Le prigioni di Adriano Sofri

 

Adriano Sofri ci offre un lucido sguardo
sulla realtà che sta vivendo da sette anni

Intervista a cura di Francesca Mattotti

 

www.buonpernoi.it, 6 novembre 2003

 

Com’è fatta la tua cella?

È la più brutta e la più angusta di tutto il carcere però è solitaria, cosa a cui tengo molto. È una mezza cella da due, perché l’altra metà è occupata dalla doccia. In ogni piano del carcere c’è una sola cella singola che deriva dalla divisione di una cella normale, fatta per ricavare la doccia. Metà è una doccia, metà sono io. Io, cioè la mia branda, il cesso, il fornello da campo.

 

Com’è?

Molto piccola. Non c’è spazio nemmeno per camminare per tre metri avanti e indietro. Nel corso di questi lunghissimi anni si è riempita di carte di ogni genere. Che ormai rendono difficile la convivenza con loro da parte mia, e viceversa. Carte che all’inizio era difficile tenere: mi dicevano che tenere libri era pericoloso perché potevano incendiarsi, e dovevo spiegare che è raro che i libri si incendino. Allora dicevano che potevano cadere sulla mia testa, e io dicevo che anche questo i libri non lo fanno quasi mai. Poi alla fine, dopo minacce e tensioni di ogni genere, siamo arrivati a una accomodamento per cui io mi tengo molti libri e molte carte. Molti… è sempre irrisorio rispetto alla mia vita precedente, in cui possedevo 20.000 volumi. Ora ne ho una cinquantina nella mia cella, e poi altri su alcuni scaffali vuoti della biblioteca che ho usurpato. C’è un gran via vai di libri, mi arrivano e li mando fuori, li regalo, li mando in giro qui in carcere.

 

Puoi tenere dei libri in cella?

Adesso ne ho tanti, tanti rispetto alla condizione carceraria. Tieni conto che mi arrivano 20 libri al giorno in omaggio dagli editori e dagli autori che mi chiedono recensioni. Il mio domicilio essendo noto è diventato una specie di indirizzo d’ufficio a cui tutti possono scrivere e mandare manoscritti e chiedere prefazioni e segnalazioni.

 

E alle pareti hai attaccato qualche cosa?

Alle pareti io niente, no. Né Padre Pio né le veline, né qualche macchina di Formula Uno, tutte cose che riempiono le pareti di questo carcere, ma io non ho attaccato niente. Nella mia primissima degenza avevo attaccato una carta geografica del mondo, un grande planisfero, bello, che però mi strapparono una volta in qualche perquisizione, e allora…

 

Come sono stati i primi giorni? Come ti hanno accolto gli altri detenuti?

I primi giorni non me li ricordo più, sono passati sette anni. Sono stato in galera più volte nella mia vita. Sono stato in galera nel 1970. Poi ci sono tornato nel 1988, poi ci sono tornato definitivamente salvo una breve uscita nel gennaio del 97. Comunque, gli altri detenuti mi trattano molto bene. Io con loro e loro con me facciamo un buon uso del fatto che io sono come loro e diverso da loro. Questa situazione può rendere odioso un rapporto oppure lo può rendere eccellente, è una condizione che ho conosciuto spesso nella vita. Per esempio a Sarajevo dove abitavo ero diverso da loro ed ero uno come loro, nel senso buono. E così anche in galera. Non si dimenticano mai che non sono come loro e allo stesso tempo mi trattano con una grandissima confidenza. La gran parte dei detenuti odierni sono ragazzi. Perché sono o tossicodipendenti - come sai la tossicodipendenza viene punita con la galera - oppure ragazzi "extracomunitari" cosiddetti. Ho un’occasione rara, per un anziano come me, di vivere con dei ragazzi, coi quali ho grande confidenza, e che si prendono molta confidenza con me, ma allo stesso tempo mi vogliono bene, hanno una specie di rispetto, di premura. Ci sono anche altre persone anziane. Gli uomini anziani che sono in galera oggi, sono soprattutto i poveretti che sono in galera per piccole truffe, bancarotta o falso in bilancio, troppo piccoli per essere deputati. Poi ci sono parecchi italiani che hanno ammazzato le mogli, è quasi l’unica categoria di omicidi in Italia: quelli che ammazzano le mogli, o le fidanzate, o le ex fidanzate o le prostitute, donne a piacere insomma. Quelli che magari subito dopo provano a suicidarsi, ma non ci riescono mai. Però insomma, tutte le persone, tranne rarissime eccezioni, una volta che stanno in galera fanno dimenticare, ammesso che non lo dimentichino loro stessi, la ragione per cui sono entrati. Diventano dei carcerati, questo vale soprattutto per me.

