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     La 
    mediazione: via per sanare le relazioni Da “Aggiornamenti Sociali”, Marzo 2002, pp. 251-3 Francesco Occhetta S.I. 
 Guerini e Associati, Milano 2001 
 Il
      coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni
      alternative delle controversie 
 «Non si deve negoziare per paura, ma non bisogna 
    mai aver paura di negoziare». A questa frase di John F. Kennedy si ispira il 
    titolo del lìbro: Il coraggio di mediare, curato da Fulvio Scaparro, 
    psicoterapeuta, fondatore dell'associazione GeA-Genitori Ancòra e 
    presidente del Comitato Etico Indipendente dell'Istituto Nazionale ei Tumori 
    di Milano. Il volume costituisce in Italia la prima trattazione sistematica 
    e interdisciplinare del tema della mediazione. Un'attività dalle radici 
    antiche, ma che nasce negli USA nel secolo scorso come tecnica e procedura 
    istituzionalizzata di risoluzione dei conflitti del mondo del lavoro, per 
    poi estendersi all'ambito familiare e ad altre situazioni in cui si 
    sperimentano conflitti sociali e interpersonali. Il testo raccoglie i contributi di diciotto 
    esperti, oltre a quello del curatore: magistrati, criminologi. psicologi, 
    sociologi, pedagogisti e ricercatori. «La mediazione – scrive Scaparro 
    nell'introduzione – non è soltanto una tecnica né soltanto un'utopia. E’ una 
    tecnica fortemente carica di utopia. Richiede al mediatore e alle parti in 
    conflitto coraggio, praticità, pazienza, ma anche la capacità di sognare e 
    desiderare uno scenario diverso da quello che oggi ci vede in lotta" (p. 
    16). Tutti gli ambiti della nostra esistenza quotidiana 
    – famiglia, lavoro, scuola, spazi pubblici – sono attraversati da conflitti, 
    frutto di relazioni difficoltose, «malate» o profondamente in crisi, in cui 
    l'altro non è incontrato ma utilizzato per fini egoistici. Di fronte a 
    questa realtà Scaparro invita a non temere di aiutare le parti a comunicare: 
    la mediazione si pone come una via per ristabilire il dialogo, cercare 
    soluzioni pacifiche alle dispute, accettando le diversità e le proprie 
    chiusure. Come dice
    Scaparro, quindi, è necessaria una nuova 
    cultura della mediazione che risponda alle esigenze del nostro tempo, 
    salvaguardi le potenziali fecondità del conflitto e della diversità, e 
    contemporaneamente si impegni nella ricerca di soluzioni eque e, rispettose 
    delle esigenze degli interessati. Attraverso un'inconsapevole gioco di squadra, gli 
    autori dei diversi saggi raccolti nel volume documentano come la cultura 
    contemporanea si sia fatta carico di cercare nuove pratiche per mediare i 
    conflitti e trovare soluzioni rispettose per le parti coinvolte. Il primo 
    ambito analizzato è quello dei conflitti familiari. Nel suo contributo Irene 
    Bernardini ricostruisce la storia e il modo di procedere dell'Associazione e 
    del centro GeA-Genitori Ancòra, esperienze pionieristiche della 
    mediazione familiare in Italia, e concepisce la mediazione fartiliare come 
    «giustizia del quotidiano» in grado di spostare l'accento «dalla risoluzione 
    al governo del conflitto» (p. 111). Le prime iniziative legislative in 
    materia ne provano l'importanza e il crescente interesse. Ma la mediazione 
    deve essere in grado di affrontare anche conflitti di altro tipo. Cercare di 
    risolverli con un negoziato, per Scaparro significa «mantenere giovane la 
    democrazia» (p. 12). Ad approfondire questo aspetto è il pedagogista 
    Daniele Novara, secondo il quale mancano nella nostra società una corretta
    «alfabetizzazione al conflitto» e un'«educazione alla pace» (p. 177). La 
    mediazione può permettere invece di educare a una pace matura, che non 
    significa irenismo o totale identità di vedute. Piuttosto – sostiene ancora 
    Novara – l'educazione alla pace attraverso la mediazione permette di 
    costruire la capacità di stare dentro il conflitto e vivere autentiche 
    relazioni umane nonostante divergenze e resistenze. Sei atteggiamenti 
    positivi vengono presentati come indispensabili per una corretta educazione 
    alla pace: considerare la situazione conflittuale come un problema da 
    gestire e non come una guerra da combattere; «contare fino a dieci» prima di 
    agire per evitare le reazioni impulsive e compulsive; sdrammatizzare le 
    tensioni evitando il «muro contro muro»; rispettare i contenuti del 
    conflitto; sperimentare la critica costruttiva in una dimensione di ascolto; 
    saper dire di no quando occorre per non cedere al conformismo e assumersi 
    una responsabilità adulta. Tra le varie articolazioni della mediazione 
    presentate nei diversi saggi, merita attenzione in ambito penale la 
    formulazione di una teoria della giustizia particolarmente innovativa: la 
    c.d. «giustizia riparativa», fondata più sul risarcimento alla vittima che 
    sulla punizione del colpevole. A spiegarla è Adolfo Ceretti, professore di 
    Criminologia e responsabile dell'Ufficio per la Mediazione di Milano: «Si 
    tratta di un modello di intervento sui conflitti […] che si avvale non della 
    pena o di alcune delle "sottoarticolazioni sanzionatorie tradizionali, bensì 
    di strumenti che tendono a promuovere la riparazione del danno cagionato dal 
    fatto delittuoso e, soprattutto, la riconciliazione tra autore e vittima» 
    (p. 309). A questo modello d'intervento soggiace una vera e propria 
    rivoluzione copernicana nella concezione di giustizia: «Le questioni 
    fondamentali – spiega Ceretti – non sono più: “chi merita di essere punito?” 
