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Indulto, un anno dopo: Manconi; è un’occasione positiva
Redattore Sociale, 30 luglio 2007
Speciale indulto. Un anno fa il provvedimento del Parlamento. Il sottosegretario alla giustizia: "Recidiva al di sotto dei tassi ordinari. Meglio chi aveva misure alternative. Rientrano quelli con poche risorse, più gli stranieri". Un anno fa, il 31.07.2006, veniva approvato in Italia l’indulto. Dopo mesi di battaglie, di polemiche, di slanci seguiti a repentini dietrofront, il parlamento giunse dunque alla decisione definitiva. Ma cosa è successo in questi dodici mesi, conditi anch’essi di immancabili polemiche? Quali le conseguenze del provvedimento? In quanti sono tornati dentro? E che fine hanno fatto quelle misure da molti invocate per un effettivo reinserimento socio-lavorativo degli indultati? E, infine, qual è la situazione delle carceri italiane oggi? Per rispondere a queste e altre domande, abbiamo sentito i responsabili della giustizia nel nostro paese, gli operatori, le associazioni, i responsabili di Italia Lavoro (società competente proprio dei tirocini formativi), nonché le cooperative, direttamente interessate proprio al reinserimento degli ex detenuti. Ne è venuto fuori uno spaccato aggiornato, che mette in mostra aspetti positivi del provvedimento, ma anche ritardi e una situazione strutturale che fatica ad essere superata. Partiamo dall’opinione di Luigi Manconi, sottosegretario al Ministero della Giustizia, che affronta in particolare il tema della recidiva.
Sull’indulto ci sono state molte polemiche già dalla scorsa estate. I media, a quanto risulta da ricerche specifiche sull’argomento, hanno dato un giudizio negativo e spesso hanno rilanciato l’allarme "indultati". Come sono andate le cose realmente? "Il rischio della recidiva ci è presente sin dall’approvazione del provvedimento di indulto. Non perché l’indulto induca alla recidiva - al contrario - ma perché la recidiva degli ex-detenuti è una costante dei sistemi penitenziari. Proprio per questo il Ministero della giustizia ha tenuto costantemente sotto osservazione l’andamento delle scarcerazioni e dei rientri in carcere. Nel febbraio scorso abbiamo presentato i risultati di una ricerca condotta da una equipe dell’Università di Torino che affrontava con dovizia di particolari l’andamento della recidiva. Oggi come allora possiamo dire che la recidiva c’è, come era prevedibile che ci fosse, ma è di gran lunga al di sotto - ripeto: di gran lunga al di sotto - dei tassi ordinari. Per la grande maggioranza delle persone scarcerate grazie all’indulto, quella è stata un’ occasione positiva, che ci consente di scommettere sull’efficacia del loro reinserimento sociale".
In un articolo recente del Sole 24Ore si è parlato di una recidiva molto alta soprattutto per certi reati (i furti per esempio) e per alcune categorie di beneficiari dell’indulto. Ci sono stati effetti diversificati sui detenuti o sugli ex detenuti? "Ovviamente la recidiva è più significativa in chi soggettivamente ha meno risorse di reinserimento sociale. Non a caso, infatti, lo studio citato ha evidenziato le più alte percentuali di reingresso in carcere proprio in relazione a quei reati, contro il patrimonio, ma anche in relazione al consumo e al traffico di sostanze stupefacenti, in cui più evidente è la condizione di bisogno e di deprivazione sociale e materiale. In ordine a questo problema non va dimenticato che, contemporaneamente al provvedimento di indulto, il governo ha compiuto uno sforzo economico - certo, al di sotto del necessario, eppure significativo - per sostenere le strutture del territorio nella realizzazione di progetti di reinserimento degli "indultati". Inoltre, i dati sulla recidiva di coloro che usufruivano di misure alternative alla detenzione, sono sensibilmente migliori di quelli relativi a chi ha beneficiato dell’indulto da detenuto: circa l’8% per i primi contro un 18% per i secondi. Attenzione: il medesimo studio mette in luce come periodi di detenzione più lunghi rendano il carcere meno efficace nell’indurre a non commettere reati una volta usciti. Una delle finalità del provvedimento di indulto era proprio quella di garantire condizioni migliori in termini di trattamento e di reinserimento sociale ed economico delle persone recluse che, alla luce dei numeri del sovraffollamento del luglio 2006, costituiva un obiettivo difficilmente perseguibile".
Che cosa si può dire della recidiva? Ci sono studiosi che mettono in guardia da un’analisi a breve (pochi mesi dopo l’indulto, per esempio) per privilegiare i lunghi periodi. Che cosa ne pensa? "Gli effetti dell’indulto vanno certamente valutati nel medio/lungo periodo. Ciò premesso, e osservando l’andamento degli ingressi negli ultimi 12 mesi, i dati vanno al di là delle previsioni più ottimistiche, soprattutto se confrontati con quelli relativi al periodo successivo all’emanazione del precedente indulto del 1990. Alla fine del 1991, infatti, i numeri delle presenze in carcere erano tornati quelli precedenti all’emanazione del provvedimento: 10.000 reingressi contro 10.000 persone "indultate". A un anno di distanza dall’indulto del 2006, invece, a fronte di circa 26.000 persone interessate dal provvedimento, la popolazione carceraria si è incrementata solo di 6.000 unità. Un dato che va letto con attenzione perché influenzato dall’altissimo turn-over che riguarda gli ingressi in carcere: negli ultimi anni, infatti, si è registrata una media di 90.000 arrestati ogni 12 mesi a fronte di circa 88.000 persone che ogni anno lasciano il carcere. Quindi il relativo innalzamento della popolazione carceraria tra il luglio 2006 e il luglio di quest’anno non può essere interpretato solo in termini di recidiva. In ogni caso, come evidenziato dallo studio condotto dall’Università di Torino, il tasso di recidiva registrato è inferiore al tasso ordinario di recidiva delle aule giudiziarie del nostro paese. L’identikit dei recidivi ci riporta a quanto detto poco fa; i soggetti che rientrano in carcere sono soprattutto coloro che hanno diversi precedenti penali alle spalle, con problemi economici e con poche risorse per reinserirsi nel mercato del lavoro; spesso si tratta di persone con problemi di dipendenza. A questa categoria, se ne può aggiungere un’altra: gli stranieri privi di permesso di soggiorno. In questo senso la sfida è di mettere a punto strumenti di presa in carico da parte di tutti i soggetti coinvolti e coinvolgibili sul territorio. L’obiettivo è quello di smentire i dati nazionali sulla recidiva post provvedimenti di clemenza secondo i quali, nei cinque anni successivi, rientrano in carcere tra il 60% e il 70% di coloro che avevano beneficiato delle misure".
Ci sono invece associazioni (Antigone per esempio) che temono un effetto negativo dalle riforme non fatte. È vero che le legislazioni vigenti sulle droghe e l’immigrazione stanno aumentando il tasso di carcerazione e rischiano così di vanificare gli effetti positivi dell’indulto sul congestionamento delle carceri? "Questo è senz’altro un problema reale che si può risolvere solo sul piano parlamentare attraverso l’approvazione di provvedimenti di buon senso sia in materia di immigrazione che di sostanze stupefacenti. Gli immigrati, in particolare, si trovano esposti a processi di criminalizzazione che possono attivarsi a seguito della perdita del lavoro e alla susseguente impossibilità di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno. Non ci troviamo in presenza di una "attitudine criminale", nient’affatto, ma di fronte a un problema di marginalità sociale che rischia di aggravarsi ulteriormente. Del resto la tendenza al sovraffollamento si è avuta proprio in relazione all’irrigidimento del quadro normativo in materia di immigrazione. Infine. Con l’indulto si è cercato di inviare un messaggio culturale: sottrarre al carcere quella centralità che aveva acquistato, suo malgrado, nel trattamento di problematiche che non sono innanzitutto di natura criminale, bensì sociale. Va detto, ancora una volta, che occorre da un lato spezzare l’isolamento in cui versa il carcere e aumentare la capacità delle organizzazioni del territorio di partecipare e intervenire attraverso percorsi di reinserimento sociale; dall’altro, rafforzare le politiche pubbliche per evitare che situazioni di marginalità e di deprivazione abbiano la galera come trattamento di ultima istanza". Indulto, un anno dopo: Messina; rivedere sistema sanzioni
Redattore Sociale, 30 luglio 2007
Speciale indulto. Parla il presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia: "Il provvedimento non è la panacea di tutti i mali. Serve una serie di norme che ridefiniscano il sistema penale nel suo complesso". Abbiamo parlato con Claudio Messina, presidente del Volontariato Giustizia, al suo ritorno da una delle tante visite nelle carceri italiane. Questa volta era toccato al carcere di Porto Azzurro. Cominciamo quindi con i dati sull’indulto e con gli allarmi che ripetutamente hanno lanciato i media in questi mesi dopo il provvedimento di clemenza.
