Lettera a un detenuto del Magistrato Elvio Fassone
     
   Torino 18 Maggio
  1989
    
«Caro..., grazie della sua lettera. 
    Ho provato a stendere la comunicazione che le avevo promesso, ma mi riesce 
    burocratica e fredda. Preferisco scrivere in risposta a lei, e lei se vorrà 
    presenterà queste righe come un piccolo contributo alla mostra e al 
    convegno.
Lei dice che la vostra iniziativa è nata 
    perché un po' di fiducia venga concessa a chi ha sbagliato, anche 
    gravemente, e magari più volte; che vi circonda un muro di diffidenza, e che 
    se qualche breccia sembra aprirsi ogni tanto in questo muro, subito subentra 
    la paura che l'esperimento fallisca e la breccia si richiude o resta troppo 
    piccola.
Credo di capire: lei, voi avete bisogno della 
    fiducia per avere speranza, e della speranza per poter dare un senso ai 
    vostri giorni. Gli altri (noi) hanno forse desiderio di accordare questa 
    fiducia, ma hanno insieme il timore di vederla tradita, la paura dell'abuso 
    che annulla la fiducia e la speranza.
E' come per il 
    disarmo: nessuno abbassa la guardia se anche l'altro non lo fa, e nessuno lo 
    fa per primo perché teme che l'altro ne approfitti. E così continuiamo a 
    vivere con la paura, e l'umanità si dissangua in armamenti. Solo un alto 
    senso di moralità collettiva può far superare la paura, può suggerire la 
    fiducia, può indurre a esporsi al rischio di perdere. E questa moralità 
    collettiva la legge non la può dare, e non la possono dare nemmeno le 
    istituzioni e gli uomini preposti ad applicare la 
    legge.
 La legge può solo prendere atto che un delitto, 
    specialmente un delitto grave, è una lacerazione profonda del tessuto 
    sociale nel quale tutti viviamo: una persona uccisa, o violentata, o 
    sequestrata, o indotta a drogarsi, è un sasso gettato nell'acqua della 
    sofferenza, Le cui onde si propagano senza che se ne possa vedere la fine. 
    Per questo la collettività si sente turbata dal delitto nei suoi sentimenti 
    forti, e vuole una risposta per riequilibrarsi: ieri questa risposta era la 
    morte, ieri l'altro i supplizi, oggi la perdita della libertà, domani forse 
    una riparazione costruttiva, nel segno della 
    solidarietà.
 Ma questo cammino nella ricerca di dare 
    un senso alla pena si scontra con quella parte della società che vuole 
    ancora la vendetta, perché non ha raggiunto un sufficiente livello di 
    moralità; e si scontra con quella parte dei condannati che sono portati ad 
    abusare di una legislazione fattasi più civile, perché non hanno raggiunto 
    un sufficiente livello di responsabilità. L'abbandono della pena, o la sua 
    riduzione in confini esigui, si risolve in uno stimolo indiretto al delitto, 
    perché suona come una promessa d'impunità a beneficio di chi, di fronte al 
    delitto, ne fa semplicemente una questione di convenienza e di prezzo da 
    pagare.
 D'altro canto, il rifiuto di fiducia verso chi 
    ha deciso di rompere con il suo passato rischia di mandare a vuoto lo sforzo 
    di costruirsi un futuro diverso, se tanto il trattamento rimane uguale per 
    tutti, per chi ha maturato scelte nuove e per chi insiste nelle scelte 
    vecchie.
 Questo incrocio di tensioni contrapposte 
    produce un conflitto che la legge è in grado di risolvere solo in minima 
    parte, e che solo un surplus di moralità può comporre. Il detenuto deve 
    dedicarsi alla costruzione di una sua vita migliore, anche a rischio che il 
    suo sforzo non sia riconosciuto. E la collettività deve accordare una chance 
    al detenuto, anche a rischio che il detenuto ne abusi.
 