    e “con quali sanzioni?”, bensì “cosa può essere fatto per riparare, il 
    danno?”, laddove riparare non significa, riduttivamente, controbilanciare in 
    termini economici il danno cagionato. Realizzabile tramite azioni positive, 
    infatti, la riparazione ha una valenza molto più profonda e, soprattutto, 
    uno spessore etico che la rende ben più complessa del mero risarcimento e 
    che affonda le proprie radici nel percorso di mediazione che la precede" (p. 
    310). Nonostante le forti resistenze che il nuovo paradigma suscita in 
    un'epoca in cui le logiche retributive sembrano guadagnare nuovo favore, la 
    prospettiva della giustizia riparativa suscita crescente interesse in Europa 
    e in seno all'ONU. L'esperienza dell'Ufficio per la Mediazione di Milano, di 
    cui vengono illustrate le tecniche e le modalità operative concrete, ne 
    dimostra i risultati positivi. Uno sguardo complessivo al volume evidenzia il 
    privilegio dato al livello delle relazioni interpersonali, e quindi ai c.d. 
    conflitti di seconda generazione: quelli di vicinato, di quartiere, 
    familiari, scolastici, interculturali, d'ambiente, sul posto di lavoro. 
    Purtroppo, nonostante l'esplosione dei conflitti etnici e le tensioni tra 
    culture, solo l"ultimo capitolo del libro affronta la mediazione a livello 
    macro nei conflitti di «prima generazione», quelli tra gruppi, strati o 
    classi sociali. Solo l'ultimo saggio di Abdessalarn Najjar, membro fondatore 
    di Nevé Shalorn/Wahat al-Salam, unica comunità ebraico-palestinese, 
    approfondisce la tecnica dell'incontro tra due gruppi in contrasto. In conclusione, ci sembra che il volume lasci 
    aperte due domande. La prima riguarda l’interpretazione della mediazione a 
    livello antropologico: è possibile considerarla una sorta di «perdono laico» 
    o secolarizzato? «La mediazione – afferma Scaparro – non implica il perdono" 
    (p. 164). Ma questa espressione non deve trarre in inganno. 
    Non viene negata l’importanza del perdono, quanto piuttosto una sua 
    interpretazione superficiale e «buonista», che sorvola la paziente 
    elaborazione interiore che esso invece comporta. Solo attraverso questo 
    impegnativo itinerario diventa possibile la riconciliazione dei contendenti, 
    che gratuitamente si donano l'un l'altro, oltre le strettoie del presente 
    conflittuale, una nuova possibilità di futuro. Riconoscimento reciproco, 
    gratuità, progettualità: tutti elementi che risuonano nel termine tedesco 
    «riconciliazione» (Versöhnung: ritornare figli), scelto da Scaparro 
    stesso. Un termine che richiama la parabola del padre misericordioso che 
    accoglie il «figlio prodigo» (Luca 15, 11 -32), in cui 
    riconciliazione e perdono si danno strettamente associati. La seconda questione aperta riguarda l'identità o 
    il profilo del mediatore, figura centrale e insostituibile del processo di 
    mediazione. La definizione che emerge dal volume non è univoca. Alcuni 
    autori concepiscono il mediatore come un terzo neutrale, mentre altri ne 
    delineano il ruolo di figura capace di essere sia una parte sia l’altra, un 
    soggetto equiprossimo alle parti in conflitto. Tutti concordano nel non 
    accostare il mediatore a uno psicoterapeuta, a un avvocato o a un giudice: 
    egli deve limitarsi a favorire la comunicazione in modo che le parti possano 
    superare l'impasse del conflitto, negoziare una soluzione e trovare accordi 
    equi e soddisfacenti per entrambi. Rimangono così aperte le modalità di formazione 
    dei futuri mediatori. Scaparro propone scuole di formazione «non tecniciste» 
    che, affidando il ruolo di docenti a persone direttamente impegnate in 
    processi di mediazione, sappiano trasmettere come, cosa e perché 
    mediare. Il volume nel suo insieme ha infine il merito di 
    collocare al centro dell'attenzione ciò di cui abbiamo più bisogno: il 
    rapporto con l’altro. Aprirsi a questa esperienza diventa anche la fonte 
    stessa dell'istanza etica che la società contemporanea sta cercando. Le esperienze e i risultati presentati nei volume dicono che la mediazione è possibile. Occorre però riconoscere la verità di quanto Socrate afferma nel dialogo platonico Ippia maggiore: "Credo di aver capito cosa vuoi dire il proverbio: le cose belle sono difficili». 
 
 
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