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Mediazione
sociale: la giustizia fra pari
Paolo Giulini - Adolfo Ceretti - Francesca Garbarino La mediazione è un fenomeno
plurale che per mezzo di specifiche tecniche operative interviene in differenti
luoghi del conflitto. La si può pensare, allora, come
pratica informale di regolazione dei conflitti della famiglia; in California la
mediazione familiare è oggi divenuta addirittura obbligatoria per legge, ed in
uno Stato vicino a noi, la Francia, è stata oggetto di una recente riforma che
consente la giudice di designare, con il consenso delle parti, un terzo
mediatore al fine di pervenire ad un accordo autonomo tra le stesse. Ancora, di mediazione
si parla nell’ambito del lavoro e delle relazioni sindacali, nel
settore della protezione degli interessi diffusi, in materia di consumo e di
tutela dell’ambiente e persino nel campo della politica internazionale, dove
la figura del mediatore era già contemplata nello statuto della vecchia Società
della Nazioni. Una terra di mezzo
Anche la “mediazione” penale
è un fenomeno plurale che difficilmente si presta ad una precisa definizione.
Vi è la classifica tra i programmi di prevenzione post delictum in ambito non
penale, definendola come composizione privata dei conflitti, attraverso la
partecipazione di un terzo imparziale tra vittima ed aggressore: chi la
definisce come un “nuovo approccio, alternativo al tradizionale sistema di
giustizia penale… al fine di risolvere il conflitto sottostante al reato e di
favorire da parte dei due protagonisti, la comprensione dei fatti delittuosi,
cercando così di ripristinare la pace sociale” ( G. Ponti, Compendio di
criminologia . Cortina 1994) chi
ancora la considera come una “terra di mezzo” che si caratterizza
diversamente dagli ambiti di gestione della differenziazione, tipici della
logica antinomia del controllo penale, “come luogo di ricostruzione della
connessione”, attraverso l’individuazione di uno spazio sociale al cui
interno possano svilupparsi gli incontri ricostitutivi tra reo e vittima
e prevedere un’attività di risoluzione dei conflitti, anche di
rilevanza non giuridica, che maturano all’interno di determinati contesti”
(G.V. Pisapia, Editoriale Rassegna Italiana di criminologia, Anno II, n. 4,
1993). Jean Pierre Bonafè-Schmitt, in un suo recente libro, definisce la
mediazione come “un processo, il più delle volte formale, con il quale un
terzo neutro tenta, mediante scambi tra le parti, di permettere loro di
confrontare i punti di vista e di cercare, con il suo aiuto, una soluzione al
conflitto che li oppone”. C’è infine chi attribuisce
alla mediazione addirittura una valenza di “alternativa alla
giustizia” caratterizzandola quale nuova tecnica di gestione dei conflitti, e
chi sottolinea con essa l’emergere di un
nuovo modo di regolazione sociale. Nè vincitori, nè vinti
Tutti questi autori individuano
una specifica funzione per la mediazione in tutti i campi del sociale, non solo
dunque quello propriamente giuridico, sostengono che essa non possa essere
ridotta ad una semplice risposta alla crisi attuale dell’istituzione
giudiziaria, e ne sollecitano un’analisi in termini di “movimento
sociale”. Azzardano che attraverso la moltiplicazione di iniziative di questo
tipo, si può assistere ad un progressivo cambiamento di paradigma in materia di
risoluzione dei conflitti, che trova nel “consenso”, nel superamento della
logica giudiziaria del “vincente/perdente” il suo referente concettuale. La mediazione può rappresentare
dunque un valido strumento on cui accogliere il disordine e permettere a due
soggetti in conflitto di riprendere un dialogo interrotto o viceversa di crearne
uno nuovo. Tale esigenza viene oggi sempre
più disattesa nei luoghi sociali come la famiglia, il quartiere, il gruppo dei
pari, la scuola, le istituzioni religiose, il posto di lavoro. Oggi più che mai
questi Luoghi in cui tradizionalmente si
sviluppa socialità e si regolano i conflitti sono in crisi: fenomeni diversi
tra loro quali la crescita urbana e industriale, l’alta mobilità sociale, le
ondate migratorie e perfino il welfare, in epoche diverse, hanno contribuito a
strutturarli. Crisi della socialità
A poco a poco si è verificata
infatti una forma che potremmo definire di spossessamento delle solidarietà
primarie a profitto di una stabilità statale garantita dal cosiddetto Stato
assistenziale. Le strutture intermedie si sono
indebolite ogniqualvolta lo Stato si appropriava delle loro sfere di competenza.
