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Rapporto sui Diritti Globali 2006: i "numeri" delle carceri italiane
Redattore Sociale, 13 giugno 2006
In Italia ci sono 207 istituti penitenziari, suddivisi in 36 case di reclusione, 163 case circondariali e 8 istituti per le misure di sicurezza. Al 31 dicembre 2005 erano presenti 59.523 detenuti, di cui 56.719 uomini e 2.804 donne. La capienza regolamentare, secondo la Relazione del ministero della Giustizia per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario 2006, è di 42.912 posti (ma in altro punto della Relazione si dice che la capienza è di 35.124 uomini, 3.233 donne, 2.398 semiliberi, per un totale di 40.755 posti). In pratica, ogni 2 posti letto ci sono 3 detenuti. Gli ingressi dalla libertà, nel corso del 2005, sono stati 89.887 (80.957 uomini e 8.930 donne) di cui 40.606 stranieri (35.202 uomini e 5.404 donne). Rispetto ai 25 Paesi dell’Unione Europea, l’Italia ha una densità penitenziaria tra le più alte (133,9%), superata solo dalla Grecia (156%) e dall’Ungheria (159%). Al 31 dicembre 2005, gli stranieri detenuti erano 19.836, di cui 1.302 donne. Le nazionalità maggiormente rappresentate sono il Marocco (21,2%), l’Albania (15%), la Tunisia (10,5%). Le espulsioni disposte ai sensi dell’art. 15 legge 189/02 ("Bossi-Fini") sono state: 449 nel 2002, 1.161 nel 2003, 1.038 nel 2004, 1.242 nel 2005. Al 31 dicembre 2005 i detenuti tossicodipendenti erano 16.135 (27,1%) e 1.334 quelli alcoldipendenti; solo 1.932 (3,2%) risultavano in trattamento metadonico. Secondo calcoli prudenziali, per tenerli in carcere lo Stato spende quasi un miliardo di euro all’anno. A fronte, si consideri che la retta invece pagata dalla ASL per i tossicodipendenti ospitati in comunità terapeutiche è di 32-47 (a seconda delle regioni) euro al giorno. Sui 19.836 immigrati reclusi ne risultano tossicodipendenti 3.564. Secondo l’Osservatorio europeo sulle droghe, sino al 21% dei detenuti che si iniettano sostanze stupefacenti, ha cominciato a farlo proprio in carcere. Gli studi disponibili indicano che una percentuale compresa tra l’8% e il 60% (a seconda dei Paesi europei) dei detenuti segnala un consumo di sostanze stupefacenti all’interno del carcere; un 10-42% ne segnala un uso regolare. I reclusi affetti da Hiv risultano quasi il 2,6% (al 31 dicembre 2005 erano 1.492 mentre 156 erano affetti da malattie indicative di Aids), ma la cifra è da considerarsi sottostimata, essendo volontario lo screening. Secondo i medici penitenziari la cifra reale è tripla: il 7,5% dei detenuti sarebbe sieropositivo, il 38% positivo al test per l’epatite C e il 50% a quello dell’epatite B, mentre il 7% presenta l’infezione in atto e il 18% risulta positivo al test della Tbc. Nel 57,5% delle carceri si sono registrati casi di TBC e nel 66% di scabbia; 11.800 (19,83%) sarebbero affetti da patologie del sistema nervoso e da disturbi mentali. Il costo dell’assistenza sanitaria ripartita per ogni detenuto è passata dai 1.846 euro spesi nel 1995 agli attuali 1.607, contro i 1.557 euro di costo per ogni cittadino libero. Il 13% dei detenuti (circa 7.800) presenta uno stato di salute compromesso, a fronte del 7% della popolazione libera. La tossicodipendenza riguarda il 21,54% dei detenuti, contro il 2,10% dei cittadini liberi. Circa il 20% (vale a dire un detenuto su 5) soffre di disagi psichici: il 10,25% di depressione, il 6,04% di altre patologie mentali, il 3% di malattie neurologiche e lo 0,8% di deterioramento psicologico. Le malattie epatobiliari e del pancreas affliggono il 10,9% dei detenuti (contro il 4,2% dei cittadini liberi), quelle dell’apparato digerente il 9,1% (contro il 10,1% della popolazione). Nei primi tre mesi del 2006 i suicidi accertati sono stati almeno 14. Nel 2005 vi sono stati almeno 57 suicidi e 22 morti per cause non accertate. Dal 1998 al 2005 in totale vi sono stati 1.191 morti, di cui almeno 447 suicidi: 1998: 129 detenuti morti, di cui 51 per suicidio. 1999: 126 detenuti morti, di cui 53 per suicidio. 2000: 160 detenuti morti, di cui 56 per suicidio. 2001: 177 detenuti morti, di cui 69 per suicidio. 2002: 160 detenuti morti, di cui 52 per suicidio. 2003: 157 detenuti morti, di cui 57 per suicidio. 2004: 172 detenuti morti, di cui 52 per suicidio. 2005: 110 detenuti morti, di cui 57 per suicidio. Giustizia: indulto o amnistia, ma in una riforma della giustizia di Antonio Antonuccio (Dottore in Scienze del Servizio Sociale)
www.osservatoriosullalegalita.org, 13 giugno 2006
