche Emma Bonino: "La sicurezza sta a cuore anche a me - ha spiegato il ministro per le Politiche comunitarie - ma il pacchetto aveva un’impronta eccessivamente repressiva, legata all’inasprimento delle pene. Il rischio di una legge manifesto mi è parso evidente e chiaro". Giustizia: Bonino; il "pacchetto"? repressivo e demagogico di Davide Varì
Liberazione, 25 ottobre 2007
Il ministro radicale spiega le ragioni del suo no alle norme presentate ieri l’altro in Consiglio dei Ministri: "La vera emergenza del Paese è rappresentata dai processi che durano anni e anni". Emma Bonino, ministra per le politiche europee ha pochi dubbi: "L’impostazione del pacchetto sicurezza presentato ieri l’altro in consiglio dei ministri era di tipo repressivo e a volte demagogico". Un giudizio netto, il suo, su una serie di provvedimenti nati per assecondare la furia giustizialista dei sindaci d’Italia che chiedono a gran voce pene più severe per i nemici del decoro urbano - lavavetri, writer e mendicanti -, la creazione di una banca dati del Dna modello Philip K. Dick e l’inasprimento delle pene per chi vende marchi griffati contraffatti. Insomma, un pour-pourri di richieste che si erano concretizzate in quei quattro pacchetti sicurezza infranti di fronte alle critiche di almeno quattro ministri. La più dura, Emma Bonino, proprio lei. Nel frattempo, nel corso della giornata di ieri sono arrivate le lamentele dei primi cittadini che parlano di occasione sprecata e di immobilismo da parte di un governo che non sarebbe in grado di rispondere alla richiesta di sicurezza della "gente". Ma il ministro della Solidarietà Paolo Ferrero risponde deciso: "Le misure repressive oltre a non servire a nulla sono dannose quando diventano l’unico strumento con cui relazionarsi con il disagio urbano. La perseguibilità d’ufficio dei graffitari, le pene esorbitanti per chi vende borsette griffate false o le ordinanze per i lavavetri che cosa c’entrano con la garanzia della sicurezza per tutti i cittadini? Nulla. La sicurezza dei cittadini è un problema serio, la strada individuata da alcuni sindaci - conclude Ferrero - è semplicemente sbagliata".
Ministra Bonino, a quanto è dato sapere lei era contraria ai quattro pacchetti sicurezza. Quali punti non la convincevano? In realtà non mi convinceva l’impostazione generale di tipo repressiva e a volte di tipo demagogico. Nel dettaglio non mi convincevano soprattutto le modifiche al codice penale e di procedura penale, il maggior ricorso alla custodia cautelare - in un paese dove le pene si espiano prima della condanna e mai dopo - e gli innalzamenti di pena in materia di circolazione stradale e contraffazione, che appaiono sproporzionati rispetto a reati ben più allarmanti.
La presunta emergenza sicurezza è una realtà oppure è una montatura di parte della politica e dei media? C’è una indubbia percezione di insicurezza alimentata anche dai mezzi d’informazione. Una percezione dovuta alle trasformazioni epocali che stiamo vivendo: penso per esempio all’afflusso di immigrati con culture e tradizioni differenti. È giusto darvi risposta ma a partire dal rafforzamento delle norme e degli strumenti esistenti. Viceversa, risposte politiche che rischiano di esaurirsi nell’annuncio, o peggio di essere demagogiche, a mio avviso non sono efficaci neanche a rafforzare il senso di sicurezza nei cittadini. La vera emergenza in Italia è l’emergenza giustizia con processi che durano anni e anni. Ed è su questo che siamo costantemente condannati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo perché la lunghezza viola di per sé il diritto alla difesa.
L’indulto è diventato il capro espiatorio di tutti i mali d’Italia. Nel frattempo le carceri sono di nuovo al collasso... Noi eravamo per l’amnistia come filo da tirare per una riforma complessiva dell’intero sistema giustizia, annessi e connessi inclusi, e per questo abbiamo marciato con Napolitano e altri a Natale 2005. Si è scelto l’indulto come primo passo, si diceva, verso l’amnistia che invece non è mai arrivata. L’indulto ha risolto una situazione di emergenza che era venuta a crearsi e che rischia di ritornare. Ha inoltre risolto una questione d’illegalità nella quale versavano di fatto le carceri italiane con un terzo di detenuti in più rispetto agli spazi a disposizione. Dopo l’indulto, purtroppo, non sono state fornite all’amministrazione penitenziaria le risorse necessarie per far funzionare le carceri e assicurare pienamente che la pena venisse vista in funzione del reinserimento nella società.
Anche la legge Gozzini è sotto accusa. Eppure i dati dimostrano che chi usufruisce dei benefici reitera molto meno di chi sconta l’intera pena in galera... La legge Gozzini si è dimostrata un efficace strumento di lotta alla recidiva se è vero com’è vero che chi è ammesso ai benefici della legge una volta uscito tende a ricadere nel reato infinitamente di meno di quanti escono dal carcere dopo aver scontato fino all’ultimo giorno la loro pena.
Questo governo è dato per spacciato. Vie d’uscita? Intanto credo che diminuire il tasso di confusione aiuterebbe.
