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Vibo Valentia: il detenuto che si è ucciso proveniva dall’Opg
Ristretti Orizzonti, 12 giugno 2006
Su questo caso abbiamo raccolto alcune informazioni in più rispetto a quanto detto nell’ultimo notiziario (9 giugno scorso). Il detenuto che si è ucciso si chiamava Raffaele Abbate, era di origini napoletane ed era da pochissimi giorni nel carcere di Vibo Valentia, proveniente dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). All’uomo era stata riconosciuta una schizofrenia ed aveva frequenti attacchi di panico. Nei primi colloqui avuti con gli operatori del carcere di Vibo Valentia aveva manifestato un grave disagio esistenziale e ripetuto spesso "Dio non mi vuole". Riguardo alle informazioni contenute nei dispacci delle agenzie "Agr" e "Audio News" dell’8 giugno scorso, va chiarito che i "tre suicidi nel carcere di Vibo Valentia" sono in realtà avvenuti nell’arco di due anni e non nell’ultima settimana.
Notizia "Agi" del 12 giugno 2006
Proveniva dal carcere di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Raffaele Abbate, il detenuto di 39 anni che nella serata di ieri è stato trovato impiccato in una cella del penitenziario di Vibo Valentia, dove stava scontando una pena definitiva, per rapina, che sarebbe scaduta nel 2009. Di origine napoletana, celibe, con diversi precedenti sulle spalle, aveva tentato più volte di farla finita, escogitando diversi atti di autolesionismo ma era stato sempre salvato in tempo dalle guardie carcerarie e dal personale medico. Stavolta era solo nella cella e, servendosi di alcuni lacci, è riuscito ad eludere la sorveglianza. Pisa: detenuto 65enne cardiopatico muore nel Centro Clinico
www.informacarcere.it, 12 giugno 2006
Filippo Benevolenza, 65 anni, muore nel Centro Clinico del carcere di Pisa. La notizia della sua morte viene diffusa dal sito internet www.informacarcere.it, che riceve la lettera di un compagno di detenzione di Filippo. Ecco alcuni stralci di questa lettera: "Di solito, a un fatto, viene consigliato premettere un’introduzione, ma mi è difficile farla quando a caldo vengo a sapere che questa notte, 31 maggio 2006, è deceduto Filippo, detenuto al Don Bosco di Pisa da oltre sei anni, su un totale di 16 anni per reati vari, ma non di sangue. Era ubicato al piano terra, io di fronte alla sua cella, mentre ora sono al piano di sopra. Avevo avuto modo di conoscerlo: più anziano di me, aveva 65 anni. Di modi gentili e educato, aveva gravi patologie cardiovascolari e aveva subito vari infarti. È morto per una banale operazione di ernia: evidentemente il suo fisico debellato da numerosi e gravi patologie non ha retto ad una semplice operazione. Di certo aveva tutti i requisiti per morire a casa, da uomo libero, invece la motivazione dell’ultimo rigetto all’istanza per ottenere la detenzione domiciliare recitava così: il Benevolenza Filippo può essere egregiamente curato presso il centro clinico Don Bosco di Pisa, fiore all’occhiello dei servizi ospedalieri carcerari… Purtroppo la verità è ben diversa... il fiore all’occhiello menzionato nell’ordinanza si traduce in fiori di noi detenuti che per via del volontariato lasceremo sulla sua bara. Ciao Filippo, da cristiano che sono, sono certo che davanti al Giudice dove sei ora hai in tasca quella misericordia e perdono che il giudice di questa terra ti ha negato. Sono sempre più convinto che sarò veramente onesto quando vivrò in una società veramente giusta. Giuseppe, Carcere di Pisa. Di solito a un fatto, viene consigliato una introduzione, ma mi è difficile quando a caldo vengo a sapere che questa notte 31 maggio 2006 è deceduto Filippo. Prigioniero come me al Don Bosco di Pisa, dove era detenuto da oltre sei anni su un totale di 16 anni per reati vari, ma non di sangue. Era ubicato al piano terra, io di fronte alla sua cella, ora sono al piano di sopra. Avevo avuto modo di conoscerlo: più anziano di me, aveva 65 anni. Di modi gentili e educato, aveva tutte le gravi patologie cardiovascolari, infarti vari e via dicendo. È deceduto per una banale operazione di ernia, evidentemente il suo fisico debellato da numerosi e gravi patologie non ha retto ad una semplice operazione. Aveva avuto diversi infarti e vari congruenze patologiche. Di certo aveva tutti i requisiti per morire a casa da uomo libero, invece a differenza di noti personaggi politici, dissennati uomini di alta finanza che vanno a casa per motivi di salute per un raffreddore, al poveretto baciato dalla sfortuna è toccato morire in carcere, solo come un cane, per fortuna in compagnia degli Angeli del Signore che attendevano di portarlo al Giudice Supremo. Invece la motivazione dell’ultimo rigetto di istanza per ottenere la detenzione domiciliare: il Benevolenza Filippo può essere egregiamente curato presso il centro clinico Don Bosco di Pisa, fiore all’occhiello dei servizi ospedalieri carcerari. Purtroppo la verità è ben diversa... il fiore all’occhiello menzionato nell’ordinanza si traduce in fiori di noi detenuti che per via del volontariato lasceremo sulla sua bara. Ciao Filippo, da cristiano che sono, sono certo che davanti al Giudice dove sei ora hai in tasca quella misericordia e perdono che il giudice di questa terra ti ha negato. Sono sempre più convinto che sarò veramente onesto quando vivrò in una società veramente giusta.
Giuseppe, Carcere di Pisa Giustizia: Sergio Segio; serve un risveglio della politica…
Adnkronos, 12 giugno 2006
Roma. "Le disuguaglianze aumentano e l’assenza di mobilità sociale ci sta portando a un nuovo Medioevo. È il momento di rovesciare questo paradigma e per farlo serve un risveglio della politica ormai soppiantata dagli istituti economici". È l’allarme lanciato da Sergio Segio, ex di Prima Linea che dopo aver scontato una condanna a 22 anni è impegnato da tempo nel sociale. Direttore dell’Associazione SocietàINformazione e membro della giunta della Conferenza nazionale Volontariato Giustizia, Segio è ideatore e curatore del Rapporto sui diritti globali edito da Ediesse (pp.1375, euro 30) la cui quarta edizione verrà presentata domani a Roma.
Cosa è peggiorato e cosa migliorato in questi anni in Italia e nel mondo? È più facile dire cos’è cambiato in peggio. Schematizzando al massimo e guardando solo a tre filoni principali abbiamo visto una crescita delle disuguaglianze, un approfondirsi della spirale terrorismo-guerra-terrorismo e un costante aumento del degrado ambientale. In Italia, per quanto riguarda le disuguaglianze, basti pensare che in un anno, stando ai dati dell’Istat, i poveri sono aumentati di 800 mila unità. A questo si è aggiunto un elemento molto allarmante che è l’assenza di mobilità sociale, cioè oggi avviene quello che accadeva nel Medioevo: chi nasce in una classe sociale muore in quella stessa classe sociale senza la possibilità di un miglioramento o di un travaso.Non solo. Il nostro Paese, secondo le graduatorie stilate dall’Ocse, è al venticinquesimo posto per spesa in ricerca e sviluppo, al ventesimo per famiglie che possiedono un computer. Mentre la spesa europea pro capite in ricerca è di 409 euro, in Italia è di 279 e la mancanza di ricerca porta alla crisi e al declino della produzione.
