Il sistema carcere

 

Sistema carcere: violenza, umiliazione, soppressione dei diritti

di Patrizio Gonella (Associazione Antigone)

 

Liberazione, 29 ottobre 2003

 

Sono 2008, secondo l’amministrazione penitenziaria, i detenuti che a due mesi dalla entrata in vigore delle legge sull’indultino sono usciti dalle patrie galere. I tassi di sovraffollamento, che ci sono costati un ennesimo rimbrotto a Strasburgo, continuano ad essere in vorticosa crescita. Il provvedimento di semi - clemenza, nonostante i clamori e le volgarità leghiste, al momento non ha sortito effetti. La vita nelle prigioni italiane continua ad essere una vita affollata, dove la Bossi - Fini ne sbatte dentro molti di più di quanto l’indultino ne faccia uscire, dove ci si deve arrangiare in 10 metri quadri, bagno compreso, in tre persone, dove ogni 100 detenuti vi è un educatore, spesso stanco, provato, demotivato, dove il magistrato di sorveglianza ha di fatto rinunciato a esercitare il suo controllo di legalità, dove dal primo gennaio 2003 si sono suicidate 40 persone, dove il mangiare non a caso si chiama sbobba e chi fa le pulizie scopino. Ancora una volta il dibattito politico e mediatico estivo, questa volta a seguito della strage di Rozzano, si è rinchiuso in un circolo vizioso: periferie urbane - periferie umane - violenza - repressione - carcere, possibilmente a vita. Era tradizione che il PCI presentasse, agli inizi di ogni legislatura un disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo. Oggi fra le nebbie padane si evoca, neppure tanto in silenzio, la pena di morte per i disperati delle nostre periferie.

Il carcere è un vasto contenitore che seleziona la propria utenza proprio nelle periferie delle città, fra i "tossici", gli extracomunitari, i meno alfabetizzati, gli inoccupati, i giovani, i più poveri. E li seleziona non perché abbiano ucciso, taglieggiato, estorto, ma perché si sono fatti di eroina, perché hanno scippato, borseggiato, rubato. I due terzi della popolazione detenuta italiana sono espressione di una sola classe sociale, il sotto-proletariato urbano escluso dalle ricchezze e dalle luci della città neo-liberale.

 

Embrioni di privatizzazione

 

Non a caso le nuove carceri si costruiscono nella estrema periferia urbana: Rebibbia a Roma, il Due Palazzi a Padova, Bollate a Milano. La periferia è il luogo del rimosso. Il centro va salvaguardato dai barboni, dai venditori ambulanti e dalle carceri. Pende alla Camera una proposta di legge della Casa delle libertà che intende spostare le galere per sempre fuori dai centri storici. A Bari il carcere è in un rione popolare e centrale. Caratterizza il quartiere. Lo stesso Regina Coeli a Roma. Le famiglie ci arrivano facilmente. I lavoratori pure. Gli avvocati non hanno scuse per non andarci. Si può ancora salutare la moglie; la fidanzata, la mamma, gridando oltre le grate delle finestre. Tutto ciò è troppo visibile, va disumanizzato, allontanato, impedito. E allora il Ministro della Giustizia, da buon ingegnere, contribuisce alla nascita della Dike Aedifica Spa, società controllata dalla Patrimonio Spa, che dovrebbe avere il compito di vendere le carceri storiche (San Vittore, Lucca, Volterra) e con il ricavato costruirne di nuove.

L’operazione maschera embrioni di privatizzazione, finora tenuti a bada dai recalcitranti sindacati autonomi di polizia penitenziaria, timorosi che, oltre alla costruzione, privata divenga anche la sorveglianza, sul modello anglo-americano. Il governo ci ha provato subito, a pochi mesi dall’insediamento, con Castelfranco Emilia, dove avrebbe voluto sostituire la locale Casa di Lavoro, con una comunità carceraria coatta per tossicodipendenti affidati alla dinastia dei Muccioli. Quello di San Patrignano sarà privato "sociale", ma sempre privato è: senza regole e con pochi diritti.