Come? Prima di tutto ognuno faccia, e faccia bene, il proprio mestiere e se possibile solo il proprio mestiere. In secondo luogo, governo e maggioranza hanno il dovere di mantenere dritta la barra sulla Finanziaria, pacchetto welfare incluso, per assicurare uno sviluppo economico e umano adeguato ai nostri tempi. Giustizia: Onida; il "pacchetto" a rischio di incostituzionalità di Gabriella Monteleone
Europa, 25 ottobre 2007
Indubbiamente, rendere obbligatoria la custodia cautelare per i reati ora considerati di massimo allarme sociale, qualche problema con l’articolo 27 della Costituzione (presunzione di non colpevolezza) - più che con l’articolo 13 che la prevede per i casi tassativamente previsti dalla legge - lo pone. Ma soprattutto, intervenendo appunto prima del processo e della condanna, dovrebbero ricorrere in concreto le esigenze cautelari che vengono poi apprezzate dal giudice con il suo provvedimento. La nostra legislazione si era evoluta tutta nel senso di ridurre queste ipotesi: reintrodurle, come era in passato, qualche dubbio lo pone". Valerio Onida è presidente emerito della corte costituzionale e pur non avendolo ben "studiato", fa alcune considerazioni sui possibili profili di incostituzionalità del pacchetto sicurezza che il governo, dopo il rinvio di martedì, si appresta a varare la prossima settimana. Tra le norme più controverse, vi è quella appunto di equiparare furti, scippi, rapine, incendi boschivi - ora considerati reati di "massimo allarme sociale" - a quelli di mafia e terrorismo, escludendo anche l’automatismo della sospensione dell’esecuzione della pena. A lasciarlo più perplesso è "il voler reintrodurre l’obbligo" della custodia cautelare, il fatto cioè che una volta esaminati i gravi indizi - spiega - non ci sarebbe più da valutare l’esigenza cautelare in concreto". Per quel che riguarda invece il potere affidato ai prefetti (e non più solo al ministro) di allontanare, anche per motivi di ordine e sicurezza pubblica, i cittadini anche comunitari, l’ex presidente della consulta ritiene che di per sé "non leda alcun principio costituzionale", trattandosi comunque di provvedimento amministrativo, "certo - avverte - per l’interessato deve esserci comunque la possibilità di ricorrere davanti al giudice e l’espulsione non potrebbe essere eseguita fino a quando non vi sia stata appunto la sua valutazione". È stata la corte costituzionale d’altronde ad aver sancito, anche per gli extracomunitari, il diritto a che si instauri un contraddittorio. Sulla possibilità poi, per i sindaci, di adottare provvedimenti urgenti anche in tema di sicurezza e decoro urbano, Onida sottolinea solo l’eventuale problema di opportunità di affidarli anche a "ottomila sindaci, e non a 110 prefetti". Giustizia: Aiga; il "pacchetto" va profondamente ripensato
Apcom, 25 ottobre 2007
"Il pacchetto sicurezza approdato ieri in Consiglio dei ministri e non licenziato per il veto di alcuni ministri, deve essere profondamente ripensato". È questo l’auspicio del presidente dell’Associazione italiana dei giovani avvocati (Aiga), Valter Militi, che sottolinea la "disorganicità" delle misure al vaglio dell’esecutivo e la "dubbia costituzionalità" di alcune di queste. Secondo Militi, "al di là del merito delle singole modifiche normative proposte, la riproposizione del doppio binario, costituisce un inaccettabile vulnus per il nostro sistema giuridico". "Quel che stupisce - aggiunge Salvatore Frattallone, dell’ufficio di segreteria del presidente dell’Aiga, entrando nel merito delle proposte - non è la decisione del governo di fronteggiare la marea montante delle recenti proteste di piazza, in tema d’illegalità diffusa, e rimediare al malumore e alla preoccupazione da tempo espresse dai cittadini d’ogni credo politico. Ma è in primo luogo incredibile che, dopo aver ridotto di un miliardo di euro nella passata Finanziaria gli stanziamenti per le forze dell’ordine rispetto al passato, l’attuale manovra dell’esecutivo recuperi soltanto un quinto di quel saldo negativo, offrendo appena 200 milioni per rinvigorire il comparto della sicurezza: imporre infatti l’applicazione di nuove e ferree discipline giudiziarie presuppone cospicui stanziamenti per il corretto funzionamento della macchina giudiziaria, dagli apparati delle cancellerie dei tribunali a maggiori risorse per gli organi inquirenti e le stesse forze di polizia". In secondo luogo, per il rappresentante dei giovani avvocati, "appare discutibile la bontà di talune specifiche misure: esemplificativamente, quelle in materia di sicurezza urbana (nuovi compiti della polizia municipale); la creazione d’immense banche dati (come quella del Dna, con prelievi forzosi sui detenuti, aperta ad autorità straniere); l’adozione di espulsioni prefettizie di cittadini comunitari (compresi i rom, per motivi di pubblica sicurezza); le norme di contrasto di danneggiamenti e atti di vandalismo (con la procedibilità d’ufficio di writer e graffittari)". "Ma - prosegue il rappresentante dell’Aiga - non è accettabile per la cultura giuridica del nostro Paese l’equiparazione, a fini processuali, di molti reati ordinari (tra cui furto, scippo, rapina, violenza sessuale, pedofilia, incendio boschivo) ai gravi delitti di criminalità organizzata: se martedì prossimo dovesse venire approvata tout court dal Consiglio dei ministri l’ipotesi d’estendere in automatico anche ai reati definiti di massimo allarme sociale l’obbligo della massima misura custodiale a prescindere dall’oggettiva gravità dell’illecito commesso, si avrebbe una manifesta violazione dell’art. 13 della nostra Carta Costituzionale. È gravissimo che, dopo aver in passato concepito un sistema a doppio binario per i processi penali, riservando il regime meno garantista soltanto ai fatti più gravi che minano l’esistenza stessa dello Stato di diritto, si pretenda ora di renderlo più rigoroso (con l’introduzione del processo immediato e il divieto di beneficiare del cosiddetto patteggiamento in appello per il condannato in primo grado, ad impedire sospensioni della pena e misure alternative al carcere) e persino d’estenderlo ad altri reati, il cui novero è destinato a future implementazioni ad libitum, secondo le mutevoli esigenze del momento. Il bisogno sociale di effettività e, quindi, di certezza della pena non può tradursi nell’imporre l’obbligatorietà di misure coercitive oltre i casi tassativamente già previsti dal nostro ordinamento". "Né è condivisibile - conclude Frattallone - la soluzione governativa al problema del contenzioso che possa insorgere tra pm e gip. Ove questi rigetti la richiesta di misura cautelare: laddove il tribunale distrettuale del Riesame adito dal pm avallasse, in seconda battuta, le ragioni della pubblica accusa, l’indagato verrebbe subito tratto in arresto e condotto in carcere, mentre a tutt’oggi va attesa la doverosa pronuncia della Cassazione sulla libertà personale del soggetto soltanto sottoposto a indagini". Giustizia: Dap; nell'ultimo anno aumento di 9.000 detenuti
