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Ragusa: detenuto nigeriano muore dopo violenta lite in cella
La Sicilia, 21 agosto 2007
All’infermeria della Casa Circondariale di Contrada Pendente è morto ieri mattina all’alba, un detenuto, il nigeriano Iwala Hycimth, 37 anni, per le conseguenze di una violenta lite, il pomeriggio di domenica, con un compagno di cella, il ghanese Amadou Dampha, 19 anni. La vittima era stata medicata all’Ospedale Civile, ma aveva rifiutato il ricovero e a tarda sera era ritornato in carcere. Per disposizione del pm Monica Monego stamane verrà eseguita l’autopsia. Questa volta la morte si è materializzata al di là delle sbarre della casa circondariale di contrada Pendente nel capoluogo ibleo, incredibile epilogo di una lite fra due extracomunitari di colore, scoppiata nel tardo pomeriggio di domenica, testimoni altri due detenuti ospiti della stessa cella del braccio "giudiziario". In comune la vittima, il nigeriano Iwala Hyacimth di 37 anni, e l’aggressore, il ghanese Amadou Dampha di 19 anni, avevano il tipo di espiazione di pena: condanne per spaccio, rimediate rispettivamente dai giudici di Roma e Milano. Erano arrivati da poco al carcere di Ragusa. Non avevano mai dato fastidio. Domenica pomeriggio il violento litigio. Iwala Hyacimth, che aveva la peggio, veniva trasferito in Ospedale, al Civile. Dai sanitari del Pronto soccorso gli venivano curate ferite varie, veniva sottoposto ai controlli di routine, e veniva ricoverato, piantonato, in Medicina, con una prognosi di 20 giorni. Ma poco prima della mezzanotte l’extracomunitario esternava la decisione di rientrare in carcere. Le sue condizioni sembravano non preoccupanti. Firmava il foglio di dimissione e ritornava in ambulanza nuovamente in contrada Pendente. Ieri mattina, intorno alle 6.30, l’inatteso epilogo. Iwala Hyacimth, dopo una crisi violenta, spirava. Veniva informata la Procura della Repubblica nella persona del sostituto, dottoressa Monica Monego, che avviava le indagini del caso, fissando per stamane (dottor Vincenzo Cilia), all’Ompa, l’autopsia. Per Amadou Ampha, posto in cella di isolamento, scattava il gravissimo reato di omicidio volontario. È assistito, di fiducia, dall’avv. Daniele Scrofani. Oggi o domani l’interrogatorio del gip. Dovrà essere ricostruita la tragica lite. Saranno importanti le testimonianze degli altri due detenuti testimoni. Giustizia: il Sappe chiede un incontro urgente con Mastella
Ansa, 21 agosto 2007
Un incontro urgente con il Ministro della Giustizia Clemente Mastella per esaminare le prospettive future del sistema penitenziario e il nuovo ruolo del Corpo di Polizia Penitenziaria alla luce delle modifiche dei Codici penale e di procedura penale ipotizzate dalle Commissioni Riccio e Pisapia. A chiederlo al Ministro Guardasigilli per i primi giorni di settembre è la Segreteria Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’Organizzazione più rappresentativa della Categoria con 12mila iscritti, che intende confrontarsi con il responsabile di via Arenula sui problemi della Categoria. Spiega Donato Capece, segretario generale Sappe: "Da quanto ci è dato sapere, i lavori delle Commissioni preposte alla revisioni dei Codici penale e di procedura penale - presiedute da qualificati giuristi quali l’ex parlamentare Giuliano Pisapia e il professore Giuseppe Riccio - sono ormai praticamente conclusi. Tra le novità più sostanziali, sembrerebbe caratterizzarsi un ampliamento delle misure alternative alla detenzione, aspetto questo più volte sostenuto e condiviso dal primo Sindacato del Corpo anche in occasione dell’approvazione del provvedimento di indulto di un anno fa quando chiedemmo che al provvedimento di clemenza facessero seguito interventi strutturali sull’esecuzione penale. In tale contesto è importante capire concretamente quale sarà il ruolo della Polizia Penitenziaria, anche alla luce della prossima sperimentazione di inserimento di Personale del Corpo negli Uffici per l’esecuzione penale esterna. Noi sosteniamo con convinzione e fermezza che la Polizia Penitenziaria debba svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova perché se la pena evolve verso soluzioni diverse da quella detentiva anche la Polizia Penitenziaria dovrà spostare le sue competenze al di là delle mura del carcere. Il controllo sulle pene eseguite all’esterno, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene." La Segreteria Generale del Sappe auspica che il ministro della Giustizia Clemente Mastella calendarizzi entro la metà del prossimo mese di settembre un incontro con il Sindacato "anche per affrontare" conclude Capece "un altro necessario e non più rinviabile provvedimento che sollecitiamo da anni, quale la definizione delle piante organiche del Corpo di Polizia Penitenziaria poiché quelle attuali non sono più rispondenti alla realtà." Giustizia: in forte calo le confische dei beni ai boss mafiosi
L’Unità, 21 agosto 2007