Allora Messina, ci sono giornali che in questi giorni rilanciano l"allarme sulla recidiva dovuta - secondo queste interpretazioni - alle scarcerazioni di massa. Come stanno le cose? "Analizzando i dati ufficiali non mi pare che si possano giustificare gli allarmi lanciati. Si parla del 19% di recidivi sul totale degli scarcerati, ma se poi si scompongono bene i dati si vede che la percentuale effettiva sulle persone che hanno beneficiato dell’indulto non arriva al 14%. Una percentuale molto più bassa di quelle fisiologiche che si riscontrano sui detenuti che non beneficiano dell’indulto. La conferma di questo l’abbiamo analizzando le percentuali di recidiva sui singoli reati. Complessivamente dunque le percentuali sono fisiologiche e alla vigilia dell’indulto ci si aspettava molto peggio. È chiaro d’altra parte che l’indulto non può essere visto come la panacea di tutti i mali che affliggono le carceri e il sistema penale nel suo complesso. Per affrontare seriamente la questione sarebbe necessario mettere mano ad altri provvedimenti".
A quali provvedimenti si riferisce? Alle leggi che vengono definite "criminogene" come quella sull’immigrazione della passata legislatura? "Io penso a una serie di norme e provvedimenti che ridefiniscano il sistema penale nel suo complesso. Prima di tutto c’è da lavorare alla riforma del codice penale stesso. Abbiamo il testo proposto da Giuliano Pisapia. Si tratta di una proposta molto valida dal mio punto di vista prima di tutto perché è ispirato dal principio generale di considerare il carcere solo una estrema ratio, il carcere solo per scontare le pene relative a reati gravi e gravissimi. Per tutto il resto dei reati è necessario trovare soluzioni alternative. Si tratta di rivedere quindi tutto il sistema sanzionatorio. Si tratterebbe quindi di introdurre misure di grande civiltà. C’è anche da rivedere altre questioni di fondo come la confisca dei beni per chi abbia accumulato fortune illecite. Non si capisce infatti perché queste misure che vengono oggi applicate ai condannati per mafia non possano essere estese anche a chi si renda responsabile di reati molto gravi in campo economico e finanziario. C’è da pensare anche a misure quali l’interdizione dagli incarichi per i capi di azienda o grandi manager che abbiamo commesso reati ricoprendo cariche pubbliche o istituzionali. Per reati di questo genere oggi non esiste quasi una punizione e spesso certi personaggi non hanno difficoltà nel riciclarsi. In altri paesi la legislazione è molto più stringente. Chi si macchia di reati così gravi dovrebbe almeno cambiare mestiere. Ci sono poi da ripensare le misure per la messa alla prova degli adulti. Si può pensare a un sistema che incentiva il reinserimento sociale di chi ha commesso reati, ma nello stesso sia efficace nel controllo. Verranno premiati tutti coloro che riusciranno a emanciparsi dal crimine, mentre verranno puniti più duramente tutti coloro che commetteranno di nuovo reati. Della serie: ti diamo fiducia per ricominciare, ma se ricadi le sanzioni saranno più pesanti. Si tratta poi di avere una grande attenzione agli aspetti psicologici o psichiatrici, alla psiche e alla malattia mentale. Ci vuole un’attenzione diversa e l’attuazione di misure diverse di sostegno per evitare i reati gravi. Quello che è certo è che nel carcere non si può continuare a rinchiudere di tutto.
C’è chi propone di investire risorse nella costruzione di nuove carceri e chi invece punta sulle misure alternative. Che cosa ne pensa? "Io penso che si debba puntare soprattutto sulle misure alternative al carcere. È chiaro che il sovraffollamento è un grave problema, ma non si risolve pensando solo al numero dei posti. Si risolve invece ripensando tutte le politiche della sicurezza. È evidente che le politiche del tipo "tolleranza zero" non risolvono nulla e anzi complicano enormemente i problemi. C’è anzi il rischio che le carceri ridiventino presto molto affollate. Le percentuali di ingresso stanno crescendo non certo per causa della recidiva dovuta all’indulto, quanto per i nuovi ingressi dovuti soprattutto alle leggi vigenti sull’immigrazione, le droghe. Quello che più ci deve preoccupare non è tanto quindi l’effetto indulto, quanto piuttosto il grande turn-over, il vai e viene continuo che si registra ogni anno nelle strutture penitenziarie italiane. Si calcola che nelle carceri circolino almeno 90 mila persone ogni anno. Ed è ovvio che tutto questo comporta un pesante aggravio di lavoro per tutti gli operatori e un appesantimento generale per il sistema". Indulto, un anno dopo: Gonnella; molte le cose non fatte
Redattore Sociale, 30 luglio 2007
Speciale indulto. Parla il presidente di Antigone. "Ci sono le colpe della politica, ma anche l’amministrazione penitenziaria è ancora indietro e non ha ancora adeguato le sue strutture agli standard previsti". L’indulto è stata un"occasione sprecata? Lo abbiamo chiesto a Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che da anni si occupa di carceri e di politiche penitenziarie. È evidente - spiega Gonnella - che l’indulto, per funzionare, ovvero per produrre i suoi effetti positivi, deve essere collegato direttamente ad altri provvedimenti. L’indulto è infatti un atto di clemenza straordinario, unico e quindi irripetibile. Il provvedimento varato dal governo Prodi la scorsa estate era stato pensato per decongestionare le carceri italiane da troppi anni stra-affollate. Ma è anche chiaro che si sarebbe dovuto mettere mano a tutta quella parte della legislazione vigente che invece tende a fare il contrario, ovvero a riempire di nuovo le carceri. Qualche cifra per inquadrare il problema. Prima dell’applicazione dell’indulto i detenuti in Italia erano circa 61 mila. Ne sono usciti circa 23 mila. A settembre del 2006, mese in cui si è concentrata la parte più consistente del provvedimento di clemenza, erano rimasti in carcere circa 38 mila detenuti. L’effetto del decongestionamento si è visto e si è sentito in modo positivo in tutte le strutture. Ora però - luglio 2007 - i detenuti sono già aumentati a 44 mila unità. Per Gonnella la tendenza è quindi preoccupante perché se le statistiche penitenziarie dicono il vero (una media di seimila ingressi ogni anno), tra due anni e mezzo saremo di nuovo al punto di partenza. Ovvero alla situazione pre-indulto, con più di 60 mila detenuti. Secondo il presidente di Antigone, per evitare questo esito infausto che vanificherebbe tutti gli effetti positivi sulle strutture e soprattutto sui detenuti in carne e ossa dell’indulto, sarebbe quindi necessaria una vera lungimiranza da parte del legislatore. Si tratterebbe cioè di mettere mano finalmente a tutte quelle leggi che sono giudicate da tutti come produttrici di detenzione. Tre gli esempi più importanti e più urgenti da affrontare: la riforma delle leggi sull’immigrazione (la Bossi-Fini), la riforma della legislazione sulla droghe (Fini-Giovanardi) e infine la riforma delle norme sulla recidiva (la cosiddetta ex Cirielli). Si tratta di tre campi e di tre leggi che producono costantemente nuovi arresti e nuovi detenuti, soprattutto se si pensa agli effetti perversi delle norme sull’immigrazione e all’impostazione che è stata data dal centro destra alle leggi sulle tossicodipendenze. Per quanto riguarda il dibattito parlamentare e la possibilità di portare a buon esito le riforme proposte dal governo di centro-sinistra, Gonnella dice di essere scettico su due provvedimenti e ottimista su uno. La riforma che secondo il presidente di Antigone ha più possibilità di essere approvata e quella della legge Bossi-Fini sull’immigrazione. "Secondo me - ci spiega Gonnella - ci sono le condizioni per arrivare a un’approvazione della proposta Amato-Ferrero. Mi pare che su questi temi ci sia una possibile consonanza tra il mondo della sinistra e quello cattolico". Più problematiche le altre due questioni, quella sulle droghe e quella sulla recidiva. Secondo Gonnella su questi due temi è più complicato arrivare a un accordo politico anche all’interno della maggioranza. Sulla riforma della Fini-Giovanardi si sono manifestate infatti troppe resistenze, mentre sulla questione della ex Cirielli, pare che non se ne voglia più parlare. Gonnella si augura comunque di sbagliare. Sarebbe molto positivo, infatti, se il governo riuscisse a portare a conclusione tutte e tre le riforme che hanno un effetto immediato sui livelli di sovraffollamento delle carceri italiane. Ci sono poi sul tappeto altre questioni molto importanti. La prima è la riforma del codice penale che si basa su un testo presentato da Giuliano Pisapia. La proposta è già nelle mani del ministro della Giustizia, Clemente Mastella. C’è poi la grande questione dell’ergastolo, la cui abolizione (come era stata proposta dalla stessa Antigone) sembra sempre più lontana. "La tendenza a non voler rimettere in discussione l’ergastolo - dice ancora Gonnella - è apparsa chiara anche dalla recente dichiarazione di Veltroni che commemorando le vittime della mafia, ha detto che per i reati di mafia l’ergastolo dovrà rimanere sempre valido". Su due tracce si sta lavorando invece in modo più spedito e forse più positivo: l’istituzione del Garante dei detenuti a livello nazionale (ora ci sono i garanti regionali) e l’introduzione del reato di tortura. Su entrambe le cose sono stati già licenziati dalla Camera due provvedimenti, mentre la proposta di introduzione del reato di tortura è giù passata anche alla commissione Giustizia del Senato. Indulto, un anno dopo: Ferrari; e siamo al punto di prima...
