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Giustizia: tutti i pericoli della "clinica diffusa", di Mauro Palma
Fuoriluogo, 31 luglio 2007
La prima volta che entrai in un Istituto Psichiatrico Giudiziario - allora detto manicomio criminale - non era ancora giunto a un esito legislativo il dibattito critico sulla malattia mentale e sulla modalità con cui essa veniva regolata e trattata nella società italiana: il manicomio. La legge sull’abolizione dei manicomi non era ancora all’orizzonte, anche se forte era già il vento critico che aleggiava attorno ad alcune categorie di analisi, in primo luogo quella che fissava l’asse dell’intervento più sulla tutela dei presunti sani che sulle possibilità vitali dei presunti malati. Il manicomio criminale non era altro, quindi, che l’epifenomeno di una situazione più ampia, luogo di sovrapposizione di due sistemi reclusori, quello rivolto alle persone con disagio mentale e quello rivolto alle persone colpevoli di reati. Come complemento, vi erano trattenute anche le persone non facilmente governabili nelle istituzioni detentive. Il vento critico continuò a soffiare e si fece più robusto, fino a portare a un radicale mutamento del rapporto con la sofferenza psichica e alla sua presa in carico da parte del contesto sociale: la legge successivamente varata nel 1978 - la cosiddetta 180 - ha significato un’effettiva quanto rara riforma culturale e ordinamentale nel nostro paese, avaro di vere trasformazioni. E ha resistito negli anni, seppure tra mille attacchi e con diverse carenze attuative. Ma, gli ospedali psichiatrici giudiziari non l’hanno seguita a ruota, come forse ci si sarebbe atteso. Sono rimasti inalterati, assediati dall’incalzare del concetto di pericolosità che si riteneva e si ritiene caratterizzare coloro che vi sono ristretti. La categoria della pericolosità del resto pervade il nostro diritto penale "concreto". Quello, per intenderci, che non trova spazio nella scienza giuridica accorta, quanto piuttosto in quella fusione tra opportunità politica e giustificazione giuridica che ricerca nel consenso diffuso la forma della propria legittimazione, inseguendo gli umori più bassi della collettività. La pericolosità sociale è una categoria spuria, anomala, prima ancora di essere essa stessa pericolosa, perché contraddice i presupposti del diritto penale, soprattutto quello che tiene ben distinte colpevolezza e responsabilità e che ritiene legittima l’azione punitiva solo nei confronti di soggetti colpevoli in grado di comprendere il significato del fatto commesso. Al contrario, essa sposta l’attenzione dal fatto a una presunta prognosi sui futuri comportamenti del suo autore, a come egli è soggettivamente percepito dalla collettività e, quindi, alla richiesta che quest’ultima pone per sentirsi rassicurata. Il reato commesso non è considerato per ciò che è stato, ma anche come indizio di ciò che il soggetto potrebbe in avvenire commettere, finendo così non col sanzionare una condotta passata, bensì col prevenirne una supposta come futura. Da qui nascono le cosiddette misure di sicurezza, cioè forme di privazione della libertà spesso indefinite nel tempo e non strutturate attorno a quel sistema di garanzie che contorna l’esecuzione penale. Il nostro codice, a differenza degli altri paesi europei, ne ha una tradizione ormai quasi ottantenne - per bontà del guardasigilli Rocco che le introdusse nel ventennio. Così le persone incapaci di intendere o di volere e dunque non imputabili, non sono prosciolte e basta, affidandole a interventi di cura, anche coattivi, ma comunque di responsabilità del servizio sanitario, bensì sono soggette a un intervento di carattere penale anche se di altro tipo: la misura di sicurezza, appunto, dell’internamento in una struttura psichiatrica di competenza del ministero della giustizia. La misura si applica anche a coloro che hanno una capacità di intendere o volere ridotta, dopo l’espiazione di una pena anch’essa ridotta. Non solo, ma il codice prevede la possibilità di determinare "i casi nei quali a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza per un fatto non preveduto dalla legge come reato". Nell’attuale fase di definizione di un nuovo codice penale è chiaro che un po' d’ordine attorno a queste categorie spurie vada fatto. La direzione sembra essere quella di prevedere misure di cura e controllo che, sperando ovviamente che non si tratti di mere ridenominazioni, dovranno essere differenziate a seconda della causa della non imputabilità: dalle strutture terapeutiche protette a quelle finalizzate alla disintossicazione per i tossicodipendenti o gli alcolisti, al ricovero in comunità. La delineazione della fisionomia di queste misure non è semplice e se molti punti delle ipotesi che si stanno avanzando sono condivisibili, è del tutto evidente tuttavia che la riflessione non