 

E come si diventa da carcerati?

Persone uniformate dalla condizione in cui si vive. Tutti noi siamo fatti a nostro modo e poi il mondo in cui viviamo ci modella. Però quanto più si restringono le pareti del mondo in cui vivi, tanto più sei modellato. Un albero può crescere e prosperare e raggiungere la sua altezza standard, e addirittura crollare e fottere una linea elettrica di 57 milioni di persone… Se invece la chiudi in una scatola, quella diventa un pianta rattrappita. Bonsai. Ecco come si diventa. Visto che tutto gli è stretto addosso, le pareti, le sbarre, gli sguardi ecc., i detenuti hanno qualcosa che li rende molto simili, anche qualcosa che li rende molto diversi da tutti gli altri. Si diventa come persone private di qualunque senso. Giacenti, o camminanti, ma camminanti a vanvera, avanti e indietro. Un detenuto si riconoscerebbe sempre, e riconoscerebbe un altro che è stato in galera dal modo di camminare, di tenere le mani dietro la schiena e lo sguardo per terra mentre cammina meccanicamente. Come un marinaio di una superpetroliera riconoscerebbe in una piazza di una metropoli un altro che fa il marittimo su un’altra petroliera dal modo di caracollare. Così si diventa.

 

Come è cambiato secondo te il carcere in tutti questi anni? È diventato un luogo ancora più emarginato dal resto della società?

Un punto essenziale di tutti i luoghi chiusi, cioè l’invisibilità: i carcerati sono tenuti d’occhio e in maniera intollerabile dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, c’è sempre uno spioncino su di loro, una lampadina puntata sulla loro faccia, denudati, e spiati, e sorvegliati, e castigati. Ma tutto questo deve avvenire all’interno e deve essere invisibile al di fuori. Questa condizione è diminuita, si è ridotta. Lo scambio ("trasparenza" sarebbe parola inutilizzabile in questo caso) con la società di fuori è cresciuto molto rispetto al carcere di una volta che era veramente impenetrabile. Anche se le grandi lotte, che non sono state degli anni Settanta ma della fine degli anni Sessanta, modificarono radicalmente queste condizioni.

Allora lo scandalo delle rivolte in carcere, della scoperta che persone che venivano date per sepolte vive fossero invece persone che si affacciavano sui tetti, che esponevano lenzuola con su scritte delle parole, che salutavano con le mani eccetera, fu uno shock enorme. Enorme come scoprire che i manicomi potevano essere aperti, e che si potesse fare parlare le persone che c’erano dentro. Enorme persino come scoprire che anche le fabbriche potevano essere in qualche modo guardate dal di fuori o addirittura fare entrare qualche estraneo. Le fabbriche erano luoghi chiusi ancora più che le caserme. Quando senti parlare del Sessantotto fai bene a diffidare, ma questo è sicuramente il risultato più importante del Sessantotto: avere aperto le case chiuse. Erano stati chiusi da poco in Italia i casini, ma tutte le altre case chiuse erano chiusissime. E naturalmente le galere erano le più chiuse di tutte. Oggi questa situazione si è modificata, attraverso una quantità di figure di queste che sono a metà tra l’ipocrisia e la buona volontà: gli operatori, i volontari, i medici, gli infermieri. Entrano delle donne, cosa impensabile prima nei carceri maschili, ci sono infermiere, psicologhe, dottoresse, educatrici, suore. La prima volta che sono andato in galera, se fosse passata una qualunque persona di sesso femminile, la galera sarebbe esplosa. Mentre adesso tutto questo avviene in una sorta di anestetizzata normalità. Anche la popolazione carceraria è cambiata molto.