Redattore Sociale, 30 luglio 2007
Speciale indulto. La situazione secondo Livio Ferrari, direttore del Centro Francescano d’Ascolto di Rovigo ed ex presidente del Seac. "Il problema è che non è cambiato niente: è passato un anno e siamo al punto di prima". L’indulto un anno dopo appare come una legge buona ma non perfetta, soddisfacente ma non completa, necessaria ma con diversi punti di domanda lasciati senza risposta. Livio Ferrari, fondatore della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, direttore del Centro Francescano d’Ascolto di Rovigo e in passato presidente del Seac, fa il punto sul decreto che ha aperto le porte a una parte della popolazione carceraria mettendo temporaneamente fine al problema del sovraffollamento. Per analizzare la situazione attuale non si può che partire dai dati. Quelli in possesso di Ferrari sono in linea con quanto diffuso su scala nazionale: dai 38mila detenuti rimasti in carcere dopo l’indulto (erano 60mila prima della legge), a fine luglio 2007 si è arrivati a superare i 44mila, contro una capienza di 42mila posti. Eppure la vera piaga di questo nuovo affollamento non è la recidiva, visto che il dato del post indulto si ferma a un buon 12%. Se dunque non è qui, dov’è il problema? "Il problema è che non è cambiato niente: è passato un anno e siamo al punto di prima. Se non cambiamo le leggi Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex Cirielli sulla recidiva fra due o tre anni arriveremo ai 60mila detenuti di prima. Questo è un punto che adesso dovrà essere affrontato e non ci sono tanti mesi davanti, perché l’appuntamento è dal 16 al 18 novembre a Roma per una grande assise al ministero della Giustizia: spero che in quell’occasione si prendano decisioni precise sulle scelte politiche che questo Paese vuole fare. Non è possibile che continuiamo a lasciare certe leggi che producono solo carcerazione e che la soluzione di molti problemi sociali venga affidata al carcere". Infatti Ferrari vuole sottolineare un particolare aspetto del problema, cioè che non tutti coloro che compiono reati in Italia sono delinquenti: "Al Sud ad esempio non si investe abbastanza e questa assenza continua a generare sacche di manovalanza per la criminalità organizzata. Una situazione, questa, che si perpetra per una colpa che è solo politica, perché se anche le persone del Sud avessero la possibilità di un lavoro normale non sarebbero costrette a vivere nell’illegalità per procurarsi da mangiare. In questi casi non bisogna portare l’esercito in città come è successo a Napoli, ma creare le condizioni per una vita dignitosa". L’indulto ha lasciato aperto anche un altro interrogativo non di second’ordine: dove sono finiti coloro che sono stati scarcerati? Cosa fanno? Come vivono? Nella legalità o nell’illegalità? "Non abbiamo il polso della situazione, non sappiamo dove sono andate le persone scarcerate: gli stranieri sono di sicuro ritornati a vivere in clandestinità perché non hanno possibilità di accedere a nessun tipo di attività lavorativa o reinserimento finché c’è la legge attuale. Tanti di loro continuano a essere nelle nostre strade ma non sappiamo dove, come e cosa stanno facendo. Molti italiani invece non li abbiamo più visti e non sappiamo se si sono reinseriti o meno". Questo è dovuto alla velocità con cui è stato emesso il decreto, che "non ha dato il tempo alle associazioni e agli enti locali di creare punti di ascolto, accoglienza e informazione. Perciò quando ai detenuti è stato presentato l’atto di scarcerazione, loro se ne sono semplicemente andati e pochissimi si sono rivolti ai servizi". Dunque resta un grande punto di domanda per migliaia di persone: "Questo ci dispiace perché abbiamo paura che molti di loro vivano ancora nell’illegalità". Se la legge del 2006 è stata solo una parziale soluzione, la risposta ai problemi delle politiche carcerarie in Italia potrebbe - e dovrebbe - venire dal nuovo codice penale. Ferrari attualmente sta lavorando in una Commissione come delegato dal ministero della Solidarietà sociale in qualità di esperto: "Sul nuovo codice abbiamo visto dei segnali positivi e altri negativi. Vero è che ci sono cose inverosimili, basti pensare che si vuole eliminare l’ergastolo - che sarebbe un atto di grande dignità - ma allo stesso tempo portare la pena massima a 38 anni, peggiorando di fatto la situazione. Ci dispiace dirlo, ma è una cosa vergognosa e non va nella direzione di ridurre la pressione penale del carcere". Ed è invece proprio questo l’obiettivo che si dovrebbe perseguire "non solo in Italia, ma in tutto il mondo: nel futuro dell’umanità il carcere deve diventare sempre più residuale. Invece ancora oggi ci dotiamo di fior fiore di costituzionalisti, professori, esperti che non fanno altro che proporre un aumento della penalità e questo è inverosimile". Su questo fronte Ferrari aggiunge un dato che gli viene dall’esperienza personale: "I dati generali degli ultimi anni parlano di una recidiva altissima per chi esegue la pena in carcere (arriva anche all’80%), mentre risulta essere molto bassa per chi beneficia di pena alternativa (20%). Questo rende evidente che più si sta fuori dal carcere più è possibile un effettivo recupero. Per noi non c’è niente di nuovo, sono dati che sperimentiamo ogni giorno sul campo, spero però che il Parlamento ne prenda atto". Le Commissioni incaricate dal ministero stanno prendendo in esame diversi aspetti. Ad esempio, si stanno valutando delle nuove proposte, come la diversificazione dell’esecuzione penale per alcuni soggetti per cui il carcere non è pensabile: "Si pensi agli ex psichiatrizzati, a persone in drop-out, tossicodipendenti, che ogni volta che incontrano un poliziotto e litigano prendono un anno di carcere per oltraggio: dobbiamo trovare soluzioni diverse per chi ha problemi di natura sociale". Si deve poi rivedere tutto l’aspetto sui giovani adulti, vanno sistemate questioni minori sulla carcerazione "come il fatto che a 21 anni si interrompe la pena nel minorile e viene proseguita nel carcere per gli adulti. Ci sono insomma sul tappeto diverse questioni e ne stiamo discutendo in queste commissioni che produrranno poi proposte concrete di indirizzo, non legislative. Starà al Parlamento prendere atto di questo indirizzi". Indulto, un anno dopo: Italia Lavoro; progetti vanno a rilento
Redattore Sociale, 30 luglio 2007
Speciale indulto. Conclave (Italia Lavoro) fa il punto sul progetto finanziato dal Governo e destinato a 2 mila ex detenuti: "La prima difficoltà è quella di intercettare gli indultati disponibili. E manca il raccordo tra le agevolazioni". Era l’8 agosto del 2006 e i ministri Damiano (Lavoro) e Mastella (Giustizia) annunciarono il progetto post-indulto destinato alla realizzazione di tirocini formativi a duemila ex detenuti che avevano, o avrebbero, beneficiato della misura. In concreto, veri e propri percorsi formativi della durata di sei mesi, che prevedono un sostegno di 450 euro mensili, più un contributo di mille euro sotto forma di incentivi alle imprese per ogni lavoratore assunto. Per la realizzazione di questo progetto sono state coinvolte imprese cooperative e aziende, e i corsi sono organizzati da Italia Lavoro. Ad un anno dall’approvazione dell’indulto e a quasi dodici mesi dall’annuncio proprio di questa iniziativa, abbiamo chiesto a Mario Conclave, capo progetto di Italia Lavoro, un bilancio su quanto posto in essere in tema di formazione e inserimento lavorativo degli ex detenuti. Con lui abbiamo parlato di cifre, ma soprattutto di criticità affrontate, convenzioni, risorse e resistenze riscontrate sui territori.