può restringersi ai nuovi modelli organizzativi; deve investire i presupposti su cui esse si fondano, per evitare che ricadano nel gorgo culturale di chi vuole ogni intervento finalizzato alla rassicurazione e al consenso dei supposti "normali" a scapito dei diritti dei supposti "devianti". La questione più a rischio riguarda proprio l’estensione del principio terapeutico coattivo quando, in particolare, si tratti di consumatori di droghe o alcool. Non sfugge, infatti, la possibilità che l’attivazione di strutture non penali possa risolversi anche nell’affidamento a esse di un numero sempre maggiore di soggetti, venendo meno il freno che l’irrogare una misura penale porta con sé. La volontà rassicurante di punire i comportamenti e gli stili di vita più che i fatti compiuti potrebbe così riproporsi in forma medicale, attraverso l’estensione di luoghi sicuri a cui affidare le contraddizioni rimosse o i tanti stili soggettivi che si ritengono turbativi della sicurezza collettiva. Piuttosto che verso il carcere diffuso, di cui parlava il buon Foucault, andremmo verso la clinica diffusa, dove la responsabilità, ormai medicalizzata, possa venire trattata con le stesse finalità che derivano da un non più enunciato, ma sempre vivo presupposto di pericolosità. Non vi sono certamente antidoti a questo rischio: se non quello di non limitare il dibattito alla disciplina penale e alla tecnica giuridica, ma aprirlo a più voci disciplinari per costruire attorno a esso nuove consapevolezze. Giustizia: gli "irresponsabili" per eccellenza, di Grazia Zuffa
Fuoriluogo, 31 luglio 2007
Questa pagina affronta le delicate questioni in merito agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e più in generale ai soggetti "non imputabili", sollevate dalla proposta di riforma del codice penale. Nell’intento condivisibile di superare gli Opg, la Commissione incaricata suggerisce che gli autori di reati affetti da disturbi mentali siano "curati e controllati" in strutture sanitarie. Si propone cioè la "sanitarizzazione" della pena, ovvero la sua sostituzione con una forma di terapia coatta, si potrebbe dire. Rimane inalterato il principio di non imputabilità, conseguente all’assunzione che il reato sia stato commesso da persone non responsabili. Anzi, detto principio si allarga, fino a comprendere soggetti che abbiano agito "sotto intossicazione da alcol e da sostanze stupefacenti": questi dunque non sarebbero più incarcerati per consumo al di sopra delle dosi stabilite dalla legge Fini, oppure per spaccio, rapina e quant’altro, bensì sottoposti a misure di "cura e controllo" in strutture terapeutiche, presumibilmente in comunità. La soluzione non è nuova: il governo britannico, ad esempio, ha da tempo introdotto i "Drug and Testing Orders", ingiunzioni "terapeutiche" comminate direttamente dal giudice in sede di processo. Tanto meno è fresca l’idea che sia la droga a "causare" il comportamento (delittuoso) del "drogato". Come spiega Stanton Peele, nel bellissimo testo di teoria e storia delle droghe (The Meaning of Addiction), la concezione tradizionale di dipendenza presuppone che una serie di fenomeni biologici legati alla sostanza (quali astinenza e craving) non offrano all’organismo altra scelta che comportarsi in maniera stereotipata. Scendendo all’immaginario popolare, suscita esecrazione e commiserazione il tossico che scippa la vecchietta perché non può fare a meno della dose. Proprio l’anomalia comportamentale del "drogato" spiega la storica associazione col malato di mente, ravvivata oggi dal focus ossessivo sulla "doppia diagnosi". Il rigore scientifico di tale concezione (così come della "coazione terapeutica") è più che dubbio. Ma la rappresentazione sociale sottesa serve egregiamente ad un duplice scopo: da un lato sorregge la proibizione, in virtù della supposta pericolosità della sostanza in quanto tale; dall’altro, paradossalmente ma non tanto, offre con la medicalizzazione l’alternativa umanitaria al rigore punitivo. Se viene meno la battaglia per superare le strategie antidroga ad alta penalità, se si appanna, anche nei riformatori, l’idea che sia la proibizione (più che la chimica) a spingere il consumo in un contesto criminale; come far sì che i consumatori non paghino fino in fondo il conto salato delle norme criminogene che non vogliamo/non possiamo cambiare? Un dilemma etico e politico. Carcere versus ricovero coatto, perdere l’anima per salvare il corpo, la dignità umana non ha prezzo, quella del tossico chi lo sa. Polizia Penitenziaria negli Uepe: da Assistenti Sociali Campania
Bolg di Solidarietà, 31 luglio 2007
Al Sig. Presidente Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali
Ai Sigg.ri Presidenti Ordini Regionali Assistenti Sociali
Oggetto: Inserimento della Polizia Penitenziaria negli Uepe - Schema attuativo dell’art. 72 c. 1 L. 25/07/1985 n° 354.
