|
Giustizia: legalità in carcere; non è per loro… è per noi
Agenzia Radicale, 17 agosto 2005
Come è (un po’ sinistramente) d’ uso negli Agosti italiani, anche nel 2005, anche a Salerno, torna d’ attualità la "questione carcere". Le ferie alleggeriscono la pagina politica, e trovano spazio notizie, vicende e denunce ignorate nel resto dell’ anno. Per chi, come il sottoscritto, partecipa a questa sorta di "rito collettivo", ed anzi lo ha in qualche modo celebrato proponendo a Daniele Capezzone e Gennaro Mucciolo la visita a Fuorni del 4 Agosto, è necessario interrogarsi sul significato e sull’ autenticità dell’ invocazione della "legalità in carcere". Lo faccio a partire da un episodio. Nel Settembre del 2003 ho visitato con Marco Cappato, Eurodeputato radicale, e Maurizio Provenza, compagno radicale salernitano, il Centro Diagnostico Terapeutico del carcere di Secondigliano. Un "ospedale carcerario", diciamo. Più in particolare ho visitato i 15 (pressappoco) detenuti che in quest’ospedale carcerario scontano la pena sotto il regime denominato "41 bis". Il carcere duro. Madonia, Morabito, Brusca: in poche celle i cognomi divenuti familiari a chi segua le cronache giudiziarie italiane. Ma il nome ed il volto che più vividi sono impressi nella mia mente sono quelli di Antonino Geraci. Geraci (88 anni nel 2002, non so se sia ancora in vita) era immobilizzato a letto perché le gambe non lo reggevano. Quasi cieco. Condannato all’ ergastolo per associazione mafiosa e vari omicidi. Erano le 22.00 e fu svegliato dalla nostra visita, ci fu solo il tempo di qualche battuta di saluto. Quando ci informammo circa le sue condizioni ed il suo trattamento, offrendo l’ aiuto che gli servisse, chiese, quasi celiando, "se potevamo farlo uscire". Dovemmo rispondere, un po’ nel tono della sua celia, di "no". Il vecchio capomafia, subito, secco: "E allora che ci siete venuti a fare?". Me lo chiedo, ogni tanto: "Che ci andiamo a fare?". Mi sono risposto che, in effetti, ci vado per me. È a me che interessa verificare come abbiamo deciso di far scontare le pene che i Tribunali hanno comminato ad alcuni nostri concittadini. In quali condizioni, con quali costrizioni, sottoponendoli a quali umiliazioni, secondo regole trasparenti ed universali o no, in modo congruente con il dettato costituzionale circa la finalità rieducativa della pena o no. L’argomento per il quale i detenuti sono "delinquenti" e non occorrerebbe affannarsi più di tanto per i loro diritti ("con tutti i bravi ragazzi disoccupati in giro di cui invece nessuno si occupa") non regge solo e tanto perché la delinquenza è pianeta assai più complesso di quanto le nostre semplificazioni ed i nostri nervi siano disposti ad ammettere, ma perché l’ "affanno" per i detenuti non risponde ad un’ esigenza dei detenuti. Ma ad un’ esigenza mia, dei Radicali, dei cittadini liberi. Se in nome del "diritto" si è deciso di privare qualcuno della libertà, occorre che i diritti di chi è ristretto in carcere godano del massimo di salvaguardia. O quel "diritto", il suo nome, sono destinati a non essere presi sul serio (come, in effetti, in Italia accade). Mi giungono, in queste ore, altre segnalazioni di avvenuti episodi di maltrattamenti a carico dei detenuti a Fuorni. Asseconderemo ed attiveremo ogni percorso parlamentare, giudiziario, amministrativo che sia utile per sbloccare una situazione divenuta insostenibile. Mi auguro che altre forze e personalità politiche, a Salerno, vogliano approfondire questo tema. È un invito, anzi una richiesta di aiuto, formale. Non riterrei possibile occuparmi dei compagni Montagnard del Vietnam iscritti al Partito Radicale Transnazionale senza occuparmi dei cittadini salernitani residenti a Fuorni. Sono perciò certo che le grandi mobilitazioni per un verso "in difesa della Costituzione" (appunto: art. 27), così come "per la Pace" - di cui leggo - vorranno ripetersi e concentrarsi anche sul tema della legalità delle condizioni di detenzione e del trattamento dei "nostri" detenuti. Lo dobbiamo a noi, prima e più che "a loro". Minori: i baby-criminali crescono, tra vandalismi e mafia
La Gazzetta del Mezzogiorno, 17 agosto 2005
Baby gang, studenti-vandali, ragazzi al servizio della criminalità organizzata: aumenta la devianza minorile in Italia. Negli ultimi quattro anni sono stati denunciati 84.283 giovanissimi, con un aumento del 2,6% rispetto al precedente quadriennio 1997-2001. Si tratta di un fenomeno che attraversa tutte le fasce sociali. A segnalarlo è il Rapporto del Viminale sullo stato della sicurezza in Italia. Cresce anche l’incidenza dei minori denunciati in rapporto al totale delle persone denunciate: 3,1% contro 2,7%. I reati più frequenti degli under 18 sono furti e rapine, che costituiscono il 43% delle denunce a loro carico: 32.258 i primi, 4.507 le seconde. Il maggior incremento tra i due periodi presi in esame riguarda le rapine (+41,6%); i furti, invece, sono aumentati dell’1,4%. In aumento anche i piccoli estorsori: le denunce per questo reato infatti, sono cresciute del 21% rispetto al periodo 1997-2001. Trend in leggera ascesa pure per gli omicidi volontari, così come per le lesioni dolose. Resta stabile, invece, il ruolo dei minorenni nelle associazioni per delinquere di stampo mafioso. Vengono utilizzati soprattutto per attività criminose collaterali e di supporto, quali il trasporto di droga o armi, ma anche per la commissione di danneggiamenti ed estorsioni. In leggero calo, invece, i borseggi (-2%). Nel quadriennio 1997-2001 si contano 2.862 casi; nel 2001-2005 sono 2.708. Calo più significativo (-8,1%) delle denunce per delitti connessi agli stupefacenti: da 6.937 casi a 6.375. Per quanto riguarda i delitti commessi da minori stranieri, si rileva un aumento della devianza di quelli di origine romena e una flessione di quelli di etnia marocchina ed albanese. I baby delinquenti, secondo il Rapporto, maturano comportamenti delinquenziali già a scuola o tra amici di quartiere, fino a formare dei veri e propri "gruppi", dove approdano i figli di famiglie cosiddette "difficili". La criminalità comincia a manifestarsi tra i giovanissimi tramite atti di vandalismo nelle scuole, negli stadi, nei parchi pubblici, quindi in reati contro la persona, furti e rapine. È così che prende piede il fenomeno delle baby-gang, affermatosi principalmente nel Nord Italia, e ora in espansione anche nelle regioni meridionali. Il quadro tracciato dal Viminale trova riscontro nella lettura dei dati relativi agli ingressi nei Centri di prima accoglienza (Cpa) e negli Istituti penali per minorenni. L’analisi del dato riferito al periodo 2001-2004, infatti, ha evidenziato che gli ingressi nei Cpa hanno riguardato in media per oltre il 70% soggetti responsabili di reati contro il patrimonio; il 18% per reati connessi agli stupefacenti. Le presenze negli Ipm al 31 dicembre 2004 evidenziano poi che la maggioranza dei reati commessi dai minori detenuti è costituita da furti e rapine, quindi reati connessi a stupefacenti e, in misura minore, omicidi e reati contro la persona in genere. Taranto: detenute creatrici di moda sfilano in passerella
Gazzetta del Mezzogiorno, 17 agosto 2005
In prima fila siederà soltanto una di loro, l’unica che per il suo passato poteva ottenere il permesso di uscire dal carcere. Rappresenterà le 19 detenute della casa circondariale di Taranto, metà delle quali extracomunitarie, che stasera a Campomarino, sul litorale di Maruggio, faranno sfilare in passerella le loro creazioni di moda. È il risultato di un corso di formazione a cui le 19 detenute - l’intero nucleo femminile del carcere tarantino - hanno partecipato conseguendo il titolo di "tecnico di modellistica e confezionamento". La manifestazione è denominata "Fuori moda", mentre il corso di formazione è stato organizzato dal consigliere provinciale di parità, Perla Suma, con l’apporto dell’accademia della moda "Maria Immacolata" di Manduria (Taranto), partner del progetto, che presterà per l’occasione anche le modelle. Le detenute hanno creato abiti per tre linee: una prima di moda-mare, una seconda di abiti sportivi e una terza di abiti eleganti fra cui uno da sposa. Il corso ha invece coinvolto detenute di età compresa fra i 30 e i 35 anni e si è articolato in due moduli. Il primo ha avuto in prevalenza carattere pratico-applicativo, il secondo è stato propedeutico all’inserimento nel mondo del lavoro e si è basato sulla conoscenza di prime nozioni giuridico-economiche e sul tema dei diritti di parità. Stasera, prima della sfilata, verrà inaugurata anche una mostra di lavori artigianali di ricamo, per lo più biancheria da corredo, realizzati dalle stesse detenute. I lavori saranno messi in vendita e il ricavato verrà versato su un libretto postale aperto a nome di ciascuna detenuta che li ha prodotti. "La vita è fatta di opportunità - commenta il consigliere Perla Suma - e noi abbiamo il dovere di offrirle anche a queste donne che, una volta lasciato il carcere, si spera possano trovare un inserimento nel mondo del lavoro. Sono andata spesso in carcere ed ho parlato loro di pari opportunità, di come, una volta libere, potrebbero ottenere finanziamenti per un’attività lavorativa. Il risultato è stato buono, anzi sorprendente, tanto che hanno chiesto se si possano seguire corsi per altre attività. In questa esperienza con le detenute del carcere di Taranto mi ha colpito il fatto che alcune ragazze si sono scoperte ricamatrici, un mestiere antico che ormai non si tramanda più in famiglia". Il corso di formazione seguito dalle detenute è una delle numerose iniziative di apertura al mondo del lavoro organizzate dalla direzione della casa circondariale di Taranto. "L’anno scorso le stesse recluse - spiega il vicedirettore del carcere tarantino, Antonio Fullone - avevano partecipato ad un corso di informatica, mentre gruppi di detenuti hanno collaborato alla pulizia delle spiagge e alla manutenzione nelle scuole, partecipando ad attività di laboratorio e a corsi per ceramisti e giardinieri. Nel Sud, il carcere di Taranto è certamente uno dei più moderni da questo punto di vista, pur ospitando anche un braccio di alta sicurezza". Caltanissetta: una sala d’attesa per i parenti dei detenuti
La Sicilia, 17 agosto 2005
I familiari dei detenuti presso la casa circondariale chiedono rispetto. A farsi portavoce delle loro necessità pare siano stati gli stessi detenuti presso la struttura sancataldese. Secondo quanto racconta il padre di uno dei detenuti in occasione del giorno di visita, tutti i parenti sono costretti ad attendere fuori dal carcere. "Stiamo tutti davanti al cancello - afferma l’uomo -, non importa se fa caldo o freddo. Se piove o meno. Nell’attesa, spesso lunga, di parlare con i nostri cari siamo sottoposti alle intemperie del tempo e, in alcuni casi, anche allo scherno sociale. Perché la gente passa e ci accorgiamo del modo in cui ci guarda". "So per certo - continua l’uomo che, per ovvi motivi di privacy, preferisce restare nell’anonimato - che i detenuti hanno più volte chiesto al direttore del carcere, dott.ssa Agata Blanca, la possibilità di allestire una sala d’attesa all’interno delle mura carcerarie. Un posto dove tutti i parenti possano aspettare al riparo dalle intemperie. Del resto se uno dei nostri cari ha sbagliato e, proprio per questo sta pagando il conto in sospeso con la giustizia, non vedo perché debbano pagare anche i parenti. Alle richieste, comunque, non è mai stato dato un seguito.Mai - sostiene l’uomo - la direzione ha dato un segnale di apertura. Ecco allora che chiediamo un intervento del sindaco. Un intervento politico a che l’amministrazione carceraria venga in contro alle nostre esigenze. Qualora dal ministero anche il Sindaco dovesse trovare porte chiuse chiediamo a lui l’istituzione di un simile servizio magari locando una delle tante case sfitte che si trovano dirimpetto alla casa di reclusione". Per verificare le dichiarazioni dell’uomo circa la reale presentazione della richiesta alla direzione del carcere e la relativa presunta chiusura, abbiamo tentato di contattare, senza successo purtroppo, la direttrice del carcere o il suo vice. Roma: vuole andare in carcere per "evadere" dalla sorella
Il Messaggero, 17 agosto 2005
Ora, tra le sbarre, si gode finalmente un po’ d’evasione. Le strade si sono divise bruscamente così, con un incredibile epilogo, per due fratelli che dividevano la stessa abitazione, in zona Prenestina. Lui, S.B., 35 anni, da quella casa non usciva mai perché era agli arresti domiciliari. Ma il rapporto con la sorella è stato talmente "idilliaco" da sembrargli una pena infinitamente superiore a quella da scontare per spaccio di sostanze stupefacenti. Meglio la galera. Così, dopo l’ennesimo litigio, non ci ha pensato due volte: è uscito, anzi, è proprio scappato di casa (trasgredendo la misura cautelare impostagli) ed è corso alla prima caserma dei carabinieri che ha trovato sulla sua strada urlando ai militari della Stazione Prenestina di arrestarlo. Accontentato. A scatenare la tempesta in famiglia è stato il piccolo schermo. A casa il trentacinquenne passava le giornate incollato alla televisione e sua sorella non ne poteva più. Lei contrastava questa passione rimproverandolo e chiedendogli con forte insistenza di spegnere l’apparecchio almeno in certe ore. Tra i due era una scenata dopo l’altra, atmosfera tesissima. Ridotto a non poter più assistere ai suoi programmi preferiti pomeridiani, l’uomo si è dato alla fuga per la libertà verso il carcere. Libertà di vedere la televisione in santa pace, senza essere ripreso in continuazione e costretto a spegnerla. La televisione, come spiega il sommo filosofo Popper, sarà pure cattiva maestra. Molto, però, dipende dall’uso che ne facciamo. Piuttosto, occhio ai legami di sangue: tra le mura domestiche perfino tra fratelli l’aria può diventare irrespirabile, come per esempio insegna la divertente convivenza (cinematografica) fra il marchese Onofrio del Grillo e la sorella Camilla dall’alito mefitico, culminata con la cacciata di quest’ultima in quel di Macerata, giusta distanza per la sopravvivenza "ambientale" dell’affetto familiare. E non sarà certo un caso se la saggezza popolare sintetizza certi rapporti familiari velenosi bollandoli con l’eloquente "patente" di parenti-serpenti e fratelli-coltelli. Brescia: lasciate aperte le porte blindate, non si respira
Giornale di Brescia, 17 agosto 2005
"Un sit-in di fronte al carcere-inferno di Canton Mombello per migliorare condizioni ai limiti della tortura". Ha scelto un Ferragosto di protesta Lucio Bertè, del comitato Radicali Italiani, che lunedì scorso ha camminato tutto il giorno attorno alle mura della casa circondariale di Brescia, per "chiedere la mitigazione delle condizioni di vivibilità interna del carcere". La manifestazione, si legge in un comunicato redatto dall’associazione radicale "Enzo Tortora", era incentrata su una richiesta ben precisa. "Sollecitiamo - spiega Bertè - la Direzione affinché nel periodo di caldo estivo, oltre a garantire maggiore disponibilità di acqua, frutta e docce, disponga l’apertura diurna delle celle e notturna, anche nelle sezioni "Alta sicurezza" e "Elevato indice di vigilanza", delle porte blindate per evitare rischi di collasso per mancanza d’aria, specie tra i detenuti affetti da patologie cardiache e respiratorie". "In tutte le carceri - conclude Bertè - l’inzeppamento di carne umana è un affronto alla dignità dei cittadini e determina un aggravio della pena. Già nel 2003 avevo sollecitato, come Consigliere regionale, l’apertura delle porte blindate durante la notte per alcune carceri. Su questo dovrebbero intervenire l’Asl e il Comune, sulla base delle relazioni compilate dall’Asl stessa. Se ciò non dovesse avvenire, nei prossimi giorni diffiderò la Direzione dell’Asl ed il sindaco, poi, se sarà necessario, passerò alle denunce per omissione di atti d’ufficio". Sicurezza: prime due condanne in base al "decreto Pisanu"
Ansa, 17 agosto 2005
Sono stati condannati a un anno di reclusione per possesso di falsi documenti d’identità i due uomini arrestati agli inizi d’agosto a Milano. Si tratta dei primi in base al decreto antiterrorismo appena entrato in vigore. Per Zoran H., croato di 24 anni, e Altin D., albanese di 31, il giudice ha deciso pene superiori a quelle richieste dal Pm e disposto anche il mantenimento della custodia cautelare in carcere. Busto Arsizio: Priebke, un permesso premio non si nega a nessuno
Varese News, 17 agosto 2005
Abbiamo atteso sino ad oggi per esprimere il nostro punto di vista sul caso Priebke, condannato all’ergastolo per la strage delle fosse Ardeatine e ospitato da un connazionale per trascorre qualche giorno di vacanza in quel di Besozzo. Lo abbiamo fatto perché fino all’ultimo abbiamo avuto la speranza che nella nostra Italia prevalesse il senso della Giustizia e che, almeno per questa volta, chi si era macchiato di un reato infame scontasse fino in fondo il proprio debito verso l’umanità, senza godere di benefici e di agevolazioni. E da questo punto di vista bene ha fatto il Presidente della Provincia di Varese, Marco Reguzzoni, a stigmatizzare come un atto di ingiustizia quanto accaduto. Ora non sappiamo se il ritorno "all’ergastolo dei suoi arresti domiciliari a Roma" avvenuto la scorsa settimana sia stato deciso dallo stesso Priebke o da chi altri, ma l’unico amaro commento che ci sentiamo di fare, in merito a questa storia di un’estate varesina, è che purtroppo in Italia una agevolazione o un permesso premio non si nega a nessun condannato, intanto i morti non possono più parlare o protestare. Speriamo soltanto che i vivi non dimentichino questi eccidi, ma anche che non dimentichino di condannare l’insistente e ricorrente antisemitismo che ha prodotto e continua a produrre eccidi che colpiscono cittadini innocenti anche nei territorio di Israele, e che sono perpetrati dai nuovi nazisti di questo secolo: i terroristi islamici. Pedrizzi (AN): assassini e truffatori devono stare in carcere
Corriere della Sera, 17 agosto 2005
"Io voglio che truffatori e omicidi stiano in galera". Al senatore Riccardo Pedrizzi, presidente della Consulta etico religiosa di An, interessa soprattutto una cosa: che i criminali siano perseguiti, anche attraverso le intercettazioni telefoniche, e che scontino la pena. Teme però che questi strumenti di indagine possano essere depotenziati perché ne è stato fatto un uso improprio attraverso le frequenti fughe di notizie. Per Pedrizzi, insomma, occorre continuare a fare le intercettazioni perché in questo modo si assicurano alla giustizia i criminali e, da un punto di vista tecnico, non vanno apportati cambiamenti alle norme che regolano questa materia. Ciò che invece deve assolutamente finire è l’uso improprio che se ne fa con la divulgazione delle conversazioni sulla stampa prima del dibattimento. E qui Pedrizzi, che non nasconde affatto la sua inclinazione giustizialista, attacca i magistrati in cerca di pubblicità a buon mercato. "Io una proposta ce l’avrei - dice Riccardo Pedrizzi - ed è quella di sottrarre l’indagine al magistrato che consente la fuga di notizie. Si vuol fare pubblicità? Allora gli tolgano l’indagine". "Credo che questa sia l’unica forma di dissuasione che abbiano a disposizione - continua l’esponente di An - per garantire la privacy di chi non è coinvolto in un procedimento. Il problema, infatti, non è fare oppure non fare intercettazioni: se sono necessaria facciamole, ma che siano utilizzate nell’ambito del processo penale e non fuori come è successo in questo mese. Oggi nessuno parla più per telefono perché pensa di essere ascoltato. Abbiamo letto sui giornali pezzi di conversazione riguardanti i rapporti familiari, persino l’ambito familiare. Il problema esiste". All’origine del sentimento di rivolta contro il "grande fratello" c’è, secondo Pedrizzi, l’abitudine di far circolare i contenuti delle intercettazioni prima che il processo diventi pubblico. "Così - conclude - insieme all’acqua sporca si butta via anche il bambino". Padova: Graziano Scialpi, il carcere in un libro di vignette
Il Piccolo, 17 agosto 2005
Ha pubblicato un libro di vignette sulla vita in carcere Graziano Scialpi, protagonista 10 anni fa di uno dei più cruenti episodi di cronaca verificatisi a Trieste. Scialpi è rinchiuso in cella del dicembre del 1995, quando uccise a colpi di pistola in un appartamento di viale Miramare la cognata e rese cieca la moglie. Ora nel carcere "Due palazzi" di Padova sta scontando la sua pena: trent’anni inflittigli dalla Corte d’appello di Trieste e confermati dalla Cassazione. Dai primi mesi del 2002 Graziano Scialpi è entrato a far parte della redazione di "Ristretti orizzonti", uno dei pochi periodici ideati, scritti e impaginati da detenuti. A lui, giornalista, è stato paradossalmente affidato il compito di disegnare le vignette. E queste vignette ora sono uscite in un volume edito dall’associazione il "Granello di senape". Sergio Staino, il "papà" delle strisce del famoso Bobo, gli ha dedicato la prefazione. È una sorta di imprimatur, di marchio di qualità. "Quando ho visto per la prima volta queste vignette, ho avuto la stessa sensazione descritta da una canzone di Enzo Jannacci in cui dei minatori rimangono incantati di fronte a un fiore che è nato nel posto più impensabile, la miniera" scrive Sergio Staino. E aggiunge. "Sfogliate questo libretto con la stessa tenerezza con cui vi si propone, la tenerezza di un fiore che vi racconta con semplicità molte cose sullo strano luogo in cui è nato". Graziano Scialpi spiega nell’introduzione del suo volume che ha per titolo "Non aprite quel barattolo" alcune cose di se stesso e del suo doloroso percorso. "L’ironia è una conquista del carcerato, un punto di vista che di solito arriva dopo qualche anno, quando impara a considerare la propria realtà con distacco. Le mie vignette riguardano la "normalità" delle vita carceraria. Il momento dell’arresto e della carcerazione, soprattutto se è la prima, non fa parte di questa normalità. È il momento in cui non il corpo ma lo spirito viene giustiziato. Posso raccontare spassionatamente quel momento, ma ancora ad anni di distanza, non riesco a scherzarci sopra. Lo stesso vale per i miei compagni di redazione". Personaggio principale di queste vignette è Dado, due occhi sgranati, la divisa a strisce. Sulla berretto si legge 4712. "È il mio numero di matricola" afferma Graziano Scialpi. "Così mi prendo la responsabilità di tutto quello che affermo attraverso le vignette. Le vignette sono suddivise in sette capitoli. Poi il libro si chiude con la Dado Story: collage, disegni, fotomontaggi: tanto autobiografici quanto surreali. È la parte più dolorosa e dolorante del libro. Voghera: è emergenza per dei casi di tubercolosi nel supercarcere
La Provincia Pavese, 17 agosto 2005
Casi di tubercolosi tra gli agenti di polizia penitenziaria e scoppia la protesta nel carcere di massima sicurezza di Voghera. Le delegazioni sindacali presso la casa circondariale di via Prati Nuovi hanno inviato una lettera dai toni molto preoccupati al direttore reggente Stefania Mussio, per conoscenza ad altri organi del ministero della Giustizia e allo stesso ministero della Salute. "Casi di tubercolosi tra il personale del carcere di Voghera", così si intitola la missiva. "Con particolare inquietudine - si legge nella lettera - queste organizzazioni sindacali sono venute a conoscenza (alcuni iscritti l’avrebbero saputo persino dai detenuti!) che si sarebbero verificati, ovvero sarebbero in atto, dei casi di tubercolosi tra il personale di polizia penitenziaria in servizio presso codesta casa circondariale, tanto che sarebbero stati sottoposti solo alcuni operatori ai test della tubercolina da oltre quindici giorni", denuncia ancora la missiva. E ancora, nella protesta inviata al ministero: "Fermo restando che la procedura della profilassi della Tbc andrebbe sicuramente effettuata in un’ottica più ampia rispetto ai pochi operatori che fino ad oggi hanno effettuato i test predetti, sarebbe opportuno conoscere anche le misure preventive e di contenimento dell’infezione che codesta direzione avrebbe dovuto intraprendere per limitare le conseguenze della forma morbosa in adesione alle precise indicazioni ministeriali che imporrebbero, tra l’altro, anche l’effettuazione a test di screening per la Tbc ai detenuti nuovi giunti". Secondo fonti attendibili, un paio di settimane fa un agente di polizia penitenziaria in servizio nel carcere si sarebbe ammalato di tubercolosi, ma, come spiegano le stesse organizzazioni sindacali, non esistono dati ufficiali relativi all’infezione. "Premesso quanto sopra - si legge ancora nella missiva -, alla luce di quanto appreso e in considerazione della gravità dell’infezione da Tbc, essendo essa una patologia infettiva riemergente per tutta una serie di fattori e non ultimo per quello correlato ai flussi migratori provenienti dai più disparati paesi, si chiede a codesta direzione di dare assicurazione a queste organizzazioni sindacali circa le misure di prevenzione che sono state attuate o programmate e se per gli operatori sottoposti ai test, qualora fossero risultati positivi, si è provveduto alla relativa terapia chemioterapica come da protocolli vigenti (Osm)". Insomma, una lettera (firmata da Uil, Sappe, Osapp, Cnpp, Sinappe, Siappe) dai toni senza dubbio allarmati, a conferma della preoccupazione esistente. Una preoccupazione giustificata dalle peculiarità della Tbc. Siena: Adriano Sofri ospite al Palio, il centrodestra insorge
Centomovimenti News, 17 agosto 2005
C’era anche Adriano Sofri ieri in Piazza del Campo a Siena per assistere al Palio. Era ospite d’onore, insieme alla moglie, del sindaco Maurizio Cenni. Una presenza che ha fatto andare su tutte le furie diversi parlamentari della Casa delle Libertà, i quali hanno giudicato inopportuno l’invito del primo cittadino all’ex leader di Lotta Continua. "Mi dispiace, ma questo invito ufficiale a Sofri è un errore. Invece di aiutare a superare le divisioni politiche della nostra storia, si butta benzina sul fuoco, si rinfocolano incomprensioni, si riaprono vecchie ferite - ha commentato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Carlo Giovanardi, anche lui presente a Siena per assistere alla corsa - questo è il Paese che s’indigna perché solo pochi giorni fa l’ultranovantenne Erich Priebke è andato in vacanza in provincia di Varese, anche se con la benedizione del giudice e sempre nella condizione di detenuto agli arresti domiciliari. Questo è il Paese in cui il Comune di Genova decide di commemorare Carlo Giuliani con una lapide. E ora è il Paese in cui Sofri è ospite del Comune di Siena". Molto duro anche il commento del forzista Francesco Giro, per il quale "la presenza di Sofri al Palio è stupefacente e ha dell’incredibile". "Mi sembra incomprensibile volerlo a tutti i costi trasformare in un personaggio da vetrina, prima con l’incarico alla Normale di Pisa e ora con l’invito personale del sindaco - ha aggiunto - prudenza e discrezione sono due regole che andrebbero osservate in simili circostanze anche per il rispetto che si deve, sempre e comunque, alla famiglia Calabresi". Molto contrariato anche Bruno Berardi, presidente di "Domus Civitas", l’associazione nazionale dei familiari delle vittime del terrorismo e della mafia. Brescia: sit-in radicale contro il caldo e il sovraffollamento
Giornale di Brescia, 17 agosto 2005
Sit-it dell’associazione radicale "Enzo Tortora" a ferragosto davanti a Canton Mombello, la Casa circondariale di Brescia. Obiettivo dichiarato dai seguaci di Marco Pannella ed Emma Bonino: "Ricordare alla classe politica, anche in Lombardia, la necessità e l’urgenza di un provvedimento di amnistia che segni l’inizio di una riforma in senso costituzionale della funzione detentiva e di un razionale ridimensionamento del sistema penale", spiega una nota del movimento. Obiettivo secondario, nel frattempo ("in dolosa assenza di tutto ciò o addirittura in controtendenza"): esigere "le doverose e concrete misure di mitigazione delle tremende condizioni di vivibilità interna alle carceri, che i Direttori possono adottare a loro discrezione e che i responsabili territoriali della salute dei cittadini detenuti - le Asl e i sindaci - hanno il dovere di imporre". Con questo duplice obiettivo per l’intera giornata di Ferragosto Lucio Berté, del Comitato nazionale dei Radicali Italiani, ha camminato attorno al carcere per sollecitare la Direzione affinché nel periodo estivo - oltre a garantire maggiore disponibilità di acqua, frutta, docce e l’apertura diurna di celle "sovraffollate all’inverosimile" - ordini, come è avvenute nelle carceri milanesi di Opera e di San Vittore, che le porte blindate restino aperte anche di notte (comprese le sezioni di Alta Sicurezza e ad Elevato Indice di Vigilanza) per evitare rischi di collasso per mancanza di aria, soprattutto tra i detenuti affetti da patologie cardiache e respiratorie". L’iniziativa di Bertè segue quella avviata il 5 agosto dalle associazioni radicali "Il Detenuto Ignoto" ed "Enzo Tortora", con la richiesta al dottor Luigi Pagano, provveditore regionale agli Istituti di Pena, di disporre analoghe misure di mitigazione per tutte le carceri lombarde. "Il 12 agosto - sostengono i radicali - il Provveditorato dichiarava di non essere a conoscenza delle misure adottate se non quelle apparse sui giornali e relative alle carceri citate e che comunque non riteneva di poter interferire nell’autonomia dei singoli direttori". "In tutte le carceri italiane, e a Canton Mombello in particolare, l’ignobile inzeppamento di carne umana è un affronto alla dignità dei cittadini detenuti e determina un aggravio certo e illegittimo della pena - commenta Lucio Berté -: siamo al limite della tortura, tollerata e incrementata dalle scelte del Parlamento. A maggior ragione l’amministrazione penitenziaria e la Magistratura di Sorveglianza dovrebbero attestarsi saldamente sulla difesa dei diritti fondamentali dei detenuti per porre un argine all’irresponsabilità dell’attuale politica giudiziaria e penitenziaria. D’altra parte, non è più tollerabile che un ulteriore elemento di ingiustificata disparità nell’esecuzione della pena dipenda dalle differenti decisioni lasciate all’arbitrio dei direttori, che non sentono tutti allo stesso modo il dovere di alleviare l’indebita sofferenza dei detenuti con misure minime che dipendono solo da loro. Occorre che agiscano le Asl e i sindaci, responsabili per legge della salvaguardia del fondamentale diritto alla salute e alla incolumità dei cittadini, anche di quelli detenuti. Già nell’agosto 2003, da consigliere regionale, avevo lanciato l’allarme e diffidato i sindaci di Brescia, Como, Busto Arsizio e Milano affinché ordinassero l’apertura delle porte blindate. L’Asl di Brescia confermò con un’ispezione i motivi di quell’allarme, ma si limitò a "raccomandare" l’apertura dei blindati, invece di ordinarla. I blindati, da allora, restano chiusi di notte, così come di giorno restano chiuse le celle. Se la direzione non provvederà, nei prossimi giorni diffiderò direttamente la Direzione sanitaria dell’Asl e ancora una volta il sindaco, perché intervenga sulla base delle relazioni della stessa Asl redatte dal 2003 a oggi. Poi ci saranno le denunce per omissione d’atti d’ufficio, ma spero non sia necessario. Ho dedicato il mio sit-in ai detenuti di Canton Mombello che per due giorni, nelle scorse settimane, hanno manifestato in modo nonviolento per l’amnistia e per la loro dignità".
|