Un boss mette in conto la galera. Ma se c’è una cosa che non riesce proprio a tollerare, è la confisca della sua ricchezza, dei suoi immobili, della sua "roba". In commissione Antimafia stanno mettendo a punto una normativa che permetterà di sequestrare i beni frutto di traffici e illeciti, per metterli a disposizione della collettività, di associazioni e cooperative. "Un’apposita Agenzia per i beni confiscati - dice Francesco Forgione, presidente della commissione Antimafia - che andrà al superamento dell’attuale sistema che prevede l’assorbimento nel demanio dei beni sequestrati". I numeri mettono a fuoco la valenza ma anche le debolezze di uno strumento, la legge 109, che ha permesso di "liberare" le ricchezze della criminalità organizzata. Fu varata nel ‘96 e mostrò subito tutta la sua forza, ma poi dal 2001 - quando vennero messe a segno 1.400 confische - qualcosa sembra essersi inceppato. Nel 2005 furono 130 le confische, un numero "magro" rispetto alla imponente mole di lavoro degli investigatori. Le indagini di diverse Procure, in questi anni hanno portato a galla immobili e aziende che - tramite una rete di prestanome - erano riconducibili alle diverse consorterie criminali. Mafia certo, ma anche ‘ndrangheta, camorra, Sacra corona unita, per arrivare alle proprietà della disciolta Banda della Magliana a Roma. Secondo i dati della Direzione investigativa antimafia, tra il 1992 e il 2006 alle mafie sono stati sequestrati beni per 4,3 miliardi, mentre il valore delle confische - cioè i beni dati in concessione, a titolo gratuito a comunità, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, comunità terapeutiche e centri di recupero - è stato di 744 milioni. A "Libera", il network che raccoglie oltre 1.200 associazioni, dicono che si tratta di un conteggio in difetto: "In realtà il patrimonio sottratto al crimine organizzato vale molto di più". Ma numeri a parte, dicono dall’associazione che si batte contro le mafie, sono anche le procedure macchinose ad appesantire quel passaggio dal sequestro alla confisca. Luciano Violante presidente della commissione Affari costituzionali alla Camera, faceva notare ieri su l’Unità: "Le leggi e le istituzioni di cui oggi disponiamo sono state elaborate tra la fine degli anni ottanta e novanta su misura della mafia siciliana". Dal sequestro del bene appartenuto al mafioso, all’assegnazione di quello stesso bene ad un’associazione, passano circa dieci anni. "È intollerabile questo lasso di tempo - dice Forgione -. L’immobile mantiene il suo valore simbolico la carica di intimidazione sulla realtà". In altre parole, finché nessuno tocca la villa del boss, la sua azienda o il suo parco macchine, la percezione tra le persone che assistono è che il boss è sempre lui. Ciò che renderà aggiornata la 109, sarà proprio l’aggressione alle ricchezze degli uomini delle cosche. Il grimaldello sarà il concetto di "pericolosità sociale dei beni" che servirà a scardinare tutta quella rete di norme e impedimenti che a oggi permette ai malavitosi di mantenere fino in Cassazione la proprietà dei beni. Il "nuovo" sequestro dovrà seguire un suo particolare iter svincolato da ciò che avviene nel processo penale. E se l’imputato risulterà innocente, fa notare Forgione "dovrà comunque dimostrare la provenienza di quelle ricchezze e stiamo parlando di persone che normalmente non dichiarano nulla al fisco". Il problema è che mettere i sigilli a un’azienda in odor di mafia presenta dei risvolti non secondari. A cominciare dai lavoratori che si ritrovano per strada, ai fornitori che smettono di fornire materie prime, ai distributori che non consegnano più la merce. In altre parole l’azienda si avvia al fallimento. Rimanere sul mercato non è cosa di poco conto soprattutto se si aggiunge che le banche di fronte a una situazione del genere spesso chiudono i cordoni della borsa. Sulmona: mostra di pittura "Per un cammino di speranza"
Ansa, 21 agosto 2007
Il Comune di Magliano dei Marsi in collaborazione con l’Associazione "Liberi per Liberare" organizza la Mostra di Pittura "Per un cammino di speranza". Nella mostra verranno esposti quadri realizzati dai detenuti della casa circondariale di Sulmona che per la prima volta espongono le loro opere nella cittadina marsicana. I dipinti realizzati dai reclusi della casa circondariale sono di notevole spessore artistico, infatti molte opere hanno già ricevuto premi internazionali. L’inaugurazione della mostra avrà luogo il giorno 22 Agosto alle ore 18.40 presso la sala consiliare del Comune di Magliano dei Marsi. Saranno presenti, ospitati dal Sindaco Gianfranco Iacoboni, numerose autorità appartenenti al mondo della giustizia e non. La mostra sarà aperta al pubblico dal 22 al 31 Agosto. L’iniziativa rientra nell’ambito del programma cultura e solidarietà del Comune di Magliano che già da anni è impegnato nella raccolta fondi con attività sempre rivolte ai più bisognosi. Reggio Emilia: disabile gira armato per paura di aggressioni
Ansa, 21 agosto 2007
Un disabile, dopo una caduta dalla carrozzella, è stato portato al pronto soccorso dove ha rivelato di essere armato e di portare sempre con se una pistola, nel timore di essere aggredito per la strada. In effetti, in una tasca del mezzo di locomozione dell’uomo di 48 anni, residente a Correggio, i carabinieri hanno trovato una pistola Beretta calibro 6,35 e, in una successiva perquisizione domiciliare, un revolver Sant’Etiene calibro 8, pure illegalmente detenuto. Le armi sono state sequestrate e l’uomo denunciato. Diritti: gli zingari, sempre colpevoli anche quando sono vittime di Mercedes Frias (Deputato di Rifondazione Comunista)
Liberazione, 21 agosto 2007