Il Consiglio dell’Ordine Assistenti Sociali della Campania in merito alla bozza di Decreto Interministeriale che prevede l’inserimento presso gli Uepe (Uffici Esecuzione Penale Esterna) sta seguendo con profondo interesse l’evolversi di una situazione legislativa che pone in grave disagio professionale la figura degli Assistenti Sociali che operano negli Uepe del territorio nazionale. In particolare desta profonda preoccupazione l’ipotesi di riforma degli interventi nella misura alternativa alla carcerazione che prevede l’inserimento negli Uepe di personale della Polizia Penitenziaria con un ruolo che nel decreto si definisce genericamente di "supporto". Vale la pena di ricordare che tra le misure alternative alla detenzione l’affidamento in prova al Servizio Sociale è quella che è scontata esclusivamente in area esterna a quella carceraria avendo perciò come professionista titolare il Servizio Sociale. Il Legislatore aveva quindi mostrato la chiara volontà di individuare nella professione dell’ Assistente Sociale la titolarità per un intervento attuato all’interno della comunità sociale e nel quale anche il controllo assumesse un carattere positivo e costruttivo di sostegno e rinforzo alla volontà di recupero del soggetto affidato. D’altra parte i risultati ottenuti dalla gestione di questa misura alternativa sono stati senza dubbio positivi sia in termini di recupero che in termini di recidiva. Di particolare rilievo è stata l’opera dei Servizi Sociali degli Uepe nei contatti con i territori di appartenenza dei soggetti affidati allo scopo di costruire una valida rete di supporti personalizzati. Inoltre questo tipo di contatti è servito alla riappropriazione da parte della comunità sociale del territorio di riferimento della gestione dei problemi di devianza dei propri concittadini. La prova di questa attiva integrazione del Servizio Sociale degli Uepe si evidenzia nella fattiva collaborazione che gli Assistenti Sociali hanno stabilito nella partecipazione all’attuazione dei Piani di Zona e nel contatto diretto con le agenzie del volontariato, del privato no profit, della cooperazione sociale. L’ipotesi di inserimento della Polizia Penitenziari a all’interno degli Uepe determinerebbe uno snaturamento della misura dell’ affidamento creando una frattura tra la funzione di sostegno alla persona in affidamento demandata all’Assistente Sociale e quella di mero controllo dell’andamento del percorso, affidato alla Polizia Penitenziaria. Tutto ciò potrebbe ingenerare inoltre ulteriori complessità organizzative nonché elementi di conflittualità nella gestione della misura tra operatori di diversa professionalità. Il Servizio Sociale infatti come proprio principio fondante ha sempre rifiutato la partecipazione a misure repressive o di controllo da sempre demandate ad altri uffici, questo anche al fine di non inquinare un rapporto di fiducia, di sostegno e di umanizzazione con l’utente e soprattutto per favorire una valutazione dell’andamento del percorso riabilitativo basata su specifici canoni di professionalità. Ci sentiamo pertanto in assoluta sintonia con i colleghi degli Uepe della Campania e di tutto il territorio nazionale invitando i Presidenti e i Consigli degli Ordini di tutte le Regioni a fare proprio questo documento di adesione che d’altra parte condivide quanto già espresso in una recente nota del Consiglio Nazionale. La comparsa sui siti di tutti i Consigli Regionali dell’adesione a questo documento sarà un ulteriore sprone ai nostri colleghi degli Uepe per continuare la loro battaglia civile. Questo non solo per la salvaguardia dell’utente affidato, ma anche per scongiurare la sempre più dilagante tendenza ad emarginare se non addirittura ad escludere i Servizi Sociali da aree di estremo interesse per le fasce più deboli della nostra comunità. Nella speranza di un riscontro positivo, invio a nome mio e del Consiglio i più cordiali saluti.
Il Presidente, A.S. Maria Rosaria Minieri Belluno: interrogazione parlamentare su situazione del carcere
Comunicato stampa, 31 luglio 2007
Camera dei Deputati - Seduta n. 203. Valpiana, Russo Spena, Di Lello Finuoli, Boccia - Al Ministro della giustizia. Premesso che: come appreso dal quotidiano "Il Gattezzino" del 16 luglio 2007, di recente un detenuto ristretto nella Casa circondariale di Belluno avrebbe scritto al Direttore generale della locale Usl, e per conoscenza al Sindaco della città, denunciando di essere costretto a vivere in condizioni igieniche e sanitarie inaccettabili; pochi giorni prima un altro detenuto ristretto nel medesimo istituto aveva scritto alla rubrica "Radio Carcere", curata dal giornalista Riccardo Arena, raccontando di essere chiuso dal 10 febbraio 2007 in una cella di isolamento di minime dimensioni (27 per 14 penne bic, secondo l’unica unità di misura a disposizione dello scrivente), priva di arredamento, con bagno alla turca e dotata di una sola finestra piccola e schermata, del tutto insufficiente per l’ingresso di aria e luce naturale; nella stessa lettera lo scrivente parlava di un ragazzo che si sarebbe impiccato nella cella limitrofa la settimana precedente a quella dell’invio della missiva; secondo l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, le celle della sezione di isolamento del carcere di Belluno sarebbero correttamente descritte dalla lettera pervenuta a Radio Carcere, e il cortile destinato all’ora d’aria dei detenuti in isolamento sarebbe di dimensioni piccolissime e interamente in cemento; durante l’ultima visita dell’Osservatorio di Antigone all’istituto, la direzione avrebbe sostenuto che nessun detenuto era alloggiato nella sezione di isolamento, mentre i visitatori ne avrebbero incontrato uno poco dopo che camminava nel minuscolo cortile per l’ora d’aria; secondo l’ultimo Rapporto dell’associazione Antigone, pubblicato nell’ottobre 