Il Gazzettino, 25 ottobre 2007
Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non intende mollare con la denuncia del sovraffollamento delle carceri anche se non lega questo incremento all’indulto. Come la scorsa settimana, anche ieri Ettore Ferrara direttore del Dipartimento è tornato alla carica. Infatti, a quindici mesi dall’indulto le 205 carceri tornano ad affollarsi ad un ritmo sostenuto: secondo gli ultimi dati a disposizione, dal 31 luglio ad oggi è stato registrato un aumento di oltre 9.000 detenuti, pari ad una media di 600 unità al mese. Un dato, questo, assai elevato se paragonato a quello degli anni precedenti, quando la popolazione carceraria aumentava (nel periodo tra il ‘98 e il 2006) mediamente di circa 2000 detenuti l’anno. Tuttavia, questo incremento che rischia di far tornare nel giro di un anno e mezzo le carceri sovraffollate tanto quanto il periodo pre-indulto (63 mila detenuti contro 43.352 posti disponibili) non ha nulla a che fare e "non è assolutamente conseguenza" del provvedimento di clemenza varato l’estate scorsa dal Parlamento. "Già negli anni precedenti, infatti, si registrò un trend costante nel tempo, così da lasciare intendere - ha detto Ferrara - come altre cause strutturali fossero alla sua base, essenzialmente legate alle disfunzioni del sistema penale". A ben vedere l’indulto "ha evitato che si realizzasse una situazione assolutamente drammatica perché ai 61 mila detenuti presenti nell’estate del 2006 si sarebbero aggiunti gli altri 9.000 di questi ultimi 11 mesi, pur dovendosi depurare il dato degli indultati che poi sono tornati in carcere perché recidivi pari a 6.669 su un totale di 100mila. Senza l’indulto, dunque, "la situazione sarebbe stata esplosiva" e - fa il conto Ferrara - avremmo avuto 70 mila detenuti per una capienza regolamentare di poco più di 43 mila posti. Il capo del Dap indica, dunque, in altre cause il considerevole aumento della popolazione carceraria di questi ultimi 15 mesi: "Su un flusso di 100 mila unità, la seconda causa di carcerazione (18,5% dei casi) è costituita dalla violazione della legge sugli stupefacenti, mentre il 6,4% dei detenuti del periodo post-indulto è rappresentato da immigrati che hanno violato la legge "Bossi-Fini". La prima causa di carcerazione (38,4%) è determinata dai reati contro il patrimonio". In particolare Ferrara sottolinea l’aumento considerevole dei detenuti stranieri: negli anni ‘90 rappresentavano il 15% della popolazione detenuta, mentre alla fine del settembre scorso ammontano a ben il 36,88% dei detenuti. Giustizia: bambini-detenuti, Milano e Cagliari a confronto
www.radiocarcere.com, 25 ottobre 2007
L’art. 19 del Regolamento penitenziario riguarda detenuti del tutto particolari. Si tratta di quei bambini, di età entro i tre anni, che sono in carcere con le loro madri. La norma disciplina la vita in carcere di questi bambini detenuti, stabilisce come devono essere trattate madri e bambini e quale cura e assistenza devono ricevere. Sono una cinquantina in Italia i bambini detenuti nelle 207 patrie galere ed è difficile conoscere le loro condizioni di vita. Può servire però un confronto tra due città: Milano e Cagliari. E vedere come lo stesso problema è stato affrontato e come la stessa norma, l’art. 19, è stata applicata. Milano. Il Comune e la provincia, in accordo con i Ministeri della Giustizia e dell’Istruzione, ha realizzato una casa protetta, chiamata Icam, dove far stare quelle donne detenute con i figli che non possono uscire dal carcere. Una casa, e non un carcere, che da aprile ospita 13 donne e altrettanti bambini. È sempre una sezione del carcere e le donne sono sempre detenute, ma è ubicata in un normale appartamento senza sbarre, con i vetri blindati e con gli agenti in borghese. Una struttura che garantisce sicurezza e adeguato trattamento per i bambini detenuti. Cagliari. Altra città, altro carcere, e altro rispetto dei bambini detenuti. Anna, 26 anni, e suo figlio di 20 giorni, sono stati arrestati il 16 agosto e portati in una cella del carcere Buon Cammino di Cagliari. Sono rimasti lì fino all’11 ottobre. Utile confrontare ciò che è previsto dall’art. 19, con quanto vissuto da Anna e dal suo bambino nel carcere di Cagliari. Art. 19: "Presso gli istituti o sezioni dove sono ospitate madri con bambini sono organizzati, di norma, appositi reparti ostetrici e asili nido". Nel carcere Buon Cammino di Cagliari, dove Anna è stata con il bambino per 2 mesi, non c’è un reparto ostetrico ovvero un gabinetto ginecologico. Manca l’asilo nido. Art. 19: "Le camere dove sono ospitate madri con i bambini non devono essere chiuse, affinché gli stessi possano spostarsi all’interno del reparto o della sezione." La cella di Anna e del suo bambino, a differenza di quanto prevede la legge, rimaneva chiusa per 22 ore al giorno. Per 2 mesi, Anna e il suo bambino non hanno potuto fare altro che stare in cella. Art. 19: "Sono assicurati ai bambini all’interno degli istituti attività ricreative e formative proprie della loro età. I bambini, inoltre, sono accompagnati all’esterno con il consenso della madre, per lo svolgimento delle attività predette". In carcere, l’unica attività ricreativa fatta dal bambino di Anna, è stata l’ora d’aria. Ora d’aria passata in un cortiletto di cemento, sovrastato da alte mura e da reti metalliche. Il bambino di Anna, nei 2 mesi di detenzione, è sempre rimasto in carcere e mai è stato portato all’esterno, neanche per una semplice passeggiata al sole. Questo è quanto. Così, mentre a Milano un bambino "detenuto" gioca sulle giostre, un altro a Cagliari fa l’ora d’aria nel carcere Buoncammino. Diversi scenari e diverse soluzioni ad un identico problema. E già perché anche a Cagliari si sono posti il problema della detenzione dei bambini. È solo che hanno adottato un’altra soluzione rispetto a Milano. Ovvero la soluzione più semplice. Imbellire la cella