Rassegna Stampa 6 marzo

 

Corbelli ai detenuti: "Se qualcuno sa si muova subito"

 

Il Gazzettino, 6 marzo 2006

 

Il leader del Movimento Diritti Civili e fondatore del comitato per i diritti dei detenuti, Franco Corbelli, ha rivolto un appello a tutti i detenuti invitandoli a collaborare con gli inquirenti per la soluzione del caso del piccolo Tommaso, il bimbo rapito in provincia di Parma. Corbelli ricorda di essere da oltre 12 anni il difensore dei diritti di tutti i detenuti, di aver combattuto innumerevoli battaglie civili per il rispetto della dignità delle persone recluse.

"Nel carcere sanno chi e perché ha rapito il piccolo Tommaso. Chiedo - afferma Corbelli - che chi può e sa faccia subito qualcosa per far ritornare a casa questo bambino, in modo che lo stesso possa essere curato e salvato. Lo chiedo in particolare ai detenuti, genitori di bambini in cella, con le loro mamme, per i quali combatto da anni. Se non ci sarà collaborazione da parte del mondo del carcere per aiutare e far liberare il piccolo Tommaso non mi occuperò più delle persone detenute".

Corbelli ha chiesto al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di voler divulgare in tutte le carceri italiane il suo appello: "Mi impegno da sin d’ora, inoltre, a sostenere, nelle sedi istituzionali competenti, la richiesta di un beneficio di legge per quel detenuto che con il suo intervento e aiuto consentirà la liberazione e il ritorno a casa del bambino rapito".

 

Stati Uniti: parti in catene per molte detenute

 

Il Gazzettino, 6 marzo 2006

 

Il New York Times in un editoriale ha denunciato come "Una pratica grottescamente disumana ed è pericolosa per la salute" delle donne e dei bebé quella in uso in circa metà degli Stati degli Usa di far partorire in catene le detenute. La denuncia si basa su dati di Amnesty International Usa. Il giornale cita un caso in cui, nell’Arkansas, una donna partoriente subì danni permanenti perché un secondino si rifiutò di liberarne i movimenti, nonostante le insistenze del personale medico.

 

Salerno: una vita da volontario nel carcere

 

Il Mattino, 6 marzo 2006

 

I cancelli del carcere si aprivano regolarmente per lui due volte a settimana, per lasciar entrare un vecchietto curvo per l’età che nonostante i 92 anni continuava il suo servizio presso la casa circondariale di Fuorni, dove si era recato di recente. Dopo aver superato i 40 anni di impegno per gli altri, conquistandosi forse il record di volontario carcerario più anziano d’Italia, è morto l’altra notte il salernitano Amedeo Carotenuto, insignito della Medaglia d’Oro dal Ministero di Grazia e Giustizia. Appresa la notizia molti detenuti a Fuorni sono scoppiati in lacrime, non potendo prendere parte ai funerali pregheranno per lui dalla cella. Le esequie di Amedeo saranno celebrate oggi alle 16 nella parrocchia di S. Croce, nel suo quartiere di origine, Torrione. A concelebrare saranno il parroco, don Giovanni Masullo ed il cappellano del carcere, padre Riccardo Sommella. Ed è proprio il sacerdote al quale è affidata da oltre quattro decenni la cura spirituale dei detenuti salernitani che traccia un profilo del volontario scomparso: "Era il mio braccio destro. Una persona buona che due volte a settimana prendeva il bus per recarsi al carcere e ascoltare tutti. Ha fatto riappacificare mogli e mariti, genitori e figli, era il nonno di tutti i detenuti. Aiutava le persone anche quando, scontata la pena, si ritrovavano fuori da sole, disorientate, con un mondo ostile. Aveva una grande fede e distribuiva con amore copie del Vangelo e buone letture". Don Riccardo ricorda anche l’altra grande attenzione del vecchio Amedeo: "Le sue cure più commoventi erano rivolte ai tossicodipendenti. Non poteva accettare che tanti giovani si perdessero, bruciandosi la vita. Li indirizzava presso le comunità di tutta Italia, dalla Tenda alla comunità di don Germini. Così facendo è riuscito a salvarne moltissime. Nel suo grande cuore erano custodite tante pene e tante confidenze". Dipendente delle Poste in pensione, Amedeo da una decina d’anni si era trasferito dalla zona orientale di Salerno a Pontecagnano. La lontananza non gli impediva di continuare il suo servizio caritativo presso la casa circondariale. Con i suoi soliti occhiali e la valigetta, non potendo più guidare si serviva dei mezzi pubblici. Spesso rimaneva a lungo alla fermata a sera, in attesa dell’autobus del ritorno a casa. Così raccontava di come aveva deciso questo tipo particolare di volontariato: "A causa di una rissa, a quindi delle conseguenze di pochi istanti di ira, il figlio di un mio caro amico finì in carcere. Mi recai spontaneamente a fargli visita per portagli il mio conforto. Lì mi resi conto di quanto importante fosse il tempo che dedichiamo agli altri, invece che a noi stessi. In tanti hanno ho visitato forse migliaia di detenuti, li ricordo quasi tutti".

