|
Giustizia: servono leggi eque e una cultura del garantismo di Arturo Salerni* e Gennaro Santoro**
Liberazione, 22 agosto 2007
Sulla questione giustizia non si scherza, sulla giustizia penale ancora meno. Dietro molti reati vi è una vittima e la violazione delle regole su cui si basa la convivenza sociale. Vi è dunque un interesse comune della persona offesa dal reato e della intera comunità ad un processo rapido, ad una sentenza che non si faccia attendere per decine di anni. Anni nei quali un imputato marcisce in custodia cautelare o anni nei quali un altro imputato trasmette un senso di impunità. La frustrazione delle vittime cresce, la forza deterrente della minaccia della sanzione viene meno, si diffonde un senso di insicurezza. E se una persona innocente patisce per anni la custodia cautelare in carcere prima che si scopra la sua estraneità alla commissione del reato, abbiamo buttato una vita, abbiamo calpestato affetti, relazioni, famiglie, abbiamo sperperato risorse. È bene sapere che attualmente in Italia circa il 60 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio. Troppo spesso i deboli pagano - a prescindere dall’accertamento della loro responsabilità - con arbitrarie protrazioni della custodia cautelare in carcere. Chi ha i soldi per una buona difesa se la cava, anche con gli strumenti sostanziali e processuali approntati negli anni del centrodestra e che sono serviti soltanto a chi appartiene a categorie privilegiate e potenti. In carcere i detenuti per reati di mafia sono solo il 2,5 per cento del totale e quelli per reati contro la pubblica amministrazione il 3,5 per cento. Per altro verso, quando si perviene a sentenza definitiva (dopo anni) si scopre che l’imputato che ha patito la custodia cautelare in carcere è innocente nel 50 per cento dei casi. La malagiustizia viene pagata da tutta la società, in termini sociali e di in termini economici. Però i media si accaniscono solo quando vi è il caso di malagiustizia dovuta, a loro dire, all’eccesso di garanzie relative alla libertà personale, ed ancor di più quando queste garanzie hanno come destinatari cittadini stranieri. Non anche in occasione dei numerosi suicidi che si sono verificati questa estate nelle carceri italiane o per i parti di detenute rom presso il carcere di Rebibbia, che determinano una situazione insostenibile sotto il profilo umano e civile. Eppure dovrebbe essere chiaro. La vera causa del fallimento della giustizia penale italiana non è il garantismo ma la lunghezza dei procedimenti, e tale lunghezza è dovuta in gran parte all’eccesso di fattispecie di reato esistenti nel nostro sistema penale (più di 5mila!). E questa lentezza va a vantaggio di coloro che riescono ad evitare condanne (per loro è meglio che gli uffici siano intasati, così la prescrizione è più veloce del giudice), e spesso - troppo spesso - costoro appartengono a ceti privilegiati. Intanto in California una legge in vigore dal 2000 prevede misure alternative al carcere per consumatori di droga non violenti. Risultato: il tasso di recidiva diminuisce e i contribuenti risparmiano 2 miliardi di dollari. In Italia, invece, la legge Fini-Giovanardi, a detta dell’Unione Camere Penali, ha causato "un aumento massiccio di ingressi in carcere di consumatori di droghe leggere con effetti devastanti non solo per coloro che, anche se incensurati, sono stati arrestati e ristretti in carcere, ma anche per l’intero sistema". Insomma, c’è bisogno di una scossa al governo e al parlamento del paese perché vengano riformati integralmente il codice penale - con una riduzione massiccia delle fattispecie di reato ed una riduzione delle ipotesi sanzionatorie consistenti nella privazione della libertà personale- ed il codice processuale penale e perché vengano abrogate le leggi speciali e classiste che riempiono le carceri ed intasano i tribunali ereditate dal centro destra. Bene ha fatto Giuliano Pisapia a ricordarci su questo giornale (Liberazione del 15 agosto) come la ricetta americana della tolleranza zero non funzioni. In America negli ultimi dieci anni sono stati costruiti più carceri che scuole e ospedali, il tasso di carcerazione e di ben otto volte superiore rispetto a quello italiano. Tuttavia si è registrato "un aumento esponenziale della criminalità da far impallidire tutti i Paesi europei". Occorre oggi spingere perché sulla giustizia si intervenga a tutto campo (si pensi allo stato disastroso della giustizia civile ed ai tempi intollerabili dei processi del lavoro) e rapidamente. Ma questa spinta propositiva va accompagnata da una battaglia culturale sulla necessità di un cambio di rotta in tema di sicurezza e di giustizia. Perché solo un cambiamento culturale diffuso, un forte sostegno di una opinione pubblica informata può permetterci di creare una pagina realmente nuova sul terreno delle politiche della giustizia, a partire dall’abrogazione del codice fascista del 1930. Un nuovo approccio alla vicenda giustizia, senza scorciatoie e demagogie, socialmente orientato, oltre la logica sterile delle continue emergenze, quale grande orizzonte della Sinistra per caratterizzare in positivo la prossima stagione politica.