Gli zingari, si sa, sono colpevoli anche quando sono vittime. Anche il loro essere vittima è una colpa, la loro tragedia non interroga la società, ma rafforza "l’identità collettiva", quella costruita per differenza: i loro vizi fanno sentire tutti un po’ più a posto, per differenza appunto. La tragedia di Livorno ci offre un’immagine limpida quanto drammatica dello stato di degrado culturale a tutti i livelli di questa società. Degrado che diventa azione politica e crea effetti materiali: l’incapacità di indignarsi di fronte a eventi di tale portata, ma ancora di più l’incapacità di accettare vie di uscita dall’emarginazione a partire dal riconoscimento dei diritti, come elemento inalienabile della condizione stessa di persona, dell’essere umano. Meschinità. Pregiudizi. Dichiarazioni politiche che sfiorano appena e in modo marginale il problema di fondo, come l’annuncio di un disegno di legge per punire "gli sfruttatori di minorenni". Lo scenario non lascia spazio a molte interpretazioni: quattro bambini morti di morte atroce, carbonizzati. I genitori in galera, per abbandono di minore seguito da morte; dei commercianti che temono il fallimento: per una sera d’estate devono rinunciare ai tavolini in piazza. Se fosse piovuto, avrebbero potuto farsi una ragione del mancato plus-incasso. Ma per quattro zingarelli morti, bambini, ma sempre zingari e per di più incustoditi! Per loro non era proprio il caso di rischiare qualche euro in meno. Hanno gridato allo scandalo, come reazione all’apprezzabile iniziativa del sindaco di Livorno di dichiarare il lutto cittadino. I genitori hanno lasciato soli i bimbi. Questo è diventato il problema. Per questo, e non perché sospettati di essere gli autori del rogo, per questo sono in carcere. Le inumane condizioni in cui erano costretti a sopravvivere, fuori, dove non potevano essere visti, lontani dalle possibilità di arrivare a qualche briciola dell’opulente tavola di tutti, o quasi tutti; quelle condizioni sono un dettaglio di contorno, e poi riguarda loro. Se la cultura del bando agli indesiderati non fosse prevalsa, in galera non sarebbero finiti i genitori, o perlomeno non soltanto loro. È così difficile assumere che anche i genitori sono delle vittime? Vittime delle stesse condizioni d’abbandono e di esclusione che hanno provocato la morte dei loro bambini? Ci troviamo a fare conto sistematicamente con i pregiudizi, con visioni disumanizzanti che hanno degli effetti sulle persone. Cittadini e cittadine, bambine, uomini, donne, messe al bando proprio come nel "Bando sopra i Zingani e le Zingane del dì 3 novembre 1547 ab incarnatione": "L’illustrissimo ed eccellentissimo Signore il Sig. Duca di Fiorenza e per Sua Eccellentia Illustrissima li Magnifici Signori Otto di Guardia e Balia della città, dichiarava, considerando di quanto danno siano stati per il passato e di presente ancora siano i Zingani e Zingane che si sono alloggiati e alloggiano appresso alla città di Fiorenza... quanto sinistro con li loro cattivi portamenti arrechino li cittadini artifici e contadini... che infra mese prossimo futuro da oggi si debbino, ogni eccezione rimossa, avere sgombro... di Fiorenza sotto pena di essere fatti prigioni e mandati in galera... a ciascuno di detti Zingani come si è rivocato et rivoca per virtù della presente ogni patente, salvacondotto, et autorità che egli avessino insino a questo presente giorno". La non neutralità delle leggi, della loro applicazione, dei soggetti che dalle proprie diverse postazioni hanno il compito di farle rispettare, risulta evidente per alcune categorie di persone, gli ultimi. Basti pensare per esempio alla sovra rappresentazione delle minoranze portatrici di differenze considerate sottrattive, nelle carceri dei paesi industrializzati. O le classi, le "razze" subalterne sono geneticamente ed intrinsecamente propense al crimine ed alla devianza, oppure la forza del pregiudizio, degli stereotipi, del razzismo supera qualsiasi normale logica del comportamento individuale e sociale. Vanifica persino le leggi stesse, perché ad applicarle sono persone più o meno consapevoli del carico ideologico delle loro azioni politiche o professionali. Basti ricordare le motivazioni della sentenza di condanna ad un cittadino marocchino per maltrattamenti alla figlia da parte del giudice milanese Montingelli: "Tra l’altro, non par temerario sottolineare che, quand’anche l’imputato avesse fornito i nomi dei testi", la loro deposizione non l’avrebbe potuto scagionare, "tenuto conto della loro probabile appartenenza a un ambiente culturale i cui membri spesso non hanno modo di distinguersi per inclinazione al rispetto delle leggi italiane e degli obblighi che ne scaturiscono, quale quello di dire, come testi, il vero dinanzi ai Giudici della Repubblica". In un’intervista al Corsera del 1 maggio 2005, interpellato perché ne dia l’interpretazione autentica, afferma: "L’ho scritto e me ne assumo la piena responsabilità", e ribadisce: "La mia pluriennale esperienza di contatto con persone appartenenti a questa area culturale mi induce a ipotizzare che in loro non ci sia grande rispetto del nostro ordinamento". In materia di fermo di polizia, per esempio, occorre partire da quello che in Gran Bretagna chiamano "l’ethnic profiling", che tuttavia non finisce con il fermo, accompagna sempre la vita e i percorsi di quelle persone che Eduardo Galeano chiama "los ningunos", "los ninguneados" (i nessuno). Facendo un esercizio astratto soltanto in apparenza, risulterà evidente quali saranno le dinamiche e l’epilogo di un fermo di polizia ad un cittadino immigrato o un cittadino rom operato da