 

Privati della libertà e non solo

 

La questione dei diritti è, viceversa, una questione cruciale. Agli inizi di settembre il Parlamento europeo, votando la propria relazione periodica sullo stato dei diritti umani nella UE, ha rimarcato che solo tre paesi hanno istituito organismi indipendenti di controllo dei luoghi di detenzione. A tutti gli altri, compresa l’Italia, viene richiesto di introdurre il prison ombudsperson nella propria legislazione. La specificità della condizione detentiva, in una prigione, in una caserma di polizia o dei carabinieri, in un ospedale psichiatrico giudiziario, in un istituto per minori, è tale da richiedere forme e meccanismi nuovi di tutela.

I diritti sono universali. La carcerazione sospende provvisoriamente la libertà di movimento. Le altre libertà non andrebbero toccate o compresse. La prassi penitenziaria, invece, le tocca e comprime tutte, più o meno violentemente. Il detenuto non può essere iscritto ad un sindacato, anche se lavorante in carcere. Nel mentre il detenuto è dimezzato nei suoi diritti, gli si chiede - così afferma espressamente la legge - di "partecipare all’opera di rieducazione". Nelle ultime leggi finanziarie i fondi per il cosiddetto trattamento intramurario sono stati fortemente ridotti. Il trattamento oramai è declassificato a intrattenimento. Se hai partecipato al corso di origami, non ti sei rifiutato di andare a fare per un’ora a settimana il portavitto, se non hai alzato mai la voce con gli agenti, se sei educato e non rompi i coglioni a nessuno, allora si può presumere che tu abbia partecipato attivamente all’opera di rieducazione e sei pronto per le misure alternative, anticamera della libertà. Tutto ciò sempre che uno dei 200 magistrati di sorveglianza abbia il tempo di esaminare la tua pratica, altrimenti aspetti.

 

Falsi miti

 

D’altronde in galera prima di tutto s’impara ad aspettare. Si aspettano le risposte alle domandine, si aspetta che l’ufficio matricola ti faccia il cumulo delle pene, si aspetta che arrivino i medicinali, si aspetta il pacco settimanale, si aspetta l’avvocato, si aspetta la telefonata di dieci minuti, si aspetta il primo permesso premio, si aspetta che il tempo passi. La Cgil ha di recente accusato l’Amministrazione penitenziaria di fare acqua da tutte le parti visto che ben 28 detenuti, poco desiderosi di aspettare, sono andati via prima del tempo nei primi 9 mesi del 2003. In alcuni casi con evasioni classiche: sbarre segate e lenzuola annodate. Nel film "Guardie e ladri" Totò, scappando dal grasso maresciallo Fabrizi, evocava una sorta di diritto alla fuga. Se uno viene imprigionato è naturale che pensi a liberarsi. La rieducazione è un falso mito. Meglio e meno ipocrita sarebbe pensare ad una pena che si limiti a essere umana, rispettosa della dignità delle persone, non invasiva rispetto alla sfera dei propri liberi comportamenti.

L’Italia non ha ancora firmato né ratificato il protocollo alla convenzione Onu contro la tortura. Gli Usa, così come per la Corte penale internazionale, fanno una dura lobby contraria. Il post – 11 settembre è stato tutto all’insegna della compressione dei diritti umani: Guantanamo, incommunicado detention, 41 bis ai terroristi. Ratificare quel protocollo significa accettare che ispettori provenienti da paesi lontani vengano a verificare se nelle carceri o nelle caserme italiane vi siano trattamenti inumani, crudeli o degradanti. I fatti di Napoli, Genova, Sassari dimostrano che il nostro Paese non è esente dal rischio tortura. Eppure in Italia la tortura non è un crimine. È invece reato entrare clandestinamente per due volte nel bel paese, riprodurre CD illegalmente o possedere tre dosi di hashish. Ma la vita non è il bene più importante tutelato dalla nostra Costituzione?

 

 

Precedente Home Su Successiva