*Responsabile nazionale carceri Prc-Se **Associazione Antigone Giustizia: 60 mln di euro per vestire la polizia penitenziaria
Italia Oggi, 22 agosto 2007
Il ministero della Giustizia ad agosto rinnova il guardaroba degli agenti di polizia penitenziaria. Scadrà il 10 settembre la gara d’appalto per 15.000.000 guanti monouso, prezzo a base d’asta euro 0,06. Il prossimo 27 agosto, invece, la gara per la fornitura di 45 mila baschi azzurri (2 milioni di euro); 10 mila camicie celesti estive maschili (2 milioni di euro); 5 mila camicie celesti estive femminili (2 milioni di euro); 45 mila divise maschili e femminili invernali blu con berretto (20 milioni di euro); 45 mila divise maschili e femminili estive blu con berretto (20 milioni di euro); 90 mila magliette blu di cotone (5 milioni di euro); 40 mila maglioni nuovi (5 milioni di euro) e 5 mila tute da lavoro blu (2 milioni di euro). Un totale che supera i 61 milioni di euro. Giustizia: Treviso; due anziani coniugi trovati uccisi in casa
La Repubblica, 22 agosto 2007
E ora che si fa strada l’idea di una nuova ondata di violenza, in una terra ricca che la violenza l’ha già vista? Ora le porte delle villette della Marca trevigiana sbattono con violenza, o almeno si chiudono davanti all’idea che "quei due poveretti, che sembravano tanto miti" siano stati uccisi per non aver voluto consegnare un mazzo di chiavi, passaporto per un bottino da qualche migliaio di euro. Ora i tassisti dicono che "già, le bande vengono qui perché siamo sulla strada", e intendono la strada tra la disperazione dei paesi dell’Est e la ricchezza dell’Occidente. E - senza alzar troppo la voce, che di cantonate se ne prendono quando c’è dimezzo un delitto così feroce - tutti pensano alle bande di stranieri, quelle da titolo "rapine in villa". "La gente si sente abbandonata - esordisce il sindaco leghista di Treviso Gian Paolo Gobbo - abbiamo chiesto diecimila volte di avere più controllo sul territorio, è una escalation di violenza che non si ferma". Il sindaco non vuole gridare allo straniero, perché si rifà alle parole arrivate dalla procura, che invitano a non trarre conclusioni affrettate. Ma tant’è. "Siamo terra di confine e di passaggio, ormai la cronaca qui racconta di bande organizzate che non si fermano davanti a niente. Le ronde servivano almeno come deterrente, per dimostrare che non vogliamo restare immobili davanti a queste vicende". Le parole che il sindaco accenna solo, le pronuncia senza pudori il senatore della Lega Piergiorgio Stiffoni. "Non mi sembra che qui da noi siano una novità le rapine in villa che finiscono con botte o peggio: che sia criminalità nostrana o importata a me non importa. Mi importa che questa magistratura non sia buonista con i colpevoli, quando saranno presi. Perché è così che si permette a questa gente di alzare ogni volta di più il tiro". La paura della gente torna nelle parole del sindaco di Gorgo al Monticano, il paesino da nemmeno tremila abitanti steso nella ricca provincia. "Sono preoccupato - spiega Firmino Vettori per il senso di paura che l’episodio rischia di diffondere tra gli abitanti, molti domiciliati in case isolate". E si rivolge direttamente al governo, invece, la senatrice dell’Ulivo Simonetta Rubinato, che dalla Marca Trevigiana arriva. "Sono fiduciosa nei risultati di magistratura e forze dell’ordine, il cui numero nel territorio è però inadeguato: per questo ho sollecitato l’intervento del capo della polizia Antonio Manganelli". Per la senatrice bisogna "adeguare le forze di polizia all’attuale realtà criminale, nei miei concittadini è aumentata la percezione dell’insicurezza". Da dove arrivi la minaccia nessuno lo sa. O meglio, tutti hanno paura di dirlo, per non sbilanciarsi. "Non va sottovalutata - si lascia però andare la senatrice - la posizione strategica della regione, crocevia talvolta della criminalità nomade, spesso cruenta". Immigrazione: permesso di soggiorno per i lavoratori sfruttati
Italia Oggi, 22 agosto 2007