2006, l’edificio sarebbe in pessime condizioni strutturali, se si eccettua la parte recentemente ristrutturata. Le docce sarebbero in pessimo stato, mancherebbe un’area verde destinata ai colloqui con i familiari, i colloqui con i bambini si terrebbero nelle salette degli avvocati, l’unico specialista sanitario che opererebbe nell’istituto sarebbe il dentista; la capienza regolamentare dell’istituto è di 84 posti, di cui 6 per le donne. Al 31 maggio 2007 vi erano ristretti 85 detenuti, di cui 5 donne. Prima del provvedimento di indulto del luglio 2006, l’istituto ospitava 125 detenuti, di cui 9 donne, si chiede di sapere: se quanto riferito dai due detenuti ristretti nel carcere di Belluno corrisponde a verità; quali provvedimenti il Ministro in indirizzo intenda assumere per assicurare condizioni dignitose di vita nell’istituto di Belluno; quali provvedimenti il Ministro in indirizzo intenda adottare per rendere le condizioni strutturali e igieniche del suddetto carcere, conformi alle prescrizioni normative e regolamentari; come si intenda far fronte alle gravi insufficienze sanitarie che si riscontrano nell’istituto; quanti siano gli operatori dell’area pedagogica e dei centri di servizio sociale impegnati nel carcere di Belluno; come si intenda risolvere il problema dei colloqui con i familiari, nel rispetto di quanto disposto dal Regolamento di esecuzione del 2000. Roma: "record" di bambini nel "nido" di Rebibbia Femminile
Comunicato stampa, 31 luglio 2007
L’ultima settimana di luglio ha fatto registrare una presenza record di bambini nel nido del carcere di Rebibbia Femminile. Ad oggi, infatti, sono 19 i bambini e le bambine che vivono con le mamme detenute nel carcere romano. L’allarme arriva dal Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni: il più piccolo dei bambini di Rebibbia ha meno di un mese, il più grande 2 anni e mezzo. La legge - spiegano dall’Ufficio del Garante - prevede che i bambini da 0 a 3 anni possano stare in carcere con le mamme detenute. Al compimento del terzo anno di età è automatica ed obbligatoria la scarcerazione dei minori, indipendentemente dalla pena che sta scontando la madre, con l’affidamento del piccolo o ai parenti (se ci sono) o alle case famiglia, "determinando spesso gravi traumi alle mamme e ai bambini ". Attualmente a Rebibbia Femminile sono rinchiuse 18 detenute madri con i figli. Le donne sono tutte straniere: 2 africane, 16 sono romene. Una delle donne in cella, un’africana, ha due figli. A queste si devono aggiungere anche una donna romena prossima alla maternità. Il sovraffollamento di bambini comporta dei problemi: la capienza della sezione riservata alle mamme con bambini è, infatti, di 14 letti e a causa del sovraffollamento alcune detenute con i figli sono state collocate nelle sezioni comuni. Il problema principale è come intrattenere i piccoli durante il giorno, evitando che su di loro pesi eccessivamente il carcere. I piccoli trascorrono il tempo nella stanza dei giochi o nella zona verde da poco attrezzata. Alcuni di loro - fra mille difficoltà legate alle diffidenze delle mamme straniere - ora frequentano un nido esterno. "È evidente che, nonostante l’impegno di operatori e volontari, i bambini vivono una situazione difficile - ha detto il Garante dei Detenuti Angiolo Marroni - Quella fra 0 e 3 anni è l’età del primo apprendimento ed è davvero difficile pensare che un bambino possa crescere in cella e con limiti di spazio intorno. La verità è che i piccoli stanno perdendo una parte importante della vita per colpe che, evidentemente, non sono le loro. Credo che questa emergenza dimostri l’urgenza di prevedere, per le madri detenute, misure alternative alla detenzione, e l’uso della carcerazione solo per reati gravi. Inoltre, visto che le detenute madri sono straniere, e in particolare romene, sarebbe auspicabile un coinvolgimento della rappresentanza diplomatica di Bucarest in Italia per affrontare una situazione che appare incancrenita". Roma: chiude biblioteca di ex detenuti aperta un anno fa
Roma One, 31 luglio 2007
Municipio VIII - La struttura, unica in Europa, ideata e gestita da ex carcerati, era stata aperta un anno fa nel quartiere Ponte di Nona. A gestirla, l’associazione "Papillon-Rebibbia". Ora, però, mancano i soldi e nessun ente vuole finanziarla. C’era una volta una biblioteca tutta rossa situata in quartiere alla periferia della Capitale, Ponte di Nona. Una biblioteca davvero speciale perché unica in Europa ad essere ideata e gestita da ex detenuti. Una favola che rischia, però, di finire piuttosto male. Il motivo? Semplice: mancano i fondi per mantenere aperta la struttura. Un posto speciale - Inaugurata lo scorso 23 giugno, la "Biblioteca del Casale di Ponte di Nona" si trova in via Raoul Chiodelli 103, ed è ospitata all’interno di un curioso edificio scarlatto ristrutturato di recente. A gestirla, l’associazione "Papillon - Rebibbia" che si occupa, tra l’altro, di aiutare chi ha vissuto l’esperienza del carcere a reinserirsi nella società. Il complesso fa parte del polo de "La Sapienza" e mette a disposizione di chi ama la lettura migliaia di volumi, oltre a cd, dvd e videocassette frutto delle donazioni di enti e cittadini. Libri ma non solo, perché il "Casale Rosso" è anche un polo culturale che promuove iniziative per bambini, adolescenti e anziani. Il caso - Il 16 luglio il centro è stato chiuso e la serrata rischia di diventare definitiva. Roma One ha fatto quattro chiacchiere con il responsabile della biblioteca, Vittorio Antonini: "All’inaugurazione erano presenti tantissimi politici. Tutti si erano impegnati ad aiutarci, ma alle parole non è seguito alcun fatto". Abbiamo contattato anche il presidente dell’VIII Municipio, Fabrizio Scorzoni, e l’assessore comunale alle Periferie, Dante Pomponi: siamo in attesa di un loro intervento.