per la detenuta col bambino. Nel carcere di Cagliari, se si attraversa il grigio corridoio dove si affacciano le celle delle donne detenute, si nota subito la cella-nido dove è stata Anna e il suo bambino. È l’unica cella celestina, mentre la altre sono grigie e con gli intonaci cadenti. Al suo interno le pareti sono ridipinte, con sopra disegnati orsacchiotti e pupazzi. Poi due letti, un fasciatoio e una bagno che fa eccezione in quel carcere. È un po’ più dignitoso. C’è anche una culla, con dentro due peluche da lasciare lì però, serviranno per il prossimo bambino detenuto. Al di là di questo, l’ambiente dove Anna e il suo bambino hanno passato tante ore, è e rimane una cella. E, soprattutto una cella inserita in un contesto carcerario degradato, come quello del carcere di Buon Cammino. Uguale alle altre celle è il cancello del "nido", che rimane sempre chiuso. Uguale alle altre celle è la finestra. Più che altro, un’apertura messa in alto con le sbarre e da cui difficilmente entra il sole. Uguali gli odori del carcere, un mix tra sudore, sugo al pomodoro, bisogni fisiologici. Uguali i rumori del carcere, i cancelli che sbattono, le urla delle donne che litigano o che si disperano. Uguali sono i ritmi del carcere. L’ora della sveglia, della perquisizione, della battitura delle sbarre, l’ora d’aria, l’ora del vitto. Stupisce che a Cagliari, dove i prezzi delle case non sono quelli di Milano, non si sia pensato di realizzare una casa protetta per le detenute madri. Stupisce che a Cagliari, come nelle altre città italiane, non si sia seguita l’esperienza di Milano. Creare una casa protetta, diversa dal carcere, per quelle donne detenute con i figli che devono stare in carcere, non ha bisogno di una legge dello Stato. Ma solo di volontà politica. Si tratta, infatti, di un intervento che necessita solo di un atto amministrativo e non di una nuova legge. Non c’è bisogno di svegliare l’assopito parlamento per porre rimedio alla vergogna dei bambini detenuti. A Milano con un accordo, voluto da enti locali, si sono tirati fuori dal carcere i bambini. Bambini che ora vivono in un appartamento sorvegliato con le loro madri detenute. Soggiorno e cucina, sono divisi dalle camere da letto, occupate da due mamme e due bambini. I bambini di giorno, e a seconda dell’età, vengono portati in asilo o a passeggio. Le donne non possono mai uscire dall’appartamento. Di notte la zona giorno viene chiusa per sicurezza dalla zona notte. È detenzione della madre, ma nel rispetto del bambino. È "Miracolo a Milano". Via Macedonio Melloni, n° 60. E solo lì. Giustizia: bisogna ridare funzionalità a Procura di Catanzaro di Emile
www.radiocarcere.com, 25 ottobre 2007
Figli di un dio minore. Bambini di età inferiore ai tre anni. Detenuti senza motivo. Pagano le colpe dei genitori. Un giudice ha disposto la loro carcerazione. Colpevoli di essere figli di mamme che hanno commesso un reato. Colpevoli di essere figli di madri che sono state condannate alla detenzione in carcere. La loro infanzia, i primi passi, non uguali a quella degli altri bambini. Non conoscono parchi, passeggiate, il sorriso del padre, dei fratelli, di parenti e amici. Conoscono le divise degli agenti penitenziari, l’odore del carcere, i rumori dei portoni automatici che sbattono e le sbarre alle finestre. Circa cinquanta creature sparse nelle carceri di tutta Italia. Tredici di questi sono privilegiati. Privilegio che, in questo caso, sta solo ad indicare il godere del giusto trattamento. Privilegiati: i bambini delle mamme detenute nel comune di Milano. Non vivono in carcere, ma in una casa detta protetta insieme alle madri che scontano la pena. Donne che al pari delle altre detenute subiscono la privazione della libertà, vivono controllate da agenti. Una casa senza sbarre, con agenti in borghese, che soddisfa due esigenze: quella punitiva, nei confronti della donna, e quella di tutela del bambino. Tredici bambini fortunati, tredici bambini che dell’infanzia non ricorderanno sbarre e muri di una cella. Tredici bambini che si differenziano dai quegli altri trentasette vivono i primi momenti della loro vita nei penitenziari della repubblica. Trentasette bambini che vivono come normali detenuti in celle, che talvolta vengono abbellite da colori e da giochi. Trentasette bambini che l’opinione pubblica non considera. Un opinione pubblica la cui attenzione oggi è catalizzata dal big match De Magistris contro Mastella. Un incontro appassionate a cui stampa e tubo catodico hanno dedicato tutta la loro attenzione, dimenticando finalmente l’omicidio Garlasco. Al fianco del pubblico ministero si sono schierati i paladini dell’antipolitica e le loro truppe cammellate. De Magistris è diventato un simbolo. De Magistris è diventato colui su cui è riposta la speranza di coloro che nella attuale classe dirigente non hanno fiducia e la vorrebbero spazzata via. Ai due lati del ring vi sono il giovane magistrato, che combatte il malaffare e la criminalità organizzata, e il vecchio politico, chiacchierato e discusso. Un match che non produrrà benefici nel paese. La mala politica non deve essere affrontata con lo strumento giudiziario. Tangentopoli ne è la testimonianza. Un match che inoltre nasconde problematiche più complesse. Problematiche quali il malfunzionamento della magistratura calabrese-lucana e dell’intero sistema giudiziario del nostro paese. Problematiche che i mass media non hanno compreso, trasmettendo una informazione fuorviante all’opinione pubblica. L’attrito tra il sostituto ed i vertici della Procura della procura segnano l’inizio della storia. Attrito più volte manifestato dal pubblico ministero calabrese, che arriva addirittura a prendere misure straordinarie per evitare che i colleghi possano consultare i suoi fascicoli. Si parla di un sistema informatico ideato dal superconsulente Genchi. Attriti che sfociano in denunce incrociate. I sostituti denunciano i capi e viceversa. Attriti che approdano al Consiglio superiore della magistratura e che scomodano gli ispettori ministeriali. Attriti che si estendono anche alle procure di Potenza e Matera. De Magistris indaga sui colleghi di Potenza ed è a sua volta indagato da quelli di Matera. Questo l’antefatto del big match. Antefatto ignorato dai mezzi di comunicazione. Antefatto che viene sottaciuto negli incontri televisivi. Antefatto che paradossalmente non è messo in evidenza dagli addetti ai lavori: avvocati e magistrati. Il segretario