un uomo o da una donna in divisa, persone con convinzioni xenofobe e razziste, insignite del potere di un’uniforme: il guardiano dell’ordine, ma ad agire ci sarà, c’è la persona, con il suo pensiero e col suo carico ideologico. La formazione alla base di questi soggetti dovrebbe contribuire a far prevalere le ragioni del ruolo che si trovano a svolgere, ma è talmente grande l’asimmetria, e troppo spesso prevale la forza del pregiudizio. Lo stesso discorso per tutti coloro che hanno potere sulla vita degli altri: dall’assistente sociale al magistrato, passando per le maestre, il vigile urbano, l’impiegato dell’ufficio anagrafe. E così troviamo storie di bambini rom, scolarizzati, che possono fare soltanto disegni monocromatici perché non è loro permesso di usare tutti i barattoli dei colori. Devono essere puniti perché i loro genitori non hanno dato il loro contributo alla cassa scolastica. Succede. E succede proprio nei comuni che dicono di spendere significative cifre per "l’integrazione dei rom e dei sinti". Morte, carcere, sospetti, vita da emarginati in un paese nel quale ad un vicepresidente del Senato è permesso di dichiarare che i neri sono carini mentre sono piccoli, ma che il problema è che poi crescono. In un paese con un governo di centro sinistra che, in barba al proprio programma, si mostra reticente ad accogliere una risoluzione che prevede di aderire alla Convenzione Onu "per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie", adducendo che non si possono equiparare i diritti tra persone regolari o irregolari. Reticente a riconoscere una soglia minima di diritti, come se accedere ad un pasto o all’acqua potabile, disporre di un tetto, potersi riparare dal freddo, non giacere nell’immondizia in mezzo ai topi, fosse un grande privilegio. Con una tale cultura è logico che le colpe siano sempre delle vittime, degli esclusi, dei genitori di Eva, Danchiu, Dengi, Lenuca. Rinchiusi in galera, non importa che a morire siano stati i loro bimbi, indifesi quanto loro stessi. Senza nessuna possibilità di tutela giuridica, di avere accesso effettivo e di potersi appellare concretamente alla normativa esistente, perché li protegga contro le discriminazioni, le offese, gli insulti, le violenze. E tutto questo nella patria storica del diritto. Diritti: la difficile condizione degli omosessuali nell’Islam di Tahar Ben Jelloun (Scrittore e giornalista)
Corriere della Sera, 21 agosto 2007
Nel mondo arabo l’omosessualità è vissuta come un peccato, una colpa da nascondere, e non da esibire pubblicamente. L’Europa ha conosciuto condizioni identiche, anche se oggi la rivendicazione gay è ormai corrente, alla Tv, nella pubblicità così come in molti libri e testimonianze che affermano chiaramente quest’appartenenza sessuale. L’Islam, al pari delle altre due religioni monoteiste, vieta l’omosessualità con fermezza. Ma l’ipocrisia sociale è dovunque la stessa: fate come vi pare, purché non se ne sappia nulla. Qualche anno fa la polizia egiziana arrestò i passeggeri di una chiatta sul Nilo: tutti uomini, riuniti lì per una festa di compleanno. Denunciati da un vicino per devianza sessuale, furono perseguiti per offesa alla morale e turbativa dell’ordine pubblico, e subirono condanne severe; solo alcuni riuscirono a salvarsi grazie una mobilitazione internazionale. In Marocco, nell’estate 2002, alcuni omosessuali furono arrestati per disturbo alla quiete notturna, ma rilasciati alcuni giorni dopo senza che la pubblica accusa avviasse un procedimento a loro carico. Il caso è stato interpretato da alcuni come un segno di tolleranza, da altri come un incoraggiamento a esibire in pubblico la propria differenza sessuale. Come già è avvenuto in Europa, sarà la letteratura ad affrontare questo tabù, innanzitutto l’autobiografia di Mohamed Choukri, pubblicata in Francia col titolo "Le pain nu" (Il pane nudo), che ho tradotto nel 1981. Quest’opera ha avuto un successo mondiale, e ne è stato tratto un film. Non è un libro sull’omosessualità, ma il protagonista parla dei giovani poveri che si prostituiscono a clienti stranieri per non morire di fame. All’inizio degli anni 1990, un giovane marocchino che si firma Rachid O. pubblica, per i tipi di Gallimard, una testimonianza diretta della propria vita di omosessuale. Poi, nel 2005 Abdellah Taya, nato a Rabatnel 1973, dà alle stampe il racconto "Le Rouge Tar-bouche", in cui parla della sua omosessualità senza giri di parole; e la rivendica a pieno titolo nel romanzo "L’armée du Salut" (L’esercito della Salvezza) pubblicato un anno dopo da Edition du Seuil (Parigi). La stampa marocchina se ne occupa per giudicarlo in termini per lo più spregiativi, scrivendo ad esempio: "Si è prostituito per piacere all’Occidente"; oppure: "A parlare non è lui, ma il suo posteriore"; o ancora: "Lo pubblicano e ne parlano solo perché è omosessuale", etc. Nel giugno 2007 il settimanale marocchino "Tel quel" ha dedicato la sua copertina e un dossier di sette pagine a questo scrittore, che ne ha approfittato per denunciare l’ipocrisia di chi tollera l’omosessualità, pur considerandola una malattia o una colpa. "In Marocco, ha detto, la trasgressione è pratica quotidiana, ma viene taciuta per salvare le apparenze". Abdellah Taya si è esiliato in Europa per timore di essere aggredito fisicamente da qualche fanatico. Sua madre aveva appreso con sgomento che il figlio non si sarebbe mai sposato, né mai le