Quando poi sono tornate in auge le politiche liberiste
(paradigmatico è il caso dell’Inghilterra), disinteressate, come è
noto, a investire nel sociale, si è determinato un vuoto ancora più gestibile. E’ proprio in questi spazi
lacerati, talvolta irriconoscibili a sé stessi, che sorgono i primi tentativi
articolati di ricostituzione delle comunicazioni e delle relazioni con
un’impostazione di carattere comunitario, caratterizzata innanzitutto come un
movimento indipendente dai poteri pubblici e dal sistema della giustizia,
animato da un fervore democratico volto in particolar modo a restituire alla
comunità l’apprendimento delle virtù della convivialità, dell’intesa
reciproca e della solidarietà. Un vademecum della mediazione
Nei programmi di mediazione
comunitaria, presenti nelle esperienze statuinenti ed in quelle realizzate in
seguito in Europa, si possono individuare alcuni principi ispiratori:
Le prime strutture di mediazione
introdotte nei quartieri di alcune città americane, prendono in considerazione
i litigi nati dalla vita quotidiana: i conflitti di vicinato, gli atti
vandalici, gli schiamazzi e la ruomorosità, i furti di lieve entità, le risse
ecc. Alla luce di questi elementi, si
pongono allora alcune questioni di fondo: . la mediazione comunitaria va
edificata in funzione delle differenti realtà locali. E’ infatti molto
diverso pensare che in quello di Quarto Oggiaro a Milano o in quello di Brixton
a Londra. Chi scrive è del tutto
consapevole delle difficoltà che
questa impresa comporta e che oggi non è possibile ipotizzare quali saranno le
esperienze di mediazione nei nostri quartieri. Per ora dobbiamo accontentarci di
conoscere le più significative vicende straniere. Week-end a San
Francisco
Nel 1997 a San
Fancisco, sorge la prima iniziativa strutturata di mediazione
comunitaria. Viene Creato un centro nel quartiere di Visitation Valley, In breve
il Community Board Programme si estende a sei quartieri della città, coprendo
nel 1981 un terzo della popolazione. Già nel 1986 si contano 400 volontari e 20
lavoratori stipendiati. Oggi si calcola che il programma
di mediazione comunitaria abbia permesso di formare più di 1600 persone alla
risoluzione alternativa dei conflitti,e riesca a essere presente su tutta la
città. I mediatori sono reclutati direttamente nel quartiere e vengono formati
con uno stage della durata di 26 ore ripartite in 15 giorni. Due week-end ed una
sessione infrasettimanale caratterizzata da una seduta plenaria e da successive
riunioni in piccoli gruppi, all’interno delle quali si svolgono giochi di
ruolo e discussioni. A tali sessioni partecipano circa
cento persone per volta, con un’equa presenza delle diverse appartenenze
etniche, generazionali e professionali. Il potere della comunicazione Al termine della formazione
ciascun volontario inizia a prendere parte alle udienze di mediazione, e poco
per volta gli vengono affidati compiti separati e specifici. C’è chi si
specializza nella fase degli incontri preliminari con le parti (casework).