Chi ha finanziato la biblioteca finora? "La struttura è stata aperta grazie ai fondi dell’associazione "Papillon": circa 23mila euro vinti in alcuni procedimenti legali. All’inaugurazione, lo scorso giugno, c’erano tanti rappresentanti istituzionali: tra gli altri, il presidente della Camera Bertinotti, quello della Provincia Gasbarra, gli assessori comunali al Patrimonio e alle Periferie Minnelli e Pomponi, il minisindaco dell’VIII Municipio, Scorzoni. Tutti avevano preso degli impegni, ma poi in concreto nessuno ha fatto niente".
A chi vi siete rivolti per evitare la chiusura? "Proprio a loro, ma finora solo la segreteria di Bertinotti ci ha comunicato di essersi interessata alla vicenda. Lo scorso 27 gennaio ho incontrato Scorzoni: il presidente mi aveva assicurato di avere a disposizione i fondi necessari per mantenere aperto il centro anche senza l’intervento di altri enti. A febbraio, però, durante una riunione, ha ritrattato. Anche l’assessore comunale Pomponi si era impegnato a intervenire, ma alle parole non è seguito alcun fatto. Ieri, infine, il consigliere capitolino dei Verdi, Franco Figurelli, ha presentata al Comune un’interrogazione in proposito. Vedremo che succederà".
Quanto servirebbe per mantenere aperta la struttura? "Circa 60mila euro all’anno. È il minimo necessario per pagare gli stipendi ai quattro dipendenti: tre ex detenuti e una bibliotecaria professionista. È assurdo che con tutti i soldi che si spendono per iniziative culturali non si riesca a trovare una cifra simile. Va pure considerato che a Ponte di Nona non ci sarà un’altra biblioteca prima di 20 anni: perché apra è necessaria infatti una popolazione di 120mila abitanti e qui per ora vivono tra le 20 e le 30mila persone" Treviso: dopo-indulto; solo quattro i recidivi tornati in carcere
Il Gazzettino, 31 luglio 2007
A un anno di distanza dalla sua approvazione da parte delle Camere, è positivo l’effetto dell’indulto sul carcere di Santa Bona. Lo conferma il direttore Francesco Massimo, secondo il quale a oggi sono solamente 4 i casi di detenuti ritornati in cella a Treviso dopo essere stati liberati grazie all’indulto. Di fatto, però, la casa circondariale non conta più le oltre 250 presenze di un anno fa, che rendevano difficile la convivenza tra i detenuti. Oggi, il sovraffollamento è solo un ricordo, visto che la popolazione carceraria è di 199 unità: si tratta di 83 italiani, 19 cittadini comunitari e 97 extracomunitari. I più numerosi, tra questi ultimi, sono albanesi, complessivamente 20, rumeni, 17, e i nordafricani, tra cui 16 marocchini e 13 algerini. Il reato più frequente di cui sono accusati è lo spaccio di droga, seguito dai furti, dalle rapine e dagli omicidi. Degli 83 detenuti italiani, i veneti sono la maggioranza, per l’esattezza 53, e anche in questo caso la gran parte dei casi riguarda la detenzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti. Per il direttore Massimo, insomma, l’indulto di fatto ha funzionato. Le previsioni iniziali su un ritorno in carcere dei detenuti scarcerati si sarebbero rivelate eccessivamente pessimistiche: a livello nazionale, si era ipotizzata una percentuale del 68%, che a distanza di un anno si è fermata però al 12%. Malgrado anche nella Marca si sia registrato, nei mesi successivi alle numerose scarcerazioni, un aumento dei reati, il riflesso che questo ha avuto sulla contabilità della casa circondariale non è stato altrettanto evidente. "La percentuale dei detenuti che sono ritornati in carcere è stata molto bassa - spiega Massimo - Se l’indulto ha dato risultati positivi? Certo, uno di questi è la decongestione delle carceri, a Treviso come, penso, in tutta Italia". A dimostrarlo, come detto, sono i numeri: "Il carcere di Treviso non scendeva sotto la soglia dei di 200 detenuti da quasi quindici anni - conclude il direttore - A oggi ancora non abbiamo superato questo tetto". Firenze: Sofri; concesso un permesso d’uscita dalle 8 alle 20
Adnkronos, 31 luglio 2007
Il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha autorizzato Adriano Sofri ad assentarsi da casa ogni giorno dalle 8 alle 20. L’ex leader di Lotta Continua, condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto il 17 maggio 1972 a Milano, nelle scorse settimane aveva ottenuto dallo stesso Tribunale di Firenze la detenzione domiciliare speciale per sopravvenuta malattia. La misura è stata concessa a seguito della richiesta avanzata dal difensore di Sofri, l’avvocato Alessandro Gamberini. Il provvedimento è stato firmato dal presidente del Tribunale di sorveglianza del capoluogo toscano, Vincenzo Sapere, che ha spiegato come la legge prevede che quando la pena può essere differita o sospesa, il Tribunale di sorveglianza, una volta esaminato il caso specifico, possa concedere la detenzione domiciliare per vari motivi tra cui la salute, come nel caso Sofri; e che successivamente possa autorizzare il detenuto ad assentarsi dalla sua abitazione, rispettando un orario prestabilito, come prevede l’articolo 47 ter, 1 ter, della legge penitenziaria 354 del 26 luglio 1975. In futuro, il Tribunale di Sorveglianza potrà concedere a Sofri la "liberazione anticipata", ovvero 45 giorni ogni semestre di pena scontata, complessivamente 90 giorni all’anno. Immigrazione: 29 egiziani riescono a evadere dal Cpt di Bari