avrebbe dato dei nipotini; era affranta per la vergogna e il timore dei commenti di parenti e vicini. Ma Abdellah Taya aveva scelto, come ha detto lui stesso, "la via della libertà" e doveva "percorrerla fino in fondo". Gli omosessuali del mondo arabo hanno incominciato a organizzarsi nei paesi d’immigrazione. In Francia esistono ad esempio varie associazioni di omosessuali e di lesbiche di origine magrebina. Ma il fatto nuovo è l’evoluzione delle mentalità in Marocco, dove a poco a poco si incomincia a trovare il coraggio di parlare di questi "devianti sessuali". "Kif Kif" (espressione che significa "fa lo stesso") è un’associazione marocchina che non nasconde di difendere la differenza sessuale. Il bestseller della letteratura araba di questi ultimi anni, Palazzo Yacoubian (Feltrinelli), racconta tra l’altro la vita e le vicissitudini di un intellettuale omosessuale e occidentalizzato, che finirà assassinato da un fanatico. Tutto il cinema dell’egiziano Youssef Chahine è una difesa di questa differenza, e benché la rappresenti a modo suo, è chiaro a tutti che si tratta dell’omosessualità; in un suo film compare anche un contadino tentato dalla zoofilia. Tuttavia nel mondo arabo non si è ancora arrivati a organizzare dibattiti televisivi su questo problema. L’evoluzione delle mentalità è lenta. Dal canto loro, gli islamisti marocchini conducono una campagna contro il "turismo sessuale", in particolare nei confronti degli europei che vengono in Marocco in cerca di ragazzi. A Marrakech vi sono stati episodi tragici di questo tipo, e alcuni omosessuali europei sono stati incriminati per pedofilia. Il Marocco ufficiale sta invece portando avanti una politica di grande apertura verso il turismo, pur mantenendo la vigilanza per evitare che questo Paese diventi un "paradiso del vizio". Diritti: Padova; da regione 130mila euro per i senza dimora
Il Mattino, 21 agosto 2007
Un progetto è stato messo a punto dal Comune, ma ha coinvolto anche altri enti pubblici e il mondo del volontariato. Si chiama "Fil rouge" ed è dedicato ai senza fissa dimora. Ha ottenuto il contributo della Regione: la giunta di Venezia ha assegnato, su proposta dell’assessore alle politiche sociali Stefano Valdegamberi, un finanziamento di 130 mila euro. Il progetto di palazzo Moroni punta a integrare, in vario modo, circa 300 senza fissa dimora. La Regione è stata convinta anche dalla "sinergia" con Provincia e Usl che affiancano il Comune nella gestione delle iniziative che vedranno protagoniste anche le cooperative sociali. "L’azione su Padova - spiega l’assessore regionale Valdegamberi - si inscrive in un piano più generale, regionale, di potenziamento dei servizi territoriali destinati alle oltre 1.200 persone che, nel Veneto, versano in situazione di povertà estrema e senza fissa dimora per poterli indirizzare a un reinserimento sociale, di valorizzazione di una rete di protezione sociale flessibile rispetto ai bisogni che cambiano e che coordini al massimo le risorse umane ed economiche a disposizione del territorio". Il progetto di cui è capofila il Comune coinvolge l’Amministrazione provinciale, l’Azienda Usl 16, cooperative sociali ed associazioni religiose. L’iniziativa prevede accordi e convenzioni per realizzare lavoro di strada, attività d’accoglienza, ascolto e accompagnamento, progetti personalizzati e inserimento lavorativo. Il provvedimento regionale è previsto dalla legge 328 del 2000, legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, che prevede, tra l’altro, interventi urgenti per le situazioni di povertà estrema con contributi che le Regioni assegnano ai Comuni capoluogo del Veneto e alle Unioni tra i Comuni (con oltre 60 mila abitanti) che abbiano presentato alla Regione progetti nel settore. "La Regione Veneto - afferma Valdegamberi - dedica da anni un’attenzione particolare alla conoscenza dei contesti di povertà estrema e delle condizioni di vita delle persone senza dimora nel nostro territorio che è comunque caratterizzato, per tradizione e costume, per cultura e amore della solidarietà, da medie molto più basse di quelle nazionali". Droghe: polizia stradale sprovvista di "kit" anti-stupefacenti
Italia Oggi, 21 agosto 2007
Era imbottito di droga quando il 13 agosto scorso ad altissima velocità piombò nel destino di una famiglia casertana uccidendo una bambina di tre mesi. E imbottiti di sostanze stupefacenti erano molti di coloro che al volante hanno seminato sangue e morte sulle strade delle vacanze. Ma se per qualche forma di pietà il destino avesse voluto sospendere la sua trama in tempo, nulla o poco forse sì sarebbe potuto fare. Perché contro coloro che si mettono alla guida dopo avere assunto micidiali cocktail di droga la polizia stradale può fare poco. Anzi quasi nulla. Perché degli stick antri droga, tanto sbandierati dal governo nei giorni caldi dell’orrore per le stragi sull’asfalto, non c’è traccia. "Io non ne vedo", dice Gaetano Barretta, segretario aggiunto del Coisp, sindacato di polizia. Lui è della stradale e se dice che i kit non ci sono viene da credergli. "Li ho visti soltanto in televisione" quando hanno mostrato la valigetta e tutto l’occorrente alle telecamere. Ma noi della stradale quei kit non li abbiamo", dichiara a Italia Oggi. Qualche esemplare, in realtà, fu consegnato al personale delle volanti impegnati nei pat-tugliamenti di strade e autostrade, "ma furono ritirati in fretta, perché non