 

Milano: la mia Triennale contro i luoghi comuni

 

La Repubblica, 6 marzo 2006

 

A Davide Rampello, da quattro anni alla guida della Triennale di Milano, un merito va assolutamente riconosciuto. Quello di aver ripopolato questo luogo, simbolo del design e dell’architettura milanese, che era diventato, negli ultimi anni, abbastanza polveroso. La Triennale di Rampello, è diventata uno dei punti di incontro preferiti dai milanesi, soprattutto nei week end. Con la scusa di vedere una mostra, giovani e famiglie, passano interi pomeriggi nello storico edificio di Viale Alemagna. Grazie anche al fatto che il palazzo è stato illuminato bene, sono stati dati servizi di qualità: ristorante, libreria, biblioteca, bar all’aperto. Nel 2000 si registrava un’affluenza annuale di 36 mila persone, passate a 360 mila nel 2004 e oltre 450 mila l’anno scorso.

Qualcuno obietta che il suo è un gioco facile. Richiamerebbe un numero così alto di visitatori perché fa "mostre da botteghino". Facile riempire la Triennale con mostre di Andy Warhol o Keith Haring. E lui risponde: "Cerco di non far albergare in Triennale l’intellettualismo che è mortifero". Rincalza: "Sono contro la stereotipia culturale, i luoghi comuni della cultura. La mia idea è di fare "azioni colte". Va offerta alla gente la possibilità di fare delle esperienze. Questo è un luogo dove la gente si incontra, viene a sentire concerti e a vedere mostre". E spiega cosa intende, parlando dell’operazione fatta con Kantor, autore de "La Classe Morta". "In occasione del trentennale della rappresentazione della sua opera al Teatro dell’Arte, abbiamo messo in scena il testo qui in Triennale, con oggetti originali del teatro di Cracovia". Questo per dire che anche i temi più impegnativi si possono "rappresentare" in modo facile. E poi spiega di essere affascinato dalla cultura metropolitana, fatta di forme e linguaggi artistici che si sono diffusi dappertutto, dai clip musicali all’arte. Un ciclo che, partito in Triennale due anni fa con la mostra di Wahrol, di Haring e dei graffiti metropolitani rappresentati in questi giorni nella mostra "Beautiful losers", culminerà a settembre con la monografica su Basquiat. Identico, l’approccio di Rampello per le due settimane, in corso, dedicate all’esperienza del carcere.

"La cosa originale è che si tratta di un tema molto importante, che normalmente viene affrontato con convegni di specialisti e in ambiti istituzionali - spiega Rampello - mentre noi abbiamo messo in scena il corridoio di un carcere con 14 celle, ognuna delle quali rappresenta un tema visto dall’ottica di chi è dietro le sbarre, dai figli al sesso. L’abbiamo messo in scena teatralmente perché la gente abbia un’esperienza emotiva di un certo tipo. Ci sono rappresentazioni fatte dai carcerati di Bollate, Opera, San Vittore, accompagnate ogni giorno da convegni, film e concerti. Insomma tutte le arti, dal cinema alla fotografia alla musica, ruotano intorno al tema del carcere". Forse, però, in Triennale, c’è troppa arte e cultura di strada, ma poca promozione dei giovani designer, così come si era ripromesso Rampello all’inizio del suo mandato. "Intanto - risponde - abbiamo restituito ai giovani questo luogo, dove non entravano più. Oggi su 100 visitatori, 72 sono giovani dai diciotto ai quarant’anni. È diventato un punto di riferimento". O può anche essere che la Triennale stia riempiendo un vuoto, quello dei musei milanesi d’arte contemporanea. "La Triennale - spiega Rampello - ha una vocazione su architettura e design, ma essendo il palazzo delle arti ha anche una vocazione per tutto quello che è contemporaneità. Da poco abbiamo acquisito la collezione di design di Alessandro Pedretti e dopo il Salone del Mobile partiranno i lavori per il museo del design che termineranno nella primavera dell’anno prossimo".