Nell’introduzione del rapporto lei pone in primo piano il problema della politica nella quale, dopo il "reaganismo e il thatcherismo, narcisismi e apparenze, navigazioni a vista e politiche dell’annuncio hanno preso il posto dei valori, dei contenuti e della formazione". Crede sia possibile un’inversione di rotta? È vitale e necessario che questo avvenga al livello globale. La politica ormai è stata soppiantata dagli istituti economici. A decidere le politiche sono il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale. E qual è il rischio di proseguire su questa strada, lo abbiamo visto con la bancarotta che ha subito l’Argentina. Un quarto delle ricchezze del pianeta sono nelle mani di 200 multinazionali. Il grande scenario in cui muoversi è quindi la globalizzazione dei diritti, il paradigma va rovesciato e questo compito spetta alla politica. Le promesse della globalizzazione liberista sono state tradite, lo dicono i dati. Negli ultimi 20 anni il divario tra ricchi e poveri si è approfondito: il reddito medio annuo in Svizzera è di 38 mila dollari, mentre in Etiopia è di 100 dollari. Negli anni si è poi reso evidente che la delocalizzazione delle industrie negli Stati più poveri non porta ricchezza a questi Paesi ma solo profitto alle imprese. La più grande multinazionale al mondo è la Wal-Mart, che conta un giro d’affari di 256 miliardi di dollari ed è al centro di varie denunce per discriminazioni, attività antisindacali, subappalti con sottoretribuzioni. In più i Paesi poveri sono strangolati dal meccanismo del debito e dalle guerre. In Congo ci sono stati negli ultimi anni 3 milioni e mezzo di morti per conflitti dietro ai quali spesso si nascondevano gli interessi della multinazionali.
Restando alle guerre. A pagina 917 del rapporto, nel glossario del capitolo Violazioni e discriminazioni, si leggono le parole: Guantanamo, Black sites, Voli segreti Cia, tortura. Quanto ha inciso la guerra al terrorismo nelle violazioni dei diritti umani? Moltissimo. Almeno 12 Paesi per le leggi sul terrorismo emesse dopo l’11 settembre 2001 violano sistematicamente i diritti umani. Dieci Paesi sono coinvolti nello scandalo delle prigioni segrete e i voli segreti Cia che hanno usato anche lo spazio aereo italiano con 8 atterraggi a Ciampino, 2 a Pisa, uno ad Aviano. C’è poi Guantanamo la cui esistenza fa sanguinare il diritto. Nel carcere Usa in territorio cubano sono rinchiusi presunti terroristi di 135 nazionalità diverse, vittime di violazioni gravissime. Novantotto persone sono morte sotto custodia Usa in Afghanistan e in Iraq. Di contro dall’inizio della guerra al terrorismo, a quanto emerge dai dati del Dipartimento di Stato Usa, gli attentati sono aumentati dai 346 del 2001 ai 651 del 2004 e nel 2005 sono saliti addirittura a 11 mila. Non solo. Una lista del Centro antiterrorismo Usa indica in 325 mila le persone sospettate di collegamenti con il terrorismo una cifra quadruplicata rispetto al 2003. Ma questi sono dati che riguardano solo un aspetto del conflitto. Un’altra angolatura ci mostra infatti la guerra come un grande business che ha costituito il 2,5% del Pil statunitense. Con la ripresa Usa dovuta alla ripresa dell’industria bellica, la conquista americana del controllo delle risorse energetiche, e le attese per il business della ricostruzione. Anche le multinazionali, poi, traggono grandi profitti dalla guerra. In Iraq per esempio la Halliburton Oil, la compagnia della quale il vicepresidente Usa Dick Cheney era capo esecutivo ha visto crescere i suoi profitti del 280%.
Cambiamo argomento. Dopo la grazia concessa a Ovidio Bompressi in Italia si è riaperto il dibattito sulla necessità di un’amnistia. Qual è la situazione delle nostre carceri rispetto agli altri Paesi? Anche in Italia è stata seguita la tendenza Usa dove negli ultimi anni i detenuti sono aumentati in modo esponenziale. Se nel 1990 noi avevamo 25 mila persone in carcere e 4 mila in libertà vigilata, oggi abbiamo 63 mila carcerati e 50 mila che scontano misure alternative quando la capienza delle carceri è stimata attorno a un massimo di 42 mila unità. Se a questi poi aggiungiamo i 70 mila condannati in attesa di sentenza e le persone rinchiuse nei Cpt (i Centri di permanenza temporanea per immigrati clandestini, ndr) arriviamo alla cifra totale di 200 mila reclusi. Il tutto in una totale assenza di edilizia penitenziaria. Costruire un carcere costa moltissimo e i soldi non ci sono. E allora ecco che l’amnistia o l’indulto sono la precondizione per poi varare una seria riforma che comprenda anche la depenalizzazione di alcuni reati.