c’era l’omologazione, con la promessa che ci sarebbe stati consegnati presto i nuovi kit a norma di legge. Ma finora a quanto mi risulta non abbiamo kit per i controlli antidroga". Come gli etilometri per controllare il tasso alcolico nel sangue, adesso dunque anche i kit antidroga mancano all’appello. E non è roba da poco, visto che la sicurezza stradale è diventata in questi giorni una vera emergenza nazionale con vittime e tragedia che quotidianamente aggiornano il bollettino di guerra. Il "kit" altro non è che un nastrino che viene applicato sui denti catturando le sostanze stupefacenti eventualmente presenti, poi il contatto con un reagente dà il responso. "Certo, per far scattare sanzioni come previsto dalla legge il campione deve essere spedito nei laboratori specializzati, ma come prima forma di prevenzione sarebbe utilissima", aggiunge il comandante Barrella. Sarebbe, appunto, perché sembra che l’unico esemplare di kit antidroga esistente in Italia sia quello utilizzato dalle Jene per i famosi test ai parlamentari tanto contestati a inizio legislatura. Oggi anche solo quell’unico esemplare servirebbe a salvare vite umane. "Non solo questi kit non ci sono, ma non ho sentito nessuno dell’amministrazione centrale dichiarare che presto saranno acquistati e consegnati alle volanti". Eppure si parla tanto di prevenzione: se una birra di troppo fa una strage, figurarsi un cocktail di pasticche e sostanze proibite. Ma quella del kit non è l’unica arma spuntata in possesso della polizia stradale" alla quale pure sì appella il governo per la sicurezza stradale. Anche la legge sulla sicurezza stradale, varata di recente da palazzo Chigi, a giudizio della Polstrada rischia di essere un buon provvedimento soltanto sulla carta. L’articolo 75 prevede che per ritirare la patente di un automobilista trovato in possesso di sostanze stupefacenti bisogna attendere il responso dei gabinetti scientifici di polizia e carabinieri: la risposta deve avvenire al massimo entro 10 giorni. "Peccato però che i laboratori hanno terminato i reagenti e ci dicono che non ci sono soldi per acquistarli". E così anche il sequestro della patente per possesso di sostanze stupefacenti resta un miraggio. Intanto il destino ubriaco e drogato sta tramando un nuovo disegno di morte da qualche parte d’Italia. Droghe: arresto dei guidatori drogati, le Procure si dividono
Corriere del Veneto, 21 agosto 2007
Stesso reato, sanzioni diverse. Il 6 agosto, a Stra, una 44enne sotto l’effetto di cocaina travolge e uccide una coppia rumena. I carabinieri l’arrestano. Il 17 agosto una 32enne, dopo aver assunto alcol e droga, a San Bonifacio si schianta contro l’auto di due ventenni, che muoiono. Stavolta i carabinieri la denunciano. Perché due comportamenti così diversi? "Per legge l’arresto dell’investitore colpevole di omicidio colposo è previsto solo se quest’ultimo, invece di fermarsi a prestare soccorso, scappa - spiega il procuratore di Verona, Guido Papalia -. A meno che non si forzi la mano e non si riesca a dimostrare il dolo, cioè il fatto che l’automobilista si sia messo alla guida dopo aver assunto alcol o droga apposta per uccidere, ma è difficile da provare. È comunque innegabile la necessità, per il legislatore, di cambiare radicalmente le regole: il fatto di prendere in mano il volante dopo aver ingerito sostanze che alterano le condizioni generali dev’essere considerato un fatto gravissimo, un delitto, e come tale perseguito. Indipendentemente dall’eventualità che vi siano incidenti e vittime correlati". Diversa l’interpretazione del procuratore di Venezia, Vittorio Borraccetti: "Nel caso di Stra noi abbiamo optato per l’arresto in flagranza, poi convalidato dal giudice, per due motivi. Primo: l’articolo 381 del codice di procedura penale per l’omicidio colposo punito con una pena massima di 5 anni prevede l’arresto facoltativo in ragione della gravità del fatto, della pericolosità del soggetto che l’ha compiuto e del suo comportamento dopo l’evento. Secondo: il codice della strada prevede l’arresto in flagranza per l’omicidio colposo, che si può evitare se l’investitore collabora con la polizia giudiziaria. Fattispecie, quest’ultima, che non si è verificata a Stra (la donna arrestata ha inveito contro vittime e soccorritori, ndr). Insomma, per evitare l’arresto non basta evitare la fuga". "Quanto alle pene - chiude Borraccetti - si potrebbero studiare sanzioni penali aggravate per chi cagiona lesioni importanti o morte in conseguenza dell’assunzione di droga o alcol. Oppure aumentare la pena per l’omicidio colposo: ora si va dai 2 ai 5 anni, si potrebbe passare dai 5 ai 10". Ieri mattina, intanto, il dottor Giovanni Serpelloni - direttore del Centro regionale sulle tossicodipendenze - e il sostituto commissario della Polstrada Fiorenzo Sbabo sono andati da Papalia per fare fronte comune nel contrasto a queste stragi. Droghe: incidenti stradali; non tutti applicano bene le norme
Il Mattino, 21 agosto 2007