Le aspettative sono necessarie e vanno incoraggiate; esse sono i mattoni utili per la costruzione della casa sociale, altresì, indispensabili per l’evoluzione dell’essere umano. Vanno, tuttavia, ricondotte alla ratio della possibile e concreta realizzazione, giammai disattese…, ancor più, non avanzate come mero strumento di seduzione…, pena la forte riprovazione verso la fonte. Finito l’agone politico dell’ultima tornata elettorale, insediato il novello Esecutivo, stiamo assistendo ad una ridda di dichiarazioni o, meglio, ad una diatriba su come affrontare il problema dello sfoltimento delle carceri italiane. Il problema è veramente da risolvere ed un intervento del neo guardasigilli è, quanto mai, opportuno. La sua posizione, tuttavia, è necessario rifugga il populismo o le false illusioni, specie se c’è il reale rischio di colpire chi vive nel disagio. Procedere per un atto di clemenza nei confronti dei detenuti significa avanzare in un campo minato, un terreno sicuramente irto di difficoltà, poiché afferente al pianeta giustizia. In un terreno, dicevo, così periglioso, è necessario agire con buon senso e sicuramente con proposte serie, ben valutate e, pena la riprovazione, concretamente realizzabili. La semplice proposta dell’indulto e/o amnistia, da sola, risulta essere inadeguata e fuorviante per la risoluzione del problema. In questo, sicuramente non è d’aiuto il via libera da parte del Vaticano che, per bocca del Capo dei Cappellani delle Carceri, monsignor Giorgio Caniato, giudica "assai favorevolmente" l’iniziativa e si augura che "possa andare avanti" spero solo, ha aggiunto Caniato, "che almeno stavolta non si voglia illudere il mondo carcerario". In verità, le dichiarazioni del prelato rischiano di passare come una presa di posizione superficiale, poiché non supportata da una visione a 360° o, meglio, da un progetto integrato. Nella stessa maggioranza di governo è scoppiata la polemica; Di Pietro ha invitato Mastella - a cominciare dalla testa invece che dalla coda e a pensare ad una serie di atti per far funzionare la giustizia -, quindi, con il chiaro monito ad occuparsi prima della riforma della giustizia e poi dell’amnistia. In tal contesto, non aiuta nemmeno la dichiarazione resa al quotidiano La Stampa da parte del Sottosegretario alla Giustizia avvocato Luigi Li Gotti; egli, nell’intervista di Flavia Amabile, del 4 giugno 2006, ha espressamente detto che "per le riforme è necessario tempo. Per un indulto è necessario soltanto studiare gli istituti da escludere, ed è fatto"; egli stesso ammette: "Sì, le carceri sono un’emergenza. Bisogna occuparsene subito. …abbiamo avviato degli studi sull’impatto dell’amnistia, dell’indulto e dell’ex-Cirielli per capire quanto si modificherà la popolazione carceraria". In questo dire, appare, senza equivoci di sorta, la mancanza di un chiaro progetto; in tal senso, forse, è opportuno tacere. L’amnistia e l’indulto non sono certamente provvedimenti che possono risolvere i problemi della giustizia, ma solo a differirli, sono un palliativo. I casi precedenti di interventi di questo tipo, ed in generale i dati, dimostrano che, dopo pochi mesi la loro applicazione, il problema del superaffollamento delle carceri riemerge in tutta la sua gravità. Lo stesso Mastella, in una sua lettera al quotidiano Repubblica, ha precisato "È del tutto ovvio, poi, che un atto di clemenza non possa risolvere i problemi delle carceri… non è solo problema dei detenuti… riguarda gli agenti di polizia penitenziaria, il cui lavoro è improbo…". Egli, in questo caso, ha dimenticato che i "ristretti" non sono "seguiti" soltanto dagli agenti, ma, anche, da diverse "alte professionalità" che si occupano di tutta una serie di interventi istituzionali, in particolare dell’osservazione scientifica della personalità intra-moenia, finalizzata alla formulazione del programma di trattamento del detenuto (art. 13 legge 354/75 - Ordinamento Penitenziario), quali assistenti sociali, psicologi ed educatori ed altrettanti assistenti sociali e psicologi dell’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, che intervengono nella gestione della pena in misura alternativa extra-moenia. Essi sono professionisti che, in una situazione numerica assolutamente inadeguata, quotidianamente intervengono per cercare di studiare e porre in essere atti concreti per dare risposte e sostegno, utili ad arginare situazioni multiproblematiche di disagio. Una soluzione di clemenza perché sia efficace