Corriere della Sera, 31 luglio 2007
L’obiettivo era evitare l’espulsione e il ritorno in Egitto, dopo le peripezie affrontate per giungere a Lampedusa su una carretta del mare. Per 29 clandestini egiziani il sogno si sta avverando. Scavalcato il muro di cinta del Centro di permanenza temporanea (Cpt) di Bari, dopo aver simulato una mega rissa e aver ingaggiato battaglia con le forze dell’ordine, adesso vagano per l’Italia. Altri tre fuggitivi, dopo alcune ore, sono invece tornati indietro. Il bilancio della fuga dal Cpt è da guerriglia urbana: quindici feriti tra le forze dell’ordine, quattro tra gli immigrati. È stata una fuga preparata nei dettagli. Nello spazio comune del Cpt molti immigrati sono venuti alle mani. Una rissa organizzata per distrarre le forze dell’ordine. Mentre gli agenti intervenivano per separare i litiganti, altri clandestini si sono diretti verso il muro di cinta, che hanno raggiunto e scavalcato. Trentadue sono fuggiti, quattro invece si sono feriti, sono stati bloccati e arrestati con l’accusa di danneggiamento, lesioni, violenza e resistenza a pubblico ufficiale.
Feriti e arresti dopo la rivolta
Il giorno dopo la rivolta davanti al Cpt di Bari è tornata la calma. All’interno sono rimasti 121 immigrati irregolari. Trentasei sono fuggiti scavalcando il muro di cinta posteriore. Erano tutti egiziani. Temevano di essere rimpatriati nel giro di qualche giorno "perché - spiega il questore Vincenzo Speranza - gli accordi internazionali stipulati con l’Egitto per limitare l’immigrazione clandestina funzionano e loro lo sanno". Così bene da aver provato la fuga altre due volte nell’ultima settimana. Il primo tentativo è stato mercoledì: sono fuggiti in sette, mai più ripresi. Venerdì sera ci hanno riprovato ma inutilmente e poi è arrivata la fuga di massa di domenica sera. Stavolta ci sono riusciti. Per uno strano scherzo del destino tre fuggiaschi, evidentemente disorientati in una città che non conoscono affatto, ieri mattina si sono ritrovati davanti al centro di prima accoglienza di Palese, a un paio di chilometri dal Cpt, e a quel punto, piuttosto che farsi inseguire dai poliziotti che potevano averli visti oppure continuare a vagare senza meta per la città, hanno preferito consegnarsi: "Siamo quelli scappati l’altra sera". Altri quattro egiziani - sempre nel gruppone dei fuggiaschi di domenica ma che non ce l’hanno fatta - sono rimasti all’interno del Cpt e sono stati arrestati con l’accusa di danneggiamento, lesioni, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Sono stati riconosciuti dai poliziotti finiti al pronto soccorso dopo una bagarre durante la quale otto uomini delle forze dell’ordine e un operatore sono rimasti feriti. Nell’elenco di chi è finito in ospedale ci sono anche otto immigrati. Alcuni dei quali anche con fratture agli arti inferiori. Talal è il più piccolo dei fuggiaschi feriti. Ventiquattro ore dopo la caduta dal muro di cinta che gli è costata un piede rotto e microfratture alle vertebre è rannicchiato in un letto del reparto di ortopedia, nell’ospedale San Paolo, stesso quartiere in cui poco più di un anno fa è entrato in funzione il centro di permanenza temporanea di Bari. Nella stessa stanza sono ricoverati altri due giovani, anche loro con l’ingessatura alla gamba. Nel pomeriggio è andata a trovarli la parlamentare di Rifondazione comunista, Donatella Duranti. In mano l’elenco dei feriti fornito dal Cpt in cui c’è il nome di Talal Hassain e una data di nascita: 20 luglio del 1992. Se fosse così, si tratterebbe di un minorenne, ferito nella fuga da un centro in cui non sarebbe neanche dovuto entrare. Talal ripete a due interpreti di avere quindici anni, come aveva già fatto quando è entrato nel Cpt di Bari, trasferito da Lampedusa. "Andremo sino in fondo - dice a caldo l’onorevole Duranti - perché un minore non accompagnato non può essere trattenuto in un centro di permanenza temporanea. Che ci faceva lì?". Dalla questura e dalla prefettura chiariscono come è andata. "Il ragazzo ha detto di essere minorenne, ma abbiamo fatto eseguire a un medico l’analisi del tunnel carpale, acquisita agli atti dal giudice di pace nell’udienza di convalida per il trattenimento - spiega Bepi Nuovo - e il medico ha attestato che la conformazione ossea risulta compatibile con una persona di età superiore ai 18 anni". Una risposta che non basta a convincere la parlamentare di Rifondazione. "E sufficiente che si tratti anche di un sedicente minorenne - ribatte Duranti - per entrare nei programmi di tutela destinati ai minori".