È passato un anno dal lancio dell’iniziativa. Come ha funzionato? "L’intesa politica è stata raggiunta ad inizio agosto, il progetto è partito in realtà ad ottobre, dopo azioni propedeutiche mirate alla costituzione di reti sul territorio. Diciamo subito che il progetto ha due obiettivi di fondo: l’avviamento al tirocinio formativo di coloro che hanno beneficiato dell’indulto e la costruzione di reti territoriali per l’attivazione di attori pubblici e privati: enti locali, Uepe, cooperative, associazioni di promozione sociale, ecc… L’intervento su 14 territori ha comportato, certo, delle difficoltà. Una volta entrati in una logica di questo tipo, infatti, è ovvio che ci si confronta con territori che danno risposte diverse tra loro. Per questo possiamo dire di essere abbastanza avanti in alcune zone, mentre altre rispondono meno. Di positivo c’è che stiamo operando non solo nelle aree metropolitane ma anche in contesti lontani dalle grandi aree urbane. Le condizioni-vincoli dei territori ci impongono, oltre a termini diversi, anche sistemi operativi diversi".
E le imprese, come rispondono? "Da parte dei datori di lavoro stiamo ottenendo delle risposte. La cooperazione, in particolare, sta rispondendo bene, ma anche il profit si sta dimostrando attento. Certo, bisogna sempre tener presente che stiamo parlando di lavoratori con qualifiche molto spesso medio-basse…"
Scendiamo nel particolare. Quali sono le criticità riscontrate in questi mesi di lavoro? "La prima difficoltà è quella di intercettare gli indultati disponibili. È un lavoro complicato. Su oltre 26 mila persone uscite dal carcere, abbiamo avuto la disponibilità di 500/600 persone, un numero al di sotto dei duemila posti finanziati dal progetto. Abbiamo proceduto per gradi, privilegiando dapprima coloro che erano stati liberati. Successivamente ci siamo allargati a coloro che sono in esecuzione penale esterna. C’è un ragionamento di fondo alla base della scelta. Innanzitutto di offrire ai datori di lavoro interessati la "capacità produttiva completa" di chi ha abbandonato il carcere. Poi la consapevolezza di dover intercettare persone che, altrimenti, sarebbero scomparsi dai circuiti ufficiali. Il lavoro è stato progressivo e ha comportato una campagna di comunicazione sul territorio proprio per cercare di arrivare a quante più persone possibile e innescare processi imitativi".
Per qualche operatore siamo in presenza di una "grande occasione persa", con riferimento ad un ulteriore finanziamento "a pioggia" a fronte di carenze strutturali e organizzative mai sanate in tema di reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. "Ho invece l’impressione che questo relativo all’indulto sia uno degli interventi condotti in maniera più sistematica e mirata. Avrà certo dei limiti, ma procede. Altre esperienze concernenti il rapporto carcere-lavoro hanno presentato limiti. Due in particolare: la forte territorializzazione (con forti disparità e applicazioni a macchia di leopardo) e il fatto che rispetto al lavoro si arrivava a progetti a forte socializzazione, dove però il lavoro era un segmento appena "assaggiato". Questo nostro, invece, è un progetto incentrato proprio sull’inserimento lavorativo, pur con tutti i limiti del caso. Noi speriamo di aver dato, in questo modo, una forte mano alle reti territoriali, dando una chance in più alle persone in una prospettiva più stabile del binomio carcere-lavoro".
Per Legacoop sociali, il problema è anche la scarsità di risorse e le difficoltà insite nel mercato del lavoro generale.. "Per il secondo aspetto, poco si può fare. Esso fa parte delle dinamiche di sviluppo italiano. Se non c’è sviluppo, e non c’è spazio occupazionale per soggetti "ordinari", è chiaro che non ci sono possibilità anche per gli altri. Quanto alla scarsità di risorse, questo è un discorso delicato. Una overdose di agevolazioni per questi comparti solleverebbe delle questioni morali e di giustizia. Un equilibrio va sempre mantenuto. L’obiettivo di fondo del progetto è proprio quello di fare in modo che queste persone, avendo diritti di cittadinanza, si dotino di chance di occupabilità, in modo che possano competere".
Nello specifico, le cooperative e le imprese giudicano forse poco allettanti le agevolazioni concesse… "È vero che, forse, sono inferiori ad altre, però sono dosate sulla base di altri profili ed esperienze lavorative. Penso ai 450 euro mensili, tipico delle forme di sostegno al reddito; i mille euro per le imprese è un’agevolazione specifica per questo tipo di target. E sono agevolazioni cumulabili con altre. Sono, dunque, incentivi da progetto, che non hanno avuto bisogno di una normativa specifica per la loro introduzione. Ma a proposito di agevolazioni, penso di potermi riallacciare al discorso delle criticità".
