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Verona: morì di overdose in carcere, ma non fu picchiato
L’Arena di Verona, 9 febbraio 2006
"Suo figlio è morto per una disgrazia. In carcere non ha subito ulteriori violenze". Così il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha voluto rassicurare Lucia Deleo, mamma di Cristian, il ragazzo morto nel carcere di Montorio nel 2004 per un’overdose. Il confronto tra il Guardasigilli e la mamma del giovane è avvenuto nel corso della trasmissione Tutte le mattine di Maurizio Costanzo. La donna si era rivolta a Costanzo nei mesi scorsi, avanzando il dubbio che il figlio non fosse morto in carcere per una overdose, ma per un pestaggio. Il ministro Castelli, aveva subito dichiarato la propria disponibilità a fare luce sul caso. Dopo aver letto le carte, ascoltato i responsabili del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e approfondita la questione, Castelli ha oggi affermato che "non sono emersi elementi che possano far pensare a una verità diversa". E ancora, "sui pestaggi denunciati non possiamo fare altro che affidarci ai referti medici, secondo cui quelle violenze risalgono al momento dell’arresto" di Cristian. Il giovane era in carcere da otto mesi. Soltanto pochi minuti prima del decesso era al colloquio con la madre e la giovane moglie, sposata un mese prima durante la detenzione in carcere. Orlandi era in attesa di giudizio perché accusato di aver ammazzato un amico con sei fendenti al termine di una serata passata in discoteca nella Bassa Veronese. Il giovane, in aprile, aveva chiesto e ottenuto attraverso i suoi avvocati di essere giudicato con rito abbreviato. La richiesta era condizionata all’esame psichiatrico per capire se quando ha ucciso a colpi di cavatappi l’amico fosse capace di intendere e di volere. Quanto al fenomeno della presenza di droga nel carcere Montorio, Castelli lo ha condannato fermamente: "Come entra la droga nei penitenziari? Ci sono i visitatori, personale esterno, e purtroppo anche qualche agente infedele. Cerchiamo di combattere il fenomeno". Cristian fu arrestato alla fine del 2003 dopo che, al culmine di una colluttazione, aveva ucciso con una coltellata un ragazzo che aveva infastidito la sua fidanzata. "Io voglio vedere un colpevole, almeno uno", ha reclamato la mamma del giovane dopo aver ringraziato il ministro per la sua disponibilità. "Non mi fermo e non mi fermerò mai". Successivamente, a conclusione della trasmissione, è intervenuto telefonicamente Antonio, ex detenuto a Poggio Reale, che ha denunciato la presenza nel carcere napoletano non solo di droga, ma anche di telefoni cellulari, e di pestaggi a danno dei detenuti. Il ministro Castelli ha ribadito che "il problema della droga in carcere purtroppo esiste, e cerchiamo di combatterlo". Quanto alle presunte violenze negli istituti penitenziari il Guardasigilli si è detto convinto che "al di la dei singoli episodi", ciò non possa accadere: "Le violenze lasciano tracce. E nelle carceri", ha spiegato il ministro, ci sono medici che sono indipendenti e che quindi segnalerebbero i casi. Qualche volta capita, ed è capitato, ma sono scattate le denunce". In carcere ci sono molte donne incinte, di Laura Astarita
Il paese delle donne, 9 febbraio 2006
Dalla newsletter dell’Associazione Antigone, da anni impegnata a favore dei diritti delle/dei detenute/i pubblichiamo questa riflessione che segnala una discrepanza tra la realtà carceraria delle donne e l’attuale legislazione che pure, con la così detta legge Finocchiaro, ha aperto qualche spiraglio per le detenuti madri. Ci si può ancora stupire di qualcosa ogni tanto di ciò che accade in un carcere. Così succede se ti trovi davanti 5 ragazze incinte, molto incinte, 2 di loro oltre l’ottavo mese, una dopo il settimo. Raccontano di essere sistemate tutte in infermeria, insieme ad altre persone malate e sofferenti; raccontano che un’altra ragazza la sera prima si è sentita male ed è stata portata all’ospedale per emorragia. Le condizioni igieniche e logistiche dell’infermeria sono quelle di un carcere che dovrebbe ospitare 280 detenute e che invece ne ha circa 400, ma si fa quel che si può: sono seguite abbastanza costantemente dal medico e quando si sentono male vengono prontamente portate in ospedale. Ma sono incinte e colpisce, oltre al loro stato evidente, la loro forte agitazione, la sensazione di pericolo che ti trasmettono: non sono libere di chiamare il ginecologo per ogni dubbio o meglio di chiedere alle loro parenti più anziane del campo consigli e istruzioni varie; sono lontane dai propri affetti e da qualunque fonte di rassicurazione; tutto costituisce per loro motivo di preoccupazione per la propria salute e quella del bambino; le altre donne fanno da specchio e quando una sta male, le altre entrano in crisi; l’ansia della carcerazione in loro è moltiplicata in maniera tangibile. Viene istintivo chiedersi il perché siano dentro e non fuori, agli arresti domiciliari. La risposta è che non è prevista la possibilità, per le donne "non definitive", di accedere a misura alternativa alla detenzione, se non a discrezione del giudice. E poiché la nostra legislazione ha un’impronta che esclude dai benefici alcune categorie di persone, prassi vuole che regolarmente le donne nomadi e quelle con recidiva, seppur incinte, restino in carcere. Scendiamo, almeno un po’ nel dettaglio della normativa, per capire meglio: l’art. 146 del codice penale - così come modificato dalla legge Finocchiaro del 2001 - prevede il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per donna incinta e per donna che abbia partorito da meno di 12 mesi; l’art. 147 c.p. - così come modificato, anche questo, dalla Legge Finocchiaro - prevede il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena per madri con prole inferiore ai 3 anni. Il risultato è che è raro trovare condannate incinte in carcere, ma non lo è trovarvi donne incinte in attesa di giudizio. Il problema è che, come accade spesso, la realtà è diversa da quella presa in considerazione dal legislatore: le donne non definitive in carcere in Italia sono oltre il 40% e per quelle, tra queste, che siano incinte, il legislatore non prevede niente, se non la possibilità per il giudice di decidere, con discrezionalità, se concedere o meno la misura alternativa. Ma, poiché, per esempio, la percentuale di donne rom in carcere è altissima, capita molto spesso di trovarne diverse, incinte, lasciate in carcere dal giudice, perché recidive. Si sente dire, molto spesso, dagli operatori: Qui sono curate meglio rispetto a fuori. Questa frase lascia sempre un po’ di amara perplessità rispetto alle possibilità che lo Stato offre, fuori, a queste donne. Se davvero non hanno adeguati livelli di cura, non è questo un grave problema di cui discutere? Certamente non è il carcere che può sopperire a ciò, né il fatto di trovarsi in carcere fa sentire le donne più protette rispetto alla propria gravidanza. E inoltre, quando ci si sente dire che molte donne restano incinte proprio per evitare il carcere, siamo sicuri di trovarci davanti a una persona socialmente pericolosa che è molto meglio resti in carcere? L’interpretazione delle leggi da diversi anni sta prendendo una piega molto restrittiva e le prassi dei Tribunali di Sorveglianza si consolidano in atteggiamenti volti a creare il minor numero di rischi possibile. Certo è che i Magistrati non sono affiancati, nel loro lavoro, da adeguate politiche di presa in carico dei problemi sociali da parte dello Stato e dei governi locali. Questi problemi diventano visibili solo al momento della commissione del reato e, come avviene sempre più spesso, da sociali diventano problemi penali. Tutto ciò che attiene alla persona viene assolutamente ignorato: eppure sappiamo benissimo che il periodo pre e post-parto è caratterizzato da momenti di grande ansia per la maggior parte delle donne, dovremmo sapere che per quelle che vivono in carcere i normali stress vengono ad essere moltiplicati, amplificando il vissuto di inadeguatezza e impotenza. Il retroterra sociale di deprivazione, i contatti familiari inconsistenti, l’isolamento, una instabile salute fisica e/o mentale e la coscienza che il bambino potrà essere affidato a un ente assistenziale, sono soltanto alcuni dei problemi che vivono queste donne, testimoniando un bisogno di tutela maggiore rispetto alle persone libere. Antigone: attivare Ufficio per il trattamento delle detenute
Il Paese delle donne, 9 febbraio 2006
L’Associazione Antigone chiede al Governo di mantenere gli impegni assunti e presenta una ricerca sulla popolazione reclusa femminile. Le donne detenute in Italia sono il 4,8% della popolazione reclusa: 2.858 su 59.125, i dati sono dell’Amministrazione Penitenziaria. I reati più frequenti sono quelli di violazione del patrimonio (1.497) e della legge sulla droga (917). I dati, utili a fotografare il fenomeno, non rendono conto delle sue specificità di genere. Secondo Susanna Marietti (Antigone), istituire un Ufficio per il trattamento delle detenute garantirebbe "attenzione specifica, risorse specifiche e competenze specifiche". Le peculiarità chiamate in causa da Antigone riguardano, oltre le differenze di genere, "la composizione giuridica e sociale delle detenute": una minoranza (4,8%) della popolazione reclusa, tendenzialmente di scarsa pericolosità sociale, recidiva, e cresciuta in contesti di esclusione e marginalità. A questo si aggiunge la stigmatizzazione familiare e sociale cui va incontro una detenuta, in misura maggiore che di un uomo. Viste le premesse, in assenza di progetti specifici e di politiche di più ampio respiro - conclude Marietti - il carcere rischia di essere per le donne un "circolo vizioso, fatto di esclusione sociale, detenzione e nuova e più profonda esclusione sociale". La soluzione proposta da Antigone e approvata come ordine del giorno dalla Camera il 20 luglio, in sede di esame del ddl 4636 sull’Ordinamento Giudiziario, è l’istituzione presso il Dap di un Ufficio per il trattamento delle donne detenute. "Ci auguriamo che entro fine legislatura ci sia spazio per questo provvedimento" dichiara il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Gli fanno eco, tra i parlamentari presenti, Tana de Zulueta e Erminia Mazzoni. Ma nei fatti si tratta di una misura amministrativa il cui iter, chiosa sarcasticamente Daniele Capezzone "prenderebbe 10 minuti". Per istituire la nuova struttura è infatti sufficiente che il Ministro della Giustizia Roberto Castelli firmi un decreto ministeriale, su richiesta del direttore del Dap Giovanni Tinebra. Ad oggi però né l’uno né l’altro hanno formalmente preso posizione in merito. Il decreto rischia di non essere approvato entro fine legislatura, ma le carte da giocare non sembrano esaurite. È infatti in via di presentazione alla Commissione sulle libertà civili del Parlamento Europeo una risoluzione proposta da Antigone e un cartello di associazioni per i diritti dei detenuti che impone a ogni Stato membro di "creare un Dipartimento specifico per le donne nella sua amministrazione penitenziaria". In Italia gli istituti interamente femminili sono 7 (Trani, Pozzuoli, Rebibbia, Perugia, Empoli, Genova e Venezia) a fronte di 62 carceri maschili che ospitano al loro interno sezioni per le detenute. La distribuzione dell’esigua popolazione detenuta femminile (2.493 al 31 dicembre 2003) indurrebbe a sottovalutare l’incidenza sulle sezioni femminili del sovraffollamento delle carceri. I dati delle singole strutture mostrano tuttavia casi in cui le donne sono anche il doppio del numero previsto: accade a Forlì, Brescia, Pozzuoli. Gli ingressi in carcere nel 2003 hanno interessato 7.250 donne, 3.504 italiane e 3.646 di altri Paesi. Tra le straniere prevalgono quelle originarie di America latina, Africa sub-sahariana, ex-Jugoslavia e Romania. Metà delle detenute è single (1.292), 702 sono sposate, 158 vedove, 126 divorziate e 205 separate legalmente. L’1,9% è laureata, il 13,2% ha un diploma, il 37,8% la licenza media e il 20,6% quella elementare. Non ha titoli di studio il 9,5% ed è analfabeta il 5,6%. La maggior parte delle donne (60%) è condannata a pene fino a un massimo di 5 anni, con un’elevata incidenza di recidive. La questione delle donne in carcere pone inevitabilmente la questione delle madri in carcere. Erano 52 nel 2004, dato stabile negli anni. Per loro l’Ordinamento Penitenziario prevede speciali asili nido dietro le sbarre, attualmente sono 17. In materia è ancora scarsamente applicata la legge 40/01 recante "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori". Il numero delle donne che ne usufruisce è esiguo. Rimangono infatti escluse dai benefici le detenute in attesa di giudizio, le straniere senza fissa dimora e le donne condannate per reati legati alle droghe illegali, per le quali è alta la probabilità di reiterazione del reato. Secondo i dati raccolti nel 2003 (incompleti, ma indicativi) hanno usufruito di questa legge 2 detenute a Firenze, e 0 a Vercelli, Pozzuoli, Perugia, Messina, Torino e Foggia. Per le detenute straniere persiste, con la normativa vigente, il procedimento di espulsione a fine pena, che non tiene conto dell’inserimento socio-lavorativo delle stesse, né della presenza di figli minori. Negli ultimi due anni infine sono stati 3 i casi di suicidi di donne recluse. La proposta di Antigone di istituire un Ufficio specifico per le detenute è in linea con quella del Mip project (Women integration & prison) che, dopo aver svolto una ricerca in 6 Paesi europei (Italia, Spagna, Francia, Germania, Inghilterra e Galles, Ungheria) ha presentato alla Commissione libertà civili del Parlamento Europeo una bozza di risoluzione per imporre agli Stati Membri dell’Ue l’adozione di specifici dipartimenti per il trattamento delle detenute. Antigone: dramma dietro le sbarre, in galera è solo sofferenza
Il Piccolo di Cremona, 9 febbraio 2006
Fate attenzione. Se avete tra i 25 e i 44 anni, siete poco istruiti, fate gli operai e siete nati in una regione del sud avete più probabilità di tutti di finire in galera. A dirlo è il "Terzo rapporto sulle condizioni di detenzione", realizzato dall’associazione Antigone attraverso un faticoso lavoro di ricerca nelle carceri italiane che delinea un quadro decisamente inquietante. Abbandonati a se stessi, i penitenziari della penisola sono infatti tornati a essere pura sofferenza, pena per la pena, senza neanche più quelle pietose bugie sulla finalità rieducativa della punizione o sul reinserimento sociale dei detenuti, molti dei quali finiscono ancora dietro le sbarre senza aver subito una condanna definitiva. Come ha riassunto Stefano Anastasia, presidente dell’associazione che ha curato il dossier, "in carcere ci si va perché si deve e non resta che contare i giorni, sperando di cavarsela in buona salute". Il rapporto segnala che la popolazione detenuta "ha smesso di crescere a dismisura": diminuiscono progressivamente gli ingressi in prigione e le denunce per reati, ma, paradossalmente, crescono le presenze: a febbraio 2004 i detenuti nelle carceri italiane erano 55.392. "Si direbbe che il carcere tenda a riprodursi e ad ingigantirsi in quanto tale come retorica e funzionalità istituzionale del controllo sociale - sottolinea a questo proposito il rapporto - indipendentemente dal reale andamento della criminalità in sé, e addirittura dell’efficacia della sua repressione". Sovraffollamento. Rispetto alla capienza regolamentare, l’indice di sovraffollamento è superiore di circa il 30 per cento: 55mila presenti rispetto ai circa 41mila posti regolamentari. E in Lombardia si supera la "capienza tollerabile". Le pene. I detenuti definitivi salgono a oltre il 60 per cento, con un salto in avanti rispetto a due anni prima di ben cinque punti percentuali. A ciò corrisponde l’abbassamento del numero dei detenuti in attesa di giudizio (meno 4 per cento). Le persone in attesa di primo giudizio sono 12.020, 5.803 gli appellanti. L’Italia mantiene però il poco invidiabile primato europeo dei detenuti in attesa di giudizio dietro alle sbarre, pari a circa il 40 per cento del totale. In aumento dell’8 per cento la fascia delle condanne medie (3-6 anni), il che spiega il mantenimento di un elevatissimo numero di detenuti, nonostante la decrescita degli ingressi in carcere. In lieve crescita (2 per cento) le condanne oltre i 10 anni, mentre scende la classe delle condanne medio-alte (meno 6 per cento). Permane, infine, un’elevata percentuale di soggetti (29 per cento) che, avendo avuto una condanna inferiore ai tre anni, potrebbero fruire di una misura alternativa. Istruzione. Oltre il 35 per cento dei detenuti non ha maturato la scuola dell’obbligo, l’1,4 per cento è analfabeta dichiarato e il 6,3 per cento non ha alcun titolo. L’istruzione dell’obbligo risulta maturata dal 37,9 per cento della popolazione carceraria, mentre ad avere un diploma di scuola media superiore (professionali incluse) sono meno dell’8 per cento. Praticamente nullo, invece, il numero dei laureati. Come a dire che se il pezzo di carta non offre più la garanzia del posto di lavoro assicurato, serve almeno a evitare la galera. Condizione lavorativa. In carcere finiscono soprattutto gli operai (71 per cento). Luogo di nascita. La popolazione detenuta proveniente dal sud Italia supera il 40 per cento. Stranieri. Gli stranieri costituiscono un terzo dei detenuti e nelle regioni del centro-nord questa percentuale cresce sistematicamente almeno fino al 40 per cento, raggiungendo anche punte superiori al 70 per cento. Tra gli immigrati sono inoltre molto più acuti e frequenti gli episodi di autolesionismo, indicativi di un forte disagio che può essere accostato all’assenza o incapacità di ascolto, alle condizioni detentive e alla mancanza di reali prospettive future.
A Cremona un detenuto su tre è tossicodipendente
Anche la situazione del carcere maschile di Cremona è fotografata in modo completo dal rapporto dell’associazione Antigone. Ad agosto 2004 i reclusi erano 320 (125 gli stranieri), di cui 108 in attesa di giudizio, a fronte di una capienza massima di 196 posti, ma il vero sovraffollamento, nelle celle dell’istituto di via Cà del Ferro, larghe nove metri quadrati l’una (wc compreso) finora è stato evitato perché la direttrice non ha autorizzato letti a castello che ne aumentassero ulteriormente la capacità ricettiva. Problemi rilevanti, però, interessano la struttura, che necessità di interventi continui perché compromessa all’origine, e il personale, che è sottodimensionato rispetto alle necessità. Ogni sezione (sono sei in tutto) ha due salette per la socialità, con sedie e calcetto, che sono aperte a tutti i detenuti. Le docce sono quattro per piano e al piano terra ci sono i cortili, un campo di calcio, un campo di calcetto in superficie sintetica, un campo polivalente, laboratori (falegnameria, dove si svolgono i corsi), aule scolastiche, biblioteca, cappella, palestra, lavanderia, cucina (due locali, uno per i corsi per cuoco), e un teatro di 220 posti, inagibile, però, per questioni di sicurezza. Manca però un’area verde. I colloqui con i familiari si svolgono dal lunedì al sabato tra le 8.30 e le 14. Ci sono due sale colloqui, una saletta per i colloqui con minori o con anziani. Capita che si rendano necessari trasferimenti per motivi disciplinari, in caso di aggressioni, e capitano inoltre episodi di autolesionismo, più frequenti soprattutto tra i detenuti nordafricani. Particolarmente allarmante, anche se poco sorprendente, è il dato relativo alla dipendenza da sostanze stupefacenti. Circa un terzo dei reclusi, infatti, sono tossicodipendenti e nove sono sieropositivi. Sono previste attività gestite da volontari dell’Eda (Centro territoriale per l’educazione permanente), come quelle del Laboratorio Musicale e il Corso di Chitarra, realizzati dalla Scuola Popolare di Musica Arci. Per le attività sportive, invece, c’è una convenzione Dap-Uisp per corsi per arbitri di calcio. Per quanto riguarda il lavoro, sono 59 i lavoranti all’interno dell’istituto. Sono in progetto, inoltre, lavori a partecipazione esterna, che prevedono l’assunzione di sette detenuti che hanno seguito il corso di falegnameria. Dei corsi scolastici del carcere si occupa il Centro per l’Educazione degli Adulti di Cremona. Oltre ai corsi di alfabetizzazione e alla scuola media, organizza corsi di lingua italiana e di canto corale. Ogni corso è seguito da circa 15 detenuti. E un premio di rendimento va a chi supera con esito positivo il corso della scuola. Infine, per l’istruzione superiore è in progetto l’apertura di una sezione dell’istituto tecnico commerciale "Beltrami".
La società civile si mobilita contro il disastro delle carceri
Le denunce contro la situazione precaria del le carceri piovono da tutte le parti. A partire dalla Conferenza regionale su volontariato e giustizia, di cui fa parte anche Zona Franca. In un appello, la Conferenza si scaglia contro la situazione desolante che caratterizza i penitenziari italiani e, ancora più nello specifico, quelli lombardi. Alla fine del 2003 gli stranieri entrati nelle carceri della nostra regione erano stati 8.992 (pari al 51,49 per cento), contro 8.472 italiani (48,51 per cento). In realtà "la propensione all’arresto degli immigrati - si legge nell’appello - spesso è eccessiva, e ad essa non corrispondono reati tali da giustificare la detenzione". Cosa chiede la conferenza? Che venga istituita la figura del garante dei diritti e che vengano applicate le leggi vigenti per migliorare la condizione in carcere. Ma a combattere e protestare per le leggi non fatte e non applicate, è anche l’associazione Papillon, che sostiene la protesta che i detenuti stanno portando avanti a livello nazionale proprio in questi giorni. L’associazione esorta le forze politiche affinché "si stabilisca un calendario per riprendere la discussione sull’ipotesi di un provvedimento di indulto e amnistia, iniziando magari dalle proposte di Legge che mirano a ricondurre al 51 per cento il quorum necessario per approvare tali provvedimenti". Papillon chiede inoltre che "siano avviate al più presto le procedure necessarie per attuare immediate modifiche legislative che consentano che limitino gli abusi nel ricorso alla custodia cautelare in carcere".
Tornare a vivere dopo la reclusione
"Ex detenuto? No, grazie". Sembra uno slogan di qualche associazione di benpensanti, invece è una realtà che si ripete fin troppo spesso. Moltissime sono quelle persone che, dopo aver scontato un periodo di detenzione, anche breve, si vedono chiudere in faccia tutte le porte. Niente casa in affitto a un ex carcerato. Niente lavoro. E si rimane in mezzo a una strada, con il rischio di imboccare di nuovo la via della delinquenza. Il recupero è una delle misure principali, forse ancora più incisiva della detenzione stessa. E a questo scopo è nata la comunità di recupero che ha sede a San Savino. Un progetto lanciato dalla Caritas Diocesana nel corso della Quaresima 2003. Così quello che sembrava un miraggio prende lentamente corpo, diventa una realtà. Si, perché ora la ristrutturazione della struttura è quasi terminata, e presto sarà anche possibile occuparla. Da un lato una comunità, dall’altro alcuni appartamenti (monolocali), ospiteranno presto non solo ex detenuti, ma anche persone agli arresti domiciliari che non hanno la disponibilità di una casa in cui vivere. Innanzitutto è un luogo di accoglienza e accompagnamento, che permetterà la costruzione di una rete di servizi. Qui il carcerato potrà recuperare le sue risorse residue, e si cercherà di raggiungere uno degli obiettivi più impegnativi: il graduale inserimento sociale e lavorativo dell’ex detenuto, che deve riuscire a rientrare in una società che è spesso ostile con chi è stato in carcere, e che tende a ‘bollarè le persone. Importante quindi è anche imparare a fare un lavoro. Per questo nella comunità vengono fatti piccoli lavoretti a domicilio, ed è in progetto anche la realizzazione di una serra. Il lavoro del giardinaggio e dell’orticoltura, oltre a portare degli introiti per il sostentamento della comunità, permette di imparare un mestiere che potrà essere utile in futuro.
"Una discarica sociale" Intervista ad Alessio Antonioli, presidente di Zona Franca di Laura Bosio
Un educatore che arriva da Napoli solo per sette giorni al mese, un comitato che esiste solo sulla carta, due persone per cella invece di una, come sarebbe previsto. Il carcere di Cremona, come quelli di tutta Italia, soffre della trascuratezza e dello stato di abbandono in cui si trova da anni. "È un settore - afferma Alessio Antonioli, presidente di Zona Franca - che non porta a raccogliere consensi, e quindi non è nei primi posti dell’impegno politico".
Neppure a livello locale? A Cremona esiste un comitato Carcere-territorio, che riunisce enti e associazioni che dovrebbero occuparsi della struttura del pianeta carcere. In realtà però questo comitato esiste solo sulla carta, e non ha mai prodotto quanto avrebbe dovuto. Noi di Zona Franca ci siamo proposti di dare convocazione al comitato, richiamando l’attenzione degli organi politici. Abbiamo mandato una lettera il dieci settembre, e ancora non abbiamo ricevuto risposte ufficiali.
Segno di indifferenza nei confronti di questa scottante problematica... È un argomento di cui molti non vogliono parlare. Eppure i problemi da risolvere sarebbero tanti.
Come ad esempio quello dell’educatore... La mancanza di un referente educativo in forma fissa incide negativamente su tutta la struttura. Cremona ha un educatore che viene da Napoli per una settimana al mese, e non ha certo il tempo necessario per fare un lavoro completo, se si pensa che i detenuti sono oltre 300. Sarebbe insufficiente anche se ci fosse un solo educatore fisso, figuriamoci uno part-time.
Ma è così importante questa figura professionale, all’interno di un carcere? È la figura principale dell’equipe di lavoro dell’area trattamentale (rieducazione), che ha il compito di portare avanti il percorso riabilitativo ed educativo del detenuto. L’educatore dovrebbe coordinare il gruppo di lavoro, avere colloqui con i singoli detenuti.
A che è dovuta questa situazione? Al fatto che sono anni che non vengono fatti concorsi per l’assunzione di nuovi educatori. Finalmente ne hanno fatto uno agli inizi di questa estate, ma prima che si concluda ci vorrà tempo. Altro problema è il fatto che molti educatori vengono dal Sud, e dopo un po’ che lavorano chiedono l’avvicinamento a casa. Succede così che, paradossalmente, la Lombardia, che ha un notevole numero di case circondariali, ha molti meno educatori di altre regioni più piccole.
Poi c’è il problema del sovraffollamento... Esiste, anche se a Cremona non è poi così drammatico. La struttura era progettata per ospitare una persona per cella, qui invece ce ne sono due. È però vero che ci sono posti decisamente peggiori in Lombardia, dove ci sono 7-8 persone per cella, tanto che non riescono a stare tutti in piedi nella stanza contemporaneamente.
E dall’altra parte si riscontra carenza di organico nella polizia penitenziaria... Effettivamente anche questo è un problema non da poco. Del resto spesso gli agenti si ritrovano impegnati nei trasferimenti per i processi, e quelli che restano nella struttura sono pochi.
L’indifferenza è anche a livello nazionale… Il quadro delle carceri italiane è inquietante. I problemi sono molti, e sono indici di un divenire delle carceri discarica sociale. E pare che non ci sia una volontà forte di impegnarsi seriamente per risolvere i problemi.
E anche la giustizia scarseggia... Si parla tanto dei problemi delle riforme del penale, ma non vengono applicate le leggi già esistenti. Come ad esempio quella del lavoro all’interno del carcere, e dell’inserimento lavorativo. Finché nessuno le finanzia, resteranno sempre solo sulla carta. Poi ci sono misure ridicole, come l’indultino, che doveva servire a diminuire l’affollamento nelle carceri italiane, ma di fatto non ha risolto assolutamente nulla. Sappe: oggi un’assemblea nel penitenziario di Imperia
Comunicato stampa, 9 febbraio 2006
Dopo gli appuntamenti di Chiavari e La Spezia, si terrà questo pomeriggio a Imperia un’assemblea del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, il più rappresentativo del Corpo, con il Personale di Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere di via Agnesi. "Un appuntamento importante" spiega il segretario generale aggiunto del Sappe Roberto Martinelli, che sarà accompagnato dai delegati regionali Cosimo Galluzzo e Carlo Raggio "voluto dal Sindacato per tastare il polso delle 7 case circondariali della Liguria anche alla luce delle recenti vicende accadute (sventato tentativo di evasione a La Spezia e morte di un detenuto a Marassi dopo essere caduto dal terzo piano di un letto a castello)". Il Sappe è l’Organizzazione Sindacale più rappresentativa del Corpo e in Liguria vi aderiscono circa 600 dei 1.000 poliziotti penitenziari in servizio, deputati al controllo dei circa 1.600 detenuti presenti. "Mi aspetto molto da queste assemblee, di sentire direttamente dalla voce delle nostre colleghe e dei nostri colleghi" aggiunge Martinelli "perché ciò che emergerà sarà portato all’attenzione dei vertici del Ministero della Giustizia, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Provveditorato penitenziario della Liguria per individuare le soluzioni a problemi di carenza di personale e di sovraffollamento delle strutture che si trascinano da molti anni". E proprio sulla carenza di personale di Polizia Penitenziaria in Liguria, Martinelli snocciola le cifre fornite dal Ministero (contestate dal Sappe perché sono ‘in difettò):"Mancano complessivamente 54 Ispettori maschi e 4 donne, 40 sovrintendenti uomini e 8 donne, 130 agenti ed assistenti tra uomini e donne! E a Imperia parliamo di una carenza di Personale del 20 per cento: 3 ispettori, 2 sovrintendenti e 5 agenti. Queste cifre parlano da sole…". Martinelli ricorda la recente iniziativa del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria di scrivere direttamente al Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi per denunciare i limiti dell’attuale sistema penitenziario nazionale ed auspicare un autorevole intervento della più Alta carica dello Stato. "Abbiamo scritto a Ciampi che, se come hanno scritto sia Voltaire sia Dostoevskij, il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri, il nostro non sembra proprio essere un Paese civile. L’attuale situazione penitenziaria vanifica, di fatto, il fondamento del terzo comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione laddove prevede che "… le pene devono tendere alla rieducazione del condannato".Abbiamo toccato un picco di detenuti mai raggiunto nella storia della Repubblica: 60 mila. Un terzo in più di quanti potrebbero ospitarne i nostri 207 penitenziari. Significa 6 o 7 persone in cella, con letti a castello che radono il soffitto. E succede che, come a Marassi pochi giorni fa, un detenuto perda la vita dopo essere caduto proprio dal terzo piano del letto a castello. Vi sono carenze di personale di Polizia Penitenziaria e amministrativo incredibili. Si è detto che, statisticamente, vi è un educatore ogni 107 detenuti, un assistente sociale ogni 48, uno psicologo ogni 148. E un agente di Polizia Penitenziaria che, specie negli Istituti del Nord Italia, controlla - da solo - 80/100 detenuti (il doppio nelle ore serali e notturne)." "E sono poco responsabili" conclude Martinelli "un Governo e un Parlamento che, avendo sotto gli occhi il disastroso sistema penitenziario italiano, non hanno assunto alcuna iniziativa concreta nella Finanziaria per intervenire sul carcere e su chi ci lavora permettendo, addirittura, che 500 poliziotti penitenziari perdano il posto di lavoro al 31.12.2005 e contemporaneamente approvando una legge (la ex Cirielli) che incrementerà ulteriormente la già vertiginosa cifra dei 60.000 detenuti attuali (sono previsti 4.000 detenuti in più alla fine del prossimo anno e saranno oltre 70.000 nel 2008)." Ancona: il carcere scoppia, la Polizia penitenziaria protesta
Il Messaggero, 9 febbraio 2006
"Carcere di Montacuto al limite del collasso". Èla denuncia del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che rimarca un problema di diffusione nazionale già oggetto di vertenza all’interno delle case circondariali. "I dati relativi a Montacuto - sottolinea Aldo Di Giacomo, segretario regionale del Sappe - evidenzia ancora una volta il disinteresse dell’amministrazione penitenziaria. A fronte di un organico di 230 poliziotti ne sono assegnati 211 ma realmente presenti sono 158. Di questi 12 sono impegnati nel servizio amministrativo, 13 lavorano al di fuori dell’istituto e 7 stanno facendo il corso da ispettori. Quindi il personale in servizio scende a 126, insufficienti per controllare i 300 detenuti. Se la situazione non cambierà ci attiveremo con ogni forma di protesta". Alla carenza del numero degli agenti di polizia penitenziaria si aggiunge il problema del sovraffollamento. "Le celle di Montacuto - dice Di Giacomo - non possono contenere, per dimensione, i 318 detenuti previsti dalla pianta di accoglienza. A nostro dire ci sono già 40 detenuti di troppo". Carcere e poesia: un intervento sulla condizione dei detenuti
L’isola possibile, 9 febbraio 2006
Un suicidio ogni settimana:è questo il dato numerico più impressionante tra quelli che ci giungono dalle carceri italiane. Sessantamila detenuti, dei quali un terzo tossicodipendenti e/o extracomunitari, vivono stipati in istituti che potrebbero contenerne al massimo quarantamila,in condizioni di vita umilianti, in contesti di promiscuità, degrado morale, sopraffazioni, di sospensione di tutti i diritti, a cominciare da quello alla salute, nella impossibilità concreta di intraprendere un percorso rieducativo, o anche semplicemente di dedicarsi a un’attività lavorativa. Il carcere, luogo-simbolo dell’alienazione, della emarginazione, del disagio sociale, è un inferno di cui nessuno vuole realmente occuparsi, una dura realtà che si preferisce rimuovere, forse proprio perché contiene in se stessa l’immagine dell’intera società. Dei guasti della società civile il carcere rappresenta infatti una riproduzione certo enfatizzata ma sostanzialmente fedele, una conseguenza, un prodotto. Ma riconoscerlo riesce difficile e soprattutto scomodo: meglio credere e far credere che l’universo carcerario non abbia nulla a che fare con la comunità dei liberi, che costituisca un bubbone, un’escrescenza indesiderata ma inevitabile, con cui, se bisogna fare i conti, è solo sul piano della repressione e dell’ordine pubblico.Il messaggio veicolato dall’attuale politica carceraria italiana (che sempre più va modellandosi su quella degli Stati Uniti d’America) risulta infatti chiaro quanto spietato:il carcere è (solo) uno strumento di esclusione, e deve esserlo sempre di più; compito della politica è la tutela dei cittadini ‘onesti’ dai diversi, dai devianti, dagli individui politicamente ed economicamente problematici. Le mura vanno dunque fortificate, esse devono impedire qualsiasi comunicazione con il "fuori"; e la linea di confine tra carcere e comunità deve essere costantemente sorvegliata e pattugliata, per impedire ogni travaso dall’uno all’altra, ogni comunicazione dell’uno con l’altra. Droghe: Antigone; colpo mortale a giustizia penale in Italia
Ansa, 9 febbraio 2006
"Dopo la Cirielli-Vitali arriva la Fini-Giovanardi a dare il colpo mortale alla giustizia penale italiana". A commentare così l’approvazione delle nuove norme sulla droga è Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone. "La legge sulle droghe targata Alleanza Nazionale - afferma Gonnella - manderà in galera non si sa quanti giovani incensurati consumatori di hashish e marjuana. È una follia trattare allo stesso modo chi si fa una canna e chi una iniezione di eroina. Il tutto a 4 giorni dalla chiusura delle Camere e con il solo plauso di Don Gelmini, cultore della Cristoterapia". "Il Governo - prosegue il presidente di Antigone - ha forzato la mano contro tutto e tutti. Contro la legalità, contro la Costituzione, contro gli operatori, contro le famiglie e contro il buon senso". "Oggi i detenuti sono 61 mila - conclude Gonnella - Quanti saranno domani? Ricordo che i posti letto regolamentari nelle carceri italiane sono 42 mila". Droghe: Castelli; evitare combinato negativo con ex Cirielli
Ansa, 9 febbraio 2006
"Si sta cercando di correggere la legge per tentare di far sì che verso i tossicodipendenti ci sia un’azione di recupero". Lo ha detto il ministro della giustizia, Roberto Castelli, a proposito delle nuove norme sulla droga, intervenendo alla trasmissione di Maurizio Costanzo "Tutte le mattine". Il guardasigilli ha sottolineato di aver già segnalato alla conferenza di Palermo il pericolo che con la nuova legge sulla droga possa esserci un ulteriore aumento della popolazione carceraria. "Ho fatto notare come il combinato disposto dalla legge sulla droga e dalla ex Cirielli (la norma che ha introdotto pene più severe per i recidivi, ndr), avrebbe portato ad un intervento punitivo non voluto sui tossicodipendenti. Bisogna dire che la droga è un male - ha aggiunto Castelli - ma senza punire i tossicodipendenti. Diverso è invece il caso di chi spaccia". L’obiettivo è tentare di ‘far sì che verso i tossicodipendenti ci sia un’azione di recuperò. Così Castelli sulle nuove norme sulla droga. Per il ministro della Giustizia c’è il pericolo che con la nuova legge ci sia un ulteriore aumento della popolazione carceraria: "il combinato disposto dalla legge sulla droga e dalla ex Cirielli (che ha introdotto pene più severe per i recidivi, ndr) - spiega Castelli - potrebbe portare a un intervento punitivo non voluto sui tossicodipendenti". Turchia: Ocalan è grave dopo infarto in carcere
Agi, 9 febbraio 2006
Il leader curdo Abdullah Ocalan, detenuto in isolamento nel carcere turco di Imrali e già sofferente di cuore, è stato colpito ieri da un infarto. Lo riferiscono gli avvocati Giuliano Pisapia, Luigi Saraceni e Arturo Salerni, difensori in Italia di Ocalan, che rivolgono un appello all’Unione Europea e al Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa "affinché siano adottate le misure opportune nei confronti della repubblica turca per rendere possibile ai difensori, ai familiari e ai medici di fiducia del detenuto di poter tempestivamente accertare le sue condizioni di salute". Pisapia, Saraceni e Salerni chiedono anche un intervento urgente delle Autorità italiane "in considerazione del fatto che ad Ocalan è stato concesso, nel nostro Paese, l’asilo politico. L’Italia ha quindi il dovere politico e giuridico di fare tutto quanto necessario, a livello diplomatico, per salvaguardare la vita e la salute del leader curdo. Ocalan, dopo l’illegittimo rapimento avvenuto in Kenya, è da molti anni rinchiuso in totale isolamento nell’isola di Imrali e in una condizione in cui non è concesso, neppure ai suoi familiari e ai suoi difensori, di recarsi in carcere per verificare le sue condizioni di salute e di detenzione. È ora che si pervenga ad un radicale miglioramento delle condizioni di detenzione di Ocalan, che appaiono in contrasto con gli standard previsti dalle convenzioni internazionali, e che vengano poste in essere tutte le misure per tutelare la sua incolumità".
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