In questi giorni l’opinione pubblica è stata giustamente allertata dai media e dagli esperti (meglio tardi che mai), sulla realtà dei danni potenziali e concreti prodotti dalla guida sotto l’effetto di sostanze psico-attive, alcol in primis. Si apprende dalla stampa che in sole 24 ore la guida in stato di ebbrezza ha prodotto tre morti e alcuni feriti a Ferragosto. Le droghe illegali risultano in subordine rispetto ad una classifica che misuri il peso dei problemi, ma non si dimentichino le condotte di guida sotto l’effetto di tranquillanti legali ed altre sostanze come gli anti-allergici, largamente consumate, ma non per questo meno capaci di alterare le condizioni reattive della persona alla guida. Nel frattempo il potere legislativo ha emanato un decreto che rappresenta un deciso inasprimento di pene e sanzioni per chi guida intossicato (decreto che, è bene ricordare, deve essere convertito in legge entro il 3 ottobre). Temiamo tuttavia che la spettacolarizzazione delle sperimentazioni e le infinite gabole del nostro sistema legislativo rendano l’intera azione effimera nel medio e lungo periodo. Richiamiamo pertanto un percorso che le nostre associazioni hanno avviato da oltre un decennio, finalizzato a porre la sicurezza nella guida al centro dell’agenda politica in termini di salute pubblica, investendo sia sul campo della prevenzione, sia su quello dell’azione educativa che deve necessariamente accompagnare il sistema sanzionatorio (i dati della Polizia stradale relativi al primo semestre 2007 riportano 17.994 violazioni per guida in stato di ebbrezza a livello nazionale: quali interventi educativi sono previsti per queste persone?), sia sul potenziamento del sistema dei controllo. In assenza di una combinazione di queste azioni, ogni intenzione è destinata a fallire. La Regione Veneto recepisca la proposta del governo che impone la verifica dello stato di assenza di tossicodipendenza in alcune categorie lavorative, tra le quali gli autotrasportatori. La certificazione deve essere rilasciata dai Servizi per le tossicodipendenze (Ser.T.). La Regione e gli enti locali applichino la legge 125/2001 all’articolo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, compreso il tragitto casa-lavoro, che prevede l’esclusione del consumo di bevande alcoliche nel tempo lavorativo ed il divieto della somministrazione negli spazi lavorativi, comprese le mense. La Regione Veneto applichi il protocollo Commissioni patenti e Ser.T. predisposto dagli esperti e sospeso per ragioni poco chiare, probabilmente di tipo personalistico, che poco hanno a che fare con la sicurezza e la salute dei cittadini. I Ser.T. abbiano il coraggio di segnalare alle autorità competenti, in primis ai sindaci, primi tutori della salute e della sicurezza dei cittadini, ed alla Motorizzazione civile l’elenco dei nominativi delle persone alcol e tossicodipendenti che risultano in fase attiva dei consumi e che quindi non possono avere la licenza di guida, escludendo naturalmente coloro che sono impegnati positivamente in un programma di trattamento. Non si tratta di violazione della privacy, ma di tutela della persona e della collettività: curare una persona significa anche evitare che si produca danni o che ne crei a terzi. I criteri di valutazione di quanti sono scoperti in stato di intossicazione mentre guidano o di quanti chiedono una licenza di guida o hanno bisogno del rinnovo devono essere omogenei su tutto il territorio nazionale, e non siano limitati alle sole analisi delle urine, ma prevedano una seria valutazione specialistica da parte dei Ser.T. e dei Servizi di alcologia. L’attuale numero dei controlli sulle strade deve essere aumentato in modo esponenziale. Non c’è bisogno di ulteriori sperimentazioni per scoprire un problema noto da decenni. Si proceda sulla strada della concretezza e dell’ordinarietà. Gli strumenti ci sono, la loro mancata applicazione è la ragione di molti degli incidenti ai quali abbiamo dovuto assistere in questi giorni. Occorre mettere in campo una serie di interventi di carattere permanente per produrre un reale cambiamento di tendenza.
Franco Marcomini, membro della Società italiana di alcologia e della Consulta degli esperti sulle tossicodipendenze, ministero della Solidarietà sociale.
Tiziana Codenotti, responsabile Eurocare Italia e membro della Consulta nazionale sull’alcol e i problemi alcolcorrelati, ministero della Solidarietà sociale. Francia: il premier Sarkozy promette "lager" per i pedofili
Agi, 21 agosto 2007
Nicolas Sarkozy ha promesso un giro di vite contro i pedofili in Francia, dopo che un ex detenuto, Francis Evrard, è stato accusato di aver violentato un bambino di cinque anni poco dopo il suo rilascio. Nel suo primo giorno di lavoro dopo il rientro dalla vacanze negli Stati Uniti, il presidente ha illustrato le nuove misure restrittive: nessun sconto di pena per i pedofili che, usciti dal carcere, potranno essere inviati in ospedali ad hoc ed essere sottoposti alla castrazione chimica, se lo vorranno. "Non possiamo lasciare in libertà predatori, persone malate, che possono uccidere e distruggere la vita di bambini", ha affermato, dopo aver ricevuto all’Eliseo il padre e il nonno del bambino molestato. Secondo Sarkozy, un pedofilo recidivo "non può lasciare il carcere solo perché ha scontato la pena: i carcerati di questo tipo, al termine della detenzione, saranno esaminati da un’equipe di medici che valuterà se sono pericolosi". Coloro che non riceveranno il via libera dei medici, ha spiegato, saranno inviati in un "ospedale chiuso, dove riceveranno i trattamenti" adeguati. Le cure, come le terapie ormonali, saranno facoltative e chi non le accetterà non potrà abbandonare la struttura. Quelli che accetteranno di sottoporsi ai trattamenti potranno lasciare la clinica, me verrà loro messo un braccialetto elettronico. Le misure annunciate da Sarkozy fanno parte di un pacchetto di normative, la cui approvazione è in programma a novembre, mentre il primo ospedale per pedofili aprirà a Lione nel 2009. Non è la prima volta che Sarkozy si mostra intransigente sul tema della pedofilia. In campagna elettorale suscitarono molte polemiche alcune sue dichiarazioni sul tema: in aprile, a due settimane dal primo turno delle presidenziali, in un’intervista con il filosofo Michel Onfray, definì la pedofilia "una patologia" che si ha fin dalla nascita. Francia: Bruno; la "castrazione chimica" non è una punizione