Rampello racconta come sarà il Museo del design: "Dinamico e flessibile con oggetti inseriti sempre in un contesto. Ci sarà la nostra collezione e quelle che ci stanno donando molti collezionisti". E per spiegare che il design rimane un interesse centrale per la Triennale, spiega che hanno anche aperto al pubblico l’archivio di Castiglioni in Foro Buonaparte 13, attraverso un accordo con la famiglia del designer a cui vengono dati 150 mila euro per tenerlo aperto. "Se non l’avessimo fatto con ogni l’avrebbero comprata degli stranieri" ribadisce e spiega che stanno lavorando sull’architettura con mostre che saranno di scena a maggio e giugno. Ma, se la Triennale si muove, Milano, in generale sembra essere abbastanza dormiente. "Milano sta vivendo un momento di grande cambiamento - risponde Rampello - Per chi, come me, è all’interno delle azioni culturali questo fermento è visibile, ma bisogna farlo percepire ai cittadini. Comunicare il cambiamento è anche uno dei mandati di chi agisce nella cultura. Il contributo che dà la Triennale è un segnale di questo cambiamento". Ma la Triennale potrebbe esser solo una felice eccezione. "C’è anche il cambiamento dell’assetto urbanistico con l’arrivo di tanti cantieri - rincalza il presidente - Poi ci sono anche tante iniziative. Il punto è che a Milano manca una regia". E mancano anche gli uomini giusti? "Ci sono ma non fanno rete, non si mettono in relazione. Il domani dipenderà, indipendentemente da chi vinca le elezioni, da uomini di impegno e passione. Ci vuole tempo e generosità per innescare dei cambiamenti. Ci vogliono dei giovani, ma è anche vero che i giovani devono avere coraggio. C’è "Vivere Milano", per esempio, il movimento dei trentenni che ha fatto anche una lista civica per le prossime elezioni comunali di Milano, un gesto simbolico ma che significa voglia di innovare. Ecco, idealmente voterei loro".

 

Semilibertà: un istituto a rischio?, di Luigi Morsello

 

Agenda Lodi, 6 marzo 2006

 

Pur nel pieno della campagna elettorale, che è già violentissima, la cronaca c.d. "nera" fa registrare un altro episodio di criminalità comune. Se n’è occupato oggi tutta la stampa quotidiana, compresa quella provinciale. Segno che alto è l’allarme sociale e forte la cassa di risonanza del mass-media.

Già ci si è occupati dei segnali di scadimento dell’istituto giuridico (v. Diritto & Giustizi@ n. 24 del 24.9.2005, che non ebbe alcuna risonanza né in ambito specifici dell’informazione giuridica e nemmeno delle istituzioni penitenziarie). Un segnale forte di disagio.

Quanto accadeva nell’ambito dei promessi premio ci si è occupati successivamente (v. Diritto & Giustizi@ del 15.2.2006), con lo stesso risultato.

Questo ennesimo fatto di sangue, nel quale – per fortuna - le forze dell’ordine (l’Arma dei carabinieri) non hanno subito perdite, pur essendo rimasto un milite ferito, mentre i due rapinatori avevano questa volta la peggio, uno (quello in semilibertà) rimaneva ucciso e l’altro (il detenuto scarcerato da pochi giorni) gravemente ferito, ha un’eco ed una risonanza ancora maggiore.

Sono in scesi in campo un alto magistrato (il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano) ed un alto ufficiale dei Carabinieri (il Comandante Interregionale "Pastrengo" della Lombardia), entrambi portatori di più che legittime, anche se non convergenti, preoccupazioni.

La prima domanda che ci si deve porre è: che cosa ci faceva un semilibero fuori dal carcere di sabato?

Prima, però, di rispondere a questa domanda è opportuno definire che cos’è la semilibertà.

Soccorre la legge penitenziaria (legge 26 luglio 1975 n. 354, art. 44), secondo la quale "Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale"(comma 1). Quei detenuti ed internati che ne beneficiano "sono assegnati ad appositi istituti o apposite sezioni di istituti ordinari ed indossano abiti civili" (comma 2). La norma di attuazione (d.P.R. 30 giugno 2002 n. 230) al comma 2, terza alinea, dell’art. 101 prevede che: "Nel programma di trattamento, al fine di accompagnare l’inserimento esterno per la specifica attività per cui vi è ammissione alla semilibertà con la integrazione della persona nell’ambiente familiare e sociale, sia nei giorni di svolgimento della specifica attività predetta, particolarmente per la possibile consumazione dei pasti in famiglia, sia negli altri giorni, sono indicati i rapporti che la persona potrà mantenere all’esterno negli ambienti indicati, rapporti che risultino utili al processo di reinserimento sociale, secondo le indicazioni provenienti dalla attività di osservazione e in particolare dagli aggiornamenti sulla situazione esterna da parte del centro servizio sociale" (oggi Ufficio Locale dell’Esecuzione penale esterna – U.L.E.P.E. -, modifica introdotta dalla c.d. "legge Meduri" del 2005), mentre la precedente alinea seconda del comma 2 prevede che "Nel programma di trattamento per l’attuazione della semilibertà sono dettate le prescrizioni che il condannato o l’internato si deve impegnare, per scritto, ad osservare durante il tempo da trascorrere fuori dell’istituto, anche in ordine ai rapporti con la famiglia e con il servizio sociale, nonché quelle relative all’orario di uscita e di rientro".

Ecco spiegato perché il semilibero il sabato, giorno non lavorativo, non era in carcere, nell’istituto di semilibertà. La circostanza che il semilibero quel giorno, destinato precipuamente al mantenimento dei rapporti con la famiglia (ma per saperlo con certezza occorrerebbe leggere il programma di trattamento definitivo redatto dall’U.L.E.P.E.), lo abbia utilizzato per tentare una rapina è quella che merita di essere investigata ed approfondita.

È di tutta evidenza che, ancora una volta, qualcosa non ha funzionato sia nelle procedure di osservazione di competenza – ornai è noto – del Gruppo di Osservazione e Trattamento ( G.O.T.) del carcere di provenienza del detenuto (non si sa che sia o meno il carcere di Bergamo, citato dalla stampa). È ormai noto che questa attività multidisciplinare è coordinata dal direttore del carcere, che presiede le riunioni del G.O.T.

Il primo e fondamentale vaglio del soggetto in osservazione deve essere compiuto in quella sede. Ma non finisce qui il compito del direttore, il quale, una volta concessa dal Tribunale di Sorveglianza la semilibertà al soggetto, deve esercitare la vigilanza sulla fruizione della semilibertà ormai concessa, assumendo la responsabilità del trattamento (comma 3, art. 101 cit.), e per la vigilanza e l’assistenza del semilibero nell’ambiente libero si avvale dell’U.L.E.P.E., in via esclusiva, non può utilizzare il proprio personale di polizia penitenziaria )che invece utilizza – assieme all’U.L.E.P.E. - nella c.d. "ammissione al lavoro all’esterno ", che è tutt’altra cosa).

Quindi in via primaria la sorveglianza sul semilibero incombe sul direttore e sull’U.L.E.P.E., e qui le cose non vanno più bene, non per inefficienza del personale del suddetto ufficio, che di recente si è avvantaggiato dell’assunzione di svariate centinaia di assistenti sociali, ma per le carenze di infrastrutture (fra le quali va indicata quella di un congruo numero di agenti di polizia penitenziaria in funzione di tutela del personale civile nelle visite sui posti di lavoro ed altri previsti dal programma di trattamento), non essendo ipotizzabile che l’assistente sociale inviata al controllo suddetto non disponga di una tutela efficace di agenti di polizia giudiziaria del Corpo di cui dispone l’amministrazione penitenziaria, sia pure in abiti borghesi.

Le cronache, probabilmente sconosciute ai più perché non assurte a livello di informazioni dei mass-media, hanno fatto registrare atti di violenza in danno del personale civile, dall’insulto alla aggressione fisica violenta.

Ma una sorveglianza, sia sui posti di lavoro che in quelli in cui sono autorizzati a sostare per rapporti con la famiglie ecc., va carico anche sulle forze dell’ordine alle quali i programmi di trattamento dei semiliberi ed i provvedimenti di ammissione all’esterno dei detenuti ed internati sono inoltrati per quanto di loro competenza.

Naturalmente, non si vuole dire altro e nulla di più se non che il difetto, se di difetto si tratta, non è insito nella legge ma nella insufficienza delle risorse disponibili per esercitare la vigilanza e nell’attività di osservazione del soggetto detenuto, che con ogni probabilità nella fattispecie della quale ci si occupa, non appare essere stata molto penetrante, mentre si è più volte sostenuto che quello è il segmento topico nel corso del quale non si devono commettere, per quanto possibile, errori. Anzi, è quello il momento storico in cui il soggetto in osservazione deve essere sottoposto (e questo è compiuto precipuo del direttore) ad una intesa pressione psicologica per tentare di coglierne le reazioni, qualunque esse siano.

Superate questa fase diventa tutto più difficile, perché il soggetto fuoriesce dall’osservazione diretta del personale di polizia penitenziaria (che è sempre quella più penetrante) ed è sempre più difficile capire qualcosa in più di quello che si sarebbe dovuto capire prima della concessione.

Chi scrive anni fa provò in una precedente sede di servizio ad utilizzare il personale di custodia non ancora smilitarizzato, guadagnandosi un inchiesta penale della locale procura della Repubblica, finita nel nulla per la (allora non rara) perspicacia di quel Giudice Istruttore.

 

 

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