Anche la straniero clandestino gravemente sfruttato sul lavoro può diventare titolare di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Questa disposizione meglio dettagliata dalla futura legge di contrasto del caporalato all’esame della camera può già trovare applicazione in conformità al vigente Testo unico sull’immigrazione. Ma occorre che lo sfruttamento si concretizzi, attualmente, con modalità particolarmente invasive. Lo ha evidenziato il ministero dell’interno con una circolare sottoscritta da Amato il 3 agosto e divulgata dalla questura di Torino il 16 agosto 2007. Con la stagione estiva si intensifica il problema della manodopera straniera che viene sfruttata anche in considerazione dell’irregolarità di alcuni lavoratori. In pratica, facendo leva sulla precarietà della loro condizione di clandestinità, alcuni datori di lavoro sfruttano pesantemente gli stranieri irregolari assoldati. Per contrastare questa attività illecita il parlamento sta esaminando un disegno di legge di riforma dell’art. 18 del dlgs 286/98 che a regime allargherà la possibilità di ottenimento del diritto di soggiorno per motivi di protezione sociale anche ai lavoratori semplicemente sfruttati dal proprio datore. Attualmente, infatti, l’art. 18 del Testo unico sull’immigrazione viene comunemente utilizzato per ammettere al diritto di soggiorno gli immigrati clandestini sfruttati sessualmente. Ma questa disposizione, specifica la nota, permette già attualmente al questore "di valutare l’opportunità di rilasciare un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale anche alle vittime dei reati diversi da quello dello sfruttamento della prostituzione, sempre che l’ipotesi delittuosa ravvisata rientri nella previsione normativa di cui all’art. 380 cpp". In buona sostanza, conclude la circolare, se lo sfruttamento dello straniero si concretizza con modalità che possono integrare uno dei gravi reati richiamati dall’art. 380 cpp è già attualmente possibile per il questore attivare la procedura prevista dall’art. 18 del dlgs 286/98. Andranno accertate modalità illecite particolarmente invasive a danno del clandestino in quanto la disposizione, letteralmente, fa riferimento a ipotesi di reato per i quali è sempre previsto l’arresto obbligatorio in flagranza di violazione. Immigrazione: reati connessi all'espulsione, ingiusti e inutili
Il Riformista, 22 agosto 2007
Un capitolo poco conosciuto della normativa sull’immigrazione e, allo stesso tempo, del quotidiano dell’amministrazione della giustizia penale è rappresentato dai reati collegati all’espulsione introdotti dalla legge Bossi-Fini. Il reato di "ingiustificata inottemperanza dell’ordine di allontanamento del questore", in particolare, ha un ruolo di primo piano: la sua storia merita di essere riassunta. La legge del 2002 aveva costruito un meccanismo penale e amministrativo imperniato sul passaggio dall’espulsione amministrativa all’ordine di allontanamento emesso dal questore, dall’incriminazione dell’inottemperanza di questo ordine all’arresto dello straniero inottemperante, dal giudizio direttissimo fino, nuovamente (almeno sulla carta), all’espulsione. Il nuovo reato si inseriva - anzi, si inserisce - in un quadro normativo nel quale, da una parte, i canali di ingresso legale dei migranti sono ben poco praticabili e, dall’altra, la risposta data dall’ordinamento a qualsiasi ipotesi di irregolarità è rappresentata dall’espulsione e dalla sua esecuzione attraverso misure coercitive della libertà personale: si tratta di istituti di tipo amministrativo (la detenzione amministrativa nei Cpt) o di tipo penale, come appunto il reato di "ingiustificata inottemperanza dell’ordine di allontanamento del questore". Nel 2004 la Corte costituzionale (con la sentenza n. 223) dichiarò illegittima la norma sull’arresto dello straniero che non aveva ottemperato all’ordine del questore, osservando, tra l’altro, che la misura pre-cautelare "non trova valida giustificazione neppure ove la si voglia ritenere finalizzata, sia pure impropriamente, ad assicurare l’espulsione amministrativa dello straniero che non abbia ottemperato all’ordine di allontanarsi dal territorio dello Stato", posto che il relativo procedimento amministrativo potrebbe comunque seguire il suo corso: la funzionalizzazione dell’arresto e del giudizio direttissimo all’espulsione dell’immigrato irregolare era dunque considerata dalla