dell’Associazione nazionale magistrati ha chiesto un passo indietro. Un passo che dovrebbe comportare il ritiro della richiesta di trasferimento d’urgenza e la rinuncia avocazione dell’inchiesta. Una iniziativa quella del segretario che lascia perplessi. La giustizia necessita di un passo in avanti, non di un passo indietro. Un passo in avanti che si risolva in una celere decisione del Consiglio superiore della magistratura. Una decisione che è bene ricordare deve restituire funzionalità alla procura di Catanzaro. Una decisione che deve fare chiarezza. Un passo in avanti che porti a capire quello che è accaduto e che sta accadendo all’interno delle procure calabresi e lucane. Un passo in avanti che scoperchi la mala giustizia fenomeno peggiore della mala politica. Un passo in avanti che si interessi dei figli di un dio minore realizzando altre case protette. Giustizia: ormai siamo allo sfascio, eppure la politica tace di Paolo Enrico Carfì (Giudice presso il Tribunale penale di Milano)
www.radiocarcere.com, 25 ottobre 2007
"I giudici lavorino serenamente, ma il più rapidamente possibile". Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase in cui è racchiuso tutto il dramma della giustizia penale italiana. Serenamente? Il 17 ottobre un uomo entra nel Tribunale di Reggio Emilia , estrae la pistola e spara. Uccide e rimane ucciso. Quel Palazzo è privo all’ingresso di qualsiasi sistema di controllo. A cose fatte verrà ora elaborato un progetto e inviato al Ministero per l’approvazione e il finanziamento. Rapidamente? Dal 2006 i giudici del Tribunale di Milano non celebrano i processi monocratici (relativi a reati che colpiscono il cittadino nella sua quotidianità: truffe, furti aggravati, rapine ed estorsioni non aggravate, omicidi colposi etc.) oltre le ore 14.00: mancano infatti i segretari di udienza, sott’organico del 30% e a quelli in servizio non è possibile pagare gli straordinari per mancanza di fondi. Le conseguenze? Nel 2005 i giudici di una sola delle dieci sezioni penali hanno emesso 1.050 sentenze, nel 2006 solo 811. La drammatica carenza di mezzi, strutture e personale va di pari passo con un sistema processuale così farraginoso da non aver pari in Europa e che sembra studiato apposta per trasformare il lavoro del giudice in una corsa (!) ad ostacoli, tra incombenti burocratici di dubbia utilità, forme esasperate di garantismo che ben poco hanno a che vedere con il sacrosanto diritto di difesa, difficoltà crescenti nella raccolta delle prove. Alcuni esempi, banali ma comprensibili a chiunque. Un cittadino di Milano denuncia alla Polizia il furto della sua vettura avvenuto a Trieste. Due anni dopo l’auto viene trovata in possesso di un individuo che, dunque, viene processato per ricettazione. Il proprietario nulla può dire sui fatti ma, salvo casi eccezionali, il Giudice non può limitarsi ad acquisire la dichiarazione scritta: il cittadino dovrà presentarsi di persona a Trieste per confermare la denuncia sporta due anni prima. In caso contrario quella denuncia non potrà essere utilizzata in dibattimento e se il derubato non si dovesse presentare (malattia, sciopero dei treni) il processo dovrà necessariamente essere rinviato. Ancora: il difensore di fiducia dell’imputato chiede il rinvio del processo per malattia del suo assistito. Il giudice rinvia il dibattimento, comunica al difensore la nuova data ma non potrà fissare l’udienza il giorno successivo perché deve anche notificare all’imputato l’ordinanza con la quale viene accolta la richiesta da lui stesso formalizzata e presentata in udienza dal suo difensore che ha preso atto della data del rinvio! E i tempi di notifica a mezzo Posta non sono mai brevi. Vantaggi per l’imputato e per la sua difesa in entrambi i casi? Nessuno, tranne uno: la dilatazione dei tempi del processo. E di esempi del genere se ne potrebbero fare molti altri. Si è molto parlato di riforme, all’inizio di questa legislatura. Sono stati annunciati interessanti progetti di revisione dell’intero sistema processuale, potenziamento delle strutture, aumento degli organici. Nulla si è visto se non la legge sull’indulto votata con larghissima maggioranza trasversale e la riforma dell’ordinamento giudiziario. Leggi che nessun effetto hanno sui tempi di durata dei processi. Da qualche tempo, invece, un assordante silenzio sembra essere sceso su questi buoni propositi mentre tutte le c.d. "leggi vergogna" varate nella scorsa legislatura sono ancora oggi in vigore compresa quella "ex Cirielli" che dimezzando i tempi di prescrizione per la maggior parte dei delitti ha reso ancor più conveniente sfruttare al massimo tutte le possibilità che lo stesso sistema offre per rallentare il processo. Silenzio difficilmente comprensibile se solo si considera che almeno alcune riforme potrebbero essere realizzate a costo zero e il cui contenuto non sembra tale da dover provocare chissà quali "terremoti" politici. Ad es.: riforma del sistema delle notifiche; ampliamento della possibilità di ricorrere ai riti alternativi (che abbreviano la durata del processo) con contestuale abolizione del patteggiamento in appello e interruzione della prescrizione quanto meno dall’inizio del dibattimento di primo grado. Non tutti i giudici sono uguali, certo. Ve ne sono con scarsa voglia di lavorare e per questi un sistema inefficiente è in realtà un ottimo alibi. Ma la grande maggioranza soffre per questa sensazione sempre più diffusa di un inutile girare a vuoto e chiede solo di essere messa in grado di lavorare. La speranza è come sempre l’ultima a morire : un Giudice non può, o non deve, trovarsi in sintonia con coloro che cominciano a pensare che forse una Giustizia lenta e inefficiente fa molto comodo a molti. Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 25 ottobre 2007
Ciro e Luciano dal carcere di Secondigliano "Cara Radio Carcere siamo due detenuti, Ciro e Luciano, rinchiusi nel centro clinico del carcere di Secondigliano, entrambi malati non riusciamo ad ottenere né un ricovero in ospedale né una detenzione domiciliare. Io, Ciro soffro di una forma di talassemia e posso sopravvivere solo grazie a delle trasfusioni di sangue, anche se qui non me le fanno e per me ogni giorno va sempre peggio. Io Luciano soffro di epilessia e di anoressia, le crisi sono continue e non riesco più a mangiare nulla che sia solido. Queste in breve le nostre condizioni di salute, queste le c.d. cure che ci fanno. Grazie per averci dato voce".
