Sanità in carcere

 

Associazione culturale "Papillon Rebibbia" Onlus

Sede legale: Piazza S. Maria Consolatrice n° 13 - 00159 Roma

Sede operativa: Via dei Pivieri n° 55 - 00169 Roma

Tel. 03280213759 - 3343640722; Fax: 0622799801

Web www.papillonrebibbia.org

Mail papillonrebibbia@katamail.com - vittorioantonini@tiscalinet.it

 

 

Problema H.I.V.

 

La nostra proposta in materia di salute e di HIV in particolare, scaturisce dalla concezione generale che abbiamo del carcere e che possiamo riassumere utilizzando il concetto espresso recentemente in un convegno da un uomo di Chiesa che da anni opera in questo carcere: "il carcere è peccato. Chi ritiene che il carcere renda migliori gli uomini commette un peccato".
In termini laici noi condividiamo questo giudizio, poiché riteniamo che anche la più comoda e tranquilla delle detenzioni è causa di un permanente disagio psico-fisico e alla lunga facilita l'emergere e il consolidarsi di uno stato di vera e propria malattia. Del resto ciò è inevitabile, essendo pacifico che limitare o addirittura cancellare le più importanti relazioni sociali, come quelle con la famiglia, con il mondo del lavoro, con la scuola e la cultura in generale, con l'altro sesso, ecc., non è niente altro che una riduzione delle caratteristiche vitali dell'uomo. Ossia, una malattia!
La donna e l'uomo sui quali (una volta condannati definitivamente), si cerca di applicare un programma rieducativo sono quindi già dei soggetti malati, "segnati" dalla detenzione, anche quando all'apparenza non lo dimostrano.
Una prima assurdità risiede allora nella pretesa di preparare il cosiddetto reinserimento sociale prima che il detenuto possa costruirsi o riallacciare una diversa quantità e qualità delle relazioni con il mondo esterno, il che lascia intravedere la persistenza di una concezione arcaica che interpreta il "comportamento delittuoso" non già come un prodotto sociale, ossia un risultato del rapporto tra il soggetto e la società nel suo insieme, bensì come un prodotto di presunte malformazioni psico-fisiche, da curare, ovviamente, attraverso quella particolare coercizione fisica che è la reclusione.
"Puniamo il corpo per liberare la sua anima dal peccato", amavano dire un tempo alcuni falsi Cristiani che gestivano il potere; ma ancora oggi, purtroppo, anche la più avanzata delle idee che maturano nel cielo della politica istituzionale proprio non riesce neanche ad immaginare una pena che non sia basata sulla reclusione.
Ma come è possibile non rendersi conto che la limitazione del danno prodotto dal reato può aversi anzitutto "costringendo" il reo a ricucire su di un piano più alto quel complesso di relazioni, prime fra tutte quelle con le attività socialmente utili, che aveva abbandonato o non aveva mai avuto?
L'ostinata visione antistorica che noi critichiamo è propria di chi non vuole vedere che secoli di utilizzo del carcere e di afflizioni corporali di vario tipo, sino alla pena di morte, hanno completamente fallito nella loro funzione di repressione e prevenzione, visto che non hanno certo contribuito a ridurre o modificare in positivo la quantità e le caratteristiche dei reati commessi (soprattutto nelle grandi metropoli).
Ma tale visione diventa addirittura una vera e propria concezione "CRIMINALE" nel momento in cui sa rispondere soltanto con la galera ai tanti problemi delle donne e degli uomini malati di HIV che compiono reati, a volte certo anche gravi (come le rapine in banca) oppure odiosi (come gli scippi nei mercati ecc.).
Si, CRIMINALE! E' criminale la concezione dei reazionari che chiedono più galera, o magari interi nuovi reparti pieni di malati terminali, per aggiungere la desolazione del carcere all'angoscia di una vita che se ne va poco alla volta. Ed è CRIMINALE (di fatto, se non formalmente) il pronunciamento della Corte Costituzionale dell'ottobre 1995 che ha fatto regredire ulteriormente le già scarse garanzie di tutela per i malati contenute nella legge.
E sono dei pessimi politici coloro i quali a parole si pronunciano per un tipo di pena che escluda il carcere per i malati di HIV, ma troppo spesso abbandonano con molta disinvoltura questa giusta posizione per piegarsi alle esigenze dell' ipocrisia che caratterizza la permanente campagna elettorale in cui vive il nostro paese da oltre due anni.