In che senso? "Sull’indulto sono intervenute tre o quattro agevolazioni. Il problema è che non sono coordinate tra loro. Per il reinserimento dei detenuti si è intervenuti accedendo ai fondi della Cassa ammende, con interventi specifici del Ministero della Solidarietà sociale, con fondi delle Regioni. C’era, forse, una maggiore necessità di raccordo nella fase elaborativi degli interventi, ma non c’è stata". Indulto, un anno dopo: Legacoop; ritardi e inadeguatezze
Redattore Sociale, 30 luglio 2007
Speciale indulto. Il presidente di Legacoop Sociali sull’inserimento lavorativo dei detenuti indultati: "Ritardi e inadeguatezze non hanno impedito la realizzazione di interventi molto significativi di formazione e reinserimento lavorativo". Ritardi e scarsità di risorse economiche sono i principali elementi di criticità che hanno accompagnato gli interventi di reinserimento lavorativo a favore dei detenuti usciti con l’indulto circa un anno fa. A dichiararlo Sergio D’Angelo di Legacoop Sociali. "Abbiamo realizzato diverse iniziative: tirocini formativi e borse lavoro, organizzati da Italia Lavoro, incaricata dal ministero del Lavoro e della Giustizia. Un’altra parte di queste esperienze è stata resa possibile grazie al coinvolgimento delle autonomie locali che hanno investito risorse proprie", spiega D’Angelo. "Il problema è stato che le iniziative a favore dei beneficiari dell’indulto sono arrivate in ritardo rispetto alla stessa legge. Senza dimenticare l’altro grande problema: l’inadeguatezza delle risorse da investire". "Due problemi", sottolinea Sergio D’Angelo, "che non hanno tuttavia impedito di realizzare una significativa mole di buone esperienze. Gli indultati hanno intrapreso un percorso formativo, per la maggior parte, all’interno di cooperative di tipo b, che si occupano di inserimento lavorativo, percependo un sussidio di 440 euro al mese". I tirocini hanno avuto una durata complessiva di sei mesi e non hanno potuto per questo consentire occasioni di lavoro stabili. "Soprattutto al Sud", fa notare Sergio D’Angelo, "dove si è concentrata la maggior parte delle esperienze, ci si è dovuti scontrare con difficoltà di natura ambientale, come gli alti tassi di disoccupazione, che non hanno permesso alle autonomie locali di concorrere in maniera significativa alla realizzazione di vere e proprie occasioni di lavoro". Ma anche a Nord, dove pure ci sono state situazioni in cui questo si è verificato, si è trattato di esperienze piuttosto residuali. "C’è anche da aggiungere che sono stati scarsissimi gli incentivi per le imprese sociali. 1000 euro per ogni tirocinante", continua Sergio D’Angelo, "certo questo non ha aiutato". "Più complessivamente, però, abbiamo riscontrato un miglioramento dell’occupabilità: opportunità di professionalizzazione e occasioni di formazione e, in alcuni casi, di primo contatto con il mercato del lavoro". "Grazie alle nostre iniziative, alcune migliaia di indultati hanno avuto una chance. Si tratta di proseguire questo lavoro, investendo maggiori risorse e dedicando più tempo al delicato problema dell’inserimento lavorativo degli ex detenuti", conclude Sergio D’Angelo. Indulto, un anno dopo: Cnca; è una grande occasione persa
Redattore Sociale, 30 luglio 2007
De Facci. Riccardo De Facci del Cnca, parla di grande occasione persa. "Come Cnca avevamo accolto con grande disponibilità l’indulto, ma subito si è visto come il sistema fosse messo in crisi dai tempi, soprattutto vista la capacità di reazione al provvedimento. Mi riferisco anche al discorso dei corsi e delle borse lavoro, con le erogazioni iniziate ben 9 mesi dopo l’approvazione. E questo ha eliminato tutto il positivo che c’era nell’istituzione del Fondo. Non solo: i fondi del welfare, circa due milioni, non sono stati ancora erogati, e tutto è caduto sulle spalle degli enti locali. I tirocini e le borse lavoro gestiti in questo sono fini a se stessi. Insomma, è stata sprecata l’occasione per utilizzare l’indulto al fine di creare occasioni di reinserimento lavorativo e fare in modo che queste persone avessero in mano qualcosa di concreto". Quanto alle cooperative, conclude: "Per loro è stata l’occasione per avere risorse per qualche mese. Nulla più". Indulto, un anno dopo: 96 i tirocini avviati, 147 tra un mese
Redattore Sociale, 30 luglio 2007
Speciale indulto. Pesa sul bilancio del progetto la situazione di Napoli. Ad oggi va ancora valutato quanti dei 473 indultati, individuati dagli elenchi dei servizi sociali, sono interessati ad un inserimento lavorativo. Procede in tutta Italia l’iter di allestimento dei percorsi formativi per le persone che hanno beneficiato dell’indulto. Come si sa, il progetto governativo ha previsto uno stanziamento per la copertura di duemila posti, facenti riferimento ad altrettanti indultati e la realizzazione dei corsi è stata demandata ad Italia Lavoro. Ad oggi, la formazione sembra poter coinvolgere "potenzialmente" 734 persone, così ripartite per macroaree: 490 al sud, 111 al centro, 57 al nord-ovest, 31 al nord-est. Ovviamente la parte del leone al sud la fa Napoli, con 473 persone. Tuttavia il dato in questo caso non è definito (si tratta al momento niente più che di un censimento. I tirocini, d’accordo con Comune e provincia, partiranno da settembre): proprio per questo abbiamo parlato di coinvolgimento "potenziale". Afferma Giovanna Gorini: "Abbiamo attinto all’elenco messo a disposizione dai servizi sociali del Comune di Napoli (circa 2 mila nomi), abbiamo contattato le persone e abbiamo cercato di capire quanti di queste sono interessate ad essere inserite. In questo contesto un gruppo di lavoro futuro valuterà quali di queste persone possono entrare da subito nel progetto e quante avranno invece bisogno di una qualche forma di accompagnamento aggiuntiva". Ragionando allora sui dati sicuri, e togliendo alle 734 persone indicate dal progetto proprio i 473 campani, rimangono 261 candidature. E sempre secondo i dati di Italia Lavoro, al 27 luglio sono 112 i tirocini avviati e 22 quelli in procinto di essere avviati. A questi se ne aggiungono 13 in via di definizione, per una situazione complessiva che fa dire alla Gorini che "entro fine agosto saranno attivati tutti i 147". Siamo, insomma, ad una percentuale del 56,32%. Otto tirocini, inoltre, sono stati interrotti anticipatamente e trasformati in assunzioni (l’8%). Torino (tra avviati e in via di definizione) è a quota 25, Firenze 22, Genova e Venezia 18 ciascuna, Bari 16, Roma 15, Catania 14, Cagliari 12, Bologna 8, uno solo a Milano. La fascia di età più "investita" dal progetto di formazione è quella dei 30-44enni, con 416 persone, segue la fascia dei 45-59enni (198). Ovviamente in tutti i casi gli uomini sono molti più delle donne (394 a 22 nella prima fascia, 180 e 18 nella seconda). Per ciò che riguarda infine i soli 96 tirocini già avviati, si registra un numero di 27 aziende coinvolte nell’inserimento lavorativo degli ex detenuti, appartenenti soprattutto nell’area dei "servizi pubblici, sociali e personali" (6), nel campo alberghiero e della ristorazione (5) e in quello delle attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca e servizi alle imprese (4). Tre infine quelli inseriti nei settori della sanità e dell’assistenza sociale. Ancora piccoli numeri, soprattutto in relazione alla portata generale del progetto. Udine: l’Uepe in emergenza; ci sono 9 operatori invece di 24