Fortunato, dal carcere di Vercelli "Caro Riccardo, ora sto nel carcere di Vercelli ma da poco ho lasciato il carcere Canton Mombello di Brescia che è un vero e proprio inferno. Lì per mesi e mesi sono stato chiuso in una cella singola, fatta solo per un detenuto, con altri 4 detenuti. Tu pensa: 5 persone chiuse in una cella grande 6 mq! Io dormivo a pochi centimetri dal soffitto, perché stavo in una branda di un letto a castello a tre piani e ti lascio immaginare! La convivenza in quella celletta era resa anche impossibile dal fatto che eravamo tutti di nazionalità diverse. Io italiano, un altro era russo, un altro libanese. Insomma un gran casino. Noi 5 dividevamo tutto: soldi, cibo, vestiti, ma restava la difficoltà di culture e abitudini diverse chiuse in un piccolo spazio. Un giorno mi hanno messo in un’altra cella del carcere di Brescia. Mi sembrava di rinascere solo perché potevo fare tre passi in più. Purtroppo presto sono arrivati i problemi. Devi sapere infatti che nel vecchio carcere di Brescia si fa un grande uso di psicofarmaci tra i detenuti, inoltre quello di Brescia è un carcere che non ti da nulla se non la cella, ecco che è facile l’esplosione di tensioni, i litigi, le botte. Insomma un inferno dove anche il colloquio con i parenti si svolgeva nella confusione e con davanti il vetro divisorio che è vietato dalla legge, ma che resiste nel carcere di Brescia! Io da poco sono uscito dal carcere di Brescia e sento tanto parlare dell’indulto. Ma il vero problema è che questi hanno fatto l’indulto e basta. Per noi che non siamo usciti con l’indulto la vita è sempre la stessa, una vita dove si ripete l’abbandono e il degrado. Ti saluto con simpatia". Lazio: i finanziamenti regionali alle direzioni delle carceri
Asca, 25 ottobre 2007
Laurelli: "Il finanziamento è di 446.245,00 euro per progetti mirati che migliorano la qualità della vita delle persone detenute". "Sono state avviati percorsi di collaborazione diretta tra direzioni delle carceri e la Regione Lazio con un finanziamento di 446.245,00 euro per progetti mirati che migliorano la qualità della vita delle persone detenute. Si cerca così di rispondere a bisogni sociali che emergono dal carcere e a cui spesso non si riesce concretamente a dare risposte", ha dichiarato Luisa Laurelli, presidente della commissione Sicurezza della Regione Lazio. Si è riunita questa mattina la commissione sicurezza della Regione Lazio per valutare la proposta di delibera, presentata dall’assessore alla Sicurezza Daniele Fichera, riguardante l’attuazione della L.R. n° 11/2004 art. 63 "Interventi a sostegno delle condizioni di lavoro degli operatori penitenziari, della vita detentiva e del reinserimento sociale delle persone private della libertà personale o in esecuzione penale esterna" Erano presenti, oltre la Presidente della commissione e l’Assessore Fichera, i consiglieri Donato Robilotta e Giuseppe Mariani. La proposta in questione, che riguarda gli interventi a sostegno delle condizioni di lavoro degli operatori penitenziari e del reinserimento sociale dei detenuti prevede diverse tipologie di interventi che riguardano gli Istituti penitenziari di Regina Coeli, Paliano, Rebibbia e Casal del Marmo. In particolare: potenziamento del settore biblioteche presso la casa circondariale di Regina Coeli; miglioramento delle attrezzature per l’attività sportiva e ricreativa dei detenuti della casa di reclusione di Paliano; sistemazione area sportiva riservata ai detenuti della casa di reclusione Roma-Rebibbia; miglioramento attività sportiva riservata ai detenuti dell’Istituto Penale Minorile di "Casal del Marmo". Per quanto riguarda, invece, gli interventi rivolti agli operatori penitenziari sono previsti progetti di formazione rivolta al personale per i servizi minorili di Roma, un percorso che consenta una migliora comunicazione tra detenuti e operatori e da ultimo un percorso che riguarderà interventi per la prevenzione del rischio di recidiva dei giovani detenuti. I progetti di formazione saranno realizzati con la collaborazione della Facoltà di Psicologia 2 dell’Università di Roma La Sapienza. Al termine dell’illustrazione La Commissione Sicurezza ha espresso all’unanimità parere favorevole alla proposta che sarà presto sottoposta all’approvazione della Giunta. Roma: il 6 novembre corteo e sit-in del Sappe a Rebibbia
Comunicato stampa, 25 ottobre 2007
Ancora tensione nel carcere romano femminile di Roma Rebibbia per le croniche carenze di poliziotte penitenziarie, che costringe le poche unità presenti a turni di servizio massacranti e che rischia di mandare in tilt la funzionalità dell’Istituto. È quanto è emerso in un’assemblea con il Personale che si è tenuta nei giorni scorsi a Roma Rebibbia organizzata dai vertici nazionali e regionali del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe, il più rappresentativo della Categoria con 12mila iscritti (più di 1.000 quelli in servizio nel Lazio), che hanno proclamato lo stato di agitazione del Personale di Polizia per le croniche carenze di organico e per le precarie condizioni di lavoro delle poliziotte. Il SAPPE ha anche preannunciato per il prossimo 6 novembre 2007 un sit-in con corteo dinanzi all’ingresso della Casa Circondariale ‘Nuovo Complessò di Rebibbia. Spiega le ragioni della protesta Donato Capece, segretario generale Sappe: "Dall’assemblea con le poliziotte di Rebibbia è emersa una situazione davvero allarmante. La permanente carenza d’organico costringe il Personale a fronteggiare carichi di lavoro estenuanti, con turnazioni di ben 8 - 9 ore continuative. Emerge evidente