è necessario sia parte integrante di un progetto ben più ampio. Certamente, con la popolazione carceraria di circa 62.000 ristretti, gli istituti di pena, che ne possono contenere poco più di 40.000, sono al collasso. Un provvedimento liberatorio, tuttavia, accompagnato da un minore controllo dei flussi migratori, sarebbe un provvedimento inutile; facile prevedere che l’arrivo in Italia di un gran numero di persone, prive di un lavoro, finirebbe per fornire manodopera alla criminalità organizzata, con la conseguenza che le carceri tornerebbero a riempirsi in tempi brevissimi. È, pertanto, inderogabile intervenire sulla legislazione vigente, poiché lo scorso anno sono entrati circa 9.700 stranieri, responsabili solo di violazioni alle norme sull’ingresso in Italia. È, altresì, indispensabile mettere mano alla legge ex-Cirielli che ha aumentato le pene per i recidivi e ha precluso loro la possibilità di ricorrere alle misure alternative. È necessario, ancor più, una soluzione di riforma che operi con una giustizia veloce, equa ed efficace, arrivando a leggi che permettano di giudicare più rapidamente le persone rinviate a giudizio e/o condannate in primo grado. Bisogna individuare tutta una serie di reati per i quali comminare una pena eseguita con il lavoro sociale. Per ultimo, tuttavia, non per minore importanza, anzi, è necessario dare più valore e visibilità al sistema delle misure alternative, prevedendo il potenziamento dell’organico, al fine di porre in essere e sedimentare progetti e percorsi rieducativi mirati che, coinvolgendo in un sistema di rete, tutti i settori del tessuto territoriale di pertinenza (Enti Locali, volontariato, associazioni no-profit, ecc.), siano tesi a provvedere e seguire con controllo e sostegno i condannati, indirizzandoli verso stili di vita armonici, in regola con la normativa ed il comune sentire sociale. Diversamente, ogni ipotesi di clemenza è destinata ad un altro fallimento, utile soltanto da grancassa propagandistica. Amnistia: l’Unione apre un tavolo tecnico-parlamentare
Vita, 13 giugno 2006
La decisione presa poco fa nel corso di una riunione dei capigruppo di Camera e Senato. L’Unione ha deciso l’immediata apertura di un tavolo tecnico-parlamentare per affrontare la questione dell’amnistia. È quanto è emerso nel corso della riunione dei capigruppo di Camera e Senato dell’Unione, ancora in corso, secondo quanto ha riferito il presidente dei senatori Prc, Giovanni Russo Spena. "Sull’amnistia abbiamo deciso che non è possibile deludere oltre le aspettative di così tante persone - ha detto Russo Spena - e quindi abbiamo deciso di dare vita immediatamente, nell’arco di 24 ore, a un tavolo tecnico parlamentare e di avviare immediatamente dei procedimenti nei confronti della Cdl perché ogni decisione su questo tema richiede un’ampia convergenza e pretende una maggioranza qualificata dei componenti del Parlamento". Roma: proteste a Rebibbia, An chiede consulta provinciale
Il Giornale, 13 giugno 2006
In seguito alla protesta dei detenuti andata in scena sabato a Rebibbia è intervenuto ieri con una nota Massimo Davenia, vicepresidente del gruppo di An alla Provincia: "Bisogna istituire una consulta provinciale che si occupi dei problemi penitenziari. Potrebbe provvedere a denunciare situazioni di rischio ai danni dei carcerati, ai quali in quanto esseri umani va assicurato il diritto alla salute, al miglioramento della qualità della vita, all’istruzione, alla cultura, allo sport, alla socializzazione e ogni altra prestazione finalizzata al recupero, alla reintegrazione sociale e all’inserimento nel mondo del lavoro". Milano: detenuto marocchino sale sui tetti per protesta
Ansa, 13 giugno 2006
È durata quasi sei ore la protesta di un detenuto, un marocchino di 22 anni, che questo pomeriggio scalando i tubi delle grondaie dal cortile della passeggiata, si è installato sul tetto del carcere di San Vittore e ha minacciato a lungo di gettarsi nel vuoto per rivendicare la sua innocenza. Sul posto sono subito giunti di vigili del fuoco che hanno steso un telone e il sostituto procuratore di turno che, insieme al direttore del penitenziario, Gloria Manzelli, e allo stesso avvocato del detenuto, hanno cominciato una trattativa per farlo scendere Il magrebino, in carcere perché indagato per una rapina, si è poi convinto a desistere quando sul posto è arrivata anche la sua fidanzata, una giovane italiana di 19 anni. Lettere: Nuoro; E.I.V. significa elevato indice di vigilanza...