Il Gazzettino, 30 luglio 2007
Le misure alternative al carcere hanno l’obiettivo di reinserire nella società chi è finito nei guai, consentendogli di riprendere i contatti lavorativi. E generalmente funzionano, assicura il direttore dell’Uepe (Ufficio di esecuzione penale esterna) Antonina Tuscano: "La percentuale di recidiva è molto bassa tra chi ha usufruito di una misura alternativa: sono pochi quelli che tornano in carcere". Non solo: chi immagina l’affidamento ai servizi sociali o il regime di semilibertà come una specie di favore concesso ai detenuti, gravoso per le casse pubbliche, sappia che è vero il contrario: un carcerato rinchiuso in via Spalato (o in qualunque altra casa circondariale) costa in media allo Stato 250 euro al giorno, più di quanto non accada se gli è consentito di lavorare all’esterno. Sviluppare le misure alternative e più in generale l’attività dell’Uepe, ragiona la Tuscano, servirebbe dunque "a garantire maggiore sicurezza e minori costi alla collettività". Eppure i tagli al bilancio pubblico rendono difficile la gestione di questo ufficio delicato e importante. Un dato su tutti: oggi all’Uepe di Udine - che deve occuparsi anche delle carceri di Pordenone, Gorizia e Tolmezzo - lavorano 9 operatori sociali su un organico teorico di 24. Praticamente un terzo degli effettivi. "Pensi che prima dell’indulto - racconta la direttrice dell’Ufficio - avevamo in carico milleduecento casi! Non sapevamo se rispondere al telefono o accogliere la gente che aspettava fuori...". Un altro esempio-limite è quello di Gorizia, dove c’è una sede dell’Uepe pronta da due anni ma non ancora aperta in quanto manca il personale da mandare sul posto. I nove operatori sociali girano come trottole in regione per seguire l’andamento delle misure alternative, stilare i programmi, compiere indagini. Esistono diverse tipologie di misura alternativa, dalla semilibertà (si lavora all’esterno durante il giorno e si rientra ogni sera in carcere) alla detenzione domiciliare (si sconta la pena nella propria abitazione), dalla libertà condizionale all’affidamento ai servizi sociali che permette di restare a casa o in un luogo di accoglienza a patto di svolgere un lavoro o essere iscritti a un corso scolastico. Naturalmente si tratta di decisioni ponderate, sulla base del cosiddetto progetto trattamentale che viene elaborato dagli operatori dell’Uepe assieme ad educatori, psicologo, direttore del carcere e polizia penitenziaria. "Noi predisponiamo questo piano personalizzato - spiega la direttrice Tuscano - e lo presentiamo alla Magistratura di sorveglianza che è chiamata a pronunciarsi sulla richiesta". Nella valutazione sulla "pericolosità" dei soggetti ha il suo peso "anche l’atteggiamento nei confronti della vittima, in termini di risarcimento morale come ad esempio l’attività di volontariato". Le misure alternative riguardano solo detenuti che abbiano subito una condanna definitiva e vengono concesse nel periodo conclusivo della detenzione. Per questo motivo, il loro numero è sceso drasticamente dopo l’indulto del 2006, da 173 a 33 all’Uepe di Udine. Pordenone: Mastella; il nuovo carcere si farà a San Vito
Il Gazzettino, 30 luglio 2007
Ennesimo colpo di scena nella storia del nuovo carcere di Pordenone, del quale si parla da 25 anni, ma che è ancora lontano dal vedere la luce. Progetti su progetti, contese politiche e grane di varia natura si sono infatti accavallati e susseguiti nel corso di questi anni, scrivendo uno dei capitoli più lunghi su quella che è diventata ormai l’opera incompiuta per antonomasia della Destra Tagliamento. "Incredibile, ma vero - ha commentato il deputato Manlio Contento (An), in prima fila da tempo sul fronte per la risoluzione di questo "caso" - siamo ormai giunti al 25ennale della ricerca di un sito idoneo. E ancora non siamo a buon punto". Contento mostra poi la risposta a una sua interrogazione, appena ricevuta da parte del ministero della Giustizia, "il quale - rileva con sorpresa il deputato - ricordando che non ci sono più i soldi per noi, visto che sono stati stornati da Mastella a favore di Benevento, in provincia di "Ceppalonia" - sottolinea con ironia - indica di aver individuato una nuova sede per trasferire l’Istituto di pena del Castello: a San Vito, in una caserma dismessa dell’esercito". Nell’ex caserma Dall’Armi, in via Oberdan. Riesumando, dunque, il vecchio sito che era stato individuato ancora nel ‘95 su interessamento dell’allora deputato Antonio Di Bisceglie e che aveva sollevato il malumore dei sanvitesi, contrari ad ospitare i detenuti. Oltre a quella della gente si era sollevata però anche la protesta dei magistrati e dell’Ordine degli avvocati, che volevano una sede cittadina per il carcere. E la contesa si protrasse per anni. Nel frattempo cambiò il colore del governo nazionale. Di Bisceglie non fu rieletto, a Roma andarono Manlio Contento, Edouard Ballaman e Luciano Callegaro, che contribuirono a cambiare nuovamente la destinazione del nuovo carcere. E l’allora sindaco di Pordenone Alfredo Pasini individuò un sito in città, in via Musile. Ma di seguito l’amministrazione Bolzonello scelse come luogo più adatto per la costuzione dell’istituto un’area in Comina, a ridosso della lottizzazione Cimolai. Nel 2005 l’iter sembrava ormai a buon punto: c’erano la disponibilità economica, la gara d’asta con la formula del "leasing" chiavi in mano e la spinta dei parlamentari eletti in provincia. Invece l’Ance, l’Associazione dei costruttori presentò un ricorso alla Corte di Giustizia europea, oltre che al tribunale civile di Roma, contro la procedura in leasing per la sua realizzazione e ottenne ragione nel 2006. Insabbiando tutto. "E ora - continua Contento - dopo essere stati privati dei 32 milioni di euro che erano stati destinati a quest’opera, arriva un’altra doccia fredda". In poche righe, il ministero liquida la vicenda in questo modo: "Si comunica che, tenuto conto del prevedibile protrarsi dei tempi per la realizzazione del nuovo carcere di Pordenone (nell’ambito del programma di nuova edilizia penitenziaria di competenza del ministero delle Infrastrutture), ed avuto riguardo all’attuale insufficienza di fondi disponibili, l’amministrazione penitenziaria si è determinata a destinare a nuova sede dell’istituto una caserma dismessa dell’Esercito a San Vito a Tagliamento. Una caserma la cui idoneità ai fini penitenziari, previo opportuno adeguamento e ristrutturazione, è stata accertata con apposito sopralluogo. Gli interventi sulla struttura - conclude - che saranno realizzati a cura e con fondi dell’amministrazione penitenziaria, sono stati inseriti nel programma di edilizia penitenziaria 2007, per la cui attuazione si è in attesa del ripartimento dei fondi".