Quando è segnalato un conflitto, un volontario contatta singolarmente ogni
parte per conoscere il suo punto di vista, per spiegare il senso del principio
ispiratore dei Community Board, vale a dire la risoluzione pacifica dei
conflitti e per invitare le parti a partecipare alla mediazione vera e propria. Il momento centrale della
mediazione avviene invece di fronte a tre o cinque mediatori,scelti in funzione
dell’età, dell’appartenenza etnica e dell’ambiente sociale di provenienza
delle parti in conflitto. Tale fase (hearing) è preceduta
dall’audizione del volontariato che
ha effettuato il casework, per raccogliere quanto più informazioni possibile e
stabilire una linea di svolgimento del colloquio con gli interessati. La durata dell’incontro varia
da una a tre ore. Ogni caso mediato,per essere
eseguito viene affidato ad altri volontari ( fase del follow up ), i quali
verificano il rispetto dell’accordo nel tempo. L’ideatore dei programmi,
Raymond Shonholtz, docente di diritto penale, sottolinea il loro carattere
preventivo dato che essi intervengono laddove i tradizionali strumenti
giuridico-penali non possono operare. Solo i cittadini infatti sono in
grado di prendere coscienza delle fasi iniziali dei conflitti, e “impedire”
la consumazione del reato affidandosi all’aiuto del mediatore. “Ogni altra politica di
intervento – sostiene Shonoltz – lascia che i conflitti e gli squilibri
degenerino fino ad un sistema giuridico che interviene dopo il fatto e che
lascia la vittima offesa o colpita come testimone della inesistenza della
prevenzione nel sistema di diritto”. America profonda
Senza dubbio in questi progetti
aleggiano nell’aria le virtù delle cittadine rurali dell’America
preindustriale, o i trialismi delle popolazioni indiane, “l’approccio civico
della Prevenzione” ha inoltre profonde radici nella storia nordamericana, che
tradizionalmente prevedeva istituzioni religiose e comunitarie per la gestione
rapida dei conflitti e la promozione dei valori sociali di comunità. L’idea di fondo è di non
negare la storia del conflitto, di non ignorare le dinamiche interpersonali.
Molti conflitti sarebbero da considerare come una sorta di manifestazione della
volontà di commettere un reato, che spesso si consumerebbe perché non si è
affrontato il dissidio in modo appropriato, vale a dire in modo comunitario. Un gran vantaggio degli approcci
comunitari è di operare all’interno delle relazioni interpersonali. Se si
tiene conto che, come rivelano le ricerche criminologiche, la gran parte delle
violenze e degli abusi che suscitano allarme sociale e paura avvengono
all’interno di relazioni già strutturate ( convegni, familiari, soci in
affari, vicini di casa, ex amanti....), ci
si chiede, forse con un pò di ingenuità, come mai si investa – anche
in termini economici – così tanto a favore di sistemi chiamati ad intervenire
dopo l’accadimento del fatto, e non altrettanto, anzi quasi per niente per le
politiche di prevenzione. La gran parte dei potenziali rei
è infatti conosciuta dalla Polizia, dalle famiglie, dagli amici dai vicini o
dalle associazioni religiose e ricreative,molto prima che il conflitto degeneri
in scontro o reato. “Gli insegnanti, i preti,i
notabili del posto, i vicini, conoscono bene dalle loro origini questi
conflitti, ma spesso sanno quanto è inefficace e stigmatizzante la giustizia e
fanno appello ad essa solo quando la situazione è degenerata” (G. Baubault,
Le “Community Board” del San Francisco” in “Non-Violence Actuality”
1993). I ritardi della giustizia finiscono così per compromettere anche la
sicurezza e l’armonia della comunità, dove al disordine viene ad associarsi
la paura del crimine. Oggi il cosiddetto “modello
comunitario” di mediazione rappresenta comunque una piccola minoranza tra i
700 e più progetti di mediazione attivi in USA. Nel contempo è stata
costituita un’associazione nazionale di supporto e coordinamento di tutti i
progetti di questo tipo, la National Association for community Mediation proprio