 

Come si riflette questo sulla vita all’interno del carcere?

Innanzitutto è aumentata: oggi in galera ci sono più del doppio delle persone che c’erano 11 anni fa. Questo è pazzesco. Immagina una città, un quartiere, un condominio, in cui si raddoppi la popolazione. A fine Settanta - Ottanta c’è stato il periodo delle lotte carcerarie condotte in nome della lotta armata dalle sue filiali carcerarie, per le quali non ho nessuna nostalgia – e anche questo è un eufemismo. Il periodo più interessante è quello precedente alla fine degli anni Sessanta: l’irruzione della rivendicazione di sé, del fatto di esistere, di potere avere una voce. E che poi cessò di essere rivolta e diventò lotta disciplinata, organizzata, con l’introduzione di una cosa impensata, come gli scioperi della fame alla fine degli anni Sessanta. Tutto questo aveva come protagonista una popolazione di malavita tradizionale che si politicizzava e che aveva codici di comportamento molto forti, deprecabili per certi versi, l’infamia, ma allo stesso tempo molto strutturati dal punto di vista della dignità personale, del rispetto di sé, della solidarietà con gli altri.

Questa delinquenza ha cessato di esistere da molto tempo, sgominata – come dicono i servizi televisivi – dall’irruzione della droga. Il carcere di oggi, a parte la criminalità organizzata di vario genere, che però è una minoranza, è assolutamente dominato dalla droga. Dal proibizionismo, per cui quasi tutte le fattispecie di reato sono riconducibili alla tossicodipendenza. Questo fa sì che ci sia una frantumazione umana, una solitudine e anche una debolezza e una fragilità del temperamento delle persone che finiscono in galera e che invece dovrebbero tutt’al più finire in posti dove qualcuno si prenda premurosa e affettuosa cura di loro. Sono persone fisicamente deboli (le malattie sono straordinariamente diffuse in carcere).

Non c’è solo la privazione di libertà, ma una endemica fragilità: tutte le malattie sono presenti in carcere. L’aids è quella più citata perché più scandalosa, ma anche con l’aids conclamato, nonostante le leggi, le persone restano in carcere finché non sono agonizzanti. La percentuale di sieropositivi è molto alta, la percentuale di persone con l’epatite è altissima, è la grande maggioranza. Anche la composizione cosmopolita della galera, che è così in anticipo su quella della società, moltiplica i problemi sanitari: la galera è anche una specie di gabinetto di malattie tropicali. Il ritorno della tubercolosi, che è tipico anche della società esterna, in galera è avvenuto molto prima. È una specie di avanguardia, ma mutilata. Mutilata perché ci sono solo persone di un sesso, non ci sono animali, non ci sono piante, non ci sono bambini.

 

L’altissima percentuale di stranieri che conseguenze porta?

Il rischio di contrapposizioni etniche è uno strumento formidabile di conservazione dell’ordine nelle galere di oggi, impensabile nella condizione del passato. Sono poco combattivi, o combattivi in modo disperato, autolesionista, incline al suicidio - l’autolesionismo è diffusissimo soprattutto tra i giovani stranieri, è il loro unico ricorso. E ci sono soprattutto fortissime divisioni. Una volta c’erano non so i calabresi, i siciliani, i piemontesi, i bergamaschi e così via. Adesso ci sono i magrebini, a loro volta molto divisi tra di loro più di quanto si immagini, gli albanesi, i senegalesi, che sono i più distinti sia in galera che fuori. E arrivano, arrivano tutti. C’è una condizione di debolezza della popolazione carceraria molto maggiore rispetto a un tempo. E le persone sono molto più rassegnate e ottuse rispetto all’insensatezza della condizione carceraria, aspettano che arrivi il momento del permesso, del beneficio, della semilibertà, del lavoro esterno, dell’affidamento e così via.