Consulta impropria sul piano dei principi e inutile su quello della effettività dei provvedimenti di allontanamento. Nonostante le nette affermazioni della Corte, il legislatore ha nuovamente introdotto, con la legge n. 271/2004, il meccanismo descritto e, in particolare, la generalizzata previsione dell’arresto dello straniero: a questo scopo, ha inasprito fortemente le sanzioni per i vari reati collegati all’espulsione. Ulteriori dubbi di illegittimità costituzionale si sono affacciati e un nuovo intervento della Corte costituzionale si è reso necessario: con la sentenza n. 22/2007 il giudice delle leggi ha ritenuto inammissibile la questione relativa al trattamento sanzionatorio previsto per il reato di "ingiustificata inottemperanza dell’ordine di allontanamento del questore", ritenendo di non potersi sostituire al legislatore nella ridefinizione della complessiva disciplina. Al legislatore, tuttavia, la Corte ha rivolto un severo monito, rilevando che "il quadro normativo in materia di sanzioni penali per l’illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel territorio nazionale, risultante dalle modificazioni che si sono succedute negli ultimi anni, anche per interventi legislativi successivi a pronunce di questa Corte, presenta squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativa della stessa"; di qui "l’opportunità di un sollecito intervento del legislatore, volto ad eliminare gli squilibri, le sproporzioni e le disarmonie prima evidenziate". Tocca dunque al legislatore farsi carico del superamento degli squilibri, delle sproporzioni e delle disarmonie che caratterizzano questi reati: ed è in questa direzione che si muovono alcune indicazioni del disegno di legge Amato-Ferrero di recente varato dal governo. Il testo prevede la rimodulazione delle tipologie sanzionatorie (amministrative o penali), in relazione alla gravità e alla reiterazione delle violazioni, nonché ai motivi dell’espulsione e la riconduzione della disciplina nell’alveo degli istituti e dei principi stabiliti in via generale dal codice penale e di procedura penale. L’opzione di fondo del progetto di riforma sembra proiettata verso l’abbandono del diritto penale speciale che caratterizza la legislazione vigente, ma anche verso il superamento di una disciplina del tutto incongrua sul piano degli effetti. Il meccanismo arresto/giudizio direttissimo, infatti, fa sì che una parte rilevante delle risorse della macchina della giustizia penale sia impiegata per perseguire i reati - marcatamente artificiali - collegati all’espulsione. Analogo discorso vale per l’attività delle forze di polizia: dai dati della Commissione De Mistura (istituita dal ministro dell’Interno) risulta che nel 2006, sono stati emessi 73.771 ordini di allontanamento, mentre gli stranieri ottemperanti sono stati 866, pari allo 0,11%: discutibile sul piano dei principi, la capacità di deterrenza delle pesanti pene minacciate dalla legge si rivela dunque prossima allo zero. H disegno di legge delega Amato-Ferrero introduce, invece, una nuova misura esecutiva dell’espulsione, il "rimpatrio volontario e assistito", accompagnandolo con la differenziazione, in un’ottica di premialità, della durata del divieto di reingresso per lo straniero rimpatriato volontariamente. Si tratta di innovazioni che rappresentano, indubbiamente, un rilevante momento di discontinuità rispetto all’impianto essenzialmente coercitivo della disciplina vigente. Il disegno di legge apre dunque una prospettiva difficile dal punto di vista operativo (e che richiederà adeguati sforzi sul piano delle risorse finanziarie e della gestione amministrativa), ma tesa a raggiungere un equilibrio tra equità del trattamento dei migranti ed effettività della disciplina delle espulsioni: un equilibrio che la normativa vigente è assolutamente inidonea a garantire. Droghe: sicurezza stradale; mancano kit antidroga ed etilometri di Vincenzo Donvito (Presidente Associazione per i Diritti di Utenti e Consumatori)
Notiziario Aduc, 22 agosto 2007