per ribadire quel loro carattere autonomo di movimento finalizzato al
cambiamento sociale, ed al miglioramento della qualità della vita. Ma nel corso degli anni, anche
per la grave disillusione subita in seguito alle politiche reaganiane ( le
famose Reagonomics), più che l’azione collettiva di cambiamento ed il
miglioramento delle relazioni interpersonali, si sono privilegiati progetti di
educazione e di formazione alla mediazione. Così oggi negli USA, i programmi
di “mediazione comunitaria” sono attivi soprattutto nelle scuole ed hanno
carattere formativo. La gestione cooperativa dei conflitti viene insegnata a
proposta come una nuova risorsa da attivare persino tra gli scolari delle scuole
elementari. Questa idea di “mediazione tra
pari”, in pieno sviluppo negli Usa, ha suscitato un vivo interesse negli
ultimi anni sotto l’impulso degli educatori, sempre più costretti a
confrontarsi con una forte crescita della violenza proprio all’interno delle
istituzioni scolastiche. Si è incarnata nei Programmi di Risoluzione
Alternativa dei Conflitti che sono finanziati dalle scuole pubbliche e da enti
indipendenti senza scopo lucrativo. Nella sola New York il programma
coinvolge 1500 insegnanti e 45.000
studenti in 120 scuole. Le botteghe del diritto L’esperienza comunitaria
californiana è stata ripresa in altri Stati degli Usa e in Paesi come il Canada
l’Inghilterra e la Francia. In Fancia in particolare, si è sviluppata
un’interessante variante della mediazione comunitaria. Stiamo parlando delle “Botteghe
del diritto ( boutiques de droit ) che sorgono in alcuni quartieri periferici di
Lione fino al 1980, e che secondo il loro principale ispiratore, il sociologo
del diritto Bonaè-Schmitt, fanno “mediazione sociale”. La Boutiques de droit si situano
in quella corrente di idee che individua il quartiere di appartenenza quale
luogo pertinente in cui i più piccoli conflitti nati dalla vita quotidiana, che
in qualche caso possono degenerare fino a provocare disordini e sommosse,
possono essere istituzionalizzati e regolati. Il modello di questa esperienza
ricalca quello dei Community Board, ma qui innanzi tutto si scommette su energie
comunitarie di basi, capaci (...) di dare qualità sociale al territorio anche
nelle condizioni di un suo maggiore degrado e marginalità” (D. Scatolero,
Vittime, insicurezza e territorio: prospettive d’azione; in “Dei delitti e
delle pene”, 1992, p. 182). E’ proprio questa attenzione alle condizioni di
degrado più che alle tecniche di risoluzione dei conflitti, a caratterizzare in
senso “sociale” il progetto di Lione. Anche nel caso delle “Botteghe del
diritto” non si tratta di “fare giustizia”,ma piuttosto di ricostruire
luoghi di socializzazione in quei quartieri svantaggiati dove meglio si è
manifestato lo scacco operato dalle tradizionali politiche di regolazione dei
conflitti. Tanta polizia non significa ordine
Su un punto in particolare Bonafé-Schmitt
non ha incertezze: non è aumentando il numero degli operatori sociale, dei
magistrati, dei poliziotti, che può essere risolta la disorganizzazione
sociale. A suo giudizio, si tratta di mettere fine ad una forma di taylorismo
sociale e di ripensare i modi di regolazione sociale nei quartieri. Da qui
l’esigenza di creare delle strutture “vicine” agli abitanti, spogliate di
ogni formalismo, che permettano di risolvere nelle migliori condizioni, i
conflitti nati nella vita quotidiana. Va aggiunto che in tali progetti la
mediazione è vista in chiave non funzionalistica. In altri termini, essa non
vuole supplire alle inefficienze o alle carenze del sistema giuridico, ma non si
oppone neppure quale alternativa alla giustizia. Nasce al contrario, quale
fenomeno plurale che si inserisce nell’ambito di una crisi del sistema di
regolazione sociale, come luogo di socializzazione che propone una via
differente dalla altre, più conosciute o praticate, di regolare iconflitti, per
marcare insomma una rottura con il formalismo, il professionalismo ed il