Persino la questione sessuale è come esorcizzata vergognosamente da questa condizione. Una volta c’era una insofferenza e una giusta, animalesca dunque magnanima insofferenza nei confronti di una mutilazione così grave, questa castrazione imposta a tutti i detenuti, maschi e femmine. Oggi c’è una specie di assuefazione per cui si aspetta di uscire e nel frattempo ci si masturba, in maniera assolutamente ossessiva: per la stragrande maggioranza sono ragazzi di vent’anni, che per giunta hanno la televisione e vedono dalla mattina alla sera corpi nudi dimenarsi in maniera apparentemente liberata.

Dunque c’è una condizione per certi versi migliori, una specie di facciata, di tentativo di introdurre anche nel carcere rapporti civili, sforzi di persone di buona volontà continuamente frustrate, il teatro, la scuola, il ricamo, tutto questo a scapito delle vecchie arti carcerarie che non avevano nessun volontario che se ne occupasse, ma che appartenevano alle persone. Gli ergastolani che facevano navi nelle bottiglie anche quelli non esistono più, non si fanno più navi nelle bottiglie e nessuno le sa fare, poi si guarda la televisione, tutti guardano la televisione.

Per cui i pochi vecchi detenuti all’antica hanno un grande disgusto di questo carcere e una grande nostalgia di quello di una volta. Naturalmente sbagliano, però si capisce che sia così.

Dopo di che il carcere prescinde dai suoi ospiti, agenti, detenuti, educatrici, infermiere, direttore e chiunque. Perché il carcere è continuamente uguale a sé stesso. Di tutte le cose inermi di cui è fatto questo mondo il carcere è il più geologicamente inerte che esista. Puoi anche inaugurare un carcere nuovo e metterlo in funzione, somiglia già a ogni altro carcere da 400 anni a questa parte.

 

Quindi è una cosa inamovibile, irriformabile?

No, non bisogna dire questo perché come in ogni condizione estrema, la privazione e la violenza che viene esercitata è estrema dunque non è scalfibile, e al tempo stesso qualunque minimo dettaglio diventa decisivo. In tutte le condizioni estreme, carcere, lazzaretto, una città assediata che so, un luogo di fame, al tempo stesso c’è una compressione totale, assoluta, che schiaccia tutto, come in un campo di concentramento, a cui naturalmente questi carceri non somigliano affatto se non in una specie di nocciolo di fondo. Un’importanza estrema di qualunque dettaglio minimo: le persone possono impiccarsi perché non sopportano la privazione della libertà e l’insensatezza e l’abuso che si fa del loro corpo e della loro anima. Ma possono impiccarsi anche perché gli è stata negata una sigaretta, una telefonata.

 

Come riesci a tenerti informato su quanto accade fuori dal carcere?

Come tutti: guardo la televisione e leggo i giornali, come tutti. C’è un limite alla spesa che ciascuno può fare al mese, che è 800.000 lire al mese. Sono tante per la media dei detenuti, ma io ne spendo più della metà per comprare i giornali, altri giornali mi arrivano perché sono abbonato, perché me li portano da fuori. Comunque, non è difficile informarsi in questa maniera invalida in cui ormai ci si informa su qualunque cosa al mondo, compresa te, e cioè leggendo i giornali e guardando la televisione. Dopo di che non mi informo su niente, no? La tua domanda non vale, perché io non sono informato: non vedo un pezzetto di mondo da molti anni, non vedo il cielo notturno da molti anni, come vuoi che sia informato?

 

Come scrivi? A penna, al computer?

Di preferenza scrivo a penna, con la penna stilografica che ho ottenuto dopo una lunga lotta, perché era vietata pure quella, tutto è vietato. Da un po’ di tempo scrivo con un computer.

 

Che però non è connesso…

No, non è connesso con niente. Non ho l’interruttore della luce nella mia cella. Non posso accendere e spegnere la luce se non operando alla cieca attraverso lo spioncino con una ramazza su un interruttore che sta nel corridoio, operazione acrobatica in cui sono diventato molto abile.

 

Lotte sull’indulto: qui cosa è successo? Come sono state vissute?