Le strutture per irregolari
I Centri di permanenza temporanea sono stati istituiti nel 1998 per trattenere gli immigrati irregolari prima dell’espulsione. Oggi sono 14 e possono ospitare un massimo di 1.940 extracomunitari. Considerando turni di 60 giorni, sono circa 22mila i clandestini che transitano nelle strutture italiane prima di essere espulsi.
I minori
La legge prevede che nei Cpt non siano presenti minori, in quanto per loro non è possibile procedere all’espulsione. L’età viene accertata attraverso la radiografia del polso, e se le dichiarazioni dell’immigrato vengono confermate, questi viene affidato a servizi di assistenza.
Gli espulsi
Nel 2006 i questori hanno firmato 73.771 decreti di espulsione. Gli inottemperanti, secondo dati forniti dalla commissione De Mistura, sono stati 72.805, quasi il 99 per cento. Droghe: il test ai lavoratori, un pasticcio politico e medico
Fuoriluogo, 31 luglio 2007
Ad aprire un nuovo capitolo della mediocre fiction che intende celebrare i fasti della sicurezza con una ringhiosa determinazione punitiva, ci pensa la stipula dell’atto di intesa tra il governo, le regioni e la provincia di Trento e di Bolzano sull’obbligo di certificazione di assenza di tossicodipendenza per alcune categorie di lavoratori che svolgono mansioni pericolose nei confronti di terzi. Nulla da eccepire sull’auspicio che autotrasportatori e lavoratori che svolgono alcune attività particolarmente rischiose, debbano essere lucidi e sobri durante l’esercizio delle loro mansioni. È altrettanto ovvio pretendere che persone che soffrono di una condizione di dipendenza da sostanze psicoattive debbano essere allontanate da mansioni pericolose (non solo quelle elencate nell’atto di intesa), finché non abbiano raggiunto una remissione dal loro stato di dipendenza. Ma queste semplici e razionali considerazioni non trovano posto in un atto legislativo che continua a confondere stati di dipendenza, consumi personali di tipo privato e consumi che comportano rischi nei confronti di altri. Così l’atto d’intesa, che reca il titolo "certificazione di assenza di tossicodipendenza", afferma poi all’articolo 3, in piena continuità con i presupposti e le soluzioni indicate dalla legge Fini-Giovanardi, che si tratta di: "accertamenti sanitari per accertare l’assenza di assunzione di sostanze stupefacenti". Rincara la dose poi all’art. 4 sugli "accertamenti sanitari preventivi": nel quale si stabilisce che il datore di lavoro nell’assegnare mansioni comprese tra quelle rischiose, o il medico competente nel momento dell’assunzione, provvedano a testare il lavoratore presso il Sert, che diviene luogo di certificazione anche nei casi di infortunio inferiore ai 20 giorni o "in tutti i casi in cui il medico competente lo ritenga motivatamente necessario". Il capolavoro si compie all’art. 8 nel quale si definiscono le modalità di accertamento e le procedure tecniche: di fatto si ripropone come criterio dirimente la presenza dei metaboliti delle sostanze stupefacenti nei liquidi organici, chiudendo in tal modo il cerchio che identifica tracce di consumi anche pregressi con stati di dipendenza e/o comportamenti attuali. Questa confusione, oltre che politica, è anche medico legale poiché l’insensatezza di fare coincidere consumi e dipendenze è avallata tecnicamente. Sorprendente è la posizione di Federserd, che vede in questo atto di intesa una possibile "riqualificazione" dei Sert, confermandosi così un’organizzazione più para sindacale e corporativa che scientifica. Al contrario, Pier Paolo Pani, presidente della Sitd (Società Italiana Tossicodipendenze), con lungimirante acume scientifico afferma che "il superamento ope legis di funzione di diagnosi e valutazioni di prognosi di natura chiaramente tecnica svilisce e dequalifica la funzione del Sert delegato a guardiano della legge piuttosto che della salute dei cittadini". Forse l’unico merito di questo atto di intesa è di aver spinto a chiarire il ruolo dei Sert che devono essere governati da ragioni tecnico scientifiche e non da opportunismi politici e corporativi. Droghe: 32% dei ragazzi inizia a farne uso già a 10-11 anni
Notiziario Aduc, 31 luglio 2007