Il sindaco Gregoris: un progetto già morto sette anni fa"
La notizia che la caserma Dall’Arma, dismessa da una decina d’armi, è stata ritenuta dall’Amministrazione Penitenziaria idonea ad essere riconvertita per diventare la sede del carcere circondariale, è stata commentata con cautela dal sindaco di San Vito Gino Gregoris. "Certo non è l’università - ha detto - quindi un motivo per suscitare soddisfazione. D’altro canto però - ha continuato - l’esperienza insegna: così come non è stato realizzato a San Vito 7 anni or sono, quando era già pronto il finanziamento, può darsi che neppure questa volta il progetto vada in porto". Inoltre, ha sottolineato, "faccio fatica a capire come sia possibile una simile destinazione, visto che la caserma non è più un bene del demanio ma della Regione e dei Comuni". La lunga storia del carcere prese avvio nel 1982, quando su sollecitazione dell’allora onorevole Fioret, ci fu la disponibilità del Ministero a finanziare con 17 miliardi la costruzione di un supercarcere da 400 posti fra Pordenone e Cordenons. Ma non se ne fece nulla: l’opposizione, soprattutto di Cordenons, fu inflessibile. A quel punto il Comune cercò di ridimensionare il progetto. Furono individuati 4 siti, uno dei quali, quello considerato più idoneo, a Vallenocello. Ma l’iter non andò avanti. Se ne riparlò nel 1986 con il sindaco Alvaro Cardin: fu assunta una delibera di giunta che individuò il sito ufficiale per la sua realizzazione nella "Bassa del Cuc", ai confini tra Cordenons e Pordenone. Poi però l’amministrazione leghista di Alfredo Pasini cancellò dal piano regolatore la variante che individuava l’area per la realizzazione del carcere. A fronte di ciò, Antonio Di Bisceglie, allora deputato, ottenne che la costruzione del penitenziario fosse trasferita a San Vito. Piacenza: detenuto getta olio bollente su agente, è grave
Ansa, 30 luglio 2007
Un detenuto del carcere delle Novate ha gettato olio bollente contro un agente della polizia penitenziaria all’interno delle cucine del penitenziario, causandogli ustioni di primo e secondo grado. L’agente è ora ricoverato in gravi condizioni, anche se i medici escludono il pericolo di vita. Secondo una prima ricostruzione, si tratterebbe di un gesto di vendetta. Il personale del 118 ha prestato le prime cure del caso all’interno del carcere, e poi ha portato il ferito all’ospedale di Piacenza. La Procura ha aperto un’inchiesta. Padova: un "telefono verde" per le vittime della criminalità
Il Mattino, 30 luglio 2007
Una finestra per tendere la mano alle vittime del crimine. È un progetto finanziato dall’Assessorato regionale alle Politiche sociali di Stefano Valdegamberi, che ha stanziato 35.000 euro all’Associazione Andromeda per garantire un avvocato, Matteo Cavatton, e una psicologa, Cristina De Gioia, a chi ha subìto un crimine. I professionisti risponderanno al numero verde 800.912.600 o all’e-mail: sportello@andromedaonlus.it. E chi ha bisogno di aiuto non sarà abbandonato alla fine dell’iniziativa. Spiega la presidente di Andromeda Veneto, Luana Levis: "Contiamo di istituire una rete di collaborazione con le strutture pubbliche. Indirizzeremo chi si rivolge a noi all’ospedale o agli studi legali che assistono gratuitamente chi ne ha bisogno". Il servizio vuole anche informare sui rischi criminali più comuni, in modo speciale le truffe a danno delle persone più indifese, specie gli anziani. Ufficiosamente lo sportello è già attivo da un anno all’Associazione Andromeda: 80 sono state le truffe intentate a scapito dei padovani che hanno chiesto aiuto. Immigrazione: direttiva Amato-Mastella su espulsione detenuti
Apcom, 30 luglio 2007
Il ministro dell’Interno, Giuliano Amato e il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, hanno firmato una direttiva interministeriale che permette l’identificazione in carcere dei detenuti extracomunitari da espellere e rende più efficiente il sistema dei rimpatri. Lo rende noto il Viminale, in una nota. La direttiva introduce, infatti, nuove procedure che, attraverso una più stretta collaborazione tra le autorità carcerarie e le forze di polizia, consentiranno l’espletamento di tutte le pratiche necessarie all’identificazione durante la permanenza in carcere degli extracomunitari. Una volta ottenuta l’identificazione il detenuto sarà poi trasferito in un penitenziario quanto più possibile vicino al luogo di partenza del vettore prescelto. E, da qui, al momento della scarcerazione, che sarà comunicata con debito anticipo dalle autorità carcerarie alla Questura, lo straniero sarà rimpatriato. "Si intende così - spiega la nota - rendere più efficiente il sistema delle espulsioni, che si è dimostrato, almeno a partire dall’anno 2003, molto poco efficace proprio per la difficoltà ad identificare i soggetti da allontanare." "E si alleggerirà - si legge ancora -, nello stesso tempo, la pressione sui Cpt, dove questi soggetti venivano destinati al momento della scarcerazione per essere identificati (con un tempo massimo di 60 giorni, dopo essere stati in carcere spesso per anni)."
Ecco come funzionerà il nuovo sistema
Collaborazione tra autorità carcerarie e Questure: La Questura dovrà essere prontamente informata dalla direzione dell’Istituto di pena interessato dell’emissione del provvedimento di custodia cautelare o della definitiva sentenza di condanna ad una pena detentiva nei confronti di uno straniero proveniente da Paesi extracomunitari. Così come dovrà essere informata della data prevista per la scarcerazione. A tal fine, ogni bimestre, ciascuno istituto dovrà comunicare l’elenco dei detenuti i cui termini di scarcerazione sono in scadenza entro il successivo semestre. Analoga tempestiva comunicazione dovrà essere fatta qualora il magistrato di sorveglianza dovesse disporre l’anticipazione della scarcerazione ai sensi delle vigente disposizioni. Il direttore dell’Istituto di pena provvederà quindi ad assicurare la scarcerazione in orario utile e compatibile con quello dell’orario di partenza del mezzo di trasporto con il quale avverrà il rimpatrio. Fotosegnalamento: Le forze di polizia, utilizzando strutture proprie o di altri corpi di polizia, dovranno eseguire le operazioni necessarie per il fotosegnalamento dattiloscopico (ovvero il rilevamento delle impronte delle dieci dita ruotate e non piane; e la fotografia di fronte e di profilo a capo scoperto) dei cittadini extracomunitari subito dopo l’arresto e, comunque, prima che questi vengano condotti in udienza per la convalida. Sarà la polizia penitenziaria ad accertare, al momento in cui lo straniero viene condotto in carcere, che sia stato eseguito il fotosegnalamento dattiloscopico oppure dovrà sollecitarne l’adempimento. Una copia del cartellino fotodattiloscopico sarà quindi inviata alla polizia penitenziaria dell’Istituto ove lo straniero è detenuto per essere allegata al suo fascicolo personale, ma soprattutto la forza di polizia che ha proceduto all’arresto provvederà subito ad inviare copie del cartellino anche all’Ufficio Immigrazione della Questura della Provincia ove ha sede lo stesso Istituto. Identificazione: La Questura competente sarà dunque in grado di avviare la procedura di identificazione immediatamente dopo l’emanazione del provvedimento di custodia cautelare o della definitiva sentenza di condanna, interessando le autorità diplomatiche dei Paesi di possibile provenienza degli immigrati. Da questo momento comincerà un iter che vede una stretta collaborazione tra le forze di polizia interessate. Ai fini dell’identificazione particolarmente importante sarà anche il ricorso ai colloqui con l’autorità diplomatica dei presunti Paesi di origine degli stranieri. Per favorire tali colloqui l’Amministrazione penitenziaria provvederà a concentrare gruppi di stranieri della medesima nazionalità presso gli Istituti penitenziari situati nelle vicinanze delle rispettive rappresentanze diplomatiche. Espatrio: L’acquisizione da parte della Questura del provvedimento di espulsione, del documento valido per l’espatrio e l’individuazione del vettore per la partenza saranno resi più celeri. L’amministrazione penitenziaria, conclusa la procedura di identificazione, trasferirà infatti l’extracomunitario in un Istituto penitenziario quanto più possibile vicino al luogo di partenza del vettore prescelto. Cpt: In questo modo sarà anche possibile ovviare alle criticità emerse in questi anni in relazione al trattenimento nei Cpt di tali soggetti. L’identificazione per i detenuti avverrà, infatti, in carcere non più nei Cpt. Droghe: Ferrero; giovani, lasciatele fuori dalla vostra vita
Ansa, 30 luglio 2007