www.informacarcere.it, 13 giugno 2006
Non abbiamo neanche la possibilità di ricorrere al Tribunale di Sorveglianza, è peggio del 41 bis perché si sa quando si entra ma non si sa quando si esce, perché solo il D.A.P. decide quando toglierlo. Eppure il mio amico Carmelo Musumeci che ha vinto un ricorso alla Corte Europea di Strasburgo, ha invitato il Governo a mettere la sezione E.I.V. come legge, in modo che si possa ricorrere al Tribunale di Sorveglianza. Ma fino adesso ciò non è ancora avvenuto, ci sono persone che stanno in E.I.V. da 8 anni. Le restrizioni sono che: non possiamo stare con detenuti A.S. e detenuti comuni, anche se in tutti gli altri istituti i detenuti E.I.V. frequentano i corsi di scuola con detenuti A.S., qua a Nuoro non è concesso; non c’è concesso di far parte della Commissione della cucina e di quella sportiva; non ci sono concessi colloqui con terzi, e neanche con cugini con lo stesso cognome; ma la cosa più inspiegabile è che non si può ricorrere al Tribunale di Sorveglianza per decidere se uno è meritevole e meno di essere declassificato. L’E.I.V. viene dato o per pericolosità interna o esterna, nel mio caso specifico non capisco come mai mi sia stato applicato dopo undici anni di 41 bis. Il D.A.P. mi ha applicato l’E.I.V. automaticamente e sono già trascorsi tre anni da allora. La cosa che più mi duole è che in questo carcere mi sento emarginato, non posso frequentare ne corsi di scuola superiore, ne il corso di computer che deve iniziare a breve perché li danni ai detenuti in A.S., eppure, a livello dei benefici noi siamo visti dai Giudici di Sorveglianza uguali ai detenuti in A.S., solo che siamo penalizzati per gli studi ed i corsi, ma ciò avviene soltanto in questo istituto e a quanto pare nessuno si cura di noi. Poco tempo fa io e Carmelo Musumeci abbiamo scritto una commedia, abbiamo chiesto di farci entrare un docente per poterla rappresentare, spero che ce lo concedano, almeno stiamo impegnati, perché in carcere senza far niente ci si esce peggio di quando si entra.
Aldo Gionta, Carcere di Nuoro Perugia: detenuto evaso, nota del Sappe al ministro Mastella
Comunicato stampa, 13 giugno 2006
"L’evasione avvenuta a Perugia ha messo in luce ancora una volta tutte le carenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Le modalità con cui l’evasione è stata posta in essere non lasciano dubbi sulle responsabilità dell’ Amministrazione Centrale." Lo scrive in una nota diretta al ministro della Giustizia Clemente Mastella ed ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tinebra e Emilio di Somma (Capo e Vice Capo del Dap) la Segreteria Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria – Sappe, l’Organizzazione più rappresentativa della Categoria con 12 mila iscritti. "È stato infatti segnalato a questa Segreteria che il detenuto sarebbe evaso servendosi di un paletto in ferro e della rete antiscavalcamento posti sul muro di cinta. Il ferro, se l’impianto funzionasse, una volta toccato dovrebbe lanciare l’allarme alla Centrale. Purtroppo, siccome l’impianto non funziona perché non è stato ancora collaudato, il detenuto si è servito proprio del paletto in ferro per raggiungere il muro di cinta e scavalcarlo" denuncia Donato Capece, segretario generale Sappe. "Peraltro, sembrerebbe che la direzione aveva più volte chiesto altri interventi strutturali e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria avrebbe risposto che non erano necessari poiché il muro di cinta era sufficientemente alto (7 m.). Ciò, evidentemente, non può ritenersi sufficiente, soprattutto in un istituto dove la carenza di organico non consente nemmeno di sopperire al mancato funzionamento dell’impianto anti-intrusione e antiscavalcamento con l’impiego delle sentinelle. Sul perimetro del muro di cinta (lungo un chilometro e mezzo) sono installate 7 garitte e nell’arco delle 24 ore bisognerebbe impiegare 60 agenti. Questo non è evidentemente possibile se si considera che con 200 agenti il Direttore e il Comandante devono garantire la sicurezza di due istituti (il vecchio e il nuovo) più il Centro Clinico che necessita di 30 agenti a fronte di circa 10\12 detenuti ricoverati che potrebbero anche permanere nel nuovo istituto". "Tutto ciò considerato" conclude Capece "non si può che lodare il lavoro sinora svolto dal direttore e dal Comandante del reparto, a fronte di un’Amministrazione centrale che sembra non offrire la benché minima collaborazione per garantire le condizioni minime di sicurezza nell’istituto di Perugia." Televisione: Ballarò, nella puntata di stasera si parla di carcere
