La
nostra proposta in materia di salute e di HIV in particolare, scaturisce
dalla concezione generale che abbiamo del carcere e che possiamo
riassumere utilizzando il concetto espresso recentemente in un convegno
da un uomo di Chiesa che da anni opera in questo carcere: "il
carcere è peccato. Chi ritiene che il carcere renda migliori
gli uomini commette un peccato".
In termini laici noi condividiamo questo giudizio, poiché
riteniamo che anche la più comoda e tranquilla delle detenzioni
è causa di un permanente disagio psico-fisico e alla lunga
facilita l'emergere e il consolidarsi di uno stato di vera e propria
malattia. Del resto ciò è inevitabile, essendo pacifico
che limitare o addirittura cancellare le più importanti relazioni
sociali, come quelle con la famiglia, con il mondo del lavoro, con
la scuola e la cultura in generale, con l'altro sesso, ecc., non
è niente altro che una riduzione delle caratteristiche vitali
dell'uomo. Ossia, una malattia!
La donna e l'uomo sui quali (una volta condannati definitivamente),
si cerca di applicare un programma rieducativo sono quindi già
dei soggetti malati, "segnati" dalla detenzione, anche
quando all'apparenza non lo dimostrano.
Una prima assurdità risiede allora nella pretesa di preparare
il cosiddetto reinserimento sociale prima che il detenuto
possa costruirsi o riallacciare una diversa quantità e qualità
delle relazioni con il mondo esterno, il che lascia intravedere
la persistenza di una concezione arcaica che interpreta il "comportamento
delittuoso" non già come un prodotto sociale, ossia
un risultato del rapporto tra il soggetto e la società nel
suo insieme, bensì come un prodotto di presunte malformazioni
psico-fisiche, da curare, ovviamente, attraverso quella particolare
coercizione fisica che è la reclusione.
"Puniamo il corpo per liberare la sua anima dal peccato",
amavano dire un tempo alcuni falsi Cristiani che gestivano il potere;
ma ancora oggi, purtroppo, anche la più avanzata delle idee
che maturano nel cielo della politica istituzionale proprio non
riesce neanche ad immaginare una pena che non sia basata sulla reclusione.
Ma come è possibile non rendersi conto che la limitazione
del danno prodotto dal reato può aversi anzitutto "costringendo"
il reo a ricucire su di un piano più alto quel complesso
di relazioni, prime fra tutte quelle con le attività socialmente
utili, che aveva abbandonato o non aveva mai avuto?
L'ostinata visione antistorica che noi critichiamo è propria
di chi non vuole vedere che secoli di utilizzo del carcere e di
afflizioni corporali di vario tipo, sino alla pena di morte, hanno
completamente fallito nella loro funzione di repressione e prevenzione,
visto che non hanno certo contribuito a ridurre o modificare in
positivo la quantità e le caratteristiche dei reati commessi
(soprattutto nelle grandi metropoli).
Ma tale visione diventa addirittura una vera e propria concezione
"CRIMINALE" nel momento in cui sa rispondere soltanto
con la galera ai tanti problemi delle donne e degli uomini malati
di HIV che compiono reati, a volte certo anche gravi (come le rapine
in banca) oppure odiosi (come gli scippi nei mercati ecc.).
Si, CRIMINALE! E' criminale la concezione dei reazionari che chiedono
più galera, o magari interi nuovi reparti pieni di malati
terminali, per aggiungere la desolazione del carcere all'angoscia
di una vita che se ne va poco alla volta. Ed è CRIMINALE
(di fatto, se non formalmente) il pronunciamento della Corte Costituzionale
dell'ottobre 1995 che ha fatto regredire ulteriormente le già
scarse garanzie di tutela per i malati contenute nella legge.
E sono dei pessimi politici coloro i quali a parole si pronunciano
per un tipo di pena che escluda il carcere per i malati di HIV,
ma troppo spesso abbandonano con molta disinvoltura questa giusta
posizione per piegarsi alle esigenze dell' ipocrisia che caratterizza
la permanente campagna elettorale in cui vive il nostro paese da
oltre due anni.