la mancanza di una adeguata organizzazione del lavoro, in grado di assicurare alle donne ed agli uomini della Polizia Penitenziaria il rispetto dei diritti soggettivi. Del tutto disatteso è anche l’Accordo Quadro nazionale di Lavoro, che regolamenta le modalità operative sull’impiego del Personale e disciplina rigorosamente le previsioni di legge in materia di lavoro straordinario, riposi, turni di servizio mensili, salubrità dei posti di servizio. Non a caso sono del tutto pessime le relazioni sindacali con l’attuale Autorità Dirigente. E proprio per dare un segnale forte all’Amministrazione penitenziaria regionale e nazionale saremo in centinaia il prossimo 6 novembre 2007 in un sit-in dinanzi all’ingresso della Casa Circondariale ‘Nuovo Complessò di Rebibbia che sarà preceduto da un corteo imponente. Più sicurezza vuole dire principalmente maggiore rispetto ed attenzione verso le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Condizioni, queste, che nel penitenziario Nuovo Complesso di Rebibbia non esistono!" Genova: la prevenzione al bullismo che viene dal carcere
Redattore Sociale, 25 ottobre 2007
Una rivista nata nelle carceri genovesi dedica il suo ultimo numero al fenomeno della prevaricazione tra ragazzi: ricordi, testimonianze e un’intervista ad un professore universitario di criminologia. È uscito il nuovo numero di "Area di Servizio - Carcere e territorio", una rivista a distribuzione gratuita pubblicata da una gruppo di persone dentro e fuori le carceri genovesi. Il numero è interamente dedicato al fenomeno del bullismo e della prevaricazione tra ragazzi, l’intento è quello di offrire spunti per una riflessione sulla criminalità giovanile e di farsi così strumento di prevenzione. Vicino ai ricordi e alle testimonianze di detenuti che rievocano la propria adolescenza e le proprie difficoltà nel confrontarsi con la scuola e con i gruppi di coetanei, ora come prevaricatori ora come vittime, troviamo il contributo di un dirigente scolastico impegnato nella scuola secondaria di primo grado e un’intervista ad un docente universitario. Umberto Gatti, professore di Antropologia criminale presso l’Università di Genova, ha infatti accettato l’invito della redazione interna del carcere di Marassi ed ha risposto a domande sul ruolo della criminologia nella prevenzione del crimine. La rivista offre poi uno spaccato di quali siano le problematiche e le risorse che le organizzazioni giovanili, gli studenti e la scuola mettono a disposizione della società. Le stesse bande di giovani stranieri che balzano alle cronache cittadine sono viste in quest’ottica come una risorsa rivolta ad una integrazione nella società. "Le bande - sottolineano i redattori - propongono infatti un sistema di valori e un sostegno fra i membri che, se indirizzati verso forme democratiche di tutela dei propri diritti, possono rappresentare uno strumento di prevenzione contro il coinvolgimento dei propri membri nella criminalità organizzata". L’idea di produrre un giornale interno al carcere è nata nel 2005 grazie ad alcuni operatori che hanno così cercato di dare una risposta alla richiesta, da parte dei detenuti di Marassi, di avere uno spazio per comunicare con la società genovese, presentando la vita all’interno del carcere, le problematiche e le speranze del mondo recluso. La rivista ha una redazione "esterna" e due interne, rispettivamente alle carceri di Marassi e di Pontedecimo. L’attività è resa possibile anche grazie agli operatori della cooperativa sociale Il Biscione che da anni sono impegnati all’interno delle case circondariali e ai finanziamenti che arrivano dalle amministrazioni pubbliche e dalle offerte di privati. Lucca: i luoghi della lettura, anche in carcere "piovono libri"
Redattore Sociale, 25 ottobre 2007
Ha avuto successo l’iniziativa della Provincia nella casa circondariale di San Giorgio che si va ad inserire nel programma "Ottobre, piovono libri: i luoghi della lettura". Il presidente Baccelli ha avanzato la proposta della creazione di uno "scaffale multiculturale" ideato per persone che provengono da culture differenti. "La Provincia lavorerà ad un progetto per portare la lettura in carcere e organizzare momenti di incontro culturale". Lo ha detto il presidente Stefano Baccelli, partecipando questa mattina all’incontro organizzato dal Servizio Biblioteche della Provincia alla Casa Circondariale di San Giorgio a Lucca. Un momento del programma "Ottobre, piovono libri: i luoghi della lettura" promosso dall’istituto per il Libro, in collaborazione con la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, l’Unione delle Province d’Italia e l’Associazione nazionale Comuni italiani. "La realtà del carcere - ha detto Baccelli - può e deve rispecchiare quanto espresso dall’articolo 27 della Costituzione Italiana e la lettura è uno degli strumenti più forti, perché l’apprendimento e la lettura sono fondamentali per far sì che la pena tenda alla rieducazione del condannato". È stato il mediatore culturale Said Jra ad introdurre i detenuti, per la maggiore parte provenienti dai paesi arabi, nel vasto mondo della letteratura araba moderna. Intensa la loro partecipazione all’incontro che è iniziato con una presentazione di "Pane nudo" la famosa opera scritta nel 1960 dal marocchino Mohamed Chukri e tradotta in italiano nel 1989. Tramite un fitto dialogo con gli ospiti della Casa Circondariale, Jra ha sollecitato la loro curiosità intellettuale e dai detenuti stessi è stata espressa la voglia di trovare maggiori occasioni di lettura e di confronto con la cultura dei loro paesi di origine e non solo. Sollecito accolto dal presidente Baccelli che ha proposto l’avvio di un progetto, da discutere con la direzione della Casa Circondariale, utilizzando anche le possibilità già offerte dalla Regione Toscana (la quale sta coordinando in questo mese una campagna di comunicazione delle biblioteche). In particolare lo "scaffale multiculturale", che permette di far girare per le biblioteche regionali "pacchetti" di libri ideati per la lettura di persone provenienti da culture differenti. Mondo: Zacchera (An); sono 3.000 detenuti italiani all’estero