Beh, bene, in maniera molto forte e molto compatta. Questo carcere è abbastanza piccolo e poi c’è una coesione forte, quindi abbiamo utilizzato la facilità di mettere d’accordo tutti, che in parte è dovuta anche alla mia presenza, l’abbiamo utilizzata per cercare di fare delle cose un po’ più complicate e stravaganti, come lo sciopero della televisione. Una settimana abbiamo fatto lo sciopero della parola, cioè siamo stati zitti. Ora tutte queste cose sembrano futili, ma sono invece enormi: qualunque detenuto preferisce digiunare per una settimana, piuttosto che non guardare la televisione. Non guardare la televisione significa non guardare le partite, non guardare la Formula 1.

 

E come è andata quella settimana senza tv?

Molto bene, le abbiamo messe tutte in una stanza, le televisioni. Il più difficile è stato lo sciopero della parola, il digiuno della parola, stare zitti. Cosa impressionante, perché in carcere non solo c’è una specie di convegno universale di tutti peggiori rumori, metallici e di grida, gemiti, e poi le persone parlano ad alta voce, gridano, piangono, scherzano e così via. E quindi questo silenzio era una cosa straordinaria. Poi naturalmente abbiamo fatto le cose più ovvie, il digiuno, lo sciopero del lavoro ecc. Ma le altre cose erano belle, perché cominciano con le persone che la prendono come uno scherzo, gli viene da ridere, poi strada facendo la cosa diventa seria, e le persone si sentono protagoniste di qualcosa che prima di tutto vale per loro, non tanto per i risultati che otterrà, infatti non ha ottenuto nessun risultato.

 

Cosa pensi del cosiddetto indultino?

Una totale presa in giro. Dal carcere di Pisa ne è uscito uno. Si chiama Franco. A nessuno conviene chiederlo, ma qualcuno per disperazione lo fa perché non gli danno quello a cui avrebbe comunque diritto.

 

Hai partecipato alle lotte per l’indulto, ma l’impressione è che tendi a occuparti di altro, rispetto al carcere…

Non intendo fare della condizione carceraria il centro della mia esistenza. Ma quando sono andato in galera da giovane ho fatto un grandissimo casino, cosa di cui vado ancora fiero. Ora ho voglia di non guidare più niente. Però insomma, faccio cinquanta domandine al giorno, tutte le cose che fa chiunque sappia leggere e scrivere in carcere. Compro scarpe da ginnastica, è già qualcosa. Ma ci sono persone che fanno cose molto belle in giro. C’è un gruppo di persone a Padova che fa la più bella rivista dal carcere e le più belle iniziative. Fanno una rivista che si chiama Ristretti Orizzonti. L’origine è una mia amica, ex di Lotta Continua, che credo che si sia avvicinata al carcere per la semplice ragione che io ero stato arrestato, per solidarietà, e adesso credo che se ne freghi definitivamente di me ed è diventata la più brava persona che si occupa di queste cose. Per esempio sulla questione del sesso hanno fatto cose molto belle, il giornale ne parla molto bene. Quella io la considero una cosa essenziale, se decidessi di buttarmi a fare una battaglia guidata da me sul carcere, sceglierei quel tema lì, che è una vergogna mostruosa da rovesciare addosso alla società. Come si fa a considerare il sesso in galera come una specie di lusso da proibire per castigare le persone? Come si fa a dire che c’è un diritto alla salute se impedisci alle persone di avere rapporti sessuali? Per quindici anni, per vent’anni, e dire che li stai preparando a reintrodursi nella società. C’è una quantità di opinioni, sentimenti, pregiudizi, vergogne, pudori che si mescolano in tutto questo. È un tema vergognoso, perché fa esplodere non solo l’ipocrisia della società ma anche la sua imbecillità.

La galera è al tempo stesso meno brutta di come la si immagina e più orrenda di come la si immagina. È una specie di negativo, se si potesse sviluppare verrebbe fuori una fotografia, ma resta un negativo. Poi io sono vecchio, campo con la faccia voltata indietro, non ho ragioni per diventare matto, nel senso di dare in escandescenze esteriori. Dentro di me do in escandescenze infinite.

Un ragazzo che ho conosciuto dopo essere stato in carcere nell’88, e di cui ho scritto nel mio libro Le prigioni degli altri, e che era bergamasco delle valli diceva "Sono andato incandescente", invece che dare in escandescenze. Era molto bello, no?

 

 

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