Varese News, 13 giugno 2006
Si parlerà di carcere nella puntata di stasera di Ballarò, la trasmissione in onda su Raitre alle 21. Paolo Serbandini, l’inviato del settimanale d’informazione condotto in diretta da Giovanni Floris, intervista un detenuto in semilibertà nel carcere dei Miogni di Varese. Ma oltre a spiegare quale sia la situazione all’interno del penitenziario varesino, si parlerà anche dell’ipotesi di realizzare una nuova struttura penitenziaria al confine con Gazzada Schianno. Intervistato anche il vicesindaco di Gazzada, Alfonso Minonzio, che ha ripercorso le tappe del braccio di ferro con il comune di Varese per impedire che le ruspe devastassero il parco a sud del capoluogo. Perugia: detenuto evaso, inchiesta per capire chi ha sbagliato
Il Messaggero, 13 giugno 2006
Altri segnali del suo passaggio sono stati trovati nella zona di Monte Petriolo, ma ieri, ormai, ogni traccia era cancellata. E adesso le indagini si concentrano sul futuro, comincia la partita a scacchi con l’assassino che ha fatto fuori un suo connazionale, sparandogli con una pistola alla testa, davanti a un locale notturno in Germania. Il suo modo per pareggiare una discussione, forse un intralcio ai suoi affari illeciti. Da allora Paja è ricercato, fino a quando, alla fine del gennaio scorso, non passa da Perugia. Qui ci sono due ragazze, in un appartamento del Bellocchio, che si prostituiscono per lui. Ha bisogno di soldi, Paja, e vuole passare da loro a incassare. Però a rispondere al telefono non sono le sue ragazze. È una poliziotta, che prende accordi per incontrarlo a Torricella e consegnarli i soldi. All’appuntamento arrivò la polizia, ma prenderlo non fu facile perché lui non si arrese fino alla fine. Fu necessario sparare in aria e non bastò. Bisognò speronare la sua auto e farlo finire fuori strada. Paja ebbe una frattura scomposta al polso e prima di entrare in ospedale fu operato. Oggi, dopo cinque mesi e mezzi, riesce a scavalcare due muri di cinta del carcere e una cancellata facendo leva solo sulla forza delle braccia, riuscendo a lanciare un rampino con attaccato una corda o un lenzuolo e poi, grazie a quello, scavalcare un altro muro di cinta alto otto metri e protetto in alto dal filo spinato. Il tutto in pochi minuti, sotto l’occhio delle telecamere che, evidentemente, qualcuno guardava distrattamente. Incredibile e forse nemmeno del tutto vero. L’inchiesta del pubblico ministero Andrea Claudiani parte da un punto fermo: l’allarme dentro al carcere di Capanne è scattato quando l’uomo stava scavalcando l’ultimo muro di cinta. Quando gli agenti della polizia penitenziaria sono corsi per cercare di fermarlo era ormai troppo tardi. Hanno potuto solo indicare la direzione di fuga, verso Castel del Piano. Direzione che poi è stata modificata. Una versione della fuga che ha tanti punti oscuri. Paja era scalzo e quei muri di cemento armato dritti e lisci sono un ostacolo difficilissimo da superare. E poi, come si è fatto quel rampino di ferro in cella, come è riuscito a farlo volare per otto metri, ad agganciarlo senza sbagliare in cima al muro di cinta per due volte? E tutto sotto gli occhi degli altri carcerati che, con pieno spirito di gruppo, non l’hanno fermato. E sotto quello delle telecamere. È così facile scappare da Capanne oppure c’è stato qualcosa che non ha funzionato? Il magistrato sta facendo la sua parte, con l’apertura del fascicolo. Un’indagine amministrativa interna è stata, invece, avviata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ieri il provveditore regionale del Dap ha compiuto un primo sopralluogo nella struttura di Capanne. Gli accertamenti, ancora nella fase iniziale, proseguiranno nei prossimi giorni e vi parteciperanno anche funzionari provenienti da Roma. Finora a questo momento non sono emerse irregolarità di tipo amministrativo. Ma le indagini sono appena all’inizio. Viterbo: un giovane slavo tenta la fuga dal carcere
Il Messaggero, 13 giugno 2006