Purtroppo le conferme sulla disastrosa gestione della sicurezza stradale continuano ad arrivare in modo agghiacciante, nonostante gli show agostani dell’incapace ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, che, per far capire quanto è bravo ai suoi fan (i cittadini comuni mortali non ci cascano più), ha fatto anche approvare un inutile quanto dannoso decreto legge in sostituzione della legge ordinaria che la Camera stava dibattendo. La novità di oggi la si deve al quotidiano "Italia Oggi" che riporta le dichiarazioni del segretario aggiunto del sindacato di polizia Coisp, Gaetano Barrella, in merito ai kit antidroga per la stradale: "Li ho visti soltanto in televisione, quando hanno mostrato la valigetta e tutto l’occorrente alle telecamere. Ma noi della stradale quei kit non li abbiamo". Alcuni esemplari furono consegnati ad alcune volanti "ma furono ritirati in fretta perché non c’era l’omologazione, con la promessa che ci sarebbero stati consegnati presto i nuovi kit a norma di legge. Ma finora a quanto mi risulta non abbiamo kit per controlli antidroga". Così, inoltre, è anche per gli etilometri. Inoltre, anche se questi kit ci fossero, per ritirare la patente occorre entro 10 giorni il responso dei gabinetti scientifici di polizia e carabinieri... ma i laboratori hanno terminato i reagenti e "ci dicono che non ci sono soldi per acquistarli". Il decreto del ministro Bianchi è entrato in vigore lo scorso 4 agosto proprio per far fronte all’emergenza del periodo in cui strade e autostrade si intasano di autisti vacanzieri e quindi anche meno esperti e più pericolosi. Il periodo di grande mobilità sta per passare e la situazione è quella che abbiamo letto nelle parole del segretario Barrella. Il ministro Bianchi probabilmente sarà ancora in vacanza e si starà preparando per presenziare alle varie feste di partito che prendono il via in questi giorni, dove parlerà a uomini e donne di partito, cioè altro rispetto al mondo di coloro che subiscono i danni della sua pericolosa presenza in questo delicatissimo dicastero. Lo ribadiamo, il decreto non serviva, era sufficiente aumentare le dotazioni di kit antidroga ed etilometri, nonché aumentare il personale sulle strade, per garantire una presenza 24 ore su 24. Le drammatiche parole di Gaetano Barrella, purtroppo ci danno ragione. Il ministro ha preferito spendere i soldi per norme inutili invece di indirizzarli nella prevenzione. Alessandro Bianchi ha preferito dedicarsi alla conta delle vittime piuttosto che a scoraggiare i comportamenti delinquenziali di alcuni guidatori. Qualcuno dirà: ma le sanzioni triplicate dovrebbero fare paura... è così da anni e non funziona, insistere vuol dire solo essere incompetenti e complici degli assassini sulle strade. Ministro Bianchi ci liberi della su pericolosa presenza. Droghe: il sequestro dell’automobile, ma solo in casi estremi
Il Messaggero, 22 agosto 2007
Ubriachi al volante? Il sequestro dell’auto va disposto solo come misura estrema, ovvero quando non è possibile impedire altrimenti a chi viene colto in fallo la guida del veicolo. È quanto precisa una circolare del Viminale inviata a prefetture e questure, dopo che nei primi giorni di applicazione del decreto legge del 3 agosto che inasprisce le pene del Codice della strada, ci sono stati ripetuti casi di sequestri annullati da parte di magistrati. La circolare si riferisce, oltre che al reato di guida in stato di ebbrezza, anche a quelli di guida senza patente e sotto l’effetto di droghe. Ebbene, rileva il documento firmato dal direttore centrale della Polizia stradale, ferroviaria, delle comunicazioni e per i reparti speciali della polizia di Stato, prefetto Luciano Rosini, il sequestro preventivo del veicolo "non deve essere disposto in ogni caso di accertamento dei reati", ma solo quando ricorrono i presupposti richiesti dall’articolo 321 del Codice di procedura penale. Cioè, quando "vi sia effettiva necessità di impedire che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati". In altre parole, l’auto va sequestrata quando è l’unico modo per impedire che chi ha commesso il reato possa rimettersi al volante. Il sequestro preventivo non è invece necessario - indica il provvedimento - se il veicolo può essere consegnato ad un’altra persona in grado di guidarlo, presente a bordo oppure immediatamente reperibile. E neanche se il trasgressore, a sue spese, sia in grado di far intervenire un mezzo di soccorso idoneo al trasporto dell’auto presso la propria residenza. Insomma, puntualizza la circolare, il sequestro del veicolo "deve essere considerato una misura estrema da adottare, ove ne ricorrano i presupposti e nel rispetto delle condizioni previste dall’art. 321 del Codice di procedura penale, solo quando sia stato inutilmente esperito ogni altro tentativo di impedire al contravventore la conduzione del veicolo stesso". Brasile: ecco il piano Lula contro il crimine nelle favelas