Nel rapporto non sono stati inseriti per problemi di spazio capitoli sull’informazione e la libertà di stampa. Può anticiparci cosa ne emerge? Per quanto riguarda la libertà di stampa, esempio macroscopico sono le guerre dimenticate. In Cecenia sono morte nel conflitto 200 mila persone. Non sembrano moltissime ma lo sono se si considera che costituiscono un quarto della popolazione ma nessuno lo racconta. C’è anche da dire però che il prezzo pagato, in numero di vite umane, per informare dai diversi angoli del mondo è altissimo. Sono 69 i giornalisti e operatori dell’informazione uccisi nel 2005 e 37 sono stati quelli ammazzati nei soli primi 3 mesi del 2006. Ma nell’ambito dell’informazione un altro problema è costituito dal divario digitale. Tre italiani su quattro non si connettono mai a Internet e di questi il 70 per cento non lo fa perché non sa usare il computer. Al livello mondiale poi il problema si amplifica aggravato dalla sostenibilità dei costi. Se infatti negli Stati Uniti il costo di una connessione rappresenta l’1,2% del salario medio mentre in Bangladesh incide per il 191%. Ecco allora che nei Paesi poveri si fa debolissimo anche il diritto alla comunicazione. Torino: con il "Polo" il carcere entra all’Università
Comunicato stampa, 12 giugno 2006
Dal 1998 presso il carcere "Lorusso e Cutugno" di Torino è istituito un Polo Universitario con caratteristiche particolari rispetto agli altri Poli Universitari dislocati nei vari istituti d’Italia. All’interno della struttura gli studenti detenuti possono iscriversi alle Facoltà di Scienze Politiche e Giurisprudenza (laurea triennale e laurea specialistica) dell’Università degli Studi di Torino. Il Polo Universitario di Torino, sostenuto economicamente dalla Compagnia di San Paolo, rappresenta un progetto qualitativamente elevato in quanto è prevista un’organizzazione degli studi basata su un’interconnessione diretta tra l’istituzione universitaria e quella penitenziaria. Ogni corso di laurea prevede lo svolgimento delle lezioni all’interno della struttura carceraria da parte dei docenti universitari e da loro assistenti a titolo volontario. Ciò permette agli studenti un approccio più diretto con lo studio e il mondo universitario, d’altra parte la costante presenza dei docenti incentiva una partecipazione allo studio più attiva e responsabile, nel tentativo di equiparare il più possibile lo studio universitario a quello esterno. La sezione che ospita gli studenti è composta da 22 celle singole, un’aula computer per coloro che non hanno la possibilità di tenerne uno personale nella propria cella, un’aula scolastica dove vengono svolte le lezioni e gli esami e due piccole aule per colloqui. Le celle sono aperte dalle ore 07.00 alle ore 21.00 così da permettere un costante interscambio culturale tra i detenuti stessi, favorire lavori di gruppo e momenti di studio collettivo. L’Università di Torino fornisce tutti i libri di testo che vanno a costituire una biblioteca didattica presso la stessa sezione a cui poter attingere per la preparazione degli esami. Per la stesura delle tesi di laurea docenti e collaboratori universitari procurano dalle biblioteche esterne il materiale necessario. Per poter accedere al Polo è necessario essere in possesso di un diploma di scuola superiore, aver tenuto una condotta regolare durante la detenzione già espiata e una pena residuale di almeno tre anni. La domanda di accesso può essere fatta da tutti i detenuti in possesso dei requisiti esposti, con l’eccezione di chi si trovi in regimi particolari, quali il 41 bis e l’Alta Sicurezza. Per l’iscrizione all’anno accademico 2006/07 il bando è già stato diffuso presso tutti gli istituti penitenziari; ciascun detenuto può chiedere maggiori informazioni agli operatori penitenziari e alla direzione del proprio istituto. Le condizioni per potervi rimanere sono il mantenimento di una condotta regolare ed il conseguimento di almeno tre esami all’anno. È possibile anche richiedere una borsa di studio all’Edisu (Ente per il Diritto allo Studio Universitario) alle stesse condizioni degli studenti all’esterno. Cremona: interventi della Caritas Cremonese per il carcere
Cremona Web, 12 giugno 2006
Mentre prosegue, acceso, il dibattito su possibili provvedimenti di clemenza per i detenuti reclusi nelle carceri italiane, continua senza soste l’impegno della Caritas Cremonese presso l’istituto penitenziario cittadino. Nel 2005 sono stati 277 (il 15,16% in più rispetto al 2004) i detenuti oggetto, a vario titolo, di attenzione e aiuto. Di questi 165 italiani e 112 stranieri. 640 sono stati i colloqui sostenuti dal Centro Ascolto Carcere attivato all’interno della Casa Circondariale di Cremona per garantire ascolto, sostegno, relazione d’aiuto, progettazione di percorsi di reinserimento sociale. A 146 detenuti in grave situazione di indigenza (8,90% in più rispetto al 2004) sono stati garantiti contributi economici per un totale di 4.199,77 euro (39,32% in più rispetto al 2004), necessari soprattutto per l’acquisto di acqua minerale (il carcere si trova alla fine della rete idrica cittadina e l’acqua del rubinetto, pur dichiarata potabile, giunge sporca a carica di sedimenti), di farmaci, per effettuare telefonate con familiari lontani e impossibilitati a recarsi a colloquio e altri bisogni primari. In forte aumento anche le richieste di indumenti. Alcuni detenuti sono privi di una rete familiare alle spalle o si trovano in condizioni di povertà e indigenza tali da non avere neppure la possibilità di procurarsi un abbigliamento adeguato alle mutevoli condizioni climatiche. Non è per nulla raro, infatti, che alcune persone debbano affrontare la carcerazione solo con il vestiario indossato al momento dell’arresto, così come è anche frequente incontrare carcerati, fermati durante l’estate, costretti ad affrontare l’inverno con i soli indumenti estivi posseduti. Solo nel 2005, la Caritas Cremonese ha distribuito 154 pacchi di indumenti (46,75% in più rispetto al 2004) a 115 detenuti (39,13% in più rispetto al 2004) per un totale di 31 accappatoi/salviette, 268 paia di calze, 39 camicie, 40 ciabatte, 5 cuffie di lana, 3 guanti, 19 giacche a vento, 272 magliette/canottiere, 72 maglioni pesanti, 250 mutande, 73 pantaloncini, 33 pantaloni, 3 pigiami, 103 paia di scarpe, 79 tute da ginnastica. Il materiale è stato recuperato dalle raccolte Caritas, donato da benefattori, dalla ditta Macron (sponsor tecnico U.S. Cremonese) o acquistato nuovo per un costo di 2.482,45 euro (26,29% in più rispetto al 2004). La Caritas si è poi fatta carico di tutta una serie di interventi come la fornitura o la riparazione di occhiali da vista, libri, francobolli, buste, radio, attrezzature sportive, ecc. per un costo di 1.251,74 euro. Donati anche, la scorsa estate, 7 frigoroferi / congelatori (costo 2.450 euro) per poter garantire ai detenuti, nei mesi più afosi, almeno un poco di acqua fresca. La spesa complessiva per gli interventi in carcere è stata di 10.383,96 euro (33,02% in più rispetto al 2004). A questi si aggiungono le spese per l’accoglienza, presso la Casa Accoglienza di Cremona, di 3 detenuti in permesso premio, 4 accolti in misura alternativa alla detenzione e con progetti di inserimento lavorativo e le accoglienze temporanee di detenuti scarcerati e senza altri riferimenti. Per potenziare e qualificare le possibilità di accoglienza e reinserimento sociale, è in fase di realizzazione, presso la casa parrocchiale di San Savino in Cremona, una struttura specifica che sarà intitolata a Giovanni Paolo II. Molto è stato fatto, ma molto di più resta da realizzare. La Caritas desidera ringraziare tutti quanti hanno reso possibile queste opere di carità, ma contestualmente lancia un accorato appello affinché ulteriori risorse, umane e materiali, possano essere messe a servizio della realtà carceraria. In particolare servono: volontari, anche in vista della prossima apertura della comunità Giovanni Paolo II di San Savino; catechisti per i percorsi di catechesi proposti in carcere a Cremona; indumenti (pigiami, salviette, pantaloni, calze, scarpe, tute, giubbotti, maglioni, camicie, felpe, magliette, mutande, ciabatte, pantaloncini, accappatoi); le taglie richieste sono M - L - XL - XXL, per le scarpe i numeri dal 39 al 46. I vestiti devono essere nuovi o usati (purché in ottimo stato); offerte in denaro, fiscalmente deducibili, che possono essere versate su uno dei seguenti conti:
Conto Corrente Postale N 68411503 Intestato a Fondazione San Facio onlus Via Stenico 2/b - Cremona
Conto Corrente Bancario N 54/5161/74 presso la banca di Piacenza filiale di Cremona, Via Dante - CAB 11400 - ABI 05156 Intestato a Fonsazione San Facio onlus Via Stenico 2/b - Cremona Torino: allarme sovraffollamento, mancano posti letto
La Stampa, 12 giugno 2006
Gli istituti di pena italiani scoppiano, quelli piemontesi reggono a fatica e anche a Torino la popolazione carceraria non si sente molto bene. I garantisti fanno il tifo sfegatato per l’amnistia, panacea sia pur temporanea per ogni problema. Sul fronte opposto della barricata Maurizio Gasparri e Alleanza Nazionale suggeriscono l’intervento edilizio estremo: le celle non bastano? Costruiamone di più. In mezzo, trasversalmente, si ragiona su come affrontare il paradosso di un paese in cui l’incremento delle detenzioni (5000 negli ultimi due anni) non corrisponde ad un nuovo allarme criminalità. "I detenuti sono aumentati per effetto di alcune leggi come quella sull’immigrazione, la Bossi-Fini", osserva il presidente del gruppo regionale dei Ds Rocchino Muliere, ospite del convegno "Verso politiche penitenziarie regionali" organizzato ieri dalla Quercia al Centro Congressi Torino Incontra. Il 32% degli ospiti delle carceri è dentro per reati legati alla violazione della legge sull’immigrazione. Vale a dire clandestini che sono rimasti in Italia nonostante il decreto d’espulsione e, pizzicati, sono finiti in cella. A loro va aggiunto il 28% dei reclusi per droga, una categoria che Muliere ritiene destinata a crescere: "Se applicassimo alla lettera la legge Fini sul traffico e il consumo di sostanze stupefacenti gli istituti di pena esploderebbero davvero". La strada da percorrere, a suo parere, è opposta: "So che l’amnistia non risolverebbe molto, ma darebbe respiro alle strutture. E soprattutto, ora che è stata annunciata non è più possibile tirarsi indietro: per innescare situazioni esplosive non c’è nulla di meglio che creare aspettative tra chi vive chiuso dentro quatto mura e poi deluderle". Il dibattito ruota intorno al sovraffollamento e agli eventuali benefici dell’amnistia, ma le posizioni sono differenti. Pietro Buffa, direttore de Le Vallette, 1511 detenuti di cui il 45% stranieri, predilige la messa a fuoco sui progetti: "Nonostante il disagio organizzativo a cui facciamo fronte da mesi, anche oggi abbiamo una cinquantina di detenuti senza cella, nessuna delle nostre iniziative è stata penalizzata. Penso al progetto psichiatrico con la Asl 3 ma soprattutto all’attività professionale interna tipo la tostatura del caffè del Guatemala a cui lavorano a rotazione 50 persone. È un esempio di rieducazione reale: il nostro caffè viene venduto con successo nelle Coop, dove presto porteremo anche il cacao made in jail, fatto in prigione". I progetti. Ecco la parola chiave. Quella che gli operatori penitenziari sperano di portare al tavolo di discussione con gli enti locali. Perché le leggi che incoraggiano la collaborazione ci sono: la 328 del 1999 e soprattutto la 230 del 2000, quella relativa al servizio sanitario nazionale. Elena Lombardi Vallauri, direttrice dell’istituto penale minorile Ferrante Aporti ha bisogno di educatori e di psicologi prima ancora che di poliziotti o misure d’emergenza una tantum: "Sapete di che potenziale disponiamo per seguire 40 minorenni, nel 90% dei casi stranieri? Quaranta agenti, due educatori full time affiancati da un part time e uno psicologo". Pochissimo considerando che i piccoli ospiti sono per la maggior parte senza famiglia, soli al mondo, candidati a una ciclica turnazione dentro-fuori fino all’approdo a Le Vallette. Una miccia potenziale per le case circondariali, ma non solo. "Per risolvere la situazione delle carceri è necessario un cambiamento culturale a livello sociale - chiosa Pietro Buffa -. Dovrebbe essere interesse di tutti che chi entra in prigione esca poi una persona migliore". Sembra retorica invece si chiama prevenzione. Roma: a Rebibbia i detenuti iniziano una protesta
Garante regionale dei detenuti, 12 giugno 2006
Permessi premio e misure alternative alla detenzione concessi col contagocce, l’attività di reinserimento e trattamento mortificata, volontari laici e cattolici (utili per il reinserimento sociale dei detenuti) allontanati da un clima ostile. Ed ancora, un aumento preoccupante delle morti in carcere e, dal 2004, più volte forme di protesta eclatanti. Tutto ciò accade nel carcere romano di Rebibbia Penale. Sono questi i dati che fanno dire al Garante dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni che a Rebibbia Penale, "dopo anni di gestione dell’attuale direzione, improntata a un’idea di carcere burocratizzata, la situazione è al limite. È ora che l’intera direzione venga sostituita perché non più in grado di esercitare il suo ruolo ai livelli necessari per quell’istituto". Secondo il Garante - che oggi a incontrato a Rebibbia Penale la direzione del carcere e una rappresentanza dei detenuti che stanno manifestando - la protesta inscenata dai circa 400 reclusi del carcere (dove convivono 10 detenuti ultrasettantenni e 11 ergastolani con decine di altri reclusi con fine pena limitato), "è il sintomo di un malessere più grave, certificato dai dati in nostro possesso". Le morti in carcere, nel triennio 2000 - 2003 sono state 5 (addebitabili a motivi vari) mentre nei due decenni precedenti ne erano state registrate solo 2. Nel triennio 2003 - 2005 su oltre 400 reclusi, i detenuti che hanno usufruito della semilibertà sono stati solo 24, quelli affidati in prova al Servizio sociale appena 14, mentre solo 18 hanno usufruito dei permessi premiali per la prima volta. Dal 2000 - al 2006 sono stati concessi solo 2 ammissioni al lavoro esterno, a fronte di un numero elevatissimo di concessioni che effettuano le altre carceri del Lazio. "È vero che è cambiato il profilo dei detenuti - ha detto Marroni - ora ci sono più tossicodipendenti e detenuti con fine pena brevi, tipologie non adeguate alle caratteristiche di un Istituto che è stato un modello per favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Ma quanto sta accadendo non può essere addebitato solo a tale cambiamento, le responsabilità sono anche addebitabili al clima che si è creato nel carcere". Basti pensare che, secondo i dati, gli operatori del volontariato laico e cattolico sono passati dagli oltre 400 del 2000 ai circa cento di oggi, "allontanati da un clima ostile che si respira nell’Istituto". Un dato che deve far riflettere, infine, è quello sulle proteste: dal 2003 hanno manifestato 4 detenuti seminfermi di mente, altri reclusi della sezione collaboratori sono saliti sui tetti e uno straniero ha sequestrato per alcuni minuti un ispettore. Fra il 1981 e il 1989 i detenuti che avevano manifestato erano stati invece appena 4. Vicenza: detenuti calciatori assieme agli scout del "Creazzo"
Giornale di Vicenza, 12 giugno 2006