Tentata evasione dal carcere di Viterbo: questo il capo di imputazione contestato a Drham Kastriot, uno slavo di 25 anni che si trovava detenuto nell’istituto circondariale di Mammagialla per altri reati. Seguendo la migliore tradizione carceraria, il 16 gennaio 2005 il giovane ha progettato e tentato la propria fuga verso la libertà calandosi dalla finestra della propria cella. L’audace tentativo si è svolto in pieno giorno secondo una dinamica precisa nei particolari. Il detenuto, dopo avere coperto con accappatoio ed asciugamani la porta-inferriata della propria cella che si affaccia sul corridoio dello stabile, allo scopo di impedire la visuale di ciò che stava accadendo all’interno, si è calato velocemente e con destrezza dalla finestra. Singolare lo strumento di fuga utilizzato, predisposto e preparato con cura dal fuggitivo nei giorni precedenti: la fune era stata realizzata utilizzando manici di scopa coperti da lenzuola e saldati artigianalmente con l’impiego di pezzi di gomma ricavati dai resti di un pallone da volley. Tuttavia il tentativo di fuga è fallito senza potersi concretizzare nella tanto sospirata libertà. All’ora di pranzo, dopo un normale controllo, gli agenti della polizia carceraria si sono accorti dell’evasione ed hanno dato l’allarme. Immediata la ricerca del fuggitivo che è finita con la scoperta del giovane che si era nel frattempo nascosto dietro i contenitori dell’immondizia, in attesa del momento propizio per poter proseguire la sua fuga. Bloccato a fatica e fermato da sette agenti, è stato immediatamente condotto in un posto sicuro. Nell’udienza di ieri, constatata la mancata presenza in aula dei precedenti difensori dell’imputato, il giudice ha nominato come difensore di ufficio l’avvocato Ballarini che, dopo un breve colloquio con il detenuto, gli ha proposto di avvalersi del ricorso al patteggiamento o comunque al rito abbreviato al fine di usufruire di una riduzione della pena. Di fronte però al rifiuto dell’imputato e alla sua ferma intenzione di essere giudicato con il rito normale, il giudice ha disposto il rinvio dell’udienza al 25 ottobre prossimo, data in cui si provvederà all’audizione dei testi. Droghe: Migliore (Prc); le "stanze del buco" vanno fatte
Apcom, 13 giugno 2006
"È un’iniziativa che va fatta, al di là dei nomi truculenti che gli vengono assegnati". Lo ha detto il presidente dei deputati del Prc, Gennaro Migliore, a proposito della proposta, lanciata dal ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero, di sperimentare le cosiddette stanze del buco per i tossicodipendenti. "Ferrero - ha proseguito Migliore - ha detto una cosa sacrosanta: che da una politica repressiva si passi a una politica che metta al centro la persona". "Non bisogna avere atteggiamenti squallidamente benpensanti - ha osservato il capogruppo del Prc alla Camera riferendosi alle reazioni della Cdl - Ferrero ha parlato non solo come ministro di Rifondazione comunista ma anche come ministro di un’area di competenza che è la Solidarietà sociale che ha proprio il compito di mettere al centro la persona". Infine, Migliore ha ribadito la necessità di cancellare la legge Fini-Giovanardi sulla droga perché "è una legge ideologica che va contro i giovani di questo Paese. Se non viene eliminata subito le carceri e i tavoli dei magistrati saranno presti intasati". Brasile: chiuso per sempre il carcere-città di Carandiru
Associated Press, 13 giugno 2006
Il carcere di Carandiru, uno dei complessi carcerari più grande del mondo, è finalmente e definitivamente vuoto. Quando parte della struttura del carcere venne demolita, alla fine dell’anno scorso, la città tirò un sospiro di sollievo. Era la fine di una lunga storia di terrore, paura e degrado. Oggi, finalmente, il Carandiru rimane solo un ricordo, un incubo da dimenticare. Sulla sua area, luogo di storie tragiche e disumane, per rimarginare la ferita della città sorgerà il "Parco della Gioventù", con spazi riservati alle pratiche sportive, uffici per le ong, nuclei per la formazione professionale, musei e sale spettacolo. Quando sarà finito, il Parco della Gioventù potrà ricevere più di 7 mila persone al giorno. Oltre alle piste di atletica, 10 palestre e un grande giardino, il Parco avrà ancora un Centro per la cultura, con corsi di arte scenica, musica e danza per 3.500 allievi. Infine avrà un Centro di eccellenza per il terzo settore, un Centro per la tecnologia e un Centro per la formazione professionale. Ma per rispetto dei tanti detenuti che al suo interno hanno passato anni, e per rispetto delle famiglie che quotidianamente facevano la spola tra la città e il grande penitenziario, è necessario anche ricordare cos’ha voluto dire l’esperienza del Carandiru per la città di San Paolo.