Liberazione, 22 agosto 2007
Si aspetta critiche pesanti, provenienti anche e soprattutto dall’interno del suo governo, per aver dato il via libera a una nuova iniezione di agenti armati fino ai denti da spedire nelle turbolente favelas. I poliziotti brasiliani sono infatti considerati da molti osservatori l’altra faccia del potere dei narcos, un passaggio obbligato per svariati traffici. Loro gestiscono parte dell’industria della droga, loro uccidono a sangue freddo, loro sono l’anti-Stato. Usarli contro i narcos è un rimedio omeopatico di scarsa efficacia, si lamentano alcuni. Ma la maggioranza dei brasiliani chiede sicurezza e aumentare la dose di poliziotti visibili assicura un effetto placebo perlomeno sulla rabbia delle classi medie delle metropoli, mai state tenere con il presidente (da decenni la il volto della sinistra brasiliana). Il ministro della giustizia Tarso Genro, l’uomo che fece di Porto Alegre la Mecca dei progressisti di mezzo mondo (l’esperimento non ha fatto una bella fine) ha detto che lascerà a Rio alcuni contingenti della forza nazionale di sicurezza mandati a vegliare sui Giochi panamericani di luglio. Almeno mille agenti in più sono previsti per il prossimo anno. Si tratta di un tentativo di opporre una resistenza visibile alle ondate di violenza che spazzano le favelas tutti i giorni e qualche volta arrivano a lambire anche la spiaggia di Ipanema, la Rio da cartolina da vendere ai turisti. È già successo a fine dicembre, quando ventimila agenti furono chiamati a vegliare sul Capodanno più famoso del mondo dopo la guerra annunciata dai narcos con quindici attacchi consecutivi e diciotto morti in poche ore. Decine di persone armate di fucili e granate scesero dalle favelas: cinque autobus pieni di gente incendiati e otto commissariati assaltati con armi da guerra. Il timore era che la mattinata di terrore potesse essere il preludio di una battaglia lunga e cruenta, come lo fu quella che nel maggio del 2006 mise in ginocchio per una settimana São Paulo, capitale industriale e finanziaria del Brasile. Anche allora la guerra cominciò con due autobus bruciati. A mettere a ferro e fuoco São Paulo fu il Primo comando della capitale (Pcc), un’organizzazione di detenuti delle carceri di massima sicurezza gestita politicamente dai capi dei narcotrafficanti. A Rio si tratta invece del Comando Vermelho (Comando rosso), una struttura gemella al Pcc che controlla e gestisce il traffico di droga. Le autorità dissero che gli attacchi erano il segnale dei narcos al nuovo governatore Sergio Cabral, eletto ad ottobre, che aveva promesso linea dura contro il narcotraffico e aveva chiesto a Lula soldati lungo le strade dello Stato e nei punti caldi della città. Da dichiarazioni di capi narcos fatte filtrare dalle favelas si deduceva che la battaglia era stata la risposta alle milizie paramilitari installatesi nelle baraccopoli, un nuovo esercito paramilitare in competizione diretta con il vecchio Comando Vermelho. Diversi analisti brasiliani sospettavano di trattasse invece del solito braccio di ferro della mala contro i trasferimenti dei capi da un penitenziario all’altro. Altra giornata di guerra in aprile. Mentre governo centrale e governatore discutevano sull’invio dell’esercito tredici persone sono morte ammazzate in una favela del centro, vicino al Sambodromo, quando un gruppo di spacciatori ha tentato di occupare i posti di vendita al dettaglio di una banda rivale. L’assalto è avvenuto dopo una strana sparatoria tra polizia e narcos finita con sei cadaveri. Giornata simile a fine luglio: venti morti in un’unica città satellite in un solo pomeriggio.
|