Un consumo di alcol e droghe che comincia prestissimo, già a 10-11 anni, e una gigantesca ignoranza sui danni arrecati da queste sostanze: è quanto vivono gli studenti delle scuole italiane, secondo i risultati del progetto "Informare giocando" realizzato da Modavi (Movimento delle associazioni di volontariato italiano) in 272 classi, tutte superiori tranne una terza media romana, sparse sul territorio nazionale e finanziato dal Ministero della solidarietà sociale. I dati scaturiti sono allarmanti: il 32% dei ragazzi coinvolti ha detto di assumere alcol a partire dai 10 anni, ma il 61% afferma di non conoscere i datti conseguenti. Il 32% ha fumato hashish almeno una volta a partire dagli 11 anni, e di questi il 16% ne fa un uso giornaliero. Il 7% ha usato altre sostanze stupefacenti a partire dai 10 anni e il 46% di questi continua a farne uso. Il 77% ha usato droghe per curiosità, il 13% perché era ubriaco e agiva senza rendersene conto. Ben il 74% non conosce i danni arrecati dalle droghe. Emerge poi che ha maggiore consapevolezza e ha meno familiarità con alcol e droghe chi ha un rapporto con i genitori di tipo autorevole, al contrario di chi invece ha rapporti amichevoli o conflittuali con la famiglia. L’iniziativa, che ha coinvolto 4.569 studenti di età compresa tra 14 e 18 anni, ha utilizzato, accanto al classico questionario, l’originale strumento dei giochi dei ruolo, che ha permesso di entrare in contatto con i ragazzi in modo più diretto. Droghe: domani iniziano i "test" volontari per i parlamentari
Notiziario Aduc, 31 luglio 2007
Il parlamentare Roberto Poletti, giornalista eletto coi Verdi alla Camera dei Deputati, annuncia la propria partecipazione al test antidroga promosso dal segretario dell’Udc Lorenzo Cesa per mercoledì prossimo alle 9.30 davanti a Montecitorio. "Trovata demagogica o meno la manifestazione dell’Udc è l’unica occasione per i cittadini italiani di sapere se i propri rappresentanti in Parlamento si drogano oppure no e quindi se votano le leggi in stato confusionale, come a volte sembrerebbe". "Probabilmente sarò l’unico del mio partito a prendere parte all’iniziativa, ma la mia coscienza mi impone proprio di farlo". Poletti è tra i firmatari della proposta di legge presentata da Pierferdinando Casini e bocciata dalla commissione Affari Costituzionali della Camera". Quanto al caso alla vicenda del deputato Cosimo Mele, Poletti osserva: "Si sta assistendo in queste ore a una volgare strumentalizzazione della vicenda. Molti, da destra e da sinistra, diramano comunicati di una cattiveria inaudita. Mele farebbe bene, per coerenza con le posizioni che ha sempre assunto fino ad ora nella sua attività politica (ma non certo nella sua vita privata) a rassegnare le dimissioni, qualche altro frustrato a chiudere la bocca o a raccontare i suoi di peccatucci, visto che corna e pazze notti folli a base di sesso e droga nella Capitale non hanno partito". Gran Bretagna: non è necessario riclassificare la cannabis
Notiziario Aduc, 31 luglio 2007
Per alcuni esperti sulla politica delle droghe non ci sono prove sufficienti per riclassificare la cannabis, malgrado un nuovo rapporto indichi che essa potrebbe aumentare del 40% i rischi di schizofrenia nei consumatori. Il parlamentare laburista Brian Iddon e il professor Robin Murray dell’Istituto di psichiatria, hanno dichiarato che non ci sarebbero vantaggi nel ricollocare la cannabis nella fascia B. Commenti a seguito del recente rapporto pubblicato sulla rivista Lancet, secondo il quale sarebbero minimo 800 le persone malate mentalmente (psicotiche) a causa del fumo della cannabis. L’Home Office sta considerando di rivedere la riclassificazione in Fascia C della cannabis effettuata nel 2004. Il professor Murray ha detto che la recente ricerca ha aggiunto ben poco sulla comprensione dei rischi alla salute associati alla droga. "I politici ritengono la riclassificazione importante, ma non lo è. Un quattordicenne che fuma non sa quale sia la differenza tra Fascia B e C. La sostanza è già illegale per i ragazzini, per cui la riclassificazione non influenzerebbe i minori. È necessario insegnare, invece, i rischi associati al fumo". Sulla ricerca ha aggiunto: "Un individuo, forse con una predisposizione, non ha sviluppato la schizofrenia solo perché ha fumato, è come quando persona con una piccola predisposizione al diabete lo sviluppi se mangiasse tanto". I risultati della ricerca non convincono Iddon, capo dei gruppi parlamentari che si occupano della politica sulle droghe. "Non credo che la connessione sia stata provata, ma tuttavia ritengo che la cannabis possa, probabilmente per motivi genetici, essere la causa delle psicosi in età giovanile".
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