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Napoli: il malcontento dei detenuti minimizzato con notizie false
Il Mattino, 3 giugno 2005
Il malcontento nelle carceri italiane viene minimizzato da notizie false e tendenziose, in quanto il ministro Castelli sembra più preoccupato a coprire lo sfacelo totale dei penitenziari che a migliorarne la vivibilità. Diffonde notizie e fa graduatorie, e guarda caso il carcere di Sulmona è un istituto dove tutto va bene, là i detenuti si impiccano per hobby o per uno stupido gioco emulativo. Tra le mura di un penitenziario curarsi è un lusso; si vive anche in 7 o 8 in una cella di pochi metri quadrati; l’igiene è un lusso; le colpe dei reclusi ricadono di conseguenza sui figli, madri, padri e mogli, condannati anche loro a vedere il proprio congiunto per poche ore al mese. È così che gli equilibri mentali si sfasciano e con loro si sfasciano le famiglie e si arriva con estrema facilità a gesti estremi. In alcuni Stati americani c’è la pena di morte, ma lì almeno si muore in un sol colpo, qui dentro invece si muore un po’ alla volta; giorno dopo giorno le menti più fragili, di quelli che rubano per portare il pane a casa, di quelli che si procurano in modo illecito il danaro per drogarsi: l’extrema ratio e il cappio al collo. Così Caino paga definitivamente il suo debito verso la società. Caino il cattivo, che vergogna per il fratello Abele così caro al ministro Castelli, reo solo di essere nato e cresciuto nel degrado e in una realtà sociale diversa. Così quando Caino decide di farla finita e si uccide, l’Abele di turno si attiva, ma per cosa? Solo per iniziare un’azione disciplinare contro l’assistente di turno, colpevole di non essersi reso conto tempestivamente che uno tra i tanti si stava togliendo la vita, una vita che vale poco, tanto il suo nome è Caino. Le carceri sono sovraffollate, fuori controllo e i dati del Dap lo confermano, ma il ministro si indigna quando si parla di atti di clemenza, spinto dalle vicissitudini dell’ultimo mostro di turno; ma il ministro ha l’obbligo e il dovere di specificare che a beneficiare di un provvedimento di amnistia saranno solo i più deboli, che proprio per la loro debolezza spesso si tolgono la vita.
Giovanni Guida e Clemente Fiore, da Bellizzi Irpino (Av)
Sono la sorella di un ragazzo detenuto. Tempo fa vi scrissi riguardo al caso Brusca e ai troppi benefici concessi a queste belve sanguinarie. Torno a scrivervi per il caso Izzo, uno che in carcere avrebbe dovuto marcire. Ripropone il nostro assurdo sistema giudiziario. Mio fratello ha commesso degli sbagli, ripeto e sottolineo sbagli. Ma non omicidi e carneficine come Brusca, Izzo e altri. Però tutt’ora (e siamo a tre anni) resta detenuto. Attualmente è a San Gimignano, vicino a Siena, e non ha mai avuto un solo giorno di permesso speciale. Vi ho scritto ancora perché, vedendo la fiction "L’uomo sbagliato", ho capito che non basterà la mia o altre centomila lettere a un giornale, al Presidente della Repubblica, del Consiglio e al Papa, per cambiare questa macchina assurda e infernale che è la giustizia italiana.
Lucia Vincenzi - Pozzuoli (Na)
Egregio signor Gargano, le scrivo per porre all’attenzione ciò che siamo costretti a subire a Poggioreale noi detenuti, in particolare nel padiglione Roma, per quanto riguarda il settore sanitario. Sono stato operato nel 2001 per cardiopatia: una angioplastica e quattro bay-pass. Le terapie prescritte dal cardiologo vengono date con il contagocce, cioè a volte ci sono e a volte no, anche per molti giorni (capita molto spesso). Quello che manca in particolare, indispensabile per il cuore, è il dilatamento; poi per il colesterolo manca Simfagor. Inoltre, il cardiologo ha fatto richiesta per il mio ricovero ospedaliero ma, come al solito, la burocrazia di Poggioreale non prende atto dell’urgenza. Faccio presente che la direzione sanitaria comunica ai giudici che la terapia viene data mentre questo non è vero. Infine, le faccio anche presente che fra sei mesi sarò libero.
Carmine Passato – Napoli
Non facciamo sempre di un’erba un fascio. I 57mila detenuti non sono tutti Angelo Izzo. La stramaggioranza non è pazza, è solo vittima delle circostanze. La magistratura applica le leggi ed è giusto che garantisca anche Caino. Le carceri sono sovraffollate anche da persone che quasi sicuramente non ripeteranno la stessa esperienza. Errare è umano, perseverare è diabolico.
Raffaele Cirillo – Napoli
"Non siamo Caino", replicano al ministro Castelli i nostri interlocutori. Ed è importante rilevare che, tra tante lettere che ci arrivano dalle carceri, nessuna contiene invocazioni di innocenza, ma tutte rivendicazioni del diritto alla cura e alla dignità. Velletri: semilibero non rientra in carcere, adesso è ricercato
Il Messaggero, 3 giugno 2005
Stava scontando nel carcere di Velletri una condanna per reati contro il patrimonio, ma godeva del regime di semilibertà per andare a lavorare. Martedì sera non ha fatto però ritorno in carcere. Andrea Cerasetti, 30 anni, di Artena, era stato arrestato a gennaio dai carabinieri di Frascati in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare. In considerazione della sua buona condotta e per favorire il suo recupero durante la detenzione, aveva ottenuto la semilibertà dal tribunale di sorveglianza. La sua foto e i suoi dati sono stati diffusi ai commissariati ed alle stazioni dei carabinieri sul territorio. D.Ca. Brescia: Sinappe, tensione tra direttrice e sindacato agenti
Giornale di Brescia, 3 giugno 2005
"Gestione avventuriera", "disorganizzazione e miope politica di gestione delle risorse umane" e ancora "scarsa sensibilità" e "relazioni sindacali sprofondate in un oscurantismo medievale". Ha usato parole pesanti Roberto Santini, segretario generale del Sinappe, il sindacato della Polizia penitenziaria, nella polemica con la nuova direttrice del carcere bresciano di Canton Mombello, Anna Maria Bregoli. Ieri, a Milano, Santini ha preso posizione sulla situazione creatasi da sei mesi nel carcere bresciano: "Di solito i bilanci si fanno dopo almeno un anno di gestione - ha detto il segretario del Sinappe - ma la situazione di Canton Mombello esige un rendiconto già dopo sei mesi di gestione avventuriera. Sebbene vi sia stato un incremento di 44 unità di personale - ha proseguito Santini - i carichi di lavoro sono aggravati dalla disorganizzazione e da una miope politica di gestione delle risorse umane". Per fare alcuni esempi, il sindacalista della Polizia penitenziaria ha citato il fatto che nessun agente in forza a Brescia ha potuto fino ad oggi stabilire quando farà le ferie; oppure il congedo straordinario chiesto da un agente per poter assistere la moglie inferma dopo un parto molto difficile, e respinto nonostante la documentazione medica presentata, con la motivazione che la patologia invalidante non sarebbe stata debitamente certificata. Su quest’ultimo episodio, ha ricordato Santoni, esiste anche un’inchiesta dell’Ispettorato del lavoro. Ma non è finita, perché Santini accusa la direttrice Bregoli di essere l’unico direttore di carcere che ritiene discrezionale la norma che impone di anticipare parte dell’indennità di missione agli agenti impegnati nelle scorte ai detenuti. E infine il capitolo delle relazioni sindacali per le quali, sostiene il segretario del Sinappe, la direttrice avrebbe dimostrato addirittura una "allergia". Il risultato è che in questi sei mesi si è visto un aumento sproporzionato dei rapporti disciplinari e delle assenze per malattia, sintomi di un grave malessere degli operatori. Rebibbia: personale allo stremo, la protesta degli agenti
Il Tempo, 3 giugno 2005
Al collasso la sezione femminile del Carcere di Rebibbia. Sono gravi le problematiche che riguardano l’istituto penale di via Bartolo Longo. Dopo il caso di varicella nella sezione Camerotti, che ha portato alla morte di una detenuta di 21 anni, la struttura carceraria dal 20 maggio non accetta più detenuti. L’organico al completo prevede oltre 220 agenti della Polizia Penitenziaria, 180 donne e il resto uomini, ma, attualmente a lavorare sono in meno di 110: divisi tra la sezione delle detenute comuni, il nido con 17 bimbi, la sezione di alta sicurezza, quella del 41bis e l’area destinata alle collaboratrici di giustizia. In tutto sono 400 le detenute. Da quando vi è stata l’epidemia di varicella però, nessun piano sanitario è stato attivato, nessuna profilassi per coloro che lavorano quotidianamente al carcere femminile, con turni massacranti. Il risultato è che il reparto Camerotti ora è in isolamento sanitario, e l’unico rimedio trovato dalla direzione è far compilare agli agenti uno stampato indicando dove si è prestato servizio negli ultimi dieci giorni. Per il resto tutto è rimasto come prima. Da ieri il personale tutto del carcere di Rebibbia femminile, ha montato una tenda all’esterno della struttura carceraria e dalle 8 alle 20, vi è un presidio fisso di agenti della penitenziaria. Già il 24 maggio scorso, i pochi agenti rimasti al femminile avevano manifestato davanti alla sede del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma, senza avere alcun risultato. Oggi viste le problematiche gli agenti hanno deciso di manifestare a oltranza per la carenza cronica di personale, che penalizza allo stremo il personale in servizio, con turni che si protraggono oltre l’orario ordinario, con risposi non usufruiti, e il livello di sicurezza interna sotto il livello minimo. "Si pensi solo, spiegano alcuni sindacalisti, per piantonare le tre detenute negli ospedali servono 24 agenti: e l’amministrazione carceraria ha sospeso a noi ferie e riposi. Addirittura, dopo i tentativi di evasione, sono stati rafforzati i servizi di guardia sul muro di cinta, impoverendo i servizi di controllo all’interno e, per protesta da circa un mese nessuno di noi mangia a mensa". Rovigo: emergenza detenuti, un summit a settembre
Il Gazzettino, 3 giugno 2005
La denuncia c’è stata. Adesso servono azioni concrete a cominciare da una mobilitazione che coinvolga tutte le componenti sociali, politiche e istituzionali sul territorio. L’emergenza-carcere a Rovigo ha scritto ieri un’altra pagina che ne ribadisce l’improcrastinabile urgenza di soluzione. Cgil, Cisl e Uil si sono riuniti in assemblea col personale che opera nella casa circondariale per fare il punto della situazione dopo l’allarme di cui si è fatto portavoce il senatore Massimo Donadi. Visitando la struttura di via Verdi, il parlamentare ne aveva messo in luce i drammatici livelli di vivibilità: 120 detenuti in spazi diventati sempre più angusti a calibrati per non più di 80 presenza, 61 poliziotti in servizio contro i 66 previsti dalla pianta organica. Emergenza medica e la carente manutenzione ad una struttura ormai sull’orlo di una non più mimetizzabile fatiscenza. "La vivibilità generale e le condizioni in cui soggiornano i detenuti in cella è diventato ormai il punto di maggior criticità - spiega Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale della Cgil settore penitenziario - Anche i rappresentanti del mondo associazionistico che svolgono opera di volontariato all’interno del carcere hanno confermato uno stato di crisi che rischia di collassare. È stato importante trovare il dialogo tra il personale interno per dare spessore a un appello che non può rimanere ancora inascoltato. Si avvicina l’obiettivo di attrarre il mondo politico, istituzionale e tutte le forze sociali a costituirsi in un fronte comune che ponga mano ai problemi. Fisseremo al più presto, anche prima di settembre, un’assemblea a cui partecipino tutti i soggetti che intendono attivarsi per risolvere quest’emergenza rodigina". Immigrazione: Ctp Milano, chiudiamo quella gabbia per uomini e donne
Liberazione, 3 giugno 2005
A Milano esiste un "luogo" nascosto allo sguardo della città, protetto da muri di cemento alti tre metri che vorrebbero renderlo invisibile, e che vorrebbero cancellare dalla vita quotidiana della metropoli le donne e gli uomini che vi sono rinchiusi. Lo chiamano "Centro di permanenza temporanea e assistenza" (Cpt), ma è un vero e proprio luogo della detenzione. Si trova in via Corelli, sotto la tangenziale est, che in quel punto è "difesa" dalla vista del Centro da paraventi di ferro. Un Cpt, ovvero una gabbia per uomini e donne, colpevoli solamente di esistere; persone che non hanno commesso alcun reato e che non hanno subito nessun processo, ma che ciononostante vengono rinchiuse e private della libertà personale fino a due mesi. Sono colpevoli unicamente di non essere cittadini comunitari, di aver varcato dei confini, di cercare una possibilità di vivere, di vivere meglio, di scegliere liberamente dove vivere; giudicate colpevoli di lavorare in nero, di non essere stati regolarizzati dai datori di lavoro; giudicate colpevoli di aver perso il lavoro e di non averne trovato un altro. Privi di documenti non risultano cittadini di alcun paese e, rinchiusi in un centro inaccessibile a chiunque, finiscono per scomparire in un buco nero. Un Cpt, l’assurdo di un mondo che abbatte ogni limitazione alla libera circolazione di merci, denaro, flussi finanziari, ma che teme l’idea che gli esseri umani si muovano sfuggendo al controllo. In questo modo in Italia viviamo un doppio binario giuridico, che prevede, accanto al diritto ordinario, spazi di eccezione riservati a particolari categorie di persone. In tali spazi, che comportano una sorta di extraterritorialità all’interno del territorio dello stato nazionale, l’eccezione diventa la regola. La detenzione amministrativa nei Cpt è l’istituto attraverso cui si è instaurata in Italia tale eccezione. Da due mesi in via Corelli detenute e detenuti si sono ribellati: hanno protestato contro la violenza a cui sono sottoposti; hanno rifiutato le condizioni di vita che sono loro imposte; hanno contestato la logica stessa del Cpt. Hanno chiesto a noi tutti di entrare, di verificare, di protestare - in un luogo dove l’accesso alle associazioni e agli enti di tutela è ostacolato soprattutto se avvertito come potenzialmente conflittuale; ci hanno detto: "Come potete accettare questo luogo? In un paese democratico non possono esistere questi centri di detenzione!". Noi dobbiamo rispondere al loro appello e per questo ci rivolgiamo alla Milano democratica, accogliente e antirazzista, perché non faccia cadere nel vuoto l’appello delle detenute e dei detenuti di via Corelli, perché si mobiliti e porti in tutta la città la loro voce e la voce di coloro che vogliono chiudere questa ferita aperta nella nostra città, vogliono chiudere il Cpt e impedire che nello stesso luogo venga aperto il "Centro di Identificazione per richiedenti asilo". Una mobilitazione che sia l’occasione per un monitoraggio attivo nel centro, perché se oggi l’ingresso nei Cpt è condizionato alla presenza di parlamentari o consiglieri regionali, noi riteniamo necessario operare una pressione politica affinché questo diritto venga esteso ad organismi indipendenti e svincolati da qualsiasi difficoltà o disposizioni governative: un monitoraggio che serva a mostrare alla pubblica opinione l’esistenza di luoghi in cui il diritto è sospeso e discrezionale. Una mobilitazione che sia l’inizio di una nuova stagione di diritti per le donne e gli uomini migranti, mai più sottoposti alle discriminazioni, mai più sottoposti al ricatto e alla disumanizzazione dei Cpt. Per discutere questo appello, per farlo vivere nella città, lunedì 6 giugno si terrà un incontro pubblico, presso la sede Arci di Via Bellezza 16-A, alle ore 21.
Primi firmatari
Milano Migrante: Arci, Cs Leoncavallo, SinCobas, Naga - Fiom Milano - Attac Milano - Lila Cedius Onlus - Centro Multietnico La Tenda - Giovani Comunisti - Partito della Rifondazione Comunista - Verdi - Franco Arrigoni (segr. gen. regionale Fiom) - Luciano Muhlbauer, Mario Agostinelli, Osvaldo Squassina (consiglieri regionali Prc) - Carlo Monguzzi, Marcello Saponaro (consiglieri regionali Verdi) - Antonello Patta, Piero Maestri (consiglieri provinciali Prc) - Vittorio Agnoletto (europarlamentare Prc) - Gigi Malabarba (capogruppo Prc Senato) - Stefano Costa (portavoce Fed. Verdi Milano) - Giosuè De Salvo - Raffele Taddeo Usa: a 9 anni uccide l’amichetta per una pallina di gomma
Ansa, 3 giugno 2005
Una bambina di nove anni di età è detenuta in un carcere minorile di New York, con l’accusa di avere ucciso un’amichetta undicenne con un coltello da cucina bisticciando con lei per una pallina di gomma. È la più giovane accusata di omicidio nella storia giudiziaria di New York: il suo nome non è stato rivelato proprio per via della sua età, ed è da chiarire come questo omicidio potrà essere trattato dalla giustizia. È accaduto domenica scorsa: le due bambine stavano giocando in casa a Brooklyn, e la madre della più piccola era uscita per una commissione; quando è tornata, ha trovato l’amichetta di sua figlia, Queen Washington, con un coltello da cucina piantato nel torace. In ospedale hanno potuto solo constatarne il decesso. Libri: "Che qualcuno passi a sentire come stiamo", italiani in Germania
News Italia Press, 3 giugno 2005
Ha fatto tappa a Monaco di Baviera, grazie all’Istituto Italiano di Cultura e al Comites (Comitato degli Italiani all’Estero), il libro di Mauro ed Elke Montanari "Che qualcuno passi a sentire come stiamo - Lettere di carcerati italiani in Germania" (Udep, 2005). Il Presidente del Comites, Claudio Cumani, ha introdotto la serata richiamando il dibattito che aveva animato l’Italia ed altri Paesi europei negli anni Settanta a proposito delle cosiddette "istituzioni totali": i campi di concentramento, ma anche il carcere o il manicomio, luoghi cioè dove risiedono e lavorano persone i cui legami col mondo esterno sono stati interrotti e le cui vite vengono regolate da norme ferree. Il risultato è la standardizzazione e l’uniformità comportamentale, con il progressivo annullamento di qualsiasi pulsione personale: la singola personalità - privata di ogni ambito personale - non può che uniformarsi alla massa, annullandosi e soccombendo. Secondo Cumani, nella società attuale - nella quale il denaro ed il successo sono sempre più gli unici metri su cui misurare il senso della vita - quel dibattito è ormai un’eco lontana, e al carcere (come al manicomio) viene ormai richiesto di "risolvere " i problemi sociali semplicemente nascondendoli dietro delle mura chiuse. Anche in Germania - dove al giugno del 2004 ben 1.194 erano gli italiani incarcerati, di cui 692 condannati e 501 in attesa di giudizio - libri come quello di Mauro Montanari sono importanti proprio perché ripropongono temi "fuori moda" e tornano a dare voce e sentimenti, anima e corpo agli "ultimi", ai reclusi, agli esclusi. Dopo l’introduzione di Cumani, Mauro Montanari ha letto alcune delle lettere raccolte nel libro, "forse non le più rappresentative, ma quelle che mi hanno toccato di più", ha spiegato ad un pubblico attento e partecipe, fra cui il Console Generale Francesco Scarlata, il Direttore dell’Istituto Francesco Jurlaro, vari Consiglieri del Comites, il neo-presidente delle ACLI Germania Carmine Macaluso, operatori sociali italiani e tedeschi e molti singoli cittadini. Numerosi gli interventi che sono seguiti e che hanno affrontato numerosi aspetti del tema in discussione: dai compiti delle autorità consolari, alla solitudine delle famiglie dei detenuti, alla condizione particolarmente difficile delle donne (sia se detenute, sia se parenti di detenuti), alle possibilità di attività di volontariato in favore dei detenuti. Il Console Generale Scarlata ha risposto alle domande sul ruolo delle istituzioni italiane, illustrando il quadro generale della situazione dei carcerati italiani in Baviera, che nella maggior parte dei casi sono detenuti per reati connessi alla droga. Spesso si tratta di italiani non residenti in Germania che sono stati arrestati perché durante il passaggio nel Land sono trovati in possesso di sostanze stupefacenti: in questi casi, molte volte, sono gli stessi carcerati a non volere che il Consolato venga informato del loro arresto ed a richiedere l’espulsione, per scontare parte della condanna in Italia . Il Console Generale ha riconosciuto che ciò il Consolato fa per i propri connazionali è ancora troppo poco, auspicando - da una parte - che una maggiore consapevolezza da parte dei Ministeri competenti porti a un aumento dei finanziamenti per l’assistenza e - dall’altra - che la cooperazione fra Consolato, Comites, enti di assistenza e volontariato divenga sempre più forte, stabile e incisiva. Durante la serata, sono distribuite diverse copie del volume di Mauro ed Elke Montanari: i contributi ricevuti - che assommano ad oltre 300 Euro - verranno devoluti ad un ente di assistenza ai detenuti. Libri: "Gabbie metropolitane", inchiesta sull’universo carcerario
Il Manifesto, 3 giugno 2005
L’universo carcerario nel libro-inchiesta "Gabbie metropolitane". Un appassionante affresco di un mondo occultato dalla retorica della sicurezza costruito attraverso la presa di parola dei detenuti, mentre il carcere è il laboratorio dove sono sperimentate forme coatte di governo del sociale "Nessuno può essere certo di sfuggire alla prigione. Oggi meno che mai. Sulla nostra vita quotidiana grava l’onnipresenza della polizia: sulla strada e dappertutto; attorno ai giovani e agli stranieri; è riapparso il reato d’opinione; le misure anti-droga moltiplicano questa situazione di arbitrarietà". Sembrerebbe l’incipit di uno tra i tanti documenti politici che circolano in rete a causa dei frequenti arresti di giovani esponenti dei movimenti sociali o a causa dell’apertura del carcere speciale per tossicodipendenti in Emilia Romagna se non fosse stato firmato, nel 1971, da Michel Foucault per costituire il Gip (Groupe informations sur le prisons). Allora, nel dopo ‘68, in Francia era ancora prevalente la figura dell’intellettuale engagè che, però, nonostante l’impegno sociale, non si esimeva dal totalizzare il suo sapere, come se tra la piazza e le letture filologicamente corrette non vi potesse essere che un inevitabile iato. Ma nello stesso periodo vi erano anche gruppi maoisti come Vive la Révolution di cui facevano parte, tra gli altri, Jean Genet e Marguerite Duras. Questi, nel 1970, occupavano i locali del Centro Nazionale del Patronato francese per protestare contro la morte di cinque operai costretti a lavorare senza sicurezza alcuna. Ma c’era, anche, il socialismo umanitario di Halbwachs il quale si inventava la pratica del cosiddetto Secours rouge. In questo clima Michel Foucault, Daniel Defert, Pierre Vidal-Naquet e altri pensarono di elaborare e presentare il progetto del Gip che, per vocazione politica, andava a de-totalizzare (per quanto "impegnato") il sapere accademico e, soprattutto, puntava a dare forma a una nuova modalità di incarnare il demone militante. Una modalità del tutto distante dalla logica assistenzialista e votata al soccorso dell’altro, del "bisognoso" di turno. Questa perla rara nell’arcipelago gauchiste francese si strutturava, infatti, attorno ad alcuni punti inequivocabili. Innanzitutto fare un’inchiesta attorno al sistema penitenziario non voleva dire fare un’inchiesta ufficiale con tanto di grafi, tabelle illeggibili miste a denunce moraliste tese ad "umanizzare" i sistemi di custodia, in secondo luogo la domanda di informazione e di verità, per non restare inevasa, doveva necessariamente tradursi in una presa di parola diretta su quanto accadeva. Di prigionieri politici all’epoca ce n’erano parecchi, anche se non quanti ce ne sarebbero stati dopo qualche anno in Italia e molti di loro afferivano alle lotte di liberazione algerine. La grande novità dello stile politico dell’inchiesta del Gip consisteva nel fare in modo che a loro, ma anche ai cosiddetti "comuni", fosse data la possibilità di prendere la parola oltre che sulla loro condizione anche e soprattutto su ciò che sarebbe stato utile fare fuori: è "il solo mezzo per evitare il riformismo", si poteva leggere nel testo che accompagnava il questionario da distribuire in carcere. L’inchiesta, inoltre, doveva rendere visibile ciò che solitamente si consuma tra le mura del carcere e cioè il perpetuarsi sistematico di sevizie, suicidi, rivolte, scioperi della fame e quant’altro per trasformare questi eventi di vita quotidiana "in un’arma efficace contro l’amministrazione penitenziaria". Infine doveva fare in modo che non vi fosse più una barriera, una linea di confine tra la società esterna e il "dentro" delle prigioni. La società, infatti, era nelle prigioni. Tutto questo straordinario materiale composto prevalentemente da volantini, documenti, immagini, articoli apparsi sui giornali è stato raccolto ora in Francia da Philippe Artière per le edizioni dell’Imec (Groupe informations sur les prisons. Archives d’une lutte, 1970-1972) e rappresenta uno snodo fondamentale, non solo perché senza questa esperienza militante Foucault non avrebbe mai scritto Sorvegliare e punire, ma anche e soprattutto perché a questa esperienza ci si può riferire per praticare uno stile sociologico in grado di andare oltre la sociologia stessa e le sue categorie astratte, sempre più prossime ad inseguire il vento del riformismo e cioè dell’unico "ordine del discorso" consentito dalla società disciplinare. L’ultimo libro di Emilo Quadrelli (Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, Derive Approdi, pp. 302, € 17) è, sicuramente, l’unico testo in circolazione in Italia sulle trasformazioni in corso del "pianeta-carcere" e "sulla vita degli uomini infami" che ripercorre, amplia e discute i segni, le parole e le cose dell’esperienza foucaultiana. Pur senza farvi riferimenti espliciti è il demone militante di quel Gip e di quegli anni `70 che anima, dalla prima all’ultima pagina, la ricerca di Quadrelli. Anche in questo libro, dopo Andare ai resti, Quadrelli non parla da solo, non sentenzia e non costruisce "discorsi" sulla società, sulla storia politica che va dagli anni `70 sino ad oggi, non vaneggia nessuna escatologia perché si fa accompagnare dalla voce e dalla materialità esperenziale di quel che lui chiama più volte - traducendo Foucault - il "popolo minuto". Le storie di vita, le interviste che lui raccoglie prevalentemente tra la "sua" Genova, Milano e Torino sono una sorta di "coro" senza solista e senza maestro d’orchestra. Un coro, quindi, che non ha solo la funzione estetica dell’orpello ma costituisce, invece, l’unica possibilità che un ricercatore sociale può avere per "dare voce", per "far prendere la parola" a chi l’ha avuta solo in alcune stagioni della politica italiana. Per dare voce a chi non l’aveva mai avuta e non sapeva neppure che avrebbe potuto prendersela, come alcune donne immigrate del sud, a chi per scelta o per caso decideva di metter su una "batteria" e cioè una banda dedita a furti e rapine; un’azione "nobile", di riappropriazione - nelle parole di chi narra - rispetto alla malavita di destra che, invece, preferiva spacciare l’eroina mandando al macero la metà di una generazione durante gli anni ‘80. Queste voci, tuttavia, sono anche accompagnate da altre che hanno meno bisogno di prendere la parola dal momento che nessuno gliel’ha mai tolta. Quadrelli, infatti, intervista anche un funzionario del vecchio Pci che si fece promotore, assieme al partito, della demonizzazione degli extra-parlamentari, intervista gli educatori e intervista gli operatori sociali del presente ma lo fa solo per farci capire meglio le strategie del potere contemporaneo che, come scriveva Foucault in Bisogna difendere la società , non si applica agli individui come una strategia repressiva ma transita attraverso i corpi trasformandosi in tecniche e tattiche di dominazione. Un potere che funziona perché produce l’idea stessa di marginalità attraverso un insieme di pratiche e di discorsi del sociale e sul sociale per codificarlo, irrigimentarlo in mille corpi docili ed individualizzati, muti e subalterni o perennemente grati a chi li ha inseriti nelle tante cooperative del "mondo-ex": ex-detenuti, ex-prostitute, ex-punk, ex-militanti che una volta divenuti lavoratori, una volta reinseriti non potranno più togliersi lo stigma che simboleggia il loro infame passato. Questa "carcerizzazione della società", questo imbrigliamento della società nel sociale si esplicita, nel lavoro di Quadrelli, attraverso le stesse parole di un operatore il quale sottolinea la necessità di stabilire una sinergia tra il lavoro sociale e il lavoro di polizia: "A diventare centrale è il discorso sulla società, sulla sua sicurezza ma anche sulla sperimentazione di nuove forme di convivenza non segnate dal conflitto. Si può dire che operatori sociali e operatori di polizia lavorano in sinergia più che per la sicurezza per la salute della società". Questo "governo dei viventi" o "governo del sociale" è la continuazione differita sul presente di tutto il ragionamento che sottende l’inchiesta del Gip e la ricerca di Quadrelli perché quando Foucault scrive "nessuno può essere certo di sfuggire alla prigione" vuole dire, esattamente, "nessuno oggi può sfuggire ai dispositivi del controllo sociale" salvo divenire, per volontà degli stessi "esperti" del sociale, devianti, criminali e marginali. Ma se fosse davvero così, se il potere avesse vinto e reso docili tutti i corpi lo stesso Quadrelli non sarebbe andato a cercarsi nuovi scarti sociali da intervistare, forse non avrebbe neppure scritto il libro. Gli scarti del presente, ciò che sfugge al potere e al sociale, ciò che resiste non è morto con gli anni `70 e con l’operaismo di cui, soprattutto nell’ultima parte del libro, Quadrelli sembra avere una nostalgia quasi a-storica. Ha solo cambiato volto, ha solo inaugurato un altro ciclo di cui non si deve totalmente diffidare anche se non ha abbastanza forza. Lo "stato di cose presente", infatti, non muore mai, si trasforma soltanto. Come il potere. Cagliari: calcio e solidarietà nel carcere minorile di Quartucciu
L’Unione Sarda, 3 giugno 2005
Un pallone, due squadre di nove giocatori ciascuna e tanta solidarietà per sentirsi uniti. Poco importa se il campo è circondato da muri alti, discretamente sorvegliato e qualcuno della tifoseria di casa ha preferito osservare la partita dalla finestra, dietro le sbarre verdi e un po’ arrugginite. Ieri mattina nell’Istituto penitenziario minorile (Ipm) di Quartucciu si sono svolte le finali del torneo "Il calcio che unisce" nato dalla collaborazione tra la Polisportiva Selargius ‘91, e il direttore del carcere Giuseppe Zoccheddu, da sempre aperto ai progetti rieducativi a favore dei giovanissimi ragazzi dell’Istituto. Quattro le formazioni partecipanti Ipm, Polisportiva Selargius ‘91, Monserrato e Club San Paolo di Cagliari, che nel corso della mattinata hanno dato vita prima alle semifinali e poi alla finalissima. Calcio d’inizio alle 9,25, squadre schierate in campo, padroni di casa che indossano il completino verde e bianco regalato da Gianfranco Zola, avversari in tenuta blu, stretta di mano e saluto tra i giocatori, palla al centro, e via, con tanta voglia di vincere il torneo. Prima partita in archivio con il punteggio di 4 a 0 per l’Ipm. A seguire il Club San Paolo ha battuto il Monserrato 2 a 1. Nella finalissima per il primo posto l’Ipm ha vinto contro il Club San Paolo per 1 a 0. Felicissimi di alzare la "supercoppa", i ragazzi dell’Istituto penitenziario minorile, che hanno ricevuto anche tre divise complete da arbitro regalate dai quattro fischietti federali a nome dell’Aia, l’Associazione italiana arbitri. Fondamentale è stato anche il supporto finanziario della Pgs, Polisportive giovanili salesiane, e l’aiuto di Stefano Usai, che ha sempre sponsorizzato la merenda del dopo partita. "L’allenamento fine a se stesso non ha molto valore - dice il direttore dell’Ipm, Giuseppe Zoccheddu - ma se è finalizzato a un torneo, visto come confronto sportivo e umano, il discorso cambia". Oltre ai dirigenti delle società sportive e ai genitori ad assistere ci sono anche i rappresentanti dei Comuni di Selargius, Monserrato e Quartucciu, il presidente della Provincia, Graziano Milia, il presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Gianluigi Ferrero, il cappellano dell’Ipm Don Ettore Cannavera, l’attore dei La Pola Marco Camboni, l’ex calciatore del Cagliari Emanuele Gattelli, e diversi rappresentanti del volontariato. "Il calcio che unisce", ha un significato ben preciso: i ragazzi giocano insieme senza differenze di provenienza o di vissuto. Merito della polisportiva di Argiolas è anche quello di aver coinvolto altre due squadre esterne, il Monserrato e il Club San Paolo di Cagliari. "È stata una grande occasione di solidarietà ? dice Mauro, quindici anni, capitano della formazione cagliaritana - che ci ha fatto capire quanto siamo fortunati", concetto ripreso da Rubens, tredici anni, capitano del Selargius ‘91: "Un’esperienza che non dimenticheremo mai, che ci ha messo di fronte a una realtà diversa". Positiva anche l’esperienza di Antonio, capitano del Monserrato: "Ci hanno accolto con molto affetto", e di Diego, capitano dell’Ipm : "Manifestazioni come queste sono molto importanti - dice - ci permettono di non pensare alla nostra sofferenza". E poi c’è Luca del Selargius ‘91, nove anni e mezzo, che "nuota" dentro una maglia che gli ha prestato Diego ed è sicuro che diventeranno grandi goleador, e saranno sempre amici. Giulia Marcias Trento: in scena lo spettacolo teatrale "Trame di Viaggio"
Comunicato stampa, 3 giugno 2005
Casa Circondariale di Trento Comune di Trento - Assessorato alla Cultura Liceo L. da Vinci di Trento
Casa Circondariale di Trento - 3 giugno 2005 ore 15.00
Fra febbraio e maggio nel carcere di Trento una decina di giovani detenuti e alcuni studenti del Liceo Leonardo da Vinci si sono incontrati a cadenza settimanale in una cella per svolgere un laboratorio teatrale della durata di circa venti ore complessive. Il gruppo ha lavorato sulla espressione del corpo, della voce e dello sguardo. Sono state costruite e dipinte maschere di carta pesta come oggetti di scena. Ognuno dei partecipanti ha ricordato e raccontato agli altri un episodio della propria infanzia legato a un’esperienza di viaggio. Queste storie si sono poi intrecciate fondendosi in una sequenza scenica unitaria che viene presentata nella dimostrazione odierna. Per quanto consentito dalle condizioni operative, i componenti del gruppo hanno condiviso in modo paritario ogni momento dell’attività senza distinzioni di ruoli o di funzioni. Al laboratorio hanno partecipato persone provenienti da Marocco, Tunisia, Albania, Colombia, Palestina, Senegal e Italia e questa base multietnica ha particolarmente arricchito il percorso con spunti linguistici, culturali, sociali e storici anche se la lingua di base della rappresentazione è l’italiano. Per ragioni legate alla loro vicenda giudiziaria, non tutti i detenuti possono partecipare all’evento odierno, ma cenni alla loro storia sono rimasti nella rappresentazione. Si è cercato di trasformare in una risorsa estetica la limitazione spaziale-, e cioè la cella adibita ad aula scolastica nell’ala trattamentale del carcere, - nella quale è stato preparato l’allestimento della dimostrazione di lavoro, anche se questo riduce il numero di spettatori a un massimo di 6-8 persone. Grazie alla collaborazione con il Centro Audiovisivi della Provincia Autonoma di Trento, l’evento sarà video registrato per poter avere una maggiore diffusione dell’esperienza. Chi ha progettato e curato questo laboratorio ritiene che si sia trattato di una piccola ma significativa occasione di incontro e di arricchimento reciproco fra il carcere e il suo territorio ed esprime l’auspicio che si possano creare le condizioni per tenere aperto questo canale di comunicazione e di confronto che è nato grazie alla sensibilità e disponibilità di dirigenti ed educatori del carcere di Trento. Un ringraziamento particolare agli agenti di custodia che hanno reso possibile e agevolato lo svolgimento del laboratorio. Durata della rappresentazione: 17 minuti Interpreti (indicati solo con il nome proprio): Abdellatif, Abderrhamen, Caterina, Fabio, Gerry, Giancarlo, Hichem, Marta, Mustapha, Sami. Hanno partecipato inoltre al laboratorio: Alex, Ervis, Erzen, Morad, Moulay, Nicola, N’gui. Laboratorio di espressione corporea e drammaturgia: Amedeo Savoia (insegnante di Lettere del Liceo L. da Vinci) Laboratorio di cartapesta: Emilio Picone (insegnante di Disegno e Storia dell’Arte del Liceo L. da Vinci). In collaborazione con Luisa Rapanà e Grazia Pevarello (insegnanti di scuola primaria presso la Casa Circondariale). Documentazione video: Diego Busacca per il Centro Audiovisivi della Provincia di Trento Cinema: "Sulla mia pelle", la semilibertà può finire male
Il Messaggero, 3 giugno 2005
Tony Zanchi non ha più nulla. Aveva una vita, anche una famiglia, ma dopo anni passati in una cella, non gli resta più molto. Ora, però, è pronto per la riabilitazione: il suo è un regime di semilibertà. Ma si può essere semiliberi? La vita di Tony, che lavora in un caseificio e dorme in galera, si va trasformando in una quotidiana corsa dietro all’orologio, in cui ogni dettaglio è definito per legge nel piano di trattamento firmato dal giudice di sorveglianza: la burocrazia tiranneggia ogni secondo della sua esistenza. Venerdì prossimo sarà nei cinema "Sulla mia pelle", il film di Valerio Jalongo, interpretato da Ivan Franek (doppiato da Fabrizio Gifuni) e Donatella Finocchiaro. Un’altra storia di carceri, forse perché, come dice il regista, "dietro le sbarre il concetto di libertà si fa più limpido". E Valerio Jalongo, Rebibbia, l’ha frequentata davvero. Grazie all’articolo 17 che consente di entrarci a fini educativi, per tre anni ha collaborato con i detenuti e ha guidato un seminario che si chiamava LiberaMente. Insieme, scrivevano delle storie: lui il suo film, loro quello che vivevano. In poche parole, si aiutavano. "Lavorare in carcere - ammette Valerio Jalongo - è difficilissimo. Occorre superare due barriere: il sospetto dei detenuti e il tentativo di scoraggiamento da parte delle strutture, che fanno di tutto per non incentivare questo tipo di attività, perché per loro è un fastidio. Il carcere è un luogo dove l’essere è nudo: non c’è nient’altro. Mentre fuori è tutto diluito. Fra i detenuti c’è un senso di fratellanza che nel mondo esterno non esiste". Sembrerebbe un posto migliore della società... "Assolutamente, no. Non si tratta di un luogo da mitizzare: in galera, a parte pochi casi, si può solo peggiorare". Nel suo film c’è anche una critica alla semilibertà. "L’idea della legge Gozzini è bellissima: la libertà che viene somministrata a piccole dosi, finché il detenuto non è di nuovo capace di camminare con le proprie gambe. Ma i tutori di questi percorsi di riabilitazione, i maestri di questi uomini, siamo noi, le persone libere e oneste. Chi esce, invece, spesso non trova maestri né un lavoro. Incontra la mafia e tanta gente che di certo non fa buon uso della libertà. Per non parlare delle difficoltà di essere un uomo in prova. Ho lavorato con un brigatista rosso, con un esponente dei Nar, con un rapitore di bambini, con un trafficante di droga e ho capito che a volte un carcere può diventare lo spazio ideale per sognare il futuro: fuori, oramai gli stessi spazi, vengono ristretti e la nostra dignità di individui, umiliata". Cinema: "Fratella e sorello", anche i film vanno in prigione
Il Messaggero, 3 giugno 2005
Anche i film vanno in prigione. In tutti i sensi. "Fratella e sorello" di Sergio Citti, per esempio, esce solo oggi dopo aver passato tre anni "dentro". Dentro dove? Non si sa, comunque non fuori, perché è pronto dal 2002 ma nessuno l’aveva visto. Anche Sulla mia pelle di Valerio Jalongo, in uscita venerdì prossimo, si è fatto un paio d’anni al fresco prima di vedere la luce delle sale. È andata meglio a Fatti della Banda della Magliana di Daniele Costantini, uscito la settimana scorsa: solo un annetto nel limbo. Ma la cosa curiosa è che tutti e tre i film, con modi e accenti molto diversi, parlano di prigione e talvolta (Citti, per certi versi Jalongo) abbozzano un paradossale elogio della condizione carceraria, ultimo baluardo di valori perduti come amicizia, onore, lealtà. Stiamo generalizzando, sia chiaro. A essere rigorosi solo Costantini ha messo davvero piede in galera girando quasi tutto il film dentro Rebibbia e inserendo diversi detenuti nel cast. Da anni del resto le prigioni italiane accolgono esperimenti di questo tipo: basti ricordare i lavori di Armando Punzo con i detenuti di Volterra, la Tempesta tradotta in napoletano da Eduardo allestita da Fabio Cavalli con i detenuti di massima sicurezza di Rebibbia, o il Riccardo III reinventato per lo schermo da Bruno Bigoni con un gruppo di ospiti del penitenziario di Bollate. Nei film di Citti e Jalongo però succede anche altro. E se in Sulla mia pelle il detenuto in semilibertà Ivan Franek scopre che uscire è perfino peggio che restare in guardina, in Fratella e sorello il carcere diventa, come in una favola sottoproletaria, l’estremo rifugio di un mondo scomparso. Un po’ come nel vecchio Dov’è la libertà di Rossellini con Totò. Solo che Citti va oltre e il suo carcere diventa un universo rigorosamente maschile (dai tempi di Ostia per Citti la donna è il diavolo) retto da regole vere, contrariamente a quanto accade fuori. Un posto dove si cucinano pietanze povere ma sontuose (altra curiosa coincidenza: Fratella e sorello si apre con la stessa scena che chiudeva il primo film di Paolo Sorrentino, L’uomo in più, la preparazione di una pastasciutta da re in gattabuia. E se consideriamo una prigione dorata anche l’hotel svizzero dove vive Toni Servillo nelle Conseguenze dell’amore, le coincidenze aumentano). Un microcosmo, rovescio e parodia del mondo esterno, dove operano tribunali farseschi ma più seri di quelli veri: vedi l’irresistibile processo intentato a Rolando Ravello dagli altri galeotti, canto del cigno di un modo allegro e gaglioffo di intendere il cinema e la vita ormai così anacronistico che pochi, forse, ne coglieranno il senso. L’unico posto al mondo in cui uno spogliarellista tatuato (Claudio Amendola) può legarsi di casta e tenerissima amicizia con un esangue borghese (Ravello) cornificato dalla moglie di colore. Che un film così personale, per quanto fragile, debba aspettare tre anni per uscire, dice a che punto siamo arrivati. Che il carcere torni con tanta insistenza in certo cinema italiano, forse lo ribadisce. Libri: "Ricette d’evasione", scritti sulla cucina carceraria
Il Messaggero, 3 giugno 2005
L’appuntamento è mercoledì 8 giugno in un carcere romano. Ma questa volta non è per parlare di giustizia. L’occasione è la presentazione di un libro del tutto speciale, Ricette d’evasione (Cucina & Vini Editrice, www.cucinaevini.it) a cura di Clara Ippolito e Daniela Basti, un’affascinante raccolta di storie di vita, di sogni e di cucina, nate intorno a un progetto realizzato nei corsi di educazione per adulti condotti nella Casa di Reclusione Maschile di Rebibbia. Si imparano tante cose dalle storie di Ciro, napoletano verace, di Santo, che porta dentro di sé ancora il richiamo della sua Sicilia e dei piatti della nonna, o di Franco, che lungo il filone e i profumi di un cibo rievoca le donne della sua vita, la madre e la moglie. Il dolore, la solitudine, la nostalgia che accompagnano le interminabili ore del carcere si mescolano così al profumo di soffritto, mentre lungo i profumi di un ragù - preparato magari con ingredienti eterogenei - si può realizzare un’evasione virtuale, un ritorno a quella sottovalutata felicità quotidiana fatta di cose semplici, eppure meravigliose. Tutto è regolato dalle "domandine", i prestampati che servono a richiedere qualunque cosa, compresi i generi alimentari, che poi provvede a comprare uno "spesino" (un detenuto incaricato di raccogliere le richieste). Da fuori possono arrivare in ciascuna delle sei visite autorizzate ogni mese non più di cinque chili di vestiario o di cibo, un’occasione per rivivere e socializzare il legame con la propria terra, dal pane carasau alle salsicce. Ma attenzione, perché ogni carcere ha i propri divieti, per cui c’è chi non ammette uova, chi il lievito, chi la carne cotta. Scorrendo le ricette di questi detenuti si scoprono mondi lontani dal nostro consumismo televisivo. Scopriamo così Ciro che sbriciolando la pasta la trasformava in farina, e che aveva sviluppato il segreto di fare il lievito lasciando una mollica di pane a mollo in un resto di birra in fondo a una lattina. Enzo, invece, per avere il pangrattato si era inventato di bucherellare col tagliaunghie il coperchio di un barattolo di Nivea. Allo stesso modo un legno di scopa rotto a pezzi e il lamierino del coperchio dei pelati surrogano stampi da cannoli e coltelli (in carcere tutte le posate sono di plastica). E vogliamo parlare della crema del ripieno dei biscotti Ringo religiosamente messa da parte per fare la torta limone e vaniglia? O dell’acqua e citrato messa per sostituire il lievito (vietato nei carceri) per far crescere la pasta della pizza, fatta cuocere col metodo geniale di rovesciare uno sgabello, appoggiarsi sopra il supporto della margherita e poi coprire il tutto con un lenzuolo per non disperdere calore? Scorrono veloci le ricette, mentre scorre lenta la vita delle persone che le hanno immaginate e raccontate con passione. Per questo vanno guardate con un rispetto diverso, in confronto ai facili esercizi di consumismo sparati ogni giorno dai vari tele-cuochi. Usa: Cheney; offeso dalle accuse di Amnesty... non sono serie
Ansa, 3 giugno 2005
Il vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney si è detto "offeso" dalle accuse contenute in un rapporto di Amnesty International che nei giorni scorsi ha duramente criticato gli Usa per la gestione della prigione di Guantanamo Bay, a Cuba. "In tutta franchezza, devo dire che mi sono sentito offeso", ha detto Cheney, nel corso di un’intervista nel popolare show della Cnn Larry King Live. "Suggerire come ha fatto Amnesty International, che in qualche modo gli Stati Uniti siano un paese che viola i diritti umani - ha aggiunto il vicepresidente americano - è qualcosa sul quale francamente non li prendo sul serio". Nel fine settimana, anche il capo degli Stati Maggiori americani, generale Richard Myers, si era irritato per il rapporto di Amnesty, definendolo "assolutamente irresponsabile". Cheny ha detto di ritenere che i detenuti a Guantanamo "siano stati trattati bene, umanamente e con decenza. Ci sono state - ha aggiunto il vice di George W. Bush - occasionali accuse di maltrattamento, ma se si vanno a ricostruire, in quasi tutti i casi si tratta di accuse che vengono da qualcuno che era detenuto, è stato rilasciato, è tornato al suo paese d’origine e ora sta spargendo bugie su come è stato trattato". Prato: console cinese chiede pugno duro contro connazionali
Gazzetta del Sud, 3 giugno 2005
Rimandare i criminali in Cina e elaborare un provvedimento specifico per lo scambio di informazioni tra la comunità cinese e le forze dell’ordine, tutelando chi denuncia i reati. Secondo il console generale della Repubblica popolare cinese di Firenze, Li Runfu, sarebbero necessarie queste misure per mettere un freno agli episodi di criminalità registrati nella comunità orientale di Prato dove, in cinque giorni, si sono registrati due omicidi di giovani donne. Per il console, inoltre, la "flessibilità" delle leggi italiane "preoccupa chi deve presentare una denuncia". "Non è vero - spiega Li Runfu - che i cinesi non hanno fiducia nelle istituzioni: la loro preoccupazione è la vostra legge, che è molto flessibile. Il problema è che una volta che questi criminali sono stati catturati e messi in carcere, i vostri avvocati che sono molto abili, dopo qualche mese, li tirano fuori. Una volta tornati liberi - aggiunge - non hanno più paura e commettono azioni feroci e vendette, procurando spavento e minacciando coloro che vorrebbero rivolgersi alla giustizia". Se poi il criminale ha i soldi, "può permettersi un buon avvocato e ottenere la libertà ancora più in fretta". Quindi, osserva il console, "rimandiamo in Cina i clandestini ma prima ancora i criminali". Da sfatare, invece, secondo Li, l’idea che i cinesi non abbiano fiducia nelle istituzioni: "Molti apprezzano l’attività delle forze dell’ordine e non è colpa dei poliziotti o dei carabinieri, è la vostra legge che è così". Secondo il console è necessario, quindi, elaborare un provvedimento che favorisca la prevenzione dei reati e lo scambio di informazioni tra la comunità cinese e le forze dell’ordine. "È importante - osserva - trovare qualche metodo per proteggere coloro che danno informazioni utili". E questo perché fatti come quelli avvenuti negli ultimi giorni, i due omicidi, per l’intera comunità "sono una tragedia". Infine, a proposito della forte presenza di orientali irregolari sul territorio, il console Li Runfu ribadisce l’impegno a contrastare il fenomeno: "È certo che l’immigrazione clandestina crea problemi sociali. Da parte del consolato e del mio governo c’è la massima fermezza nella volontà di frenare questo fenomeno e di collaborare con le istituzioni italiane". "La clandestinità però - conclude - non è causata solo dai cinesi, ma anche dagli italiani che sfruttano questa situazione e le condizioni disperate di molte persone in difficoltà. Quindi è una nota comune".
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