Quotidiano Nazionale, 25 ottobre 2007
Urgente istituire in seno al Comitato per gli Italiani all’Estero di Camera e Senato, un organismo congiunto con poteri di vigilanza e di intervento sui detenuti italiani all’estero. Occorre far luce quanto prima sulla condizione dei detenuti italiani all’estero: circa 3000 dai dati Dgit - Ministero affari Esteri 2005 di cui 1.445 in attesa di giudizio, una situazione drammatica che ricade unicamente sulle famiglie dei nostri connazionali, abbandonati dal Governo ed isolati dai mezzi d’informazione. Questa la denuncia dell’on. Marco Zacchera - (Responsabile Esteri An e Vice Presidente del Comitato per gli Italiani all’Estero della Camera) nel corso della conferenza stampa "sulla condizione dei detenuti Italiani all’estero" appena conclusasi alla Camera dei Deputati. Le iniziative parlamentari fatte finora per i nostri connazionali Carlo Parlanti di Montecatini Terme, detenuto dal 2004 in California; per Angelo Falcone e Simone Nobili arrestati il 10 Marzo 2007 in India, in occasione di una vacanza e per altri casi fino ad ora si sono rivelate purtroppo infruttuose. A nulla sono valsi gli appelli dei colleghi europarlamentari e degli stessi Sindaci: Ettore Severi (Sindaco di Montecatini Terme- città di Carlo Parlanti) e Vito Agresti (Sindaco di Rotondella - città di Falcone) che sono intervenuti alla conferenza odierna insieme ai familiari dei detenuti. Così come in Italia viene garantito il diritto alla difesa, assegnando un difensore d’ufficio, lo stesso principio deve valere anche per gli Italiani detenuti all’estero impossibilitati a far fronte a costi elevatissimi; ben 200.000 euro fin’ora le spese legali sostenute dalla famiglia Parlanti e oltre 70.000 euro quelli che sono stati richiesti a Giovanni Falcone. Famiglie in gravi difficoltà economiche costretti anche ad ipotecare la propria casa pur di garantire un giusto processo ai propri cari. Diventa urgente - prosegue Zacchera - istituire in seno al Comitato per gli Italiani all’Estero di Camera e Senato, un organismo congiunto con poteri di vigilanza e di intervento sui detenuti italiani all’estero. Chiederemo inoltre - conclude Zacchera - al Presidente della Commissione Vigilanza RAI che anche per questi casi totalmente oscurati dal servizio pubblico sia garantito il diritto di cronaca negato, com’è accaduto oggi anche dalle stesse sedi regionali. Gran Bretagna: due carceri riservate ai detenuti stranieri
Il Gazzettino, 25 ottobre 2007
In Gran Bretagna sono state riservate due prigioni a Canterbury (254 letti) nel Kent, e nella contea dell’Essex (154), esclusivamente per i detenuti stranieri. Scopo. sveltire il rimpatrio forzato, appena espiata la pena e fornire ai reclusi un’assistenza più mirata, da quella linguistica alle pratiche per l’immigrazione. "È più facile farlo in un unico posto che disperdere gli specialisti in tutti i penitenziari del Paese", ha spiegato alla Bbc Anne Owers, ispettrice generale per il trattamento dei detenuti. L’idea è nata tenendo conto dell’alta percentuale di detenuti con turbe psichiche che non ricevono sostegno adeguato a causa delle barriere culturali e linguistiche. Il ministero della Giustizia del governo laburista ha dato notizia dell’iniziativa solo a posteriori e "incidentalmente", in un rapporto sulla salute mentale delle persone dietro le sbarre. Questi centri di reclusione costeranno - per singolo detenuto - il doppio di una normale prigione. Nel mondo politico londinese nessuno ha sollevato polemiche o proteste anti-xenofobe, ma il partito conservatore, all’opposizione, è perplesso: "Mentre due intere prigioni - ha detto il ministro-ombra della Giustizia, Nick Herbert - sono dedicate agli stranieri, il resto è stracolmo di gente. Il provvedimento che non risolve minimamente il problema a livello nazionale. Sarebbe meglio dare più spazi nelle prigioni, rimandando a casa un elevato numero di reclusi". Nelle celle del Regno Unito soggiornano undicimila stranieri, una percentuale elevata visto che in tutto i reclusi sono 81 mila e che c’è un grosso problema di sovraffollamento. Secondo il ministero degli Interni, i conservatori non devono preoccuparsi poiché la priorità rimane il rimpatrio dei detenuti stranieri. "Abbiamo avviato un piano - ha spiegato un portavoce del dicastero - per rimandarli nei loro Paesi ancor prima del processo". Il ministro della giustizia, David Hanson, ha spiegato che è stato sviluppato un accordo con un centinaio di Paesi stranieri per snellire le pratiche: "Nel 2005 abbiamo rimpatriato 1.500 detenuti. Lo scorso anno 2.500. Quest’anno ci aspettiamo che il numero salga a 4 mila". In ogni carcere per stranieri ci sono cinque agenti del servizio immigrazione che si occupano solo delle procedure burocratiche. Se l’esperimento pilota delle due carceri avrà successo, altri centri di detenzione "only for foreigners" saranno inaugurati, visto che i detenuti stranieri abbondano, in particolare giamaicani (1.464) e nigeriani (1.061).
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