Dimensioni ciclopiche
La struttura, aperta nel 1956 per il reinserimento dei "devianti" nella società, in breve tempo si è conquistata una triste fama per i tanti episodi di violenze avvenuti all’interno delle sue mura. Nel giro di pochi anni si trasforma in una scuola di banditismo: impostori, spacciatori, ladruncoli insieme a stupratori, sequestratori e assassini nella promiscuità. I detenuti che cadevano nel "pentolone" uscivano (per fine pena o per evasione) molto più sfiduciati di quando erano entrati, e senza alcuna possibilità di inserimento nella società. Composto da sette padiglioni per un totale massimo di 3.250 detenuti in attesa di sentenze, è arrivato a contenerne fino a 8.000, anche definitivi. Tutto quello che succedeva dentro il Carandiru assumeva proporzioni giganti. Nel corso della sua storia la struttura ha visto transitare oltre 170 mila persone, di cui almeno 1.300 assassinati nello scoppio di furibonde liti al suo interno.
Il massacro
L’insurrezione più famosa, riportata dalla stampa mondiale, avvenne il 12 di ottobre del 1982. Tutto è cominciato come sempre accadeva in quell’"inferno". Due prigionieri cominciano a litigare per uno spazio nello stendino della biancheria. Uno aggredisce l’altro, e immediatamente arrivano le guardie carcerarie. Soccorrono il ferito e immobilizzano l’aggressore. Questa volta però la cosa è destinata a ingrandirsi, e a causa dei disagi causati dal sovraffollamento, gli animi dei reclusi cominciano a infuocarsi. Scoppia la ribellione. Le guardie abbandonano le posizioni. Il padiglione cade in mano ai detenuti. Scoppia un’enorme lite che coinvolge la maggior parte dei detenuti. Quando la Polizia militare (allertata dalle guardie) arriva, i detenuti buttano coltelli e altri oggetti da taglio, per dimostrare che non vogliono resistere alle forze armate. Ma non ci sono margini di negoziazione. Trecentoventicinque poliziotti fanno irruzione nei padiglioni. Nessuno di loro portava la targhetta di identificazione. Non è stata autorizzata la presenza di alcuna autorità civile durante l’operazione. I militari aprono il fuoco sui detenuti con mitragliatrici, fucili e pistole automatiche. Alla fine del blitz 111 detenuti giacciono a terra morti: 103 vittime di spari (515 spari in tutto) e otto uccisi con armi da taglio. I feriti, alcuni in maniera grave, sono 130. "Ho dovuto nascondermi sotto i corpi dei compagni morti per sopravvivere - racconta l’ex detenuto José André de Araújo, che all’epoca aveva 21 anni - I poliziotti entravano chiedendo se c’era qualcuno vivo. Se c’era veniva ammazzato sul momento". Una ricerca condotta sulla posizione delle vittime, ha dimostrato che l’ 80% non avevano ancora avuto la condanna e aspettavano la sentenza definitiva. Quasi la metà dei morti - 51 - aveva meno di 25 anni, e 35 di loro avevano fra i 29 e 30 anni. Il colonnello Ubiratan Guimarães, responsabile dell’operazione, è stato condannato in primo grado a 632 anni di carcere, ma aspetta in libertà la sentenza definitiva e, recentemente, è stato candidato a deputato per lo Stato di San Paolo.
Un altro mondo impossibile
Prima di essere demolito, il Carandiru è stato aperto al pubblico. Per 30 giorni la popolazione di San Paolo ha potuto percorrere i suoi corridoi scuri e sporchi, le celle collettive (tante volte con addirittura 12 detenuti per unità al posto di 6), e le sue mura coperte di foto di donne nude. Un funzionario ha raccontato che fino gli anni ‘80, quando ancora non erano permesse visite intime da parte delle mogli, i detenuti mettevano all’asta i prigionieri più giovani, scelti di volta in volta per diventare la "donna" dei più anziani. "Qui era un altro mondo - spiega il funzionario - nulla di quello che accadeva dentro si poteva riferire al di fuori delle mura". "Oggi vede questi locali aperti al pubblico - racconta piangendo l’ex detenuto Gilberto Souza, 55 anni, che ha portato la moglie per conoscere "l’inferno" dove ha vissuto per 10 anni - ma non può immaginare com’erano". Non esistono ricordi positivi del complesso carcerario. Perfino il governo ha ammesso che negli ultimi anni la struttura era talmente disorganizzata da essere ormai impossibile da amministrare. La situazione è arrivata fino al punto che il 60% degli interni avrebbero avuto diritto alla condizionale o al regime di semi libertà, ma continuavano a stare all’interno per l’impossibilità di far eseguire le sentenze. Le carenze della Giustizia brasiliana (prima fra tutti la cronica mancanza di magistrati per seguire i casi) mantenevano il detenuto dietro le sbarre, senza una speranza, aumentando in lui ancora di più il potenziale esplosivo, creando quella massa umana insoddisfatta artefice delle famose rivolte.
Un libro, un film
In Brasile sono usciti un libro e un film sulla storia del carcere brasiliano. Il libro, Estação Carandiru, è stato pubblicato dalla Companhia das Letras, e attende che qualcuno voglia tradurlo anche in italiano. Autore è il medico brasiliano Drauzio Varella, che a partire dal 1989 ha fatto il volontario al Carandiru in un programma di prevenzione all’aids. Un grande successo, e ancora oggi appare come uno dei primi in classifica. Il libro racconta storie come quella del vecchio Lupercio, consumatore accanito di marijuana che racconta:"Le regole di comportamento all’ora dei pasti erano molto rigide: mentre si mangiava non si poteva usare il bagno, tossire, sputare, e tanto meno succhiare i denti. Chi faceva una sola di queste cose veniva subito preso a botte". All’interno della struttura, si racconta nel libro, si viveva in un mondo a parte, fatto di regole imposte dai più forti tra gli stessi prigionieri, che in qualche modo riuscivano comunque a garantire un minimo di sicurezza alla popolazione carceraria, facendo leva su una sorta di solidarietà tra le migliaia di uomini reclusi. "Lentamente ho imparato che il carcere infantilizza l’uomo - spiega l’autore - e per avere a che fare con i detenuti è necessaria una certa conoscenza pediatrica. Molte volte è sufficiente lasciarli sfogare, far raccontare i loro risentimenti, o semplicemente essere d’accordo con l’intensità della sofferenza che dicono sentire per vederli sollevati". Estação Carandiru è recentemente diventato anche un film, diretto dal regista Hector Babendo, atteso in Europa nei prossimi mesi. Usa: da Corte Suprema nuove speranze per condannati morte
Ansa, 13 giugno 2006
I 3.300 condannati a morte che negli Usa attendono l’esecuzione, ora hanno in mano nuove armi legali per sfidare il boia. Con una doppia sentenza, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto il diritto dei detenuti a presentare ricorsi dell’ultimo minuto sulla legittimità dell’iniezione letale e ha concesso a un condannato di ricorrere al test del Dna per ribaltare una sentenza di pena capitale di oltre 20 anni fa. Le decisioni sono destinate a scatenare una raffica di azioni legali da parte dei difensori dei detenuti e probabilmente a provocare rinvii alle esecuzioni. Ma l’attesa sentenza sulle iniezioni letali, decisa insolitamente all’unanimità dalla Corte, apre più interrogativi di quanti non ne risolva, lasciando prevedere un periodo di incertezza. I giudici hanno in sostanza riconosciuto a un condannato della Florida, Clarence Hill, il diritto di presentare un appello che sostenga la violazione dei propri diritti civili, legato al fatto che le sostanze chimiche utilizzate per l’esecuzione provocherebbero una morte dolorosa. Il massimo organo giudiziario americano non si è però pronunciato sulla legittimità delle iniezioni stesse, dopo che studi medici hanno evidenziato che i detenuti possono soffrire prima di morire per colpa di un’insufficiente anestesia. Ma d’ora in poi per la gran parte dei detenuti sarà possibile sfidare l’esecuzione, sostenendo che l’iniezione rappresenta una punizione "crudele e inusuale" e quindi viola l’ottavo emendamento alla Costituzione degli Usa. L’iter per l’uccisione di Hill era stato fermato lo scorso gennaio dalla Corte Suprema quando il detenuto era già con gli aghi nelle vene. Sulla scia del suo caso, esecuzioni sono state bloccate in questi mesi in California, Maryland e Missouri, in attesa di una decisione dei giudici di Washington. Adesso che è stata data ragione a Hill, è prevedibile che gli stati che usano l’iniezione letale come metodo – tutti quelli che hanno la pena capitale, con la sola eccezione del Nebraska – si trovino a fare i conti con cause legali per violazione dei diritti civili. La Corte di Washington non ha però sancito che le iniezioni siano illegali, lasciando aperta la possibilità per gli stati di superare le controversie cambiando le modalità con cui vengono amministrati i veleni. La California ha già cercato – senza successo – di coinvolgere medici nelle esecuzioni, mentre la North Carolina ha scelto di utilizzare una macchina che verifica le attività cerebrali, per garantire che il detenuto sia davvero sotto l’effetto dell’anestetico prima di iniettargli una sostanza che provoca l’arresto cardiaco.
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