Filosofia in carcere

 

Bellizzi Irpino: quando la filosofia entra in carcere

 

Il giorno 18 novembre u.s. si è svolta nel carcere di Bellizzi Irpino la giornata mondiale per la filosofia, voluta e organizzata dalla sezione di Avellino della Società Filosofica Italiana e dal Seac Campania. L’istituzione circondariale di Avellino non è nuova a simili iniziative. Già in passato, infatti, alcuni docenti universitari si sono incontrati con i detenuti per riflettere e dialogare su temi di vita quotidiana di rilevanza filosofica. Tali incontri sono stati inseriti nel laboratorio filosofia e quotidianità, che da alcuni anni si svolge in carcere con l’obiettivo di coniugare la quotidianità frustrante, ossessiva, disumanizzante che caratterizza la vita dei detenuti con la filosofia, che consente di "sospendere", almeno momentaneamente, quel frenetico, ripetitivo e insopportabile - quanto incomprensibile - affaccendarsi quotidiano, per chiedersi il senso delle cose, per cercare risposte a domande inquietanti ritenute fino a quel momento irrilevanti o improponibili.

Infatti, nel momento in cui la filosofia viene riportata all’ordinarietà del quotidiano, non solo essa ritorna alle sue origini più autentiche, ma soprattutto rivela tutta la sua valenza pedagogica e formativa, svelando il vero significato dell’assunto di prenderla con filosofia, proposto provocatoriamente ai detenuti all’ inizio del laboratorio.

Il prof. Giuseppe Ferraro, docente di Filosofia morale presso l’Università degli Studi ‘Federico II’ di Napoli, da tempo sostenitore di una filosofia "fuori le mura", incontrandosi con i detenuti in occasione della Giornata mondiale per la filosofia ha sottolineato l’opportunità di portare "la filosofia nei luoghi estremi per sentire cosa ha da dire, del perché della vita o cosa è mai libertà o come restituire quel che si è preso e appreso. Tutte cose di cui si può sapere solo là dove la libertà manca o dove la vita è perduta o offesa".

Capire in che modo si possa restituire ciò che si è preso ed appreso costituisce proprio l’obiettivo dell’attività laboratoriale che si svolge da alcuni anni nella casa circondariale di Avellino con risultati più che soddisfacenti.

Nel corso dell’incontro, significativi contributi al dibattito sono pervenuti dagli interventi di alcuni ristretti che, sollecitati dalla discussione relativa al tempo, ai sentimenti, alla dimensione puramente temporale dell’uomo, hanno saputo individuare i termini dell’annosa e dibattuta questione, avvalendosi del loro vissuto esperienziale e delle loro fini capacità di analisi e di giudizio. Nel carcere - essi sostenevano - proprio la sospensione del tempo, non più vissuto come distensio animi (una distensione dell’animo che lega e cuce continuamente passato, presente e futuro) priva l’individuo di ogni fondamento, di ogni slancio e di ogni ragion d’essere. Il tempo, invece, deve continuare, sempre a costituire la trama su cui ciascuno deve poter continuare a tessere la propria identità, a riconoscere il proprio sé per trovare la giusta collocazione nel tessuto sociale.

E cosa dire, inoltre, del "silenzio assordante" a cui ha fatto cenno un altro detenuto, denunciando la particolarità della condizione di detenzione che mina in profondità l’integrità psico-fisica di ciascuno?

Riflessioni certamente inquietanti, che dovrebbero indurci a ripensare e rifondare tutta la "filosofia e la politica carceraria" al fine di rivelare la retorica di cui sono intrise espressioni quali rieducazione, socializzazione, integrazione.

In attesa di una ridefinizione del pianeta carcere, di cui "conosciamo tutti gli inconvenienti e come sia pericoloso, quando non è inutile", come efficacemente scriveva M. Foucault in Sorvegliare e punire, è opportuno intensificare gli sforzi perché ai ristretti vengano offerti spazi ed occasioni di pensiero libero, di dialogo e di ascolto per non renderli muti, cinici ed insensibili.

Considerazioni queste che dovrebbero convincerci che la reclusione – così intesa - costituisce l’ostacolo principale ad ogni forma di reinserimento sociale e di rieducazione, dal momento che la "cultura della prigione" riproduce soltanto se stessa rendendo alla fine i detenuti incapaci di rapportarsi al mondo esterno e di condividerne le regole e i ritmi.

 

 

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