Oppure l'abbandonano per sottrarsi pavidamente a quell'indignazione
di massa che viene costruita e alimentata ad arte dai mezzi di comunicazione
che generalizzano arbitrariamente alcuni fatti commessi da ragazzi
sieropositivi, i quali possono anche essere da noi considerati come
"gli utili idioti" della reazione, ma a cui in verità
nessuno ha voluto o saputo offrire, una volta usciti dal carcere,
una sia pur parziale alternativa ai reati, un modo migliore di concepire
il lavoro, lo studio, la famiglia, la sessualità, il tempo
libero, e infine un modo diverso di vivere la stessa quotidiana
e aspra battaglia contro l'HIV. Una battaglia che vale comunque
e sempre la pena di combattere, senza cedere agli istinti autodistruttivi,
perché può essere anch'essa un importante momento
di crescita individuale e collettiva per tutti coloro, malati e
non, che vi partecipano con la giusta determinazione.
Noi siamo consapevoli delle difficoltà che incontra oggi
una battaglia tesa ad impedire che le pene comminate alle donne
e agli uomini afflitti da gravissime malattie siano scontate in
carcere anziché in comunità dove l'esigenza del loro
controllo non vada a discapito delle relazioni vitali con la società
esterna. Però siamo anche certi che questa battaglia
va costruita, anzitutto da noi detenuti, come una prima tappa, un
aspetto particolare della generale lotta che deve avere per obiettivo
una sostanziale trasformazione del modo di concepire e impostare
il rapporto tra i reati e le pene.
Quella lotta è quindi legata già nell'immediato con
quelle per la depenalizzazione dei reati minori; per la possibilità
di scontare una parte della pena in attività socialmente
utili; per la riduzione della discrezionalità dei Tribunali
di Sorveglianza nella concessione delle misure alternative; e così
via fino a giungere all'abolizione dell'ergastolo ed alla conseguente
revisione generale del codice penale.
A questa indiscutibile unità di fatto degli obiettivi, deve
corrispondere da parte nostra un atteggiamento responsabile che
superi pian piano le titubanze, le paure (che sono certo comprensibili
ma non più giustificabili) e il menefreghismo individualista
su cui tanto contano coloro che chiedono pene più severe.
Certamente è vero che negli ultimi 15 anni è notevolmente
cambiata la tipologia dei reati e la quantità e la composizione
dei detenuti, e tutto ciò rende indiscutibilmente più
complicato costruire l'unità della maggioranza degli stessi.
Ma è altrettanto vero che arrendersi prima ancora di provarci
è semplicemente da stupidi.
Noi non ci facciamo illusioni di sorta. Troppe volte abbiamo constatato
l'ipocrisia del mondo politico. Ma sappiamo anche che con esso dobbiamo
fare i conti.
E già oggi possiamo muovere un primo passo chiamando ad un
pronunciamento pubblico su questi temi tutte le forze politiche
impegnate nella propaganda elettorale. La domanda principale è:
siete disposti a sostenere la nostra lotta? Se lo siete, esponetevi
pubblicamente nel corso dell'attuale campagna elettorale, sarà
poi nostro compito quello di ricordarvi gli impegni presi.
Se invece non siete disposti a pronunciarvi, allora fateci il favore
di togliervi di torno perché siete soltanto dei demagoghi
che non si fanno scrupolo a giocare con la vita dei detenuti.
E un particolare invito lo rivolgiamo alla sensibilità delle
donne e degli uomini che a vari livelli lavorano in carcere, affinché
contribuiscano a "costringere " da subito le forze politiche
ad assumere un atteggiamento responsabile e costruttivo, ossia a
far proprio già da oggi una sola ma importante modifica all'articolo
286 c.p.p., che riassumiamo così, semplicemente: una volta accertata la sieropositività del soggetto, indipendentemente
dai livelli dei linfociti, il Magistrato di Sorveglianza dispone
il suo immediato trasferimento in una struttura adeguata non coercitiva
(comunità aperta, o luoghi del genere) che gli consenta finalmente
di poter essere assistito sotto il profilo sanitario, di coltivare
quotidianamente le relazioni con il mondo esterno, fissando ovviamente
i limiti e gli obblighi che sarà tenuto a rispettare. Le
stesse modalità il Magistrato utilizza nei confronti dei
soggetti colpiti da gravi malattie (quali ad es. il tumore, la schizofrenia,
la leucemia).
Se noi detenuti sapremo costruire pian piano la nostra unità
e se chi lavora in carcere sarà dalla nostra parte, dalla
parte della vita, contro l'ignoranza e la sottocultura della morte,
che è propria di coloro che chiedono più carcere,
allora si potrà davvero aprire una nuova stagione in cui
iniziare il progressivo superamento di quel "peccato mortale"
che è la galera.
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