Agi, 21 agosto 2007
"Sarkozy fa bene a parlare di castrazione chimica, ma sbaglia a presentarla come una punizione. Si tratta invece di una terapia assolutamente reversibile, che produce risultati apprezzabili e che va accettata volontariamente dal paziente, senza essere imposta. Ognuno deve essere lasciato libero di disporre del proprio corpo". È questa l’opinione dello psichiatra e criminologo Francesco Bruno, da tempo convinto assertore della possibilità di curare i pedofili con la castrazione chimica. Tra i metodi sperimentati da Bruno c’è la somministrazione del ciproterone acetato, un inibitore del testosterone. "Un metodo - puntualizza il criminologo - che ho testato su circa 50 pazienti. Nel 30% dei casi ha dato buoni risultati, negli altri è stato necessario associarlo a interventi psichiatrici. Gli effetti collaterali, comunque, sono stati sempre scarsi. Nessuno si è mai lamentato". Oltre al ciproterone, lo psichiatra ricorda l’efficacia di terapie ormonali, medicinali chimici e psicofarmaci. "Funzionano - specifica Bruno - come il metadone per i tossicodipendenti". L’idea del criminologo è molto semplice: se un pedofilo commette un crimine sessuale, oltre a essere punito dalla legge, "deve essere messo in condizione di essere aiutato. Penso sia un diritto primario del detenuto". "Non capisco perché - conclude - in carcere viene curato l’Aids o si maneggiano delicatissimi farmaci oncologici, mentre non si è disposti ad aprirsi a terapie da tre pasticche al giorno. Capisco che è un problema politico, ma ci vuole qualcuno che se ne occupi". Francia: Burani Procaccini (Fi); buona la proposta di Sarkozy
Agi, 21 agosto 2007
"Il centrosinistra si preoccupa della parola castrazione che evoca, giustamente, pratiche medievali, ma in realtà la proposta del presidente Sarkozy altro non è che un saggio rilancio della terapia ormonale di inibizione degli impulsi: il realismo ci porta a dire che è una buona proposta e che è certamente meglio del niente che circonda le iniziative di contrasto alla pedofilia". Lo afferma la senatrice Maria Burani Procaccini, responsabile famiglie e minori di Forza Italia, commentando la proposta del presidente francese di inviare i pedofili in strutture apposite per sottoporli alla castrazione chimica. "La terapia obbligatoria - aggiunge la Burani - è una cosa positiva che bisognerebbe introdurre subito: i diritti dei bambini violentati chi li tutela?". Francia: Ecpat; Sarkozy sceglie una via popolare ma inutile
Asca, 21 agosto 2007
"Fra tutte le possibili scelte di contrasto alla pedofilia, quella agitata dal presidente Sarkozy, è tra le più popolari ma anche tra le più inutili. Prova più evidente lo è il fatto che rendendo un uomo impotente, infatti, non si spegne in lui il desiderio sessuale per un bambino". Marco Scarpati, presidente italiano di Ecpat, la rete internazionale di lotta alla pedofilia e allo sfruttamento sessuale dei minori presente in oltre 60 Paesi, critica con l’Asca la posizione assunta dal presidente francese Nicolas Sarkozy che, a fronte di una nuova aggressione ad un minore da parte di un ex detenuto recidivo, ha ipotizzato misure fino alla castrazione chimica per chi si macchi di questo reato. "La terapia della castrazione chimica - continua Scarpati - è un ciclo di iniezioni che dura molti anni e che per questo è difficilmente controllabile da parte delle autorità pubbliche". Più che una punta di polemica Scarpati la mette rispetto al livello di sensibilità giudiziaria al contrasto della pedofilia che si riscontra Oltralpe: "Invece di invocare una via così semplice e a buon prezzo, verso la quale anche all’interno di Ecpat esistono posizioni diverse - continua l’esperto - meglio farebbe Sarkozy a curare un atteggiamento diverso da parte della giustizia del suo Paese che, a fronte delle numerose segnalazioni fatte dalle nostre organizzazioni di abusi commessi da cittadini francesi nel mondo, non mi risulta abbia adottato pene esemplari o sanzioni degne di nota". Per un contrasto efficace alla pedofilia, spiega Scarpati, "bisogna partire da un’educazione a una sessualità corretta nei luoghi, come le scuole, nei quali i pedofili non soltanto vanno a pescare le proprie vittime, ma crescono essi stessi. Non è un caso - rivela il presidente di Ecpat - che l’età dei pedofili negli anni si sia rapidamente abbassata, prevedendo oggi la sua fase apicale nei maschi tra i 25 e i 35 anni". Altra iniziativa efficace, "un più stretto collegamento tra le polizie, auspicato anche dall’Interpol", e anche "forme di controllo giudiziario e sociale più stringenti, l’obbligatorietà di programmi sociali di recupero, o pene accessorie inerenti il proprio problema". Misure queste, conclude Scarpati "di certo meno roboanti della castrazione ma molto più utili".
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