Continuano le attività del Centro sportivo italiano con il mondo del carcere. In collaborazione con l’associazione Progetto Carcere 663, il comitato di Vicenza da sette anni organizza corsi di attività motoria, partite di calcio dentro e fuori dal carcere e da tre anni anche il progetto con le scuole superiori. Molte sono le società e i gruppi sportivi che durante l’anno hanno ospitato nei loro allenamenti i detenuti in permesso. Altre associazioni si stanno aggregando a questa iniziativa finalizzata al dialogo e all’integrazione dei detenuti che stanno per finire di scontare la loro pena. In questo caso l’Agesci, e in particolare il Clan del Creazzo 1, ha ospitato la delegazione in "libera uscita" dal S. Pio X guidata da Fabrizio Ruzzenenti, insegnante e presidente dell’associazione Progetto Carcere 663, che coordina l’attività sportiva del Csi nelle carceri di Verona, Vicenza e Padova. Quattro i detenuti che nei giorni scorsi hanno giocato a calcio con i ragazzi tra i 16 e i 20 anni e i loro maestri di Clan (Piero Iposi, Attilio Casarotto e Emanuela Zaltron) al Villaggio di Andrea, un’area attrezzata a Creazzo. Arthur, Giovanni, Benedetto e Giorgio si sono divisi nelle due squadre in campo per una sgambata a pallone. Nel dopo partita, tutti al buffet in onore degli ospiti, organizzato nella sala delle opere parrocchiali. Quindi, assemblea sulle tematiche legate alla detenzione, con molte domande poste dai ragazzi sulla situazione carceraria. "Per i detenuti è stata l’occasione - ha affermato il presidente Enrico Mastella - per toccare con mano la solidarietà delle nostre comunità. Per i ragazzi del Clan un modo per conoscere da vicino e attraverso testimonianze reali la situazione delle case circondariali". Al termine, i detenuti hanno regalato al gruppo scout di Creazzo un pallone e alcune pubblicazioni realizzate nelle carceri del Veneto. Giustizia: la calda estate del ministro Mastella di Luigi Morsello (Ispettore Generale dell’Amministrazione Penitenziaria in pensione)
Agenda Lodi, 12 giugno 2006
L’esperienza insegna che da sempre (almeno dal 1972 in poi) il "là" all’avvio dei disordini nelle carceri partiva dai grandi istituti penitenziari metropolitani, per poi estendersi a macchia d’olio in tutti gli altri: occorreva quindi tenere d’occhio e sentire il polso di questi istituti. Inoltre, il motivo comune a tutti i detenuti è stato: fino al 1975: la riforma dell’ordinamento penitenziario, varata appunto nel 1975, che aveva il pregio di dare dignità di legge ordinaria alla disciplina del settore penitenziario (il Regolamento degli stabilimenti carcerari del 1931 era, appunto, una norma regolamentare, di rango inferiore). Questo dettaglio, di non poco conto, contrassegnava in modo significativo la volontà del legislatore di disciplinare seriamente il settore penitenziario, sia pure con una limitazione, il mancato inserimento dell’istituto del permesso premio; dal 1975 fino al 1986 (legge Gozzini): la mancata disciplina legislativa dei permessi-premio. I permessi premiali erano previsti nello schema di disegno di legge di riforma dell’ordinamento penitenziario, ma in sede di approvazione parlamentare l’istituto giuridico del permesso premio fu stralciato (viene fatto di scrivere: stracciato) da una classe politica miope e tremebonda nei confronti dei terrorismi che già stavano insanguinando la penisola. Fu molto comodo allora dirottare su questa indispensabile riforma l’attenzione dell’opinione pubblica distraendola dalla colpevole impreparazione dello Stato nei riguardi del fenomeno del terrorismo, cancellando lo strumento del permesso premio, quasi come se i detenuti che fossero usciti in permesso-premio sarebbero stati tutti affiliati nelle file dei terrorismi, di sinistra e di destra. Molti anni più tardi il permesso premio veniva introdotto nell’ordinamento penitenziario dalla legge "Gozzini", assieme agli indispensabili aggiustamenti per rendere più efficace quel complesso normativo. Dunque, due sono motivi unificanti per tutti i detenuti, che sceglievano l’estate come periodo privilegiato per intensificare le proteste: la calura estiva aumenta ed acuisce i disagi della carcerazione, perché d’estate non c’è aria condizionata in carcere: stare al fresco è solo una metafora. Adesso con il riscaldamento al fresco non ci si sta nemmeno d’inverno. Poi, dal 1986 in poi sostanziale calma piatta. Disordini c’erano solo settorialmente, a macchia di leopardo, legati a fatti locali di cattiva gestione del carcere. Agli inizi dell’anno 2000 ricominciarono i primi fermenti. Il motivo unificante c’era di nuovo: l’amnistia ed il condono (indulto). Le elezioni politiche del 2001 facevano passare in secondo piano e poi nel dimenticatoio il fermento del mondo del carcere, cronicamente sovraffollato, ma con punte che davvero rappresentavano i "grandi numeri". Papa Giovanni Paolo II si faceva interprete dei fortissimi disagi del mondo penitenziario, strettamente connessi con i problemi sempre più gravi del sovraffollamento e con la fallimentare politica dell’esecuzione penale di un Ministro che aveva altro per la testa, mentre il Capo del Dipartimento Giovanni Tinebra (messo lì dal governo Berlusconi ed oggi in attesa di andarsene a Catania a fare il P.G.) non dava alcun fastidio al suo Ministro, pur non correndo - sembra - simpatia fra loro. La disperazione dei detenuti veniva veicolato verso il santo Padre dai cappellani delle carceri e dal loro Ispettore Generale, da sempre gli operatori più sensibili e meno ascoltati. Accadeva nel 2002 ma senza esito: solo grandi proclami, chiacchiere, fatti nessuno. Poi di nuovo l’oblio, fino al dicembre dell’anno scorso, quando la questione veniva rimessa sul tappeto, ancora una volta inutilmente. Le incombenti elezioni politiche ne provocano l’accantonamento, dopo una inutile discussione parlamentare di uno specifico disegno di legge. Ma ormai il tempo era, è maturo. La cosa più saggia era giocare d’anticipo, prima dell’estate, che quest’anno si prevede molto calda, anche per ragioni climatiche questa volta, specie nei mesi di luglio ed agosto, con 62.000 ed oltre detenuti accatastati nelle celle 22 ore su 24 per la maggioranza "qualificata" ( 75%) dei detenuti, con il caldo soffocante che prevede un qualificato istituto meterologico inglese. Gli elementi di fondo ci sono di nuovo tutti: 1) il motivo unificante; 2) la calura estiva; 3) il sovraffollamento! Coloro che esprimono opinioni di dissenso hanno a casa loro, come moltissimi, come chi scrive, come tanti, la loro aria condizionata, vanno in ferie, al mare, in montagna, in crociera, nelle isole esotiche: tutti messaggi che passano in televisione tutti i giorni, ininterrottamente. Si mangiano il fegato tanti pubblici dipendenti che non hanno mai avuto soldi per fare una vacanza vera fino a diventare troppo vecchi per avere ancora il desiderio di farla, figuriamoci chi sta in carcere, in attesa di giudizio, condannati in primo, secondo grado, cassazione e definitivamente. Cosa accadrà nelle carceri? Si sappia, L’A.P. non ha conoscenza di alcun elemento fattuale: d’altra parte come potrebbe, in pensione da un anno e mezzo? E poi a Lodi dove i detenuti sono appena una ottantina! Ma l’A. fiuta il vento e stavolta il vento "butta male". Dopo il 1986, con la riforma Gozzini, lo strumento del permesso-premio veniva usato anche come uno strumento di dissuasione da proteste individuali e collettive e funzionava! Funziona ancora! Ma già nel 2004 c’è stata una ondata di protesta che si è diffusa a fulmine in tutti i carceri, compreso Lodi. Motivo: l’amnistia, il condono, l’indulto (i detenuti non fanno sottili distinguo), insomma, un provvedimento legislativo di clemenza! Questa volta il disagio potrebbe non si fermarsi, come si fermò nel 2004. Il Governo è cambiato, il centro-sinistra ha vinto, sia pure una vittoria con margine