    L'uno e l'altra, insomma, devono agire a rischio, a fondo perduto, mettendo 
    in conto di non ottenere quello che cercano: e l'agire a rischio è l'esatto 
    contrario dell'agire per calcolo, quello che ha ispirato ieri il delirio, 
    oggi la volontà di retribuire con intenti punitivi.
 
    Chi debba rischiare per primo è difficile dire, anche perché per ciascuno è 
    più facile affermare che tocca all'altro. La collettività chiede al detenuto 
    che sia lui a incominciare, a dimostrare il suo cambiamento, perché si sente 
    in credito, perché il detenuto ha «mancato per primo» e sembra giusto che 
    sia lui a mettere la prima pietra di un nuovo patto. Il detenuto, a sua 
    volta, chiede alla società che sia lei a fidarsi, perché in nessun delitto 
    la società può davvero chiamarsi fuori, e perché lui - detenuto - alla fin 
    fine non può offrire altro che la sua parola e il suo impegno, e dunque 
    bisogna che sia la comunità a rischiare e ad andare a 
    «vedere».
 Se ci sì ferma a questo gioco di specchi, si 
    va allo stallo, come per il disarmo. Credo che dall'impasse si debba, e si 
    possa, uscire solo capovolgendo l'ottica del calcolo, cioè innescando un 
    processo di fiducia reciproca. Per far questo non bastano i gesti di fiducia 
    occasionale e sporadica che già sono possibili, come un permesso accordato 
    con qualche coraggio, o un rientro effettuato vincendo la tentazione di non 
    rientrare. Questo è importante ma è poco.
 Per uscire 
    dalla posizione di stallo bisogna offrire al detenuto delle occasioni vere e 
    reali di dimostrare la serietà dei suoi propositi, e chiedere al detenuto di 
    dimostrarla senza oscillazioni. Se con il delitto egli ha contratto un 
    debito con i suoi simili (e io credo che questa immagine vada accertata, 
    perché la comunità della quale si fa parte non è un'astrazione, ma una 
    realtà di relazioni umane), questo debito va pagato: ma va pagato non con 
    una sofferenza inerte e degradante, ma con uno sforzo positivo e 
    costruttivo. Non male per male, ma bene per 
    male.
 Il debito, la mancanza verso i doveri di 
    solidarietà, vanno risarciti non con il sacrificio della libertà, ma con un 
    buon impiego di questa libertà, con una prestazione a favore della comunità 
    ferita. I servizi di pubblica utilità sono, a mio giudizio, la pena di 
    domani, la risposta di una collettività che non pratica né la vendetta, né 
    l'abbandono. E, dall'altra parte, sono la risposta di un detenuto che offre 
    non solo un proposito più o meno credibile, ma la disponibilità ad essere 
    messo alla prova, la realtà di un impegno, di un lavoro, di una 
    fatica.
 Su questa linea abbiamo cercato di muoverci 
    qui da noi, in Piemonte, e abbiamo ottenuto dalla Regione il varo di una 
    legge che prevede uno stanziamento (per ora modesto) al fine di retribuire 
    quei detenuti che accettano di trascorrere la loro pena, o parte di essi, 
    lavorando in interventi a difesa dell'ambiente. E' solo un piccolo passo, 
    per ora limitato a pochi detenuti considerati a bassa pericolosità. Ma 
    domani potrà essere esteso a un numero maggiore, e anche a detenuti con pene 
    più elevate.
 Spero che queste mie considerazioni la 
    trovino, e vi trovino, d'accordo. E spero che lei abbia (e voi abbiate) la 
    forza e la perseveranza di andare avanti nel vostro cammino, anche a fondo 
    perduto, anche se i riconoscimenti all'inizio saranno modesti. E spero 
    ancora che la comunità sappia cogliere il mutamento dei cuori, se mutamento 
    c'è.
 Vivi auguri.
    
    Elvio 
    Fassone