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Il dopo-carcere, la società, il lavoro Fuori dalle sbarre un tempo da ritrovare
Avvenire, 29 settembre 2003
L’uscita dal carcere non è automaticamente un approdo felice. Questo vale anche per quelli che la pena l’hanno scontata fino all’ultimo minuto e, perciò, hanno "pagato il debito" e non devono dire grazie
Non sappiamo ancora se l’indultino sia destinato a funzionare, mettendo fuori di galera un po’ di detenuti. Delle carceri e del disagio che vi regna quasi nessuno parla più, dopo il tanto clamore che accompagnò la gestazione della striminzita indulgenza. Ma siamo sicuri che quanti si opposero fino all’ultimo a quella misura invocando il pugno duro e rimuovendo il pensiero dall’altrui dolore, adesso accenderanno i riflettori e non appena qualcuno dei dimessi sgarrerà dalle prescrizioni e tornerà dentro, diranno di sicuro: "avete visto, ve l’avevamo detto". Ci sono però anche altre cose da vedere, e altre cose da dire. La prima è che l’uscita dal carcere non è automaticamente l’approdo a un’Itaca felice. Questo vale anche per quelli che la pena l’hanno scontata fino all’ultimo minuto e perciò hanno "pagato il debito" e non devono dire grazie. È invece un ritorno che assomiglia a un’odissea prolungata, e conosce le sue tempeste. Il rientro è affidato a una vela spezzata e ricucita (se il carcere l’ha ricucita) ed esposta ai venti amici o nemici dell’aiuto o dell’ostilità sociale. La storia delle recidive e del pendolarismo carcerario dovrebbe averci pur insegnato qualcosa; per esempio, che è diverso dire a un uomo "sei riabilitato, torna fra noi" dal dire "hai pagato, vattene". Andarsene, sì, ma dove?È facile dire: a casa, si capisce. Dalla tua famiglia. Al tuo lavoro. Ma invece spesso la casa non c’è, non c’è mai stata o è stata perduta. E la famiglia ha girato le spalle, murata nel dolore e nella vergogna. E il lavoro che scarseggia per i bravi ragazzi non si dà facilmente agli avanzi di galera. Allora restano forse soltanto gli azzardi, i vecchi amici di scorribanda, il tentare la sorte dentro il rischio, la deriva di una carriera criminale coatta, la resa al destino degli espulsi. Mi ha sempre impressionato che la parola "galera" sia stata copiata dall’antica nave, con le catene ai remi; perché se liberare diventa un buttar fuori di galera alla stessa stregua che l’incatenato viene buttato a mare, allora non si fa che prenotare il fatale ritorno alla catena. È il problema del dopo-carcere, che diventa cruciale. È la fatica di rimontare una china col fardello di uno stigma pesante, e da noi fatto più pesante con l’obliqua crudeltà di una fittizia eguaglianza di chance. Se conoscessimo la larga sovrapposizione dell’area di devianza con l’area del disagio sociale di tipo espulsivo saremmo più accorti: la vita è per tutti in salita, ma l’erta è più aspra per chi ha inciampato e s’è ferito, e sale col passo di un ferito. E non trova lavoro perché il tempo del carcere non gli ha insegnato nessun lavoro, contro le promesse di legge: a tre su quattro, ha inflitto l’ozio forzato. L’appuntamento con la recidiva lo costruiamo noi, da insensati. Il ciclo perverso del tempo morto dietro le sbarre e del tempo disperato fuori dalle sbarre dev’essere spezzato; sulla carta abbiamo scritto che l’aiuto al dopo-carcere è compito del servizio sociale e degli enti locali; in pratica, la speranza riposa sul volontariato. Agli uni e agli altri c’è qualcosa da dire: alla politica cinica dei "quattro conti", che investire nel reinserimento con opportune provvidenze (ad esempio sgravi fiscali per chi assume al lavoro gli ex detenuti) costa infinitamente meno del carcere (da 300 mila a mezzo milione di lire al giorno, secondo le stime); alla società civile, in particolare a chi sa che cosa significhi la parola "chiesa", che il soccorso dei fratelli feriti, più che nel visitare i carcerati, sta poi nel lasciarsi visitare.
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