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Libri: quelle vite più forti delle sbarre grazie alla letteratura
Il Messaggero, 4 giugno 2005
Un conto è inventare, in un romanzo, la storia di una donna che insegna in un carcere (di letteratura, cinema e teatro ai quali attingere c’è solo l’imbarazzo della scelta), un conto è entrare veramente in un carcere, e magari proprio per parlare di quel romanzo che di carcere parla. Ci sono realtà che vicino all’immaginario sono davvero poca cosa. Per esempio il racconto di una vita, perché di una vita il romanzo non fa che scegliere quei momenti salienti che, realisticamente disciolti nel corso di una vera esistenza, potrebbero renderla simile a molte altre. Ma scrivere del carcere e poi conoscerlo, anche se appena, è cosa assai diversa. Pochi giorni fa, sono stata nel carcere di massima sicurezza di Benevento per presentare il mio libro a un gruppo di studenti detenuti che frequentano la sezione distaccata dell’Istituto Alberghiero. Uomini dai 23 ai 52 anni di età e quasi tutti con il massimo della pena. Il progetto Libroforum intra moenia è stato ideato dalla professoressa Maria Cristina Donnarumma e promosso dall’Associazione Alfredo Guida amici del libro Onlus con il titolo Leggere rende liberi. Il giorno prima, parlando con l’insegnante di italiano di questa sezione, la professoressa Maria Tiso, ho avuto l’impressione di sentirmi più incuriosita che emozionata all’idea di quell’incontro. Soprattutto non sapevo come sarebbe stato accettato un libro in cui da una parte si comprendono e giustificano i detenuti e dall’altra si cita una frase di Diderot che dice: "I malvagi non vanno puniti, vanno eliminati". E invece le esperienze dirette a volte sono proprio sorprendenti. Mi sono trovata di fronte a delle persone così preparate e letterariamente così sensibili, che dopo pochi minuti ho completamente dimenticato il luogo in cui mi trovavo. Il fatto che li con me ci fossero delle guardie armate e il direttore del carcere, il dr. Liberato Guerriero (nome davvero singolare, più che letterario, per un direttore di carcere che ho scoperto essere amatissimo dai detenuti), era proprio secondario. I detenuti mi hanno rivolto una quantità di domande davvero intelligenti, e i loro commenti sono stati un interessante spunto di riflessione per me e le due professoresse già citate che mi hanno accompagnata. Per più di un’ora ci siamo scambiati pareri e punti di vista. Loro si considerano delle persone che hanno sbagliato, avevano capito perfettamente il significato di quella citazione rispetto alla comprensione verso i detenuti del romanzo. Uno di loro, un acuto lettore (mi dispiace non ricordarne il nome, ma era un uomo sulla quarantina, dai capelli scuri e la carnagione olivastra), ha detto che la differenza tra loro e i mostri di Diderot è che loro possono cambiare, mentre i mostri rimangono sempre identici a se stessi. "Insomma", ha detto un altro, "noi qui possiamo cambiare, diventare diversi, uno come Angelo Izzo invece no". Prima di entrare in quella piccola aula dove li ho incontrati, il direttore mi aveva fatto visitare gli atelier dove i detenuti danno libero sfogo alla loro creatività: presepi bellissimi, ricostruzioni davvero straordinarie del centro di Benevento, quadri, mosaici, arazzi. Avevo osservato tutto ciò con stupore, ma ora che mi ritrovavo di fronte a loro mi sembrava davvero normale che persone così intelligenti potessero creare qualcosa di autenticamente artistico. La vita ha grandi capacità di adattamento, anche qui, in carcere, si può condurre un’esistenza in qualche modo normale, o che alla fine quasi lo diventa, e che magari ispira romanzi, film, quadri e molto altro. E mentre li guardavo uno a uno, ho pensato che vivere può essere davvero un tabucchiano gioco del rovescio, perché il corso di un’intera esistenza può mutare proprio per un caso, magari perché quel giorno era venuta giù una gran pioggia che aveva fatto incontrare due persone che avrebbero fatto meglio a non conoscersi mai. Chi può saperlo com’è che poi vanno le cose, che razza di giri fa la vita. E noi che siamo fuori, quante possibilità di diventare come loro avremmo avuto sotto quell’identica pioggia? Alla fine dell’incontro mi hanno offerto una bellissima composizione di rose, hanno applaudito tanto e mi hanno ringraziata. Io ho augurato a tutti di uscire presto di lì, ma subito dopo averlo detto mi sono sentita stupida, e mi sarei mangiata la lingua. Era una bellissima giornata di sole, ventosa e tersa, e dal colle dove si trova il carcere si dominava un paesaggio splendido, pieno di verde, con una montagna che qui chiamano La Dormiente perché sembra proprio una donna abbandonata nei suoi sogni. Mi sono sentita emozionata, felice e triste allo stesso tempo. La professoressa Maria Tirso, salutandomi, mi ha detto: "Ormai io non potrei più insegnare da nessun’altra parte, lo capisci?". Non lo so se poco più di un’ora di incontro possa farlo capire davvero. A dirle che la capivo fino in fondo mi sarei sentita un po’ disonesta. Certo è che, uscendo di lì, ho pensato che quegli uomini non dovevano ringraziarmi proprio di nulla. Che per quella volta a ringraziarli dovevo essere solo io. Roma: "Le città dell’attesa, ovvero progettare il carcere"
Giustizia.it, 4 giugno 2005
Il varo di un programma edilizio per la realizzazione di nuovi istituti penitenziari progettati in conformità al nuovo regolamento penitenziario (dpr 230/2000) ha fatto nascere l’esigenza di ricercare prototipi di istituti penitenziari innovativi e originali, in grado di offrire al detenuto un trattamento ideale sotto il profilo dell’istruzione, del lavoro, delle attività culturali, ricreative e sportive, e di elevare, al personale avente diritto ad un alloggio, lo standard dell’ambiente di lavoro e quello abitativo. Altra caratteristica richiesta al prototipo è quella di consentire una gestione funzionale e di sicurezza con l’impiego del minor numero possibile di addetti alla sorveglianza interna ed esterna, anche con l’ausilio delle più moderne tecnologie. A tal riguardo, è stato bandito un concorso per idee al fine di acquisire le idee culturali più avanzate nel settore, con estensione anche ai professionisti di paesi facenti parte dell’Unione europea. Il concorso, avente ad oggetto l’elaborazione di un prototipo di istituto penitenziario di media sicurezza a trattamento penitenziario qualificato della capienza di 200 posti detentivi, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale CEE del 10 aprile 2001 e su quella della Repubblica Italiana del 14 aprile 2001, n. 88. Alla data di scadenza, prevista per il 14 giugno 2001, sono pervenuti 22 elaborati; di essi ne sono stati ammessi 15. Al fine di assicurare la massima visibilità ai risultati del concorso, la direzione generale delle risorse materiali, dei beni e dei servizi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha richiesto ed ottenuto dalla Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici l’utilizzazione dell’ex casa di correzione del Fontana, nel complesso monumentale del San Michele a Ripa Grande, per la realizzazione della mostra Le città dell’attesa: progettare il carcere, dedicata all’esposizione di tutti i progetti esaminati (Roma, 10 - 22 giugno 2005).
Presentazione di Giovanni Tinebra, capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria
Questa mostra è sicuramente un evento culturale particolare. Si espongono idee o, forse meglio, visioni di un’architettura, quella "scomoda" del carcere, che difficilmente trova posto sulle riviste di costume o in quelle specialistiche di settore. È un argomento difficile da trattare ma è necessario farlo, anche con il contributo della società civile interessata a questa istituzione, società che questa Amministrazione vuole sempre di più coinvolgere nel continuo e impegnativo processo di ammodernamento del proprio patrimonio di risorse umane e materiali. Il carcere è un ambiente di residenza, di lavoro, di sanità, di cultura, di culto, di sport e di tante altre attività finalizzate alla riabilitazione sociale di individui che hanno contratto un debito con la società. È una comunità di persone che, nel rispetto dei diversi e distinti ruoli tra operatori e detenuti, deve sentirsi integrata, a pieno titolo, nel proprio contesto sociale e territoriale. È dunque un luogo urbano, una piccola città inserita in una città più grande oppure ad essa collegata e, pertanto, la sua ideazione richiede una progettazione attenta alla peculiare e caratteristica complessità di relazioni interne ed esterne tra spazi comuni e funzioni. Questo concorso è stato quindi un altro importante passo in avanti nel cammino di ricerca intrapreso con l’obiettivo di attribuire piena dignità ad una istituzione pubblica di servizio fondamentale per la sicurezza della Nazione. Cuneo: libri in lingua straniera per i detenuti del carcere di Alba
Targa CN, 4 giugno 2005
Prosegue il rapporto di collaborazione tra la Biblioteca civica e la Casa circondariale di Alba. Grazie alla collaborazione di volontari e dipendenti della Casa circondariale, i detenuti nella struttura di località Toppino avranno la possibilità di ottenere volumi in più lingue, andando incontro alle necessità della popolazione carceraria. La Biblioteca albese, infatti, acquisterà una serie di volumi anche nelle lingue delle principali etnie dei detenuti, sia per far crescere il patrimonio librario della Casa circondariale che per garantire il materiale necessario per un Laboratorio di lettura organizzato dal Centro territoriale permanente per l’educazione degli adulti. Il progetto promosso dalla Città di Alba, dalla Casa circondariale e dal Centro territoriale permanente per l’educazione degli adulti di Alba, ha lo scopo di promuovere la lettura, fornendo uno strumento utile allo svago, all’istruzione ma anche alla rieducazione del detenuto, nella misura in cui una buona lettura è in grado di attivare processi di auto valutazione negli interessati. Matteo Filippi Vasto: quattordici detenuti bonificheranno la spiaggia
Il Messaggero, 4 giugno 2005
Bonificheranno un tratto di spiaggia quale gesto riparatore per aver infranto la legge. Sarà questo il compito di 14 detenuti della casa di reclusione di località Torre Sinello a Vasto che da lunedì prossimo, 6 giugno, saranno alle prese con un progetto voluto dal Ministero della Giustizia nell’ambito di un’intesa con il Ministero dell’Ambiente. "Alla marina per una riparazione possibile" si chiama il progetto finalizzato al recupero e alla valorizzazione di un bene comune che fino a venerdì 10 giugno vedrà due squadre di detenuti di 7 elementi ciascuna, il "Gabbiano" e il "Cormorano", all’opera sul tratto di litorale di circa 3 chilometri che va dal canneto di Mottagrossa alla spiaggetta di Punta Aderci, all’interno dell’omonima area protetta, in uno degli ambienti più suggestivi e selvaggi della costa abruzzese. A illustrare le modalità e le finalità dell’iniziativa, che si avvale del partenariato del Comune di Vasto e della sezione provinciale del Wwf, saranno Giovanni Tinebra, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il sindaco di Vasto, Filippo Pietrocola, Marco Terrei del Wwf e il direttore del carcere, Massimo Di Rienzo. L’appuntamento è il 9 giugno alle 11 in un gazebo all’inizio del sentiero di Punta Aderci. Napoli: accordo con comune di Pozzuoli, detenute curano verde
Ansa, 4 giugno 2005
Saranno alcune detenute del carcere di Pozzuoli (Napoli) a provvedere alla manutenzione dei giardini comunali. Grazie ad un permesso della magistratura di sorveglianza potranno lasciare l’istituto di pena per otto ore al giorno per curare le aree pubbliche e per imparare un mestiere che consentirà loro di inserirsi nel mondo del lavoro dopo aver scontato la pena. Comune di Pozzuoli e direzione della Casa di pena hanno sottoscritto un protocollo che prevede l’impiego quotidiano di cinque detenute. Tre le aree che saranno bonificate grazie all’impiego delle detenute del carcere femminile di Pozzuoli, gli scavi archeologici di via Luciano. Il Comune nei tre mesi di durata del progetto punta a recuperare e bonificare anche altri siti archeologici, come la necropoli di via Celle e gli scavi di località san Vito. Pesaro: entra in servizio la fattoria per i detenuti
Agi, 4 giugno 2005
Fra una settimana comincerà a funzionare la prima fattoria marchigiana per detenuti. È dislocata a Macerata Feltria, nell’entroterra pesarese, sede di casa mandamentale, ed è stata battezzata con il nome di "Fattoria Pitinum", la denominazione romana del comune. Inizialmente vi opereranno cinque detenuti, che saranno così ammessi al lavoro esterno, dopo un anno di attività formativa, nel corso del quale hanno imparato a fare gli agricoltori e gli apicoltori. Si tratta di una esperienza nuova per la regione, sostenuta con convinzione dal provveditore dell’amministrazione penitenziaria delle Marche, Raffaele Iannace, per offrire al territorio un "polo lavorativo con una forte valenza trattamentale". Progetto abbracciato dal direttore della casa circondariale di Pesaro, Maria Benassi, da cui dipende Macerata Feltria, che ne ha compreso l’alto valore educativo. Nella fattoria, che consta di cinquemila mq di terreno, una serra di 500 mq ed un laboratorio per la lavorazione del prodotto miele, i detenuti svolgeranno attività di ortofloricoltura, frutticoltura e apicoltura, organizzati in squadra e seguiti da un consulente della cooperativa "La Ginestra" di Pesaro, la stessa che ha curato i corsi di formazione. Trento: laboratorio teatrale unisce detenuti e studenti
L’Adige, 4 giugno 2005
Profumo di libertà dentro il carcere. Per alcune ore una piccola, ma importantissima "tranche de vie" è entrata in via Pilati grazie al laboratorio teatrale che ha unito una decina di detenuti e tre studenti del liceo Da Vinci. Ieri il risultato di questo progetto è stato messo in scena per la prima e unica volta davanti a un pubblico di sette persone (le consigliere comunali Micaela Bertoldi e Violetta Plotegher e cinque giornalisti), quanto una cella poteva contenere. E proprio "teatro da cella" è stato soprannominato l’ambiente dove si svolge "Trame di viaggio", diciassette minuti di uno spettacolo interamente realizzato dagli attori assieme ad Amedeo Savoia ed Emilio Picone, docenti del Da Vinci e curatori del progetto assieme alle insegnanti della scuola elementare del carcere. La cella, una delle aule dell’ala trattamentale dove normalmente si svolgono le numerose attività didattiche, ha costituito un limite spaziale ma nel contempo un’opportunità estetica. Tutti seduti in circolo e mascherati, gli undici attori hanno accolto il pubblico con un sibilo collettivo che si è via via trasformato in un sussurro e in progressivo aumento di volume e di velocità delle parole recitate in molte lingue. Quando uno degli attori ha urlato "Silenzio", ad uno ad uno i protagonisti hanno iniziato a raccontare un personale ricordo di un viaggio effettuato nell’infanzia. "Trame di viaggio" è infatti l’intreccio di molte storie ricostruite attraverso uno scavo nella memoria. "Tengo la testa abbassata e guardo l’asfalto. Me lo vedo ancora quell’asfalto. Ascolto e guardo tutto". "Sento il profumo della terra, un odore diverso da quello della città. Sento il rumore del ruscello. Qui mi sento libero. A Gaza c’è la guerra ed è pericoloso stare fuori a giocare. A Gaza l’aria non è buona". "Noi stiamo dietro, nel cassone, e sentiamo un gran freddo". "E poi ci sono le dune di sabbia". L’intreccio di storie in realtà rappresenta un intreccio di culture e di linguaggi che "Trame di viaggio" esalta e valorizza. La diversità è ricchezza nell’uguaglianza. Tutti i componenti del gruppo hanno infatti condiviso paritariamente ogni momento del progetto, dalla stesura del testo alla realizzazione delle maschere di cartapesta, dagli esercizi sulla voce e sulla respirazione alle prove e alla recita conclusiva. Lo spettacolo è il risultato di una ventina di ore di laboratorio alle quali hanno partecipato persone di Albania, Italia, Tunisia, Marocco, Senegal e Colombia, nonché i tre studenti del Da Vinci, graditissimi e festeggiatissimi ospiti di via Pilati. La recita è stata video registrata dal Centro audiovisivi della Provincia per essere diffusa a un pubblico più vasto. Alla fine convinti applausi da tutti per tutti. Da Micaela Bertoldi (il Comune di Trento ha finanziato i progetto) ai protagonisti e agli educatori del carcere ("Si respira un’atmosfera di totale serenità e di fraternità fra i componenti del gruppo, senza alcun problema; grazie anche alla disponibilità del direttore e degli agenti"). "Una stretta relazione fra il carcere e il territorio - ha commentato Amedeo Savoia - può portare a un reciproco arricchimento. Spero che questa apertura possa avere un seguito". I più soddisfatti sono ovviamente i detenuti che hanno potuto assaporare "il profumo di libertà" pur all’interno di una struttura penitenziaria che di norma non consente di coltivare molti sogni. Ma che cerca, con fatica e a piccoli passi, di offrire occasioni di crescita culturale e sociale in vista di un successivo reinserimento nella collettività. Droghe: i 25 anni della Comunità S. Cristoforo di Amandola
Redattore Sociale, 4 giugno 2005
Tre giorni di festeggiamenti per il 25° anniversario della Comunità S. Cristoforo di Amandola, una comunità familiare che si occupa dell’accoglienza di giovani tossico e alcol-dipendenti. Lo fa in una cornice particolarmente accogliente, propria dell’entroterra Fermano, nelle Marche, e con un’attività che non poggia su convenzioni istituzionali ma sul lavoro di chi vi opera, sulla propria capacità di auto-sostegno. Molti gli appuntamenti, numerosi gli interventi previsti per celebrare le nozze d’argento con una attività che sembra essersi identificata perfettamente con il contesto locale. "L’idea della comunità nasce nel dicembre 1972 da un gruppo di persone la maggioranza delle quali impegnata, a diverso titolo, all’interno della scuola – ripercorrono i responsabili della comunità -. Muovendo dagli stimoli del pedagogista brasiliano Paulo Freire, cominciammo a delineare che la comunità sarebbe stata un’alternativa alla vita di scuola, proponendo una scuola di vita. Una vita di fraternità, di familiarità non poteva che giocarsi su alcune opzioni: essere una comunità che vivesse una essenzialità e che fosse condividente, quindi accogliente ed in nulla discriminante". Ma quali ultimi accogliere come compagni di strada, per non cadere in qualunquismi frustranti per noi e deleteri per gli accolti? "Tra le molte ultimità – continua -, sulla base delle attitudini emergenti e delle esperienze di ognuno, nel 1976 scegliemmo i giovani tossico – alcool dipendenti. Dal 1976 all’80 (anno di inizio della comunità) si maturarono conoscenze e approfondimenti sulla vita delle comunità, intensi e proficui contatti con realtà in Italia e all’estero, che ci sembravano affini a noi e che ci permisero di bere al pozzo della loro conoscenza. Fu tuttavia nel 1980 che mettemmo a fuoco quello che sarebbe poi divenuto un elemento caratteristico: essere un piccolo segno, una comunità semplice, aperta al territorio e a basso indice istituzionale". "Sentivamo quale dovere morale il dover vivere la nuova esperienza nella nostra terra e cultura e al servizio dei nostri giovani. L’idealità di essenzialità (ma anche la realtà di fatto:non avevamo i mezzi finanziari!), di non proprietà e di opzione della campagna e dell’agricoltura quale preferibile ambiente per il genere di persone che ci accingevamo ad accogliere, ci costrinsero ad uscire dalla nostra area, allargando via via sempre più la circonferenza territoriale di ricerca di una cascina con terreno da lavorare in affitto, finché… il 3 luglio 1980 lasciammo il Veneto per Bolgheri (Livorno) e cominciò l’avventura che dura tuttora. L’incantevole luogo, isolato, senza corrente elettrica, senza telefono e senz’acqua (c’era un serbatoio d’acqua piovana) che inizialmente ci ammaliò, presto si rivelò non adatto alle nostre finalità. Il 14 marzo 1981 ci trasferimmo definitivamente nelle Marche, ad Amandola, perché qui trovammo una donna che credette alla nostra iniziativa e ci offrì, in affitto, il rudere e il podere che, in anni, abbiamo trasformato in scuola di vita". "Garantire la libertà di tale scuola, fu ciò che ci spinse alla scelta di non convenzionarci alle strutture pubbliche, per assicurarci la retta giornaliera su ogni ragazzo accolto; il tempo e vari comportamenti delle pubbliche amministrazioni, ci hanno dato ragione. Oggi abbiamo 6 ragazzi accolti e noi siamo 4, ma la comunità è una, ognuno assumendo le responsabilità che le sue spalle gli consentono dando e ricevendo dagli altri ciò che ognuno è". Sono passati più di vent’anni; circa 200 ragazzi e ragazze di varie regioni italiane hanno trovato accoglienza, calore, compagni di viaggio, amici per ricredere in loro stessi, per scoprire le proprie capacità e potenzialità, per vivere l’esperienza esaltante (pur con tanti limiti e fragilità) del vivere insieme per crescere insieme. La Spezia: gli agenti denunciano, carcere sempre più a rischio
Secolo XIX, 4 giugno 2005
Le carceri italiane fanno acqua: tagli ai finanziamenti, sovraffollamento, buchi negli organici degli agenti di custodia obbligati a straordinari e turni massacranti. È in questo scenario - denunciano le organizzazioni sindacali di categoria - che deve essere affrontata un’analisi sullo stato dell’istituto spezzino, teatro la settimana scorsa dell’evasione di un giovane detenuto di origine albanese. I sindacati - FpCgil, Uilpa, Sappe, Cnpp e Fsa - non entrano nel merito della vicenda che ha interessato le cronache ed è al centro di un’inchiesta che i sindacati si dicono convinti farà la dovuta chiarezza ma sottolineano come le ragioni di quanto accaduto siano da ricercare anche nelle condizioni dell’istituzione carceraria. Il carcere della Spezia - scrivono - non si sottrae a queste gravi lacune. Così, sostengono, nel momento in cui erano in corso lavori di ristrutturazione non si è proceduto ad effettuare lo sfollamento della popolazione detenuta che era stato preventivato e richiesto dai sindacati determinando così maggiori difficoltà a chi lavora in istituto. Lo stesso muro di cinta del carcere, da anni dichiarato inagibile - sottolineano le organizzazioni sindacali -, non può essere presidiato dal personale, tant’è che si era provveduto ad installare sistemi di anti intrusione. I sindacati rilanciano una ricetta per rendere pi? sicuro il carcere e il lavoro degli agenti. Al primo punto resta l’urgenza di adeguare e potenziare l’organico sia in rapporto al numero dei detenuti sia ai lavori di ristrutturazione che si protrarranno ancora per lungo tempo. Villa Andreino che dovrebbe recludere non più di 130 persone ne ospita mediamente 200. È, al pari degli altri istituti, un carcere a rischio: Il numero di evasioni è triplicato, conclude la nota sindacale. La Spezia: dalla cella al palcoscenico, il teatro dei detenuti
Secolo XIX, 4 giugno 2005
Il carcere esce dalle mura della casa circondariale di Villa Andreino, e cala sul palcoscenico del Dialma Ruggiero: quattro detenuti attori, formati al laboratorio che Toni Garbini porta avanti da due anni in via Fontevivo, saranno protagonisti martedì sera di "H.H.", un testo forte, tratto liberamente da "The Hot House" di Harold Pinter. Uno spettacolo che rientra in un disegno di politica sociale ma che non può essere catalogato solo in questa ottica. Tutt’altro. Non ha infatti niente a che vedere "con una esibizione di scimmie ammaestrate", precisa con fare incisivo il direttore del carcere, Maria Cristina Biggi: i quattro detenuti saranno confusi con attori esterni alla casa, perché tutti siano uguali sulla scena, e chi osserva non abbia modo di identificare direttamente quanti a fine serata rientreranno in cella. La cosa fondamentale per una persona che si trova a vivere una fase difficile della sua vita, è poter riconquistare autostima, e guardare oltre in modo nuovo - spiega - in questo percorso di riabilitazione, primaria è l’opportunità del lavoro: ma i momenti di ricreativi aiutano a lavorare sulla singola persona. Il progetto ha trovato un appoggio forte nell’assessorato alle politiche del welfare, da poco affidato a Cinzia Aloisini: Da anni esiste una solida collaborazione fra istituzione locale e carcere - spiega - c’è rispetto, c’è stima reciproca. Le risorse sono poche, ma cerchiamo di fare il possibile, per sostenere iniziative come questa. Da il suo appoggio l’istituzione per i servizi culturali. Il resto "è arte", come ripete Toni Garbini, "cinicamente" soddisfatto dell’effetto choc ottenuto ieri a Palazzo Civico dalla breve anteprima del video che vedremo durante lo spettacolo martedì sera: un primo piano spietato di un detenuto di colore, nigeriano, che ripete in modo meccanico che il carcere l’obbligo di lavorare e giocare, il riposo e la convalescenza sono solo delle fasi, il trattamento penitenziario deve essere conforme all’umanità, ed è improntato all’assoluta imparzialità, senza discriminazioni di razza o religione". E poi ride in modo isterico. Questa non è la vita - spiega il resista - questo è il teatro. E Teatro, con la t maiuscola, si vedrà martedì, ad ingresso libero. Con Antonio Dalcielo, Manuel Paulino, Freddy Ramirez, Francesco Ferrari, la partecipazione di Andrea Giannoni e la South Side Blues Boys. In video, Elena Saccomano, Jimmy Osagie, e come ministro Alberto Cariola, con cura tecnica di Diego Garbini. Dal 2001, il Teatro Ocra di Garbini ha lavorato su Amleto, su Pinter, sullo Zibaldone di Leopardi, rimescolando le carte in tavola. Il testo H.H. è ambientato in un ospedale psichiatrico giudiziario, "e consente una ironica riflessione sulle fragili condizioni della situazione carceraria". Al progetto hanno lavorato Rosa Maria Traverso, Licia Vanni, Agostino Codispoti. Il magistrato che ha concesso l’uscita è la dottoressa Michela Mencattini, alla quale la Biggi ha espresso un ringraziamento formale, ringraziando altresì ieri la disponibilità degli agenti della polizia penitenziaria di Villa Andreino.
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