razionalismo di cui è impregnato il nostro modo di guardare di risolvere le
controversie. Come sempre, anche qui non si tratta di determinare chi abbia
torto o chi abbia ragione, ma piuttosto di ristabilire la comunicazione, di
partecipare alla ricostruzione del tessuto sociale e di creare, laddove è
possibile, nuove solidarietà. Non professionisti
Nessun criterio di competenza
professionale e tecnica determina a scelta dei mediatori, i quali devono essere
abitanti del quartiere e ricevere una “formazione in modo tale da non sentirsi
come gli avvocati della loro comunità, ma piuttosto come traiots d’union tra
di esse” ( Bonafé Schmitt, La mediation une joustice douce, Syros
Alternative, Paris, 1992). Ciononostante le boutiques anno anche il compito di
fornire informazioni e consigli giuridici in modo del tutto neutrale. Tale
attività, detta “mediazione/conoscenza”, informa l’utente di tutti gli
strumenti che ha a disposizione per risolvere le sue controversie, e tra questi
è inclusa la mediazione stessa, sarà sulla base di una libera volontà
dell’interessato che verrà scelta, eventualmente, la possibilità di
mediare. Grazie a questo legame tra
informazione giuridica e mediazione i casi presi in considerazione dalle
boutiques provengono dalla comunità e non dalla trasmissione della notizia da
parte dell’autorità giudiziaria. Si può parlare infine di
mediazione anche in termini di riparazione. Con la mediazione si tenta di
ottenere anche la riparazione di un sopruso o di un eventuale danno.
Diversamente da ciò che avviene all’interno delle procedure giudiziarie, la
decisione di riparare ad n eventuale torto non è l’esito di un giudizio dato
da un terzo estraneo, ma l’esito di un processo di discussione tra autore e
vittime, in cui la forma di risarcimento più frequente è quella
economica, ma può anche risolversi in un puro gesto simbolico. Le parti
possono anche stabilire eventuali norme di comportamento per regolamentare le
loro relazioni future. Avviarsi verso la riparazione significa allora una
responsabilizzazione reciproca di entrambe le parti in conflitto. Primo: sdrammatizzare
Alcuni mediatori incontrati nella
comunità di Saint Priest, vicino a Lione, ci hanno raccontato la loro
esperienza. Qui il locale “Consiglio
Comunale di Prevenzione della delinquenza”, ha finanziato, nell’autunno del
1992, un gruppo operativo di mediatori volontari, costituitisi a loro volta in
associazione. Questi prendono in carico i
conflitti della vita quotidiana come le liti di vicinato, i dissidi familiari o
quelli tra organismi locali. Qui le varie lamentele e le situazioni di conflitto
vengono trasmesse al centro di mediazione
sulla base di convenzioni autonome, rispettivamente concordate con il Sindaco,la
polizia ed il locale “Istituto delle locazioni abitative a prezzo moderato”
(HLM). Si calcola inoltre che i privati che si rivolgono direttamente al centro
costituiscano il 30% dei casi mediati. Una mediazione dura circa una
decina di ore, tra incontri iniziali separati e mediazione vera e propria.
Quando nel marzo di quest’anno ci siamo recati a Saint Priest, ci è stato
spiegato che il primo compito dei mediatori è sdrammatizzare “Spesso le parti
ci raccontano dieci volte la stessa cosa – ci ha detto uno di loro – ma è
per questo che vengono da noi. Dopo che ne hanno parlato così tanto non è più
la stessa cosa”. Nei loro incontri con le parti in conflitto,la sensazione più diffusa provata dai mediatori è che le persone tendano ad assumersi sempre meno le loro responsabilità: che vogliano che siano gli altri a prendersele in carico. Viceversa il tentativo non direttivo e non autoritativo del mediatore di ripristinare la comunicazione e l’incontro tra le parti consente di recuperare una doppia fiducia; nei confronti dell’altro attraverso la comprensione e dalle diversità, esaltandole; assume il conflitto in positivo e quando può dissolve nella tolleranza.
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