Anche il ministro Paolo Ferrero è intervenuto sull’allarme cocaina. "L’unico invito ai giovani è: lasciate fuori queste droghe dalla vostra vita perché ve la rovinate", ha detto il ministro per la Solidarietà Sociale a margine della Festa di "Liberazione" a Bologna, commentando la partita di droga tagliata con atropina in Lombardia che ha causato una vittima e costretto al ricovero in ospedale una ventina di giovani. Per il ministro Ferrero la cocaina è forse la sostanza peggiore oggi in circolazione: "Questi tipi di stupefacenti, queste droghe pesanti che vengono tagliate brutalmente sono un pericolo. Per questo dico ai giovani di lasciarle stare. Si pensa di poter governare questo fenomeno, ma non è così - ha detto ancora Ferrero - queste droghe creano dipendenze molto forti e in più ci sono delinquenti che le tagliano in questo modo, e si rischia la vita". Droghe: Castrocaro; la morte assurda di un consumatore di Francesco Piobbichi (Politiche Sociali Rifondazione Comunista)
Fuoriluogo, 30 luglio 2007
La storia di Alberto Curiali è simile a quella di Giuseppe Ales, anch’egli suicidatosi dopo essere finito nelle pagine dei giornali locali, per aver infranto la legge sul possesso di cannabis. Ancora una volta l’intreccio tra le ideologie securitarie e le retoriche mass-mediatiche sul fenomeno delle sostanze stupefacenti diviene un meccanismo devastante, che sconvolge la quotidianità di chi finisce nell’ingranaggio. Per molti giovani, una volta fermati, si crea una situazione complessa dal punto di vista psicologico, rafforzata dall’impronta penale che determina la legge 309. È altrettanto vero poi che i media, pur non citando nome e cognome, forniscono tutti gli indizi per fare uno spietato "indovina chi", che si risolve subito soprattutto quando il fatto avviene in un paese di poche migliaia di abitanti. Le teorie criminologiche nate sotto i dettami della tolleranza zero necessitano di un continuo coinvolgimento della popolazione locale, mobilitata su temi simbolici come le droghe, gli immigrati, proposti e riproposti come emergenze continue dalla stampa locale senza dare a nessuno il diritto di replica. Così le bacheche a effetto si mischiano ai commenti dei bar, dando origine a una retorica della devianza che si sviluppa facilmente in un’epoca di ansia sociale diffusa. Ma gli amici di Alberto Curiali non hanno avuto paura del moralismo bigotto e non hanno lasciato passare la cosa come una fatalità. Hanno scritto una lettera rivolta a tutto il paese di Castrocaro Terme - il paese di Alberto - intitolata "Il giorno in cui la notte scese due volte". Il volantino è stato affisso nei bar, alle fermate degli autobus. Così facendo sono riusciti, nella drammaticità dell’evento che li ha sconvolti, a prendere voce, a denunciare il loro sdegno nei confronti di un sistema che non può continuare a funzionare a senso unico. Nemmeno loro forse se lo aspettavano, ma alla manifestazione c’era tutto il paese, una processione civile per ridare dignità ad un loro fratello, in cui anziani e genitori, bambini e giovani hanno voluto affermare con determinazione che questa morte assurda era evitabile, lo hanno fatto accendendo fiaccole e srotolando dalle case striscioni con la scritta "stop alle notizie che uccidono". Tutti loro ci hanno dimostrato che la società italiana è molto più avanti rispetto alle ideologie bigotte di una parte consistente della sua classe politica che non manca modo di evidenziare la sua incompetenza. Alberto non guidava ubriaco, non spacciava, ma era in un parco a fumarsi uno spinello, e la quantità ritrovata nella sua abitazione era evidentemente per uso personale, altro che spacciatore. I ragazzi di Castrocaro Terme nella loro semplicità sono riusciti a ribaltare nel territorio in cui vivono la narrazione prevalente che inscrive fenomeni sociali in fenomeni penali. Tutti quanti noi, che da anni siamo impegnati per dare a questo paese una normativa civile sul fenomeno delle droghe dovremmo imparare da loro e dal loro linguaggio, dovremmo ascoltarli e non lasciarli soli, anche per continuare a tenere viva la dignità e la memoria di un loro fratello. Messico: autorizzate "visite intime" anche per i detenuti gay
Apcom, 30 luglio 2007
Per la prima volta le autorità carcerarie di Città del Messico hanno permesso a un detenuto omosessuale di ricevere una "visita intima" da parte del suo compagno in libertà: è quanto ha reso noto la Commissione per i Diritti Umani del Distretto Federale. Come riporta il quotidiano spagnolo El Mundo, la Commissione aveva ricevuto le lamentele di "Agustin", questo il nome del compagno del recluso, e aveva trasmesso alle autorità carcerarie una richiesta per permettere questo tipo di visite anche ai detenuti omosessuali constatando l’esistenza di una "discriminazione e una violazione di diritti umani". Unica condizione, l’iscrizione nei registri della "Società di Convivenza", creata l’anno scorso dal Parlamento del Distretto Federale di Città del Messico e che riconosce tutte le unioni di fatto, non solo quelle omosessuali. Stati Uniti: Arpaio, lo "sceriffo più duro d’America", sfida tutti
Apcom, 30 luglio 2007
Ha istituito un numero verde anti-clandestini (300 segnalazioni in cinque giorni su cui i suoi uomini stanno indagando) e non ha alcuna intenzione di ripensarci nonostante le proteste e l’annuncio di ricorsi in tribunale: "Non c’è niente di incostituzionale", ha tagliato corto mercoledì. Il giorno successivo, ieri, ha annunciato una nuova misura: gli immigrati illegali non potranno entrare nelle carceri per visitare i detenuti, salvo finirci anche loro (sarà obbligatorio mostrare la carta d’identità all’ingresso). E ai perplessi ha replicato altrettanto seccamente: "Io dirigo la prigione, io decido chi entra". Si chiama Joe Arpaio, è da quindici anni consecutivi lo sceriffo della Contea di Maricopa in Arizona ed è anche questa settimana il tutore della legge più discusso degli Stati Uniti. Anche questa settimana. Perché Arpaio è noto da tempo come "lo sceriffo più duro d’America" ed è lui stesso a ricordarlo orgogliosamente. La definizione compare in evidenza sul sito internet del suo ufficio (mcso.org), una vera e propria azienda con 4.000 dipendenti e 3.000 volontari. Oltre a 10.000 detenuti - è lui a mettere i numeri sullo stesso piano, spiegando di averli raddoppiati da quando nel 1992 è stato eletto per la prima volta sceriffo della sesta contea più larga degli States. A proposito di cifre: "I numeri sul consenso al mio operato qui in Arizona - sottolinea nel "messaggio dello sceriffo Joe", che almeno nella data è aggiornato costantemente - si aggirano costantemente tra il 75 e l’85%. Una percentuale che mi consente di portare avanti con fiducia programmi innovativi". Il suo motto? "I cittadini sono i miei padroni e io sono al servizio dei cittadini". Vigila su 3,8 milioni di cittadini, tra Phoenix e il confine con il Messico. Ha fatto della battaglia contro i clandestini una priorità assoluta, agendo anche con metodi "innovativi" come la caccia agli illegali lungo la frontiera assieme ai cittadini volontari; l’home page del sito fornisce in tempo quasi reale il bilancio degli arresti effettuati, trafficanti d’uomini e uomini, insieme. Ma si muove a tutto campo (al ritmo di circa 300 arresti al giorno, riassume il suo sito). Prima di diventare lo "sceriffo più duro d’America", Arpaio è stato agente e poi dirigente della Dea, l’Antidroga, per tre decenni in mezzo mondo. Ha mantenuto la sua passione, e sviluppato una predilezione per le crudeltà commesse contro gli animali, tra l’altro divenute da prima pagina con il coinvolgimento di un famoso giocatore di football in un’inchiesta sui combattimenti tra cani; anche per il Caso Vicks, Arpaio ha fatto capolino tra le cronache. La guerra ai clandestini è quella che lo impegna di più. Ma come testimonia anche l’ultima sfida, le manette agli illegali che vanno a visitarli in carcere, il sistema carcerario è un suo pallino. Tralasciando il resto, quel che ha già fatto in materia è ricordato sul sito ufficiale: "Per esempio, ha vietato fumo caffè, film, materiale pornografico e tv in tutte le celle. Ha il costo medio per pasto più basso d’America: 15 centesimi, e ne vengono serviti solo due al giorno ai detenuti. Ha anche smesso di servigli sale e pepe, con un risparmio per i contribuenti di 20.000 dollari". Lo sceriffo Joe non si è fermato a questo. Stessa fonte, e testuale: un altro suo programma molto conosciuto è quello per far indossare biancheria intima rosa ai detenuti. L’ha deciso parecchio tempo fa, dopo essersi accorto che scomparivano troppi boxer dalla dotazione del carcere, per limitare i furti; cosa poi ripetuta anche per le manette (si presume non per scoraggiare i prigionieri, ndr). "Poi, quando lo Sceriffo ha realizzato gli effetti psicologici e calmanti del colore rosa, il rosa è stato adottato per le lenzuola, gli asciugamani, le calze e ogni cosa indossata dai detenuti, a parte le tradizionali uniforme a strisce bianche e nere".
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