Oppure l'abbandonano per sottrarsi pavidamente a quell'indignazione di massa che viene costruita e alimentata ad arte dai mezzi di comunicazione che generalizzano arbitrariamente alcuni fatti commessi da ragazzi sieropositivi, i quali possono anche essere da noi considerati come "gli utili idioti" della reazione, ma a cui in verità nessuno ha voluto o saputo offrire, una volta usciti dal carcere, una sia pur parziale alternativa ai reati, un modo migliore di concepire il lavoro, lo studio, la famiglia, la sessualità, il tempo libero, e infine un modo diverso di vivere la stessa quotidiana e aspra battaglia contro l'HIV. Una battaglia che vale comunque e sempre la pena di combattere, senza cedere agli istinti autodistruttivi, perché può essere anch'essa un importante momento di crescita individuale e collettiva per tutti coloro, malati e non, che vi partecipano con la giusta determinazione.
Noi siamo consapevoli delle difficoltà che incontra oggi una battaglia tesa ad impedire che le pene comminate alle donne e agli uomini afflitti da gravissime malattie siano scontate in carcere anziché in comunità dove l'esigenza del loro controllo non vada a discapito delle relazioni vitali con la società esterna. Però siamo anche certi che questa battaglia va costruita, anzitutto da noi detenuti, come una prima tappa, un aspetto particolare della generale lotta che deve avere per obiettivo una sostanziale trasformazione del modo di concepire e impostare il rapporto tra i reati e le pene.
Quella lotta è quindi legata già nell'immediato con quelle per la depenalizzazione dei reati minori; per la possibilità di scontare una parte della pena in attività socialmente utili; per la riduzione della discrezionalità dei Tribunali di Sorveglianza nella concessione delle misure alternative; e così via fino a giungere all'abolizione dell'ergastolo ed alla conseguente revisione generale del codice penale.
A questa indiscutibile unità di fatto degli obiettivi, deve corrispondere da parte nostra un atteggiamento responsabile che superi pian piano le titubanze, le paure (che sono certo comprensibili ma non più giustificabili) e il menefreghismo individualista su cui tanto contano coloro che chiedono pene più severe.
Certamente è vero che negli ultimi 15 anni è notevolmente cambiata la tipologia dei reati e la quantità e la composizione dei detenuti, e tutto ciò rende indiscutibilmente più complicato costruire l'unità della maggioranza degli stessi. Ma è altrettanto vero che arrendersi prima ancora di provarci è semplicemente da stupidi.
Noi non ci facciamo illusioni di sorta. Troppe volte abbiamo constatato l'ipocrisia del mondo politico. Ma sappiamo anche che con esso dobbiamo fare i conti.
E già oggi possiamo muovere un primo passo chiamando ad un pronunciamento pubblico su questi temi tutte le forze politiche impegnate nella propaganda elettorale. La domanda principale è: siete disposti a sostenere la nostra lotta? Se lo siete, esponetevi pubblicamente nel corso dell'attuale campagna elettorale, sarà poi nostro compito quello di ricordarvi gli impegni presi.
Se invece non siete disposti a pronunciarvi, allora fateci il favore di togliervi di torno perché siete soltanto dei demagoghi che non si fanno scrupolo a giocare con la vita dei detenuti.
E un particolare invito lo rivolgiamo alla sensibilità delle donne e degli uomini che a vari livelli lavorano in carcere, affinché contribuiscano a "costringere " da subito le forze politiche ad assumere un atteggiamento responsabile e costruttivo, ossia a far proprio già da oggi una sola ma importante modifica all'articolo 286 c.p.p., che riassumiamo così, semplicemente: una volta accertata la sieropositività del soggetto, indipendentemente dai livelli dei linfociti, il Magistrato di Sorveglianza dispone il suo immediato trasferimento in una struttura adeguata non coercitiva (comunità aperta, o luoghi del genere) che gli consenta finalmente di poter essere assistito sotto il profilo sanitario, di coltivare quotidianamente le relazioni con il mondo esterno, fissando ovviamente i limiti e gli obblighi che sarà tenuto a rispettare. Le stesse modalità il Magistrato utilizza nei confronti dei soggetti colpiti da gravi malattie (quali ad es. il tumore, la schizofrenia, la leucemia).
Se noi detenuti sapremo costruire pian piano la nostra unità e se chi lavora in carcere sarà dalla nostra parte, dalla parte della vita, contro l'ignoranza e la sottocultura della morte, che è propria di coloro che chiedono più carcere, allora si potrà davvero aprire una nuova stagione in cui iniziare il progressivo superamento di quel "peccato mortale" che è la galera.

 

 

Precedente Home Su Successiva