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Conferenza di Ginevra sulla "resilienza"
29 agosto - 1 settembre 2002
Tra il 29 agosto ed il 1 di settembre si è svolto a Ginevra un incontro internazionale dell’IPCA sul tema della “resilienza”, termine questo, abbastanza difficile, su cui torneremo in seguito. L’IPCA (International Prison Chaplains’ Association), nata da una decina d’anni, è un’associazione internazionale, ecumenica, che raccoglie uomini e donne che svolgono un lavoro di cappellania nelle carceri. L’intento, all’atto della sua nascita, era quello di creare una rete che permettesse di confrontare esperienze e pratiche pastorali di cappellani di diverse confessioni, provenienti da più luoghi del mondo. Oggi, a questo primo obiettivo, se n’è aggiunto un altro. Da qualche anno l’associazione ha deciso di affrontare il tema della libertà religiosa in prigione. Parecchie sono le difficoltà cui vanno incontro i detenuti ogni qualvolta desiderano fruire di un’assistenza pastorale di una minoranza religiosa. Soprattutto nei paesi a maggioranza cattolica o ortodossa, infatti, la libertà religiosa in carcere è ancora lontana, e ciò incide inevitabilmente anche nel lavoro dei cappellani. Il mondo evangelico italiano non si è sottratto a questa riflessione: ad ogni incontro internazionale dell’IPCA, negli ultimi anni, era presente almeno un rappresentante del nostro paese. L’ultimo congresso europeo dell’associazione, inoltre, ha eletto nel suo direttivo, accanto a Riformati, Luterani, Cattolici e Ortodossi, un pastore valdese, Sergio Manna, che da qualche tempo ormai lavora come cappellano nel cacere di Secondigliano, nel Napoletano. Anche l’ultimo convegno di Ginevra, destinato ai paesi del Mediterraneo e del sud dell’Europa, ha visto un’importante partecipazione di Italiani. Erano presenti, oltre al pastore Manna, Sergio Pinciani, che da laico collabora alla cappellania cattolica nel carcere di san Gimignano; il pastore avventista Calogero Furnari, che lavora nel carcere di San Vittore, a Milano ed il sottoscritto, ex cappellano stagiaire in Francia, attualmente laureando alla Facoltà Valdese di Teologia con una tesi sulla pastorale carceraria. Veniamo ora al tema del convegno, la resilienza, una parola poco usata nella nostra lingua, di origine latina, che secondo Il dizionario di Zingarelli designa la “capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi”. Non è che i cappellani delle carceri si siano dati allo studio della fisica o dell’ingegneria. Il fatto è che da qualche anno le scienze sociali hanno mutuato questo termine al vocabolario scientifico per trattare di una particolare categoria di persone: i resilienti, appunto. Coloro che sono stati capaci di rifarsi una vita. La resilienza è in questo caso la capacità di un individuo di superare un grosso trauma per ricostruirsi un futuro a dispetto di quanto subito. Stefan Vanistendael, sociologo, e Jacques Lecomte, psicologo, hanno animato buona parte dei lavori dell’incontro. Lavorando sul campo e nella ricerca, sono entrati a contatto con tanti resilienti, soprattutto persone che hanno subito maltrattamenti durante l’infanzia. Secondo le loro ricerche un processo di resilienza è facilitato da due fattori che interagiscono tra loro. Il primo è quello della memoria: un individuo che tende a rimuovere, o a banalizzare, la sofferenza vissuta, difficilmente riesce a superarla. Riconoscere la propria sofferenza e riconoscersi come feriti da essa è dunque il primo passo verso la propria ricostruzione. L’altro fattore importante è quello della condivisione: la condivisione delle proprie difficoltà, innanzitutto e del processo di rinnovamento, in seguito. Quasi tutti i resilienti hanno ammesso di aver avuto un accompagnamento, non necessariamente di carattere professionale, per uscire dal loro stato di sofferenza, affrontare il loro passato e ripartire verso un futuro diverso. “Alla fine di questo processo – ci ha detto Lecomte – si scopre che il processo non ha una fine”: i resilienti si caratterizzano anche per il loro realismo pragmatico. Chi ha subito una forte sofferenza sa che nulla era perduto quando ha toccato il fondo e che nulla sarà mai definitivamente risolto. Il concetto di resilienza è spesso associato alle vittime di violenze. Noi, come cappellani, abbiamo a che fare con persone che, oltre a soffrire del proprio stato di detenzione, hanno, in taluni casi, generato sofferenza, dopo una vita di violenze subite e indotte. A questo punto, anche i processi di resilienza si complicano. Ricostruirsi significa, dunque, affrontare il proprio passato senza cancellare non solo la sofferenza subita, ma anche quella generata. È questo che chiediamo a coloro che scontano una pena? Se la risposta è affermativa, siamo sicuri che pena e detenzione, come sono intese oggi, inducano un processo del genere? E il nostro lavoro pastorale, può esso incidere in un processo di resilienza? Se sì, come? Resilienza è una parola nuova, ma i problemi, come si vede bene, sono quelli di sempre. Non che il convegno sia riuscito a dare delle risposte definitive, ma incontrarsi è stato utile, perché nella parzialità e differenza delle esperienze di ciascuno si trovano spesso delle soluzioni insperate, anch’esse parziali, forse, ma reali. È necessario constatare, a tal proposito, che il piccolo mondo protestante italiano, dovrebbe adoperarsi perché coloro che lavorano nelle carceri possano incontrarsi più regolarmente. Costituire una rete nazionale diventa indispensabile per la crescita nel nostro lavoro.
Ciccio Sciotto
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