esiguo. Le quattro massime cariche istituzionali sono appannaggio del centro-sinistra, il quale adesso, se davvero formato da una classe politici sì variegata, ma attenta sensibile oculata almeno fino all’orizzonte e senza scomodare i massimi sistemi, abbandonando sofismi e questioni di lana caprina, non può non farsene carico. È già accaduto, adesso i margini perché si ripeta il disinteresse sono molto più stretti. È tempo di azione, non più di riflessioni o, peggio, lo si ripete, di sofismi e di questioni di lana caprina. La speranza dell’amnistia e dell’indulto, lungi dal rasserenare gli animi, li esaspererà sempre di più, con una intensità ed una velocità esponenziale. Il sen. Mastella ha fiuto, lo sta dimostrando mettendo subito sul tappeto le questioni cruciali. Una di essi è il sovraffollamento, la paralisi della vita del carcere e nelle carceri, questa volta i detenuti non si accontenteranno, non si sarebbero accontentati di promesse e chiacchiere più o meno vacue. Meno che mai dell’inazione, dell’oblio. Solo una legge del Parlamento, che va forzatamente a regime in autunno, potrà impedire che accadano gravi fatti nelle carceri, con compromissione della disciplina, dell’ordine interno e della stessa sicurezza dei detenuti e del personale di sorveglianza (la Polizia penitenziaria), non senza considerare possibili riflessi anche sull’ordine pubblico: non tutti i carceri sono al di fuori della cerchia cittadina. Questa dell’A. è solo una previsione, non la lettura dei tarocchi o di una sfera di cristallo: l’A. si può anche sbagliare, si augura fortissimamente di sbagliare. Pisa: il caso di Aristide Angelillo approderà in Parlamento
Ansa, 12 giugno 2006
Il caso di Aristide Angelillo, il detenuto obeso (270 chili) detenuto per reati di droga nel carcere don Bosco di Pisa, approderà in Parlamento. Lo ha annunciato ieri Vladimir Luxuria, deputato eletto nelle liste di Rifondazione comunista, al termine della sua visita alla casa circondariale di Pisa. Luxuria ha ricordato che nel programma dell’ Unione c’é particolare attenzione verso i detenuti malati "Credo ha detto il deputato del Prc che proprio per questo troverò tutto il sostegno e l’ attenzione necessari a questo caso. D’ altra parte si tratta di un problema di umanità, cercando di aiutare una persona molto malata". In questo ambito rientrano, secondo Luxuria, anche i malati di Aids che si trovano reclusi. "L’Aids ha detto Luxuria comporta molti disturbi collaterali per i quali, per quanto un centro clinico sia attrezzato, sono necessarie strutture ospedaliere". Il caso di Aristide Angelillo sarà affrontato domani in sede camerale dal tribunale di Firenze. Il giudice dovrà decidere sulla richiesta di pena alternativa (detenzione domiciliare) così come richiesto dall’ avvocato Francesco Virgone difensore di Angelillo. Viterbo: i detenuti di Mammmagialla salgono sul palcoscenico
Tuscia.net, 12 giugno 2006
Si è svolta, nel pomeriggio dell’altro ieri, la rappresentazione teatrale "Non ti pago" di Eduardo de Filippo, messa in scena dai detenuti-attori del laboratorio "Teatroingradi" della casa circondariale di Viterbo, alla presenza anche degli studenti del liceo Pedagogico del capoluogo. Il prefetto Giacchetti ha potuto assistere ad uno spettacolo di alto livello, che ha ulteriormente avvalorato la propria convinzione che il recupero delle persone è possibile e l’impegno delle istituzioni deve essere costante nel perseguire l’obiettivo espresso nella costituzione in ordine al reinserimento sociale, alla pari dignità umana ed alla solidarietà civile: infatti, le contribuzioni volontarie sono state devolute dai detenuti all’Associazione Eta Beta Onlus di Viterbo. Il rilevante significato della manifestazione ha rafforzato la personale soddisfazione nell’aver inserito tale evento tra quelli patrocinati dalla Prefettura in occasione del 60° Anniversario della Repubblica Italiana. Firenze: all’istituto penale minorile quasi tutti sono stranieri
Redattore Sociale, 12 giugno 2006
"Anche alcuni dei nostri ragazzi hanno partecipato ai laboratori di narrazione, raccogliendo lo stimolo a ricordare e raccontare". Fiorenzo Cerruto dirige l’Istituto penale minorile Meucci di Firenze, ci ha parlato a margine della tavola rotonda di presentazione del progetto "Storievasive", a cui ha preso parte lo scorso giovedì 8 giugno. Il progetto "Storievasive" ha visto 30 ragazzi stranieri e 10 italiani partecipare a laboratori di narrazione, in Lombardia e in Toscana, da cui sono state ricavate 6 fiabe edite in italiano e nella lingua d’origine dei narratori. L’Istituto Meucci al momento ospita un gruppo di 23-24 ragazzi, il 98% di loro è straniero, proveniente in particolare da Maghreb, Romania, Albania. Pochi tra loro sono adolescenti intorno ai 15 anni (l’Istituto può accogliere ragazzi dai 14 ai 21), la maggioranza ha dai 17 anni in su. La presenza prevalente di ragazzi stranieri "non vuol dire certamente che delinquono di più - precisa Cerruto -, piuttosto significa che gli italiani hanno più spesso alle spalle una rete familiare, punti di riferimento o strumenti che consentono loro di avviare percorsi diversi. Quando arrivano all’Istituto è perché il reato commesso è di una gravità tale da richiedere questa strada. Difficilmente i ragazzi stranieri che si trovano qui hanno avuto la possibilità di accedere a percorsi diversi, quindi è l’Istituto che si presenta come soluzione al problema". I ragazzi dell’Istituto penale "sono adolescenti a cui è mancato tutto - aggiunge Cerruto - scappano dai loro paesi cercando una parvenza di felicità, che appunto poi si rivela illusione. Per rendersi conto basti pensare che possono preferire l’Istituto alla vita fuori, perché qui hanno quanto meno un tetto e cibo assicurati, assistenza medica e psicologica, anche se viene a mancare la libertà. Il loro disagio quindi, a differenza di quello dei ragazzi italiani che delinquono, si lega ancora alla necessità di sopravvivere". Ogni ragazzo dell’Istituto - "ma sarebbe più appropriato parlare di comunità, osserva il direttore" – comincia insieme agli educatori un percorso individuale, partecipa a laboratori, alle attività di teatro, può studiare e prepararsi ad un futuro migliore. I ragazzi, contrariamente a quanto avviene in un carcere per adulti, sono per la maggior parte del tempo fuori dalle loro stanze, coinvolti nelle attività, insieme per condividere esperienze. La custodia cautelare, in attesa del giudizio, prevede una permanenza non superiore ai tre mesi, negli altri casi il periodo della pena è stabilito sulla base del reato commesso. I percorsi compiuti dai ragazzi "vengono poi valutati dalla Magistratura, posso dire che nel 60% dei casi abbiamo riscontri positivi. Purtroppo - sottolinea Cerruto - sono frequenti anche le recidive. Se una volta fuori un ragazzo non trova un punto di riferimento che lo accompagni, che gli faccia riprendere un contatto positivo con la realtà, si ritrova a vivere le situazioni che lo avevano portato all’Istituto. Qui entrano in gioco delle problematiche e si evidenziano delle mancanze che noi non siamo più in grado di colmare". Perugia: detenuto albanese evade dal carcere delle Capanne
Agi, 12 giugno 2006
Un giovane detenuto albanese, arrestato dalla polizia su mandato internazionale, accusato di un delitto in Germania, richiuso nel nuovo carcere di Capanne all’estrema periferia di Perugia, è evaso nel pomeriggio eludendo la sorveglianza durante l’ora d’aria. Il detenuto avrebbe scavalcato l’alto muro di cinta e successivamente una cancellata fuggendo a piedi. Immediatamente è scattato l’allarme. Agenti di polizia e guardie carcerarie stanno controllando la zona e le campagne attorno al carcere, inaugurato lo scorso anno nel mese di luglio.
Capanne, il carcere delle polemiche
Aperto da un anno circa, dopo una serie di lungaggini e anche uno strascico giudiziale per gli appalti e il costo dei lavori, (ancora in corso) il carcere di Capanne, situato nell’omonima frazione di Perugia, lungo la Pievaiola, è stato inaugurato con ritardo. È stato però indicato come un nuovo carcere-modello, funzionale e, soprattutto sicuro. Per arrivare al cortile dove sono le celle bisogna passare due mura concentriche, alte circa 8 metri, in cemento armato, sormontate da un filo spinato. Si accede al muro di cinta interno attraverso portoni blindati e controllati. Inoltre le celle e il cortile adibito a ora d’aria sono controllati da telecamere. Pochi giorni fa la direttrice, Bernardina Di Mario, ha aperto le porte all’iniziativa della Uisp, "Corriamo verso la libertà", dove una decina di detenuti ha partecipato ad una gara podistica con atleti locali. Nei prossimi giorni è in programma l’iniziativa "Un arazzo per tutti", produzione di oggetti d’artigianato per le donne carcerate. Pesaro: ancora un agente aggredito in carcere
Il Messaggero, 12 giugno 2006
Ancora una agente di polizia penitenziaria aggredito all’interno del carcere di Villa Fastiggi: è il quinto in sei mesi. Sabato mattina, durante l’ora d’aria, due detenuti extracomunitari hanno cominciato a prendersi a botte. Gli agenti sono intervenuti subito per separarli ma i detenuti hanno reagito violentemente e hanno colpito uno di loro con uno sgabello. L’agente ha riportato una brutta contusione a un ginocchio: ne avrà per 10 giorni. L’ultimo caso era avvenuto a marzo, quando un detenuto aveva mandato al Pronto soccorso due agenti. Il Sappe, il sindacato degli agenti di polizia penitenziaria, ha sempre spiegato questi episodi con il clima di tensione all’interno del carcere dovuto alla mancanza di personale: problema che, negli ultimi mesi, ha superato a Pesaro il livello di guardia. Tant’è che proprio oggi il segretario regionale del Sappe, Aldo Di Giacomo, avrà un incontro ad Ancona con il Provveditorato regionale, domai parlerà con il presidente della Regione, Gian Mario Spacca, e mercoledì con il presidente del Consiglio regionale, David Favia. Per il 5 luglio, invece, è fissata una manifestazione di protesta a Roma davanti alla sede del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il Sappe, nei giorni scorsi, ha anche accusato la direttrice del carcere di Pesaro di comportamento antisindacale chiedendone la rimozione. Si parlerà dei problemi della sicurezza più in generale al sesto congresso provinciale del Siulp (il Sindacato unitario del lavoratori di polizia) che si terrà stamattina all’Oasi di San Nicola. Alle 9.30 il segretario provinciale Marco Lanzi terrà la relazione introduttiva, alle 11 interverranno Sauro Rossi, segretario generale della Cisl di Pesaro, e Franco Burdo, segretario regionale Siulp. Le conclusioni saranno affidate ad Oronzi Cosi, segretario generale del Siulp. Nel pomeriggio si svolgeranno le votazioni per eleggere il nuovo direttivo provinciale e i delegati che parteciperanno ai congressi regionale e nazionale. Usa: Guantanamo, tre detenuti si suicidano in carcere
Adnkronos, 12 giugno 2006
Tre detenuti di Guantanamo si sono suicidati ieri sera nel carcere americano. Le vittime sono due prigionieri di nazionalità saudita e uno yemenita, secondo quanto ha reso noto il Comando meridionale Usa da cui dipende la base. E oggi il ministero dell’Interno di Riad ha rivelato i nomi dei due connazionali morti insieme al detenuto di origini yemenite: si tratta di Manè al-Otaiby e Yasser al- Zahrani, come riferito dal portavoce del dicastero, Mansour al-Torki. "Due sauditi e uno yemenita che si trovavano a Camp 1 sono stati trovati dalle guardie nelle loro celle quando già non respiravano e non rispondevano più agli stimoli", si legge nel comunicato diffuso ieri dal Comando Usa. La loro morte è stata dichiarata dopo che i tentativi di ripristinare le funzioni vitali si sono dimostrati inutili. I militari americani precisano che le salme vengono trattate "con il massimo rispetto" e che è stata aperta un’inchiesta. La notizia è stata diffusa da un funzionario dell’Amministrazione. Il presidente George W. Bush, che si trova a Camp David per il fine settimana, è stato informato di quello che viene descritto come "un incidente". Il gesto appare invece come un atto di protesta contro la prigione militare in cui si trovano ancora circa 460 presunti terroristi, la maggior parte dei quali senza essere mai comparsi di fronte a un giudice o incriminati formalmente. Ma c’è anche chi, come il vice presidente dell’Assemblea nazionale saudita per i diritti umani, Mofleh al-Qahtani, ha espresso forti dubbi sulle cause che hanno portato al decesso dei tre prigionieri nella struttura statunitense a Cuba. "Il carcere non è monitorato da osservatori neutrali - accusa al - Qahtani dalle pagine del giornale al Riyadh - è dunque facile accusare i prigionieri di suicidio; è possibile che siano stati invece torturati" e poi uccisi. Nel frattempo, sono ancora 18 i detenuti della base americana che proseguono lo sciopero della fame che una settimana fa avevano iniziato in 131 per protestare contro le condizioni cui sono costretti. Lo scorso maggio le Nazioni Unite avevano sollecitato la chiusura del carcere, denunciando che la detenzione di persone a tempo indefinito viola il bando internazionale alla tortura. Alla richiesta del Palazzo di Vetro avevano fatto seguito quelle del cancelliere tedesco Angela Merkel, del premier danese Anders Fogh Rasmussen e del ministro della Giustizia britannico Lord Goldsmith. "Vorremmo chiudere Guantanamo, vorremmo che fosse vuoto. Ma ci sono alcuni detenuti che se rimessi in strada costituirebbero un grave pericolo per gli americani e per i cittadini di altri Paesi del mondo. Quindi credo che debbano essere processati in tribunali negli Stati Uniti", aveva dichiarato Bush venerdì scorso, dopo aver incontrato Fogh Rasmussen. Il presidente americano aveva anche precisato che stava aspettando la pronuncia della Corte Suprema in merito alla sua autorità di affidare i casi ai tribunali militari. Usa: Guantanamo; ex detenuto, inevitabile tentare suicidio
Adnkronos, 12 giugno 2006
Per chi ha conosciuto il carcere di Guantanamo, non è una sorpresa che tre detenuti si siano tolti la vita. Anzi. Shafiq Rasul, rinchiuso per due anni e mezzo nella base militare americana sull’isola di Cuba, è convinto che il desiderio di suicidarsi sia del tutto naturale viste le torture cui sono sottoposti i prigionieri. "Sono rimasto sconvolto, ma allo stesso tempo era inevitabile che qualcosa del genere sarebbe accaduto", ha dichiarato Rasul intervistato dalla televisione britannica Sky dopo la morte di due prigionieri sauditi e di uno yemenita. "Vi sono stati molti tentativi di suicidio mentre ero là, a uno ho assistito di persona", ha raccontato. Rasul, rinchiuso a Guantanamo con altri due connazionali di fede musulmana, ha raccontato di essere andato in Pakistan nel 2001 per partecipare a un matrimonio. Lì fu convinto da un imam locale a spostarsi in Afghanistan, dopo lo scoppio della guerra, a distribuire aiuti umanitari alla popolazione. Gli americani lo catturarono e deportarono a Guantanamo dove rimase, senza essere mai stato incriminato formalmente, fino al marzo del 2004 quando fu rilasciato. Tornato libero, Rasul ha accusato il governo americano di averlo torturato e sta cercando di ottenere un risarcimento e ha assicurato di essere stato "regolarmente picchiato, interrogato, incatenato al pavimento in posizioni molto dolorose e lasciato così per ore e ore". Secondo Washington, da quando Guantanamo è stata attrezzata per ospitare presunti terroristi e talebani vi sono stati 41 tentativi di suicidio di 23 prigionieri. Un detenuto ha cercato di togliersi la vita 12 volte. La notizia del suicidio di tre detenuti ha destato molto scalpore ovviamente anche in Arabia Saudita. I due sauditi che si sono tolti la vita sono stati identificati come Manei al Otaibi e Yasser al Zahrani; entrambi avevano partecipato allo sciopero della fame proclamato il mese scorso dai prigionieri in segno di protesta per il durissimo regime carcerario. "La nostra priorità ora è rimpatriare le salme e intensificare gli sforzi per riportare a casa tutti i sauditi detenuti là", ha dichiarato il portavoce del ministero dell’Interno di Riad. Vi sarebbero 103 sauditi tra i 460 stranieri prigionieri a Guantanamo. Usa: Guantanamo; 4 detenuti suicidi, ma nessuno ci crede
Adnkronos, 12 giugno 2006
Protestano le associazioni dei diritti umani e anche il responsabile Onu all’indomani dei quattro suicidi nel carcere di Guantanamo. Sempre che si tratti di suicidi, sarebbero i primi nel centro di detenzione speciale creato dagli americani per i presunti terroristi. Ma le famiglie e i legali di tre di loro, tutti sauditi, non credono che si siano tolti volontariamente la vita e pretendono un’inchiesta super partes. Il presidente americano George W. Bush ha espresso "profonda inquietudine" mentre il governo britannico ha definito il caso "un triste incidente". Ma l’ipotesi più incredibile è quella formulata dal contrammiraglio americano Harry Harris, comandante della base di Guantanamo. Secondo il militare, i suicidi non dipenderebbero dal livello di disperazione dei detenuti ma sarebbero piuttosto da archiviare come veri e propri "atti di guerra". In pratica i presunti terroristi uccidendosi sarebbero alla fine riusciti a mettere in atto un piano "d’attacco", come i martiri dei kamikaze che si fanno esplodere per colpire il nemico. Secondo la versione ufficiale i tre sono stati trovati morti sabato mattina nelle loro celle e si sarebbero impiccati con cappi improvvisati annodando lenzuola e indumenti, come ha precisato lo stesso ammiraglio Harris. Le organizzazioni per i diritti umani saudite non credono si sia trattato di suicidi ma neanche di martiri e vorrebbero accertare le responsabilità delle autorità che gestiscono il carcere. "Le famiglie non ci credono, e neanche io ci credo" alla teoria del suicidio - ha affermato Me Kateb al-Chammari, il legale che rappresenta le famiglie dei due detenuti sauditi morti a Guantanamo, aggiungendo - è stato commesso un crimine e ne sono responsabili le autorità americane". Del resto, come fanno notare gli integralisti, nessun mujaeddin, nessun combattente, può suicidarsi in base alla sharia, la legge islamica. Intanto il portavoce del ministero dell’Interno saudita, Mansour Turki, ha annunciato che il governo ha già iniziato le procedure per garantire il ritorno delle salme di Mani bin Shaman bin Turki al Habradi e di Yasser Talal Abdullah Yahya al Zahrani, i tre detenuti sauditi morti. Di un quarto suicida, di nazionalità yemenita, non è neppure trapelato il nome. Si tratta dei primi casi di suicidio registrati nel penitenziario, aperto dagli Usa nel 2002. Da allora si erano registrati oltre 40 tentativi di suicidio da parte di almeno 20 detenuti, solitamente compiuti tramite impiccagione o overdose di medicinali. A Guantanamo è tutt’ora in corso anche uno sciopero della fame in protesta contro le condizioni di detenzione, anche se il numero degli aderenti è sceso da 131 a 18. Il 25 percento dei detenuti a Guantanamo è di nazionalità saudita. Domenica Amnesty International è tornata a chiedere la chiusura del carcere "illegale" di Guantanamo. E ora anche il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, Manfred Nowak - co-autore del rapporto Onu sul carcere speciale Usa a Guantanamo, sull’isola di Cuba, pubblicato a febbraio - invita l’Unione europea a premere per una rapida chiusura da parte degli Stati Uniti del centro di detenzione per sospetti terroristi nella base militare Usa della baia di Guantanamo, nel corso del prossimo vertice con il presidente americano George W. Bush previsto a Vienna il 21 giugno.
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