Un'idea di mediazione
penale
di Luciano Eusebi
in Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 1999,
con il titolo Una proposta per l'ONU
Tempo fa invitai un
laureando che voleva fare il giudice a essere un giudice buono: rispose,
ovviamente, «sarò un giudice giusto», così fu semplice fargli notare come egli
desse per scontata, ma anche per necessaria, l’estraneità della giustizia al
bene. Vi era, a monte della sua visione, un topos della nostra cultura: l’idea
che reagire al male implichi un meccanismo di indispensabile reciprocità, dal
quale dipenderebbe il ristabilimento del bene; in altre parole, l’intimo
convincimento di un’intrinseca fecondità del male con cui si risponde al male
e, forse, del fatto che solo la ritorsione — in questo senso l’unico vero male
— renda veramente male il male, che di per sé — ove non fosse seguito da un
altro male — risulterebbe appetibile, vale a dire buono.
In tale
prospettiva il bene sarebbe prodotto dallo scontro che mira ad annientare il
nemico (il portatore del negativo, il competitore, talora — semplicemente —
l’altro) o, se si vuole, dalla radicalizzazione di una frattura. Nulla esprime
meglio della dialettica di Hegel questo filo rosso, blasfemo e tenace,
soggiacente al pensiero occidentale. Non è dunque un caso che quest’ultimo
percepisca la giustizia, in quanto bilancia sostenuta da una spada, come
realtà di divisione, che sancisce il lacerarsi dei rapporti, non il loro
risanamento. E non è un caso, per quanto attiene al diritto penale, che ci si
attenda il massimo del bene — la miglior prevenzione possibile dei reati — dal
massimo ricorso al fattore forza (la spada), in termini di deterrenza o di
neutralizzazione, se non di esplicita vendetta: dimenticando che gli
ordinamenti in grado di ottenere buoni tassi di prevenzione sono quelli che
esprimono, piuttosto, un’operatività elevata del fattore consenso, ossia che
fanno leva sull’ambizione del diritto di poter ottenere, a differenza degli
ordinamenti criminali, un’adesione libera da parte dei cittadini alle sue
norme. Niente, in effetti, depone per la migliore efficacia di un sistema
punitivo pensato secondo il modello, comunque lo si giustifichi, del malum pro
malo, rispetto a un sistema che recuperi, pur nella sua austerità, logiche
comunicative di mediazione dei conflitti. Questo assunto, peraltro, va
ulteriormente motivato.
Non può non sorprendere, innanzitutto, che
l’attesa di verità, o se si vuole la riaffermazione del bene, rispetto a una
vicenda criminosa cerchi risposta in un processo che è costretto a escludere
il vero dal suo orizzonte: dinanzi a una mano che accusa per applicare un male
la sincerità non ha senso; se emerge, porta solo danni all’imputato. Del
resto, il diritto non si aspetta che questi ricerchi un dialogo. Non fa parte
della regola del gioco: ineccepibilmente, nemo tenetur se detegere. Così,
tuttavia, il significato più importante del processo, che coincide con
l’esigenza autentica della vittima — capire ciò che in concreto è accaduto,
affermare che non doveva accadere, dichiarare che non dovrà più accadere —
subisce una frustrazione inevitabile, il cui appagamento (per mancanza di
altri sbocchi) attraverso l’esemplarità della pena è solo fittizio.
Il
fatto che la politica preventiva sia stata ampiamente concepita come minaccia
di una sofferenza da applicarsi, scontata l’ampiezza della cifra oscura, dopo
la lesione di un certo bene ha fatto sì, del resto, che si trascurasse la
predisposizione di serie strategie intese a intervenire sulle circostanze che
fungono da presupposto dell’agire criminale. Si tratta di un indirizzo che
avrebbe dei costi: controllare seriamente i fattori di rischio nei processi
produttivi, adoperarsi per eliminare i paradisi fiscali o esigere una vera
trasparenza fiscale non sono strategie indolori; esigono, piuttosto, una
società la quale si avverta corresponsabile verso tali circostanze,
rinunciando a percepirsi giusta perché ha predefinito, con le sue condanne, i
rappresentanti esclusivi del male.
Proprio l’aver inteso l’intervento
penale come inflizione di una sofferenza che qualcuno deve patire non è forse
alla base, inoltre, della tradizionale disattenzione verso l’accumulo dei
profitti criminali, i quali, finché sussistono, fungono da volano delle
condotte illecite e ne rendono costantemente surrogabili gli autori? E non è
forse la medesima concezione che continua a impedire, in Italia,
l’introduzione di forme di responsabilità penale diretta delle imprese, con
l’effetto di mantenere blindati i profitti illeciti conseguiti attraverso lo
schermo della personalità giuridica e di configurare un interesse oggettivo
dei soci a che gli amministratori agiscano per conseguirli?
A ben
vedere, poi, è ancora l’idea della pena intesa come sofferenza retributiva
che, mantenendo il riferimento di principio al modello egemone della
detenzione, rende di fatto assurdo eseguire molte delle pene formalmente
inflitte, con inevitabili riflessi di ineffettività del sistema, non solo e
non tanto rispetto alla cosiddetta criminalità diffusa, ma anche rispetto, per
esempio, all’intera gamma dei reati più o meno nuovi attinenti alla sfera
economica. Proprio il tipo di conseguenza drammatica, il carcere, che resta
l’esito possibile di quