Rassegna stampa 15 ottobre

 

Napoli: il carcere di Poggioreale, un mondo a parte

 

L’Articolo.it, 15 ottobre 2004

 

Dario Dell’Aquila il carcere di Poggioreale lo conosce bene. Come conosce anche quello di Secondigliano e tutti gli altri istituti della regione. Ci va spesso, come rappresentante per la Campania della Ong Antigone, che per l’appunto mette il naso tra le celle per tutelare i diritti di chi, come Gaetano Ruggero, li vede ignorati. "In genere io mi occupo dei casi disgraziati e disperati - si descrive Dario Dell’Aquila - mentre in casi come questo di Gaetano l’interrogazione parlamentare sicuramente avrà i suoi effetti, a garantire la tutela del detenuto".

Ma dal caso di Gaetano e del suo problema agli occhi, il passo verso le garanzie di cura dei detenuti è breve: "Il problema è molto grave negli istituti - dice - perché, per esempio, c’è una grande diffusione dell’epatite C. Diecimila casi, solo quelli certificati.

A Poggioreale le condizioni detentive sono terribili, ci sono 18 reclusi per ogni bagno a disposizione, per cui le condizioni per il contagio ci sono tutte, se si pensa che per trasmettere l’epatite C basta uno spazzolino da denti. Insomma, c’è una condizione sanitaria generale disastrosa". La Campania è la seconda regione italiana per numero di detenuti, con i suoi circa 6mila reclusi, 1500 in più rispetto alla capienza tollerabile.

Poggioreale, l’istituto più grande della Campania, è una cosiddetta struttura di "primo ingresso", che significa che una persona appena arrestata viene portata qui. Dunque, circa i due terzi dei detenuti sono in attesa di giudizio. Continua Dell’Aquila: "Poggioreale, a differenza di Secondigliano, è proprio il vecchio carcere dell’Ottocento, dove le celle ospitano da un minimo di 4 a un massimo di 18 detenuti.

Con una grande aggravante: ormai un terzo dei reclusi italiani è tossicodipendente e, in genere, portatore di epatite C. La tubercolosi invece, è portata dai detenuti stranieri le cui condizioni detentive sono ancora peggiori di quelle degli italiani.

Gli stranieri non ha diritto nel carcere a parlare la propria lingua, e già il fatto che devono comunicare il loro malessere in una lingua che non è la loro rompe il fondamentale diritto alla salute. Sono poveri, non hanno diritto ai colloqui perché spesso clandestini". Secondo il rappresentante di Antigone, ci sarebbe anche una questione culturale dietro i disagi delle carceri campane: "In Toscana, ad esempio, c’è l’abitudine a mantenere un rapporto con l’esterno molto più aperto grazie ai tanti operatori che vi lavorano. Qui entrano nel carcere solo le suore, e c’è una sorta di chiusura da parte dell’amministrazione carceraria".

In passato, il diritto alla salute era garantito da una sperimentazione avviata dall’allora Ministro della Sanità Rosy Bindi, che trasferì la sanità penitenziaria dal ministero della Giustizia a quello della Sanità. Fino ad allora la sanità penitenziaria era una cosa a parte. Questo processo, avviato in 5 regioni compresa la Campania, è di fatto sospeso.

"Il che significa - spiega Dario Dell’Aquila - che non hanno, nella carceri, i soldi per comprare i farmaci. Si è in un limbo per cui neanche la Regione si occupa". Paradossalmente, per chi vive a Poggioreale la malattia non dovrebbe essere un problema, vista la presenza, all’interno del carcere, di un centro clinico. Motivo per il quale anche Gaetano Ruggero è lì.

"Il centro clinico funziona - racconta Dario - ma con un solo medico di mattina e con un solo infermiere. È una via di mezzo tra un’infermeria e un ospedale, in cui si dovrebbero praticare le cure e le terapie per una serie di patologie. Se un detenuto ha bisogno di un trapianto di fegato, prima di essere portato in ospedale passa per il centro clinico per tutti gli accertamenti. Non c’è, però, la struttura per l’emergenza". Ma, visti i tagli, non ci sono nemmeno le medicine giuste.

Spoleto: Paolo Dorigo, da 23 giorni in sciopero della fame

 

Il Gazzettino, 15 ottobre 2004

 

Si parla moltissimo di Adriano Sofri, capace addirittura di influire sul testo della futura Costituzione, ma molto poco di Paolo Dorigo, l’irriducibile "militante comunista" veneziano condannato nel 1994 a 13 anni e 6 mesi per l’attentato del 2 settembre 1993 contro la base Usaf di Aviano. Attentato che non provocò né morti né feriti, ma solo danni alle cose, per il quale Dorigo ha scontato 11 anni in regime di "elevata vigilanza", oltretutto per un processo più volte riconosciuto "ingiusto" dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Dorigo, che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti e rifiuta di chiedere la grazia, ha ripreso da 23 giorni lo sciopero della fame nel carcere di Spoleto, per ottenere la sospensione della pena o almeno i permessi per sottoporsi ad esami clinici.

A chiedere una maggiore "illuminazione" del caso sui giornali, per smuovere finalmente le autorità competenti, sono ora i deputati Luana Zanella (Verdi), Russo Spena (Prc), Giulietti e Vianello (Ds) e gli avvocati di Dorigo, Vittorio Trupiano e Sergio Simpatico. Nei giorni scorsi, ricordano i legali, è stata trattata al Parlamento europeo un’interrogazione del socialista olandese Jurgens proprio sulla vicenda del detenuto veneziano.

La risposta di Jan Petersen, presidente del comitato dei ministri che vigila sull’applicazione delle decisioni della Corte europea di Giustizia, suona come l’ennesima condanna del sistema giudiziario italiano. "Le misure individuali ottenute dal richiedente a titolo di rimedio - dice Petersen il 5 ottobre scorso - sono attese da troppo tempo. La decisione non è stata ancora presa, benché la violazione sia stata accertata da più di cinque anni".

Il presidente ricorda che più volte il comitato ha chiesto all’Italia di modificare la sua legislazione "per permettere che i procedimenti nazionali siano riaperti o rivisti quando necessario a por fine alle conseguenze di serie violazioni". L’Italia, prosegue Petersen, "ha informato che il ministro della Giustizia stava prendendo in considerazione l’ipotesi di una grazia presidenziale".

Le "risoluzioni" contro l’Italia (la prima adottata nel 1998) sono state motivate dal fatto che le accuse a Dorigo formulate da un pentito sono entrate negli atti del dibattimento senza possibilità di "controesame" da parte dei difensori dell’imputato. Insomma, da sei anni, secondo la Corte europea, il processo dovrebbe essere rifatto. "Vorrei - dice Luana Zanella - che Paolo smettesse lo sciopero della fame e passasse il testimone a noi, che potremmo scioperare a staffetta. Non sappiamo più che cosa fare per mettere fine ad una vicenda che sfida non solo i principi del nostro ordinamento ma soprattutto il buon senso".

Como: scritte sul muro, "vogliamo giustizia per Sergio"

 

La Provincia di Como, 15 ottobre 2004

 

"Vogliamo giustizia per Sergio La Scala". Scritte di questo tenore sono apparse sulla Novedrate e alle Poste di Mariano Comense. Fanno riferimento alla drammatica fine del ventottenne marianese morto nel carcere del Bassone per edema polmonare. Ma le cause, accertate da un’autopsia, non hanno convinto la famiglia e gli amici del giovane.

Gli inquirenti stanno tuttavia già lavorando per ricostruire, nel dettaglio, le ultime ore di vita di La Scala, per accertare eventuali responsabilità nella tragedia. La Scala, già noto alle forze dell’ordine, era finito in galera lo scorso luglio per aver "sequestrato" un bus di linea, minacciando con una pistola l’autista e i passeggeri. La sua azione era terminata a Cantù, dove era stato ferito a una gamba da un poliziotto.

Palermo: polemica su Brusca, ma "i pentiti sono necessari"

 

La Sicilia, 15 ottobre 2004

 

"Non entro nel merito del caso di Giovanni Brusca che tante polemiche riesce ancora a creare, bisogna però ricordare che ci sono dei magistrati chiamati ad applicare con equilibrio la legge, e bisogna avere comunque fiducia nella giustizia. Bisogna infine ricordare che i pentiti sono stati e sono indispensabili per sconfiggere Cosa Nostra". Lo afferma il procuratore di Palermo Pietro Grasso commentando il provvedimento dei giudici del tribunale di sorveglianza di Roma che hanno concesso permessi "premio" ogni 45 giorni al sicario della strage di Capaci.

I benefici sono stati dati al boss-pentito perché lo prevede la legge 45 del 2001, votata da tutto il Parlamento (tranne Antonio Di Pietro) che riguarda i collaboratori di giustizia. "Non si dimentichi - aggiunge il procuratore Grasso - che in altri Paesi, come gli Stati Uniti, in casi di collaborazione si concede l’immunità, mentre nel nostro sistema rimane comunque una privazione della libertà personale per un certo numero di anni tra le mura di un carcere, e successivamente fra le mura domestiche".

I pentiti che hanno rispettato le norme del "contratto" stipulato con lo Stato, infatti, possono usufruire degli arresti domiciliari solo dopo aver scontato un quarto della pena. Per chi ha avuto condanne all’ ergastolo, lasciare la cella è molto più complicato. La pena più alta inflitta a Brusca è di 30 anni e riguarda l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo.

Il capo della Dda di Palermo tiene a sottolineare che "i collaboratori di giustizia costituiscono uno strumento irrinunciabile per scoprire le strutture segrete dell’ organizzazione mafiosa". "I pentiti sono necessari - ribadisce Grasso - per individuare gli autori di omicidi e di stragi, così come è già avvenuto per le stragi mafiose in cui persero la vita Falcone e Borsellino e tante vittime innocenti negli attentati di Firenze, Roma e Milano nel ‘93".

"Fino a pochi anni fa - ricorda il procuratore di Palermo - nell’immaginario collettivo la mafia veniva collegata a miti quali quello dell’ invincibilità, dell’ impunità e dell’ omertà che sono stati ridicolizzati grazie alla collaborazione dei pentiti. Pericolosissimi boss sono stati arrestati e condannati al carcere a vita o a pene severe. Progetti di omicidi o di stragi sono stati rivelati facendo salvare vite umane, sono stati ritrovati arsenali di armi e esplosivi. Insomma per la lotta ad una organizzazione segreta come Cosa nostra è assolutamente indispensabile che dall’interno si conoscano comportamenti, causali, motivazioni, quant’altro possa aiutare la repressione del fenomeno mafioso".

I magistrati antimafia puntano ancora sulla vasta informazione che possono fornire i pentiti per sgretolare l’ organizzazione mafiosa. "L’ utilità dei collaboratori - ribatte Grasso - ha un carattere strategico: riesce a creare una destabilizzazione interna dell’organizzazione, semina sospetto e sfiducia tra gli stessi affiliati, incrina il prestigio dei capi incapaci di contrastare il fenomeno delle collaborazioni. In tal modo si finisce con l’ agevolare comunque l’ azione repressiva dello Stato. Non bisogna poi dimenticare che tanti omicidi sono stati possibili definirli di mafia soltanto attraverso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che ne hanno rivelato i retroscena e le più recondite causali. E quindi anche tante vittime che oggi definiamo di mafia devono tale status grazie a queste dichiarazioni".

Nel frattempo non si placa la polemica e chi è contrario ai permessi premio a Brusca sottolinea che il giudice di sorveglianza di Roma, prima di concedere il beneficio, aveva chiesto il parere alle Procure interessate e alla Polizia di Stato. E quest’ultima si era dichiarata del tutto contraria alla concessione del beneficio. Il ministro Castelli ha mandato gli ispettori al Tribunale di Roma e la Lega ha presentato una proposta di legge per rivedere la legge sui pentiti.

Livorno: alle Sughere troppi detenuti in attesa di giudizio

 

Il Tirreno, 15 ottobre 2004

 

Una fiaccolata, per le vie della città fino alle Sughere così lontane eppure così vicine, per sostenere la protesta dei detenuti italiani in questo finire di estate. È la proposta con cui si è chiuso un affollato dibattito alla festa di Liberazione, avanzata nel consenso generale da Maria Ciuffi, la madre di Marcello Lonzi, trovato cadavere nel carcere labronico un anno fa. Perché, al di là dell’iter giudiziario che entro la fine di settembre vedrà il tribunale di Livorno decidere se archiviare o meno il procedimento aperto contro ignoti per l’omicidio di "Marcellino", le Sughere sono una realtà cui la città rivolge troppo poco la propria attenzione, come hanno sottolineato i componenti del gruppo di lavoro nato, proprio sul carcere, al centro sociale Godzilla.

Il grido dei suicidi. Una realtà - ha sottolineato Alessandro Trotta, capogruppo di Rifondazione in Comune - "avvolta da una logica di indifferenza pericolosissima per tutto il nostro territorio" e dalla quale si è levato, anche in questi mesi di vacanze, un grido senza voce arrivato fino alle cronache locali con il suicidio, in un solo mese, di Domenico Bruzzaniti, 50 anni - destinato a finire i propri giorni chiuso in carcere - e di Carlos Riquelme, marittimo cileno coetaneo di Bruzzaniti. Entrambi rinvenuti impiccati, stretti al collo mezzi di fortuna sufficienti, però, a stroncare una vita.

Carlos stava male. E proprio sulla morte del marittimo cileno emerge un dato che non può lasciare indifferenti: Carlos stava male, l’arresto l’aveva gettato nello sconforto più profondo. A casa sua aspettavano il suo stipendio per tirare avanti e lui si vergognava che lo sapessero in carcere. Gli stessi agenti in servizio alle Sughere hanno ammesso che Carlos "era triste, stanco, a tratti disperato". Al punto da rinunciare spesso all’ora d’aria. Una situazione che aveva spinto il detenuto a chiedere di essere trasferito al centro clinico del Don Bosco di Pisa. Trasferimento che, però, non è mai stato preso in considerazione pur in presenza di un quadro clinico che non ammetteva dubbi sulla decisione da prendere.

Carlos era in carcere da tre mesi, in attesa di giudizio: "Vi rendete conto - spiega a un pubblico attentissimo l’avvocato Vittorio Trupiano che si è opposto all’archiviazione del caso Lonzi - che la stragrande maggioranza dei detenuti alla fine viene assolta dopo detenzioni in attesa di giudizio che arrivano anche a 9 anni? Vi rendete conto che stipati nelle celle, uno su l’altro, ci sono cittadini a cui la legge italiana garantisce la presunzione di innocenza e che dovrebbero ricevere ben altro trattamento?".

La sezione femminile. A questo proposito i giovani del Godzilla hanno ricordato il rapporto che Franco Corleone fece pochi anni fa, quando era sottosegretario alla giustizia, proprio sulle Sughere e la sua sezione femminile, che venne segnalata per "l’inadeguatezza" ad accogliere donne con i figli piccoli, che pure trascorrono almeno 48 ore a Livorno prima di essere trasferite in altre strutture della Toscana.

Chiavi sulle sbarre. Quando Trupiano - che ieri mattina era alle Sughere dove ha incontrato i suoi assistiti - ha testimoniato quello che gli scrivono i detenuti rinchiusi a Livorno, intorno si è fatto un silenzio irreale rotto solo da un anonimo e pesante "è vero, è così" di chi quell’esperienza l’ha vissuta: "Perché alle Sughere - ha detto Trupiano, citando le testimonianze raccolte - dalla mezzanotte alle sei del mattino gli agenti passano battendo i grossi mazzi di chiave sulle sbarre, con un rumore infernale che attraversa le notti".

"Quelle botte a Livorno". Dal pianeta dei reclusi, posto a una distanza siderale dal resto del mondo, è arrivata nella cassetta della posta di Maria Ciuffi una lettera, una delle tante che riceve su quanto avviene nelle carceri d’Italia. A scriverle un uomo che dalle Sughere è passato e che racconta le condizioni in cui arrivò nel penitenziario dove era stato trasferito da Livorno: "Il direttore andò in sezione e disse: "Vi avviso che vi devo portare uno arrivato qui in lettiga con tre catene, una al collo, mani e piedi". E aggiunge: "Per me non campa". L’ortopedico mi trovò le piante dei piedi rotte e cinque bruciature di cicche in mezzo alle dita. Per quattro mesi solo con le punte dei piedi camminavo. Quando mi invitarono in matricola e mi chiesero se confermavo la denuncia fatta a Livorno confermai". Della denuncia si sono perse le tracce, ma il detenuto continua: "Io ho tutti i nomi di chi mi pestò. Ditelo".

Chi sa parli. Un appello a parlare, a raccontare, a rompere il muro delle mezze verità che caratterizza il carcere. Lo stesso che l’avvocato Trupiano e la madre di Marcello Lonzi continuano a fare a chi continua a sostenere di non sapere, di non aver visto cosa accadde in quella cella della sesta sezione. Dove - ha dichiarato Vittorio Trupiano davanti a una platea affollata anche da operatori delle associazioni che lavorano all’interno delle Sughere - "Lonzi ha avuto una lunghissima e tremenda agonia" E da dove il compagno di cella di Marcellino, che Maria Ciuffi ha incontrato pochi giorni fa in un tesissimo faccia a faccia, fu rapidamente trasferito nel carcere di Pisa nel quale non rimase che qualche mese.

Livorno: suicidio Visconti, il Dap ammette delle disfunzioni

 

Il Tirreno, 15 ottobre 2004

 

"Non vogliamo gettare la croce addosso a nessuno, ma sarebbe stupido fingere di non vedere che qualcosa non funziona. L’indagine che abbiamo avviato serve proprio a capire quali sono i problemi e risolverli". Questa la dichiarazione rilasciata dal provveditore regionale del Dap, Massimo De Pascalis.

Salerno: "detenuti pestati"; il direttore: "sono solo falsità"

 

La Città di Salerno, 15 ottobre 2004

 

Controlli, ispezioni, tensioni e finanche percosse. I familiari di alcuni detenuti, in particolare di quelli rinchiusi nell’ala dell’alta sicurezza, sono pronti a giurarlo: "Nel carcere di Fuorni si sta operando senza il minimo rispetto dei diritti dei detenuti, che vengono perquisiti anche di notte e addirittura aggrediti e pestati".

Affermazioni "categoricamente" smentite dal direttore della casa circondariale salernitana, Alfredo Stendardo: "Tutto falso, sono mesi che non si fanno perquisizioni - fa sapere il responsabile del penitenziario - Ci limitiamo a effettuare i controlli di "routine" quotidiani, quelli previsti per legge. In pratica, vengono controllate un paio di celle, scelte in maniera del tutto casuale; il tutto si svolge tra le 7,45 e le 8 di ogni mattina".

Insomma, tutto nel pieno rispetto delle regole, anche alla divisione denominata di "alta sicurezza", dove sono reclusi gran parte dei detenuti coinvolti in vicende di camorra. E dove, stando alle segnalazioni di alcuni familiari di detenuti, ci sarebbero stati azioni "forti" nella notte tra domenica e lunedì scorsi e nel pomeriggio dello stesso lunedì. "Assolutamente no, escluso nella maniera più categorica che siano state effettuate perquisizioni che abbiano coinvolto il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - ribadisce Stendardo -.

Tanto meno si è proceduto ad azioni mirate nei confronti di qualche detenuto. Anche perché, in tutta sincerità, non abbiamo ravvisato la necessità di interventi di questo tipo". Fin qui il direttore della casa circondariale di Fuorni, ma la pensano diversamente i congiunti di alcuni detenuti del reparto di "alta sorveglianza".

Loro, sono convinti che nelle celle siano state effettuate perquisizioni e che siano state anche usate le "maniere forti" nei confronti di chi ha contestato la procedura o informato dell’accaduto i propri familiari. Sostengono inoltre che certi episodi andrebbero avanti da tempo e di essere particolarmente "preoccupati" per l’incolumità dei propri congiunti. Al punto da non escludere la possibilità di mettere in campo, nei prossimi giorni, azioni di protesta anche clamorose. Proteste che potrebbero vedere protagonisti gli stessi detenuti.

Filippine: 77% condanne a morte frutto di "errori giudiziari"

 

Asia News, 15 ottobre 2004

 

"Abrogare la pena di morte" e promuovere "una nuova normativa che reprima il crimine e protegga la società, senza colpire la vita". È quanto hanno chiesto al presidente Arroyo la chiesa cattolica filippina e il movimento contro la pena capitale in occasione della recente giornata mondiale contro la pena di morte.

Padre Robert Reyes, responsabile della coalizione per l’abrogazione della pena capitale, si batte per riaffermare la dignità detenuti e sottolinea che "le attenzioni sono puntate sul prigioniero e sulla necessità di tenerlo in carcere, mentre non si presta la dovuta importanza a ciò che succede in questa società in cui la violenza e l’ingiustizia sono istituzionalizzate".

"I prigionieri che scontano la pena nel braccio della morte – denuncia il religioso – sono i testimoni concreti di una realtà sociale i cui valori sono il potere e la competizione. Al contrario, quelli che dispongono dei giusti agganci possono perpetrare crimini e abusi con la certezza di rimanere impuniti".

P. Reyes afferma che anche i criminali devono godere dei diritti umani, pur nella consapevolezza della colpa commessa: "Sia gli uomini liberi, sia i carcerati devono poter vivere una vita dignitosa, integra e che abbia un significato. Dobbiamo lottare per abolire la pena di morte e promuovere una società che si basi su una giustizia equa, sulla compassione e sul ripristino di una vita dignitosa per i detenuti".

"La pena di morte è stata reintrodotta 10 anni fa e non è cambiato nulla" afferma Maria Socorro Diokno, segretario generale del Gruppo volontario di assistenza legale (Flag). "L’incidenza dei crimini non è calata - sottolinea l’attivista - nonostante le 7 esecuzioni, i 1082 detenuti nel braccio della morte, le 209 persone in attesa di essere uccise, di cui 42 nei prossimi mesi. Se togliamo i sabati e le domeniche si prevede un’esecuzione al giorno per tutto l’anno". Diokno evidenzia un dato preoccupante: secondo la Corte Suprema, il 77% delle condanne a morte è frutto di errori giudiziari.

Il Flag si batte da tempo a favore dei detenuti nel braccio della morte: "Il paese deve affrontare ogni giorno problemi sociali, politici, economici; così il dramma dei condannati passa sotto silenzio. Ecco perché abbiamo deciso di rinnovare l’appello per l’abolizione della pena capitale" afferma Diokno, che ribadisce l’importanza della prevenzione: "Oggi il vero problema è che non si affrontano alla radice le cause della criminalità. Per estirpare il crimine non basta la pena di morte: essa non è stata e non sarà mai la soluzione".

Nelle Filippine la pena capitale è stata reintrodotta il 1 gennaio 1994 ed è comminata per 13 reati: tradimento, pirateria, corruzione, parricidio, omicidio, infanticidio, rapimento e detenzione di persona, rapina con violenza, incendio doloso, stupro, frode (di almeno 2 milioni di dollari), alcuni reati di droga, furto di un veicolo con stupro e/o omicidio. La pena di morte non può essere inflitta a minori di 18 anni e anche ad ultrasettantenni al momento del reato.

Associazioni per i diritti umani denunciano gravi soprusi nell’amministrazione giudiziaria: in particolare vengono segnalati casi di tortura nei confronti di sospetti criminali al fine di estorcerne le confessioni. Nel paese esiste un’associazione chiamata "il club della ghigliottina": essa è costituita da giudici che appoggiano pubblicamente la pena di morte quale deterrente per i crimini.

Collaboratori giustizia: 1.112 "pentiti" e 4.726 persone protette

 

Ansa, 15 ottobre 2004

 

Rimane stabile il numero dei pentiti in Italia: attualmente sono 1.112, contro i 1.113 del 2001. Complessivamente, considerando anche i testimoni ed i familiari, le persone sottoposte a tutela sono 4.726, in calo rispetto alle 5.152 di tre anni fa. Dopo le polemiche sul caso Brusca, questi gli ultimi dati sui sottoposti a programma di protezione dalla Commissione centrale per la definizione ed applicazione delle speciali misure del Viminale, presieduta dal sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano.

La riduzione della popolazione protetta, secondo la Commissione, non è però indicativa del fenomeno collaborativo, ma dimostra i risultati positivi dell’impegno profuso per incentivare il reinserimento socio-lavorativo. Infatti, viene sottolineato, c’ è stato un netto aumento delle "capitalizzazioni", cioè la restituzione delle persone protette ad una vita normale, con il loro reinserimento in un nuovo tessuto sociale, senza più la tutela e l’ assistenza. Ebbene, le capitalizzazioni erano state 179 nel periodo 1 luglio 1998-7 0ttobre 2001; sono diventate 642 nel triennio successivo (8 ottobre 2001-30 giugno 2004).

Sono due gli effetti positivi delle capitalizzazioni, fa notare la Commissione: il raggiungimento di un obiettivo posto dalla legge, costituito dalla restituzione ai collaboratori di giustizia e testimoni di una vita normale; lo sgravio dell’ amministrazione pubblica degli ingenti oneri connessi alla tutela ed assistenza di queste persone. Per quanto riguarda le nuove ammissioni al sistema di tutela, esse sono in aumento: sono state 393 nel periodo 8 ottobre 2001-30 giugno 2004, contro le 377 del triennio precedente.

Si tratta di 60 testimoni e 333 collaboratori. Dati che dimostrano, evidenzia la Commissione, come il fenomeno collaborativo, almeno nella sua quantità, non sia affatto in crisi, anzi, si assiste ad un incremento delle ammissioni al sistema tutorio dei testimoni proprio in coincidenza con l’applicazione della legge 45 del 2001. Quanto alla concessione di permessi premio al pentito Giovanni Brusca, il sottosegretario Mantovano ha parlato di "decisione scandalosa". Per Mantovano, "non è un problema di legge ma di come la magistratura, in piena autonomia, la applica". La legge sui pentiti, spiega, "è stata appositamente modificata, a fine della scorsa legislatura con un voto molto ampio del Parlamento, per restringere l’area dei benefici".

Per un soggetto come Brusca, aggiunge Mantovano, "sarebbe auspicabile verificare adeguatamente i vantaggi processuali della sua collaborazione prima di pagare un ‘costò così alto come il concedergli permessi premio".

L’impressione, infatti, negli ultimi tempi, sottolinea, "è che lo spessore qualitativo dei collaboratori di giustizia si sia molto abbassato. Non siamo più ai livelli delle prime collaborazioni". "Anche per questo - aggiunge - il rapporto tra la commissione del Viminale che ammette ai programmi di protezione ed i magistrati che avviano le domande è sempre più dialettico".

La commissione, che non è chiamata ad esprimere pareri sull’applicazione di eventuali benefici carcerari, "evita di rigettare le richieste - dice Mantovano - ma il più delle volte le rimanda indietro con richiesta di approfondimenti. E ciò avviene anche due tre volte di seguito. Si cerca, infatti, di capire se ciò che il pentito dice è attendibile.

E si cerca di evitare di applicare il programma di protezione a persone che raccontano cose già scritte in atti di altri processi". Non è infrequente, prosegue, "che il magistrato che ha inoltrato la richiesta venga chiamato in audizione davanti alla commissione se gli elementi forniti non sono esaurienti. Il programma, una volta accordato, poi viene sottoposto a verifiche costanti perché non vogliamo collaboratori di giustizia a vita".

Giuristi Democratici: bisogna ascoltare la protesta dei detenuti

 

Ansa, 15 ottobre 2004

 

"Il 18 ottobre ricomincia la protesta pacifica dei detenuti nelle carceri italiane. La richiesta di attenzione al tema generale delle condizioni di vita carceraria, avanzata in questa occasione in particolare dalla associazione Papillon, merita ascolto da parte della collettività e un mutamento di prospettiva politica capace di incidere davvero sui fenomeni che determinano il continuo aumento della popolazione detenuta e il peggioramento inevitabile delle modalità di detenzione".

Lo sottolinea un comunicato dell’Associazione Nazionale Giuristi Democratici. I giuristi democratici ricordano "come la legge Bossi-Fini (ma anche la precedente normativa, sia pure in misura più contenuta), da una parte, e la legislazione in tema di stupefacenti, per ragioni diverse, rappresentano i principali meccanismi normativi che determinano il riempimento delle carceri di immigrati e di tossicodipendenti" e che "finché non si interverrà sul meccanismo di ingresso delle persone migranti,evitando di destinarle ad un futuro certo di illegalità se non regolari al momento dell’ingresso nel territorio italiano, il flusso migratorio renderà sempre più drammatico il carcere". "Per migliaia di detenuti la pena non potrà mai essere tesa al reinserimento sociale, ma solo all’esclusione - aggiungono -.

E al sovraffollamento non ci sarà altro rimedio se non la costruzione di un numero indeterminato di nuove carceri, magari con gestione privata delle stesse. Sotto altro profilo, la presenza massiccia di detenuti tossicodipendenti evidenzia la necessità di interventi coraggiosi, che sperimentino la possibilità di scelte alternative, quali la liberalizzazione delle droghe leggere e la somministrazione controllata di sostanze quali l’eroina, nel tentativo, che però è ineludibile, di spezzare il legame tra il consumo del narco-traffico e le organizzazioni criminali.

E poi ci sono immediati e urgenti interventi concreti da realizzarsi, in tema di sanità penitenziaria, di aumento degli organici del personale, la costruzione di alloggi per ex-detenute e detenuti, per coloro che possono beneficiare di misure alternative, la costruzione di una rete di opportunità e protezione sociale che permetta di utilizzare al meglio le misure alternative alla detenzione.

E, infine, il tanto atteso e promesso provvedimento di clemenza, che andrebbe approvato per il solo fatto di essere stato assicurato più volte alle persone detenute. Ma con l’avvertenza che un provvedimento di tal natura non è un rimedio, e che in assenza di altri e più strutturati interventi in poco tempo tutto tornerebbe come prima".

Contratto Polizia Penitenziaria: Uil, "agenti penalizzati"

 

Ansa, 15 ottobre 2004

 

"La polizia penitenziaria viene penalizzata ancora una volta sul trattamento economico accessorio. Lo dichiara Massimo Tesei, segretario generale della Uil di categoria, in riferimento all’accordo biennale 2004-2005 per le forze di polizia e armate, firmato oggi. "Non viene sanato - spiega Tesei - il gap negativo determinato dal primo biennio per cui ogni poliziotto penitenziario continuerà a percepire mensilmente circa 50 euro in meno rispetto ai colleghi delle altre forze di polizia".

La Uil penitenziari, sottolinea il segretario, non ha sottoscritto l’accordo proprio perché non consentirebbe "alcun recupero del differenziale inflattivo per i passati due anni". "Anzi - conclude Tesei - con questo accordo viene svilito il significato del lavoro straordinario che sarà remunerato in misura inferiore alla retribuzione oraria ordinaria".

Napoli: il Ministero assicura: "ci occuperemo di Gaetano Ruggero"

 

Ansa, 15 ottobre 2004

 

Nell’impenetrabile mondo delle carceri esiste uno spiraglio che supera la burocrazia, le funzioni e i ruoli; esistono, oltre gli istituti, gli uomini. E tale ci è parso il coordinatore dello staff sanitario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il dottor Giulio Starnini. Al Dipartimento fin dai tempi di Giovanni Conso, è in altre parole il responsabile della sanità penitenziaria italiana.

 

Dottor Starnini, è a conoscenza del caso di Gaetano Ruggero che nel carcere di Poggioreale rischia di perdere la vista?

"Preferirei non parlare del caso specifico, perché personalmente ritengo che non sia giusto parlare di chi è riuscito ad avere l’attenzione dell’opinione pubblica, sia per il rispetto dell’individuo, sia perché eticamente e moralmente ritengo che i problemi riguardino il contesto generale".

 

Va bene, allora ci dica se nelle carceri italiane è garantito il diritto alla salute.

"Lo è nella stessa misura in cui è tutelato il diritto alla salute al di fuori del carcere. Voglio chiarire un aspetto importante: il sistema sanitario penitenziario è un sistema pubblico, delegato alle regioni. Ma non abbiamo una sanità pubblica né uniforme né omogenea, bensì sanità che si manifestano in base alle forze che le singole regioni sono in grado di esprimere. Questa realtà forse negli istituti penitenziari è invece un pochino più omogenea. Avendo ottenuto a livello centrale la competenza di indirizzo e di programmazione, forse, paradossalmente, riusciamo ad assicurare una omogeneità maggiore".

 

Ma anche voi, di conseguenza, avete subito vigorosi tagli al bilancio?

"Negli ultimi dieci anni la diminuzione della percentuale di risorse destinate alla popolazione detenuta è stata del 30%. L’anno scorso questa emorragia si è fermata, ma arrestarla non è sufficiente, bisogna fare anche delle trasfusioni. Il dipartimento si sta battendo per ottenere risorse in termini di personale, di organizzazione, di apparecchiature, farmaci, perché le difficoltà sono presenti in tutto il sistema, ovviamente".

 

Perché oggi la situazione delle carceri è così drammatica? Solo per una questione economica?

"Abbiamo gli istituti penitenziari pieni di persone con problematiche sanitarie enormi, perché i nostri istituti sono tappezzati dalle buone leggi del nostro paese. Vogliamo parlare della 180? Vogliamo parlare del perché il disagio psichico è così diffuso negli istituti? Del perché ci sono il 30% dei tossicodipendenti? 17% di immigrati? Ci ritroviamo a dover fronteggiare situazioni sanitarie che forse non era proprio il carcere a dover affrontare".

 

Allora, dal quadro che lei ci fa la situazione sembra senza soluzione; quale può essere la via d’uscita?

"L’unica sinergia possibile è il principio di sussidiarietà. Le regioni devono collaborare, riempiendo quei vuoti che inevitabilmente si sono venuti a creare. Con la Regione Campania è stato sottoscritto un protocollo d’intesa che dovrebbe, tra le altre cose, aprire un canale tra le carceri e le strutture sanitarie".

 

Ora infatti il rapporto è difficile, a tratti quasi ostile, con il risultato che i detenuti non vengono affatto curati.

"Dal punto di vista del personale il detenuto dà fastidio; la scelta deve essere un’altra: reparti ospedalieri dedicati, come quello che stiamo costruendo all’ospedale San Paolo di Milano, dove c’è un reparto che si chiama Medicina 5, c’è una presenza di polizia discreta, e queste persone sono ricoverate all’ospedale come gli altri pazienti. Ma ce ne sono anche altri. Questa è la strada, perché chi va in carcere non perda il diritto alla salute".

 

Forse a Milano non lo perde, ma a Napoli sicuramente sì...

"A Napoli le situazioni contingenti fanno sì che questo diritto sia oscurato molte, molte volte. Non andiamo a negare l’evidenza, lavoriamo perché questo non accada. La strada è quella di adattare i reparti, e l’altra, ancora più semplice, di portare personale in orario di servizio nelle carceri. Nel concreto se la Regione Campania organizza questo servizio, e il protocollo d’intesa si sta muovendo in questa direzione, se le Asl impegnano le risorse che già hanno per mandare proprio personale, allora si potrà davvero parlare di diritto alla salute. Del resto, c’è una legge del ‘93 che già prevedeva questi reparti ospedalieri dedicati".

 

Legge, mi sembra di capire, non applicata?

"Come tante altre cose..."

 

Per concludere, cosa si sente di dire a Gaetano Ruggero, e ai tanti Gaetano che ci sono in carcere?

"Di comunicarci queste storie, perché noi non lasciamo perdere nessuna delle vicende personali di cui veniamo a conoscenza. Questo è un obbligo morale ed etico. Interverremo quanto prima, perché non si aggiunga danno a danno".

 

Ora questa storia gliel’abbiamo raccontata noi...

"E di questo la ringrazio".

 

Ci risentiamo tra qualche giorno e ci dice anche come ha risolto il caso di Gaetano?

"Assolutamente sì. Anche la stampa può fare molto per far sì che si possa migliorare il livello di assistenza nelle carceri".

Tolmezzo: davanti al carcere sit in della Polizia penitenziaria

 

Il Gazzettino, 15 ottobre 2004

 

Sit-in, ieri mattina, di un gruppo di agenti di Polizia penitenziaria aderenti all’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziaria) dinanzi al carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni nelle quali il personale è costretto a lavorare.

"Tolmezzo si connota - ha spiegato il segretario generale del sindacato, Leo Beneduci - per l’assenza di qualsiasi forma di dialogo fra il personale e i vertici della struttura, per il mancato rispetto delle regole e degli accordi in materia di distribuzione dei carichi di lavoro, delle turnazioni nei posti di servizio e del lavoro straordinario. Fatto ancora più grave - ha proseguito Beneduci - gli agenti vengono sottoposti a procedimenti disciplinari in qualsiasi circostanza, se non addirittura a segnalazioni all’autorità giudiziaria.

Questo clima d’intimidazione s’inserisce - secondo il sindacalista - in un contesto dove il personale è di molto inferiore rispetto all’organico previsto". Nel corso della manifestazione sono state ricordate anche le difficili condizioni di lavoro nelle carceri di Udine e di Trieste. Nel pomeriggio il sindacato ha tenuto un’assemblea all’interno dell’istituto di pena.

Caltanissetta: da lunedì detenuti in sciopero della fame

 

La Sicilia, 15 ottobre 2004

 

È trascorso un mese dalla plateale protesta attuata dai detenuti nel carcere Regina Coeli di Roma per sollecitare l’amnistia per coloro che si trovano in cella per reati considerati non gravi e da lunedì prossimo, per "evitare che sulla questione scenda nuovamente il silenzio", viene annunciata un’altra serie di manifestazioni di protesta dei reclusi, anche quelli ospiti del carcere "Malaspina" di Caltanissetta. In particolare verranno attuati scioperi della fame e sarà rifiutato il vitto fornito dall’amministrazione carceraria.

"La decisione di protestare, tutti insieme e pacificamente – è scritto in una nota diffusa ieri da Alfredo Maffi, responsabile dell’associazione culturale Onlus "Papillon" di Caltanissetta – è un necessario atto di civiltà per richiamare alle sue responsabilità un mondo politico che sembra fatichi ad accorgersi che nella stragrande maggioranza delle oltre 200 carceri italiane il diritto è stato in un certo senso sospeso a tempo indeterminato, poiché tutto si può dire tranne che dentro le carceri vengono davvero perseguite la rieducazione e la risocializzazione delle donne e degli uomini reclusi. Ci rendiamo conto che affrontare concretamente in Parlamento una riforma del nostro sistema penale e penitenziario non è cosa facile, ma non per questo è tollerabile il permanere di una situazione che scivola ogni giorno di più oltre i limiti della legalità".

"Del resto, non siamo soltanto noi dell’Associazione Papillon a sottolineare il limite di guardia ormai raggiunto nelle carceri. Anzi, un dato importante della nuova situazione è che oggi alcuni tra i più importanti sindacati del personale penitenziario – aggiunge la nota – affermano che per ristabilire nelle carceri un equilibrio minimamente accettabile occorrono misure che alleggeriscono davvero un sovraffollamento di oltre 13000 detenuti. E certo non vanno in questa direzione le annunciate ulteriori restrizioni in materia di droghe leggere e tossicodipendenza e il continuo slittamento della discussione sulle proposte di riforme del Codice penale già di per sé molto timide. Le pacifiche proteste che migliaia di detenuti inizieranno il 18 ottobre vogliono quindi essere anche un invito a mettere da parte sterili contrapposizioni e a ricercare in Parlamento un’unità di intenti, almeno sulle più urgenti misure che possano ristabilire un equilibrio minimamente accettabile di vivibilità nelle carceri".

"L’associazione "Papillon" in definitiva sollecita: 1) proposte di legge contenenti un reale provvedimento di indulto e amnistia, che ristabilisca un minimo di vivibilità nelle carceri italiane oltre a decongestionare il lavoro dei tribunali. 2) Una serie di provvedimenti che riducano l’eccessiva discrezionalità del giudice di sorveglianza e l’applicazione piena ed integrale della legge Gozzini in tutti i Tribunali di sorveglianza e per tutti i detenuti. 3) Una serie di provvedimenti per limitare l’uso e anzi l’abuso della custodia preventiva ed in particolare della custodia preventiva in carcere".

Turchia: l’inferno delle carceri, tra torture e morti sospette

 

Il Manifesto, 15 ottobre 2004

 

È ancora una volta il tristemente famoso carcere di Buca, vicino a Izmir, a ricordare all’Europa che in Turchia la tortura esiste e i diritti umani continuano ad essere violati. Una rivolta scoppiata mercoledì nel carcere (dove negli anni scorsi sono morti diversi detenuti politici) è stata sedata dalle autorità. Sei feriti tra i detenuti, questo il bilancio della nuova protesta. Alla base della rivolta le stesse domande che da anni i detenuti (politici e non) vanno ripetendo.

Possibilità di avere accesso a medici e medicine, no ai trasferimenti nelle famigerate prigioni di tipo F (quelle di isolamento), possibilità di telefonare, no ai trasferimenti senza preavviso. Insomma: i detenuti chiedono alle autorità diritti minimi. Eppure questi diritti continuano ad essere violati e negati. Proprio in questi giorni (il 19 ottobre), quattro anni fa, centinaia di detenuti politici appartenenti a formazioni della sinistra turca, cominciavano uno sciopero della fame ad oltranza per chiedere diritti minimi e soprattutto per dire no alle galere speciali, le F Tip. Quello sciopero continua, nonostante il massacro dei detenuti ordinato dal governo nel dicembre 2000, trentaquattro morti. Oggi i morti sono arrivati a 117 nell’indifferenza quasi totale dell’Europa. Di quella stessa Europa che si appresta, a dicembre, a dare il via libera definitivo all’avvio dei negoziati sull’ingresso della Turchia. Certo, il rapporto presentato al parlamento, dice che ci sono ancora problemi in materia di diritti umani, ma nel complesso assolve Ankara.

L’Europa se la cava ponendo dei vincoli all’ingresso nella Ue (per tutto il processo si riserva di bloccare i negoziati se la Turchia sgarrerà) ma nei fatti ha già detto sì ad Ankara. Così facendo, naturalmente, accetta una soglia minima di tortura e violazione dei diritti umani. Una sorta di soglia tollerabile.

Che permette di sorvolare sulle centinaia di detenuti ancora in sciopero della fame. Ma anche sulla guerra in Kurdistan che sarà pure di bassa intensità, ma pur sempre guerra è. Continua a gridare al vento l’associazione turca per i diritti umani (Ihd) che proprio in questi giorni ha lanciato in tutto il paese la campagna "Non tacere sulla tortura". Basta dare un’occhiata ai dati dei primi sei mesi del 2004 per rendersi conto che in Turchia i diritti umani basilari continuano a essere calpestati. L’Ihd nel suo rapporto parte dal diritto alla vita per sottolineare che, in sei mesi, 18 sono state le persone uccise dalle forze di sicurezza (spesso a posti di blocco) e 18 quelle ferite.

In prigione ci sono state sei morti per mancanza di cure mediche, sei detenuti si sono dati fuoco in segno di protesta e otto si sono suicidati. In custodia della polizia sono morte due persone. In conflitto armato ventisette (e ventisei sono state ferite).

Ventidue sono stati i militanti di organizzazioni politiche assassinati. 366 quelli feriti. Due gli insegnanti uccisi, sei quelli feriti. Quanto alla tortura: da gennaio a giugno 2004 sotto custodia della polizia sono state torturate 202 persone. Fuori dai luoghi di detenzione ufficiali 208. E l’elenco continua con le decine di pene pecuniare e di chiusure temporanee di giornali, televisioni e radio, accusate di aver offeso lo stato, i militari, il governo, l’unità del paese.

In Kurdistan poi i bollettini di scontri tra esercito turco e guerriglieri kurdi sono ormai quotidiani. A settembre i morti sarebbero stati oltre cento. Gli arresti continuano. L’ultimo, in ordine di tempo, quello della poetessa Ruhan Mavruk che si era molto esposta contro la guerra in Iraq e che è accusata di favoreggiamento di una organizzazione illegale. Quello che invece si è subito mosso, dopo la parziale luce verde dell’Europa, è stato il mercato delle armi. L’amministrazione statunitense ha proposto di vendere alla Turchia duecentoventicinque missili Sidwinder Aim-9X (per un valore di 96 milioni di dollari). La vendita, hanno spiegato dal Pentagono, aumenterebbe il contributo della Turchia alle operazioni Nato e alla guerra al terrorismo. Anche la Germania ha detto di essere pronta a riprendere la vendita di armi ad Ankara, che da tempo cerca di acquistare oltre 200 carri armati Leopard 2 dai tedeschi.

Ragusa: visita al Cpt "questa struttura è come un carcere"

 

La Sicilia, 15 ottobre 2004

 

È il diessino Gianni Battaglia il primo senatore ad aver messo piede dentro il Centro di permanenza provvisoria di via Colajanni. Il senatore ha visitato ieri mattina la struttura, operativa da 6 giorni, accompagnato dal dirigente della Questura, Rosario Cassisi, dal capitano dei carabinieri, Federico Reginato, dal direttore del Cpt, Maria Salmè, e dal rappresentante dell’Ufficio territoriale di governo, Michele Bongiovanni. "Ho parlato con i migranti che stanno dentro il centro.

Posso assicurare che sono in buone condizioni di salute - ha detto il senatore appena uscito dal Cpt - e la Croce Rossa rispetta tutte le regole previste per la gestione di questo tipo di struttura, cioè sono garantiti i diritti degli stranieri che devono permanere in un sito del genere. Ma questo centro è come un carcere, è inutile girarci intorno, perché coloro che ci stanno non chiedono di essere trattati meglio di come lo sono attualmente, ma chiedono soltanto una cosa, la libertà, quella che non hanno".

I clandestini, consapevoli che stesse arrivando qualcuno in visita nel centro, hanno approfittato della presenza dei giornalisti e delle telecamere per battere le mani e salutare al grido di "Hourria", che in arabo significa "libertà". "Mi chiamo Frewi e ho 28 anni - ha gridato uno di loro per farsi sentire dai giornalisti - io ho speso 1600 euro per venire dalla Tunisia e tornerò qui in Italia se mi manderanno via. Nella mia città facevo l’autista, ma non potevo continuare a vivere lì e adesso l’unica cosa che voglio è la libertà".

"Di sicuro il centro non è fatto per ospitare 50 persone - ha detto il senatore Battaglia - ho visto una stanza con 12 letti". La struttura di via Colajanni è stata autorizzata ad accogliere 42 uomini e 16 donne. Attualmente, a parte i tre stranieri che sono riusciti a fuggire, all’interno ci sono 39 uomini, mentre le donne in questo momento sono 7.

"Fra le donne vi sono 6 rumene - spiega la Salmè - tutte fra i 25 e i 40 anni". Gli uomini hanno un’età compresa fra i 25 e 30 anni. Il senatore Battaglia ha annunciato che presenterà un’interrogazione sul Centro di permanenza provvisoria di via Colajanni. "Mi risulta che sino a questo momento nessuno dei migranti sia stato identificato, quindi almeno finora l’utilità di questa struttura è nulla – ha commentato il senatore – se si considera poi il dispendio di denaro e l’utilizzo elevato di forze dell’ordine, diminuisce ancora di più l’opportunità dell’esistenza della struttura".

Bergamo: uomo di 50 anni si suicida in cella dopo la condanna

 

L’Eco di Bergamo, 15 ottobre 2004

 

Tragico gesto nella tarda serata di mercoledì nel carcere di via Gleno a Bergamo, dove un detenuto, un muratore cinquantenne, si è tolto la vita. L’uomo, che divideva la cella con un altro detenuto, poco prima delle 23 di mercoledì, secondo quanto è stato possibile ricostruire, avrebbe detto al compagno che andava al bagno, posto all’interno della stessa cella.

Dopo diversi minuti di attesa, non vedendolo tornare, l’altro detenuto si è allarmato ed è andato a controllare facendo così la macabra scoperta: il cinquantenne si era impiccato, pare utilizzando delle lenzuola annodate. Subito è scattato l’allarme, ma i soccorsi sono stati inutili.

Il muratore era in carcere per scontare una condanna a 10 anni per abusi sessuali nei confronti della figlia, quando questa era minorenne. Secondo l’accusa, l’uomo avrebbe approfittato della ragazza negli anni compresi tra il 1989 e il 1998.

Era stata proprio lei a denunciare il fatto. Il muratore era stato allontanato dalla famiglia ed era stato rinchiuso in carcere il 17 luglio, dopo un processo in direttissima per violazione di domicilio e minacce. Il 29 settembre la condanna per abusi sessuali. Quel giorno davanti ai giudici l’uomo aveva detto: "Ho sbagliato, chiedo perdono alla mia famiglia". E la famiglia, dopo la condanna, aveva manifestato la propria disponibilità a riaccogliere il congiunto.

Padova: quando la strada ed il carcere si incontrano...

 

Redattore Sociale, 15 ottobre 2004

 

Strada e carcere si incontrano. Troppo spesso. È quanto emerge da una ricerca condotta all’interno del carcere Due Palazzi di Padova, dal giornale di strada Terre di mezzo, in collaborazione con "Ristretti orizzonti", il giornale realizzato all’interno del carcere veneto e da cui emerge che un quarto dei detenuti non ha un posto dove andare a fine pena, mentre un terzo dei detenuti ha vissuto un periodo della propria vita sulla strada.

L’indagine è stata condotta attraverso un questionario rivolto a 500 detenuti (hanno risposto 391 persone) per illuminare un aspetto poco conosciuto della vita in strada: il rischio frequente, come testimoniato dagli intervistati, di finire in carcere.

Una situazione denunciata dall’associazione Antigone, impegnata nella tutela delle persone detenute, che sui dati della ricerca "carcere e strada", commenta: "Le nuove povertà, le marginalità sociali vengono trattate come forme di devianza criminale. Sono anni che si parla di carceri, di nuove politiche sociali, ma la ricerca strumentale del consenso continua a orientare le politiche penali e penitenziarie. Il sovraffollamento non viene trattato, così come dovrebbe, con politiche di depenalizzazione e di decarcerizzazione, bensì con prospettive di nuove galere da costruire in giro per il paese".

La ricerca è stata presentata oggi a Genova in concomitanza con la quinta edizione della "Notte dei senza dimora" (vedi lancio precedente), promossa da Terre di mezzo per la Giornata mondiale di lotta alla povertà (17 ottobre). In particolare l’indagine rivela che il 25 per cento degli intervistati non ha un’abitazione dove andare al momento del "fine pena", mentre il 30 per cento ha dichiarato di aver ricevuto lo sfratto durante la carcerazione e il 31 per cento di aver vissuto sulla strada qualche momento della propria vita. Peggiore la condizione degli stranieri.

I 391 questionari raccolti sono stati compilati per oltre il 66 per cento da detenuti italiani. La fascia di età più rappresentata è quella tra i 30 e i 40 (22.25 per cento), seguita da quella 40/50 (15.35 per cento), ugualmente rappresentate invece quelle dei 20/30 e 50/60 (10.23 per cento), 146 (37.34 per cento) sono invece le schede restituite da detenuti stranieri.

Il 34.65 per cento della totalità del campione, inoltre, dichiara di aver vissuto prima dell’arresto in una casa di proprietà, il 56.14 per cento in affitto (30.11 per cento gli italiani e 26.3 per cento gli stranieri) e il restante 8.87 per cento in alloggi di fortuna. Il 41.57 per cento di chi viveva in affitto (27.37 per cento italiani contro il 14.2 stranieri) dichiara che il contratto di locazione era a proprio nome prima della data d’arresto e il 30.64 per cento ha ricevuto lo sfratto successivamente. Il restante 58.39 per cento di chi viveva in affitto dichiara che il contratto era intestato a terzi.

Relativamente al problema dell’abitazione per il dopo pena, il 74.43 per cento degli intervistati, ha già un riferimento per l’alloggio. L’indicazione non si discosta nemmeno per quanto riguarda un luogo d’appoggio per poter usufruire i benefici di legge quali permessi, affidi, detenzioni domiciliari e quant’altro.

Il 25,47 per cento (in prevalenza stranieri) dichiara, invece, di non poter contare su una soluzione abitativa sicura al momento del rilascio. Un altro problema riguarda la residenza anagrafica: il 12 per cento (5 per cento italiani contro il 7 per cento stranieri) dichiara di esserne privo. Ma sono molti coloro che non ne sanno nulla. Il questionario termina con una domanda riguardante la vita "sulla strada": il 31 per cento dichiara di aver vissuto sulla strada in qualche momento della sua vita, un terzo di loro dichiara che ciò è successo dopo un periodo di detenzione.

Su questi dati, che mostrano una realtà allarmante e illuminano il corto circuito "strada – carcere – strada", Antigone conclude: "Bisognerebbe investire in strutture di accoglienza, per far funzionare le tante, inapplicate leggi di contorno all’ordinamento penitenziario. Sono necessarie strutture per le detenute madri, per i detenuti in permesso premio, per gli stranieri privi di residenza. Per tutti costoro la pena è un po’ più dura che per gli altri. Per loro la pena è rigida, inflessibile. Per loro non vi è possibilità di accesso alle misure alternative, infatti non hanno un luogo dove vivere".

Mantovano: "I permessi a Brusca sono uno scandalo"

 

Il Mattino, 15 ottobre 2004

 

La vicenda dei permessi premio a Giovanni Brusca "è oggettivamente scandalosa". A parlare è il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, che presiede il comitato del Viminale sul programma di protezione dei collaboratori e dice di "condividere l’iniziativa del ministro Castelli di inviare gli ispettori al tribunale di sorveglianza di Roma" che ha concesso al boss di lasciare il carcere ogni 45 giorni. Mantovano, invece, non è d’accordo con chi, in questi giorni, ha chiesto la revisione della legge sui pentiti.

"Non è un problema di legge - dice - ma di come la magistratura, in piena autonomia, la applica. Ne vengono fuori decisioni su cui, per utilizzare un eufemismo, si possono sollevare molte perplessità". La legge sui pentiti, spiega Mantovano, che presiede la commissione che decide l’ammissione al programma di protezione per collaboratori o testimoni, "è stata modificata, a fine della scorsa legislatura con un voto molto ampio del Parlamento, per restringere l’area dei benefici". Per quanto riguarda un soggetto come Brusca, aggiunge, "sarebbe auspicabile verificare adeguatamente i vantaggi processuali della sua collaborazione" prima di pagare un costo così alto come il concedergli permessi premio.

"L’impressione, infatti, negli ultimi tempi - spiega il sottosegretario - è che lo spessore qualitativo dei collaboratori di giustizia si sia molto abbassato". "Anche per questo - aggiunge - il rapporto tra la commissione del Viminale che ammette ai programmi di protezione ed i magistrati che avviano le domande è sempre più dialettico". Infine, Mantovano lancia una provocazione: "dunque, invece di chiedere la revisione della legge sarebbe bene applicarla in tutte le sue parti. Alcune norme restano, infatti, lettera morta come, ad esempio, quella che prevede che il pentito, per essere ammesso al programma di collaborazione, debba mettere a disposizione i beni illecitamente percepiti".

Mamone: donati a biblioteca del carcere libri dell’Unione Sarda

 

L’Unione Sarda, 15 ottobre 2004

 

Anche L’Unione Sarda dà il suo contributo al progetto "Le biblioteche carcerarie in Sardegna", presentato ufficialmente a Sassari nel marzo dello scorso anno su una base iniziale di cinque istituti penitenziari, tra cui la colonia all’aperto di Mamone, coinvolti in un progetto-pilota.

Il successo dell’iniziativa ha convinto gli organizzatori ad estendere il servizio a tutte le strutture carcerarie della Sardegna. "Scopo del progetto - si legge in una nota dell’assessorato regionale alla Pubblica istruzione - è parificare le biblioteche delle carceri alle biblioteche pubbliche, dotandole di figure professionali adeguate e in grado di garantire gli stessi servizi agli utenti.

In questo modo, il servizio Beni librari vuole dare il suo contributo affinché venga riconosciuto il diritto alla lettura a quegli utenti che per vari motivi si trovano in condizioni di svantaggio, nello specifico, ai detenuti". Sempre secondo gli ideatori dell’iniziativa, "il servizio bibliotecario delle carceri favorisce la creazione di spazi culturali informativi di confronto e discussione", anche grazie alla professionalità degli operatori e (come è avvenuto a Mamone) alla loro capacità di coinvolgere il volontariato.

"Nella misura in questo avviene - continua la nota dell’assessorato regionale - c’è un intervento professionale degli operatori bibliotecari che continuamente curano e calibrano la propria attività mediando tra l’idea di Biblioteca pubblica e la complessa realtà carceraria". Proprio questi aspetti saranno ulteriormente approfonditi in una manifestazione organizzata in occasione della festa annuale del Corpo di polizia penitenziaria per lunedì prossimo alle 10 nella colonia all’aperto di Mamone.

La giornata si aprirà con una cerimonia semplice quanto significativa: il direttore editoriale de "L’Unione Sarda" Gianni Filippini donerà alla Biblioteca della casa di reclusione di Mamone, la collezione di volumi recentemente pubblicati e distribuiti con il quotidiano. "Un apporto importante per la dotazione libraria della biblioteca di Mamone e delle altre biblioteche carcerarie della Sardegna", sostengono all’assessorato regionale alla Pubblica istruzione prendendo atto con soddisfazione che "seguirà infatti la donazione dei volumi a tutte le altre biblioteche carcerarie dell’Isola".

Alla cerimonia del 18 ottobre, tra gli altri saranno presenti a Mamone l’assessore regionale alla Pubblica istruzione Elisabetta Pilia, la direttrice del servizio Beni librari Paola Bertolucci, il direttore generale del personale del ministero della giustizia Gaspare Sparacia, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna Nello Cesari, il vescovo di Nuoro Pietro Meloni, il presidente della provincia di Nuoro Francesco Licheri.

 

Grazie ai recenti lavori una struttura efficiente

 

Dopo i recenti lavori di ristrutturazione che hanno posto rimedio alle principali carenze, la colonia penale di Mamone riesce ad assolvere egregiamente a centro di recupero delle persone che stanno scontando pene per reati minori. Le attività sociali sono garantite ogni giorno e gli ampi spazi consentono ai detenuti di ottenere una qualità della vita decisamente migliore rispetto ai penitenziari. Perciò gli esperimenti continuano con successo.

 

Badu ‘e Carros, una situazione diventata ingovernabile

 

A fare da contraltare nel panorama carcerario del Nuorese alla positiva situazione di Mamone, c’è quella di Badu ‘e Carros che rischia ogni giorno di più l’ingovernabilità. Infatti la grave carenza di organici di agenti di polizia penitenziaria costringe la direzione a ridurre fortemente gli spazi di socialità e ad annullare molte delle iniziative volte al recupero dei detenuti. Uno stato di disagio ripetutamente denunciato dai sindacati ma che finora non sembra aver imboccato la strada della soluzione. Ma una decisione è diventata ormai improcrastinabile.

Bologna: abusi di alcool e droga, rapporto dell'Ausl 2003

 

Sesto Potere, 14 ottobre 2004

 

Sono stimate in circa 5700 le persone, a Bologna e provincia (tranne il comprensorio imolese), con gravi problemi dovuti all’uso di alcol (7 volte il numero di quelli che si rivolgono ai Ser.T.), e circa 6000 quelle che usano droga (eroina, cocaina, oppioidi, benzodiazepine), queste ultime in deciso aumento rispetto alle 5000 stimate lo scorso anno. Una stima ottenuta a partire dal numero delle persone entrate in contatto con i servizi pubblici e privati nel 2003. In aumento anche i ricoveri in ospedale dovuti all’abuso di cocaina.

I dati emergono dal rapporto sulle dipendenze curato dall’Osservatorio Epidemiologico Metropolitano, che ha preso in esame 2002 persone con problemi di alcol e 3002 persone con problemi di droga. Sul fronte delle tossicodipendenze aumenta l’uso di cocaina (uno su due tra i nuovi contatti), diminuiscono tra i tossicodipendenti i positivi ad HIV e ad Epatite C, calano le overdose ma aumenta la percentuale di quelle mortali.

Alcuni dati: l’80% delle persone entrate in contatto con i servizi è stato seguito dal Ser.T., il 14% è stato in carcere, lo 0,4% morto per overdose, il 5% ricoverato in ospedale, il 7% seguito dall’unità mobile, il 6% è stato segnalato ai Nuclei Operativi Territoriali della Prefettura dalle forze dell’ordine, il 9% è stato contattato dall’unità di aiuto del comune di Bologna, il 7% si è rivolto allo sportello sociale, l’8% è stato ospite in un dormitorio.

L’età media è di circa 33 anni, il 12% sono stranieri, uno su quattro non è residente, uno su due è senza lavoro. Il rapporto registra il funzionamento delle rete dei servizi nei confronti anche delle aree più marginali (stranieri, nomadi, disoccupati, persone con problemi sanitari) e presenta cambiamenti legati probabilmente a fenomeni sociali più macroscopici: aumento degli stranieri, alto rischio di incidenti stradali, e un profilo di tossicodipendente lontano da quello "classico" (più anziano, bassa scolarità, senza lavoro, problemi sanitari gravi).

Sul fronte dell’abuso di alcol, negli ultimi anni si è registrata una tendenza alla diminuzione dei ricoveri ospedalieri per problemi legati all’alcol. Questo trend si configura sia nel calo del numero dei ricoveri, sia come numero di persone, sia come numero delle giornate di degenza. Nello stesso periodo invece le persone seguite dai Ser.T. per problemi di alcol sono raddoppiate.

Qualche dato: il 40% delle persone con problemi legati all’alcol è seguito dai Ser.T., il 50% è stato ricoverato in ospedale, il 7% sono stranieri, il 12% è stato contattato da servizi che si occupano di disagio sociale (dormitori, sportello sociale, unità di aiuto). Lo studio indica anche alcune tendenze significative: nelle zone collinari la percentuale di persone che abusa alcol è più elevata rispetto all’area urbana, dal 2.8 al 3.1 per 1000 residenti; in campagna e in collina chi fa abuso di alcol tende a rivolgersi al Ser.T., mentre a Bologna città chi si rivolge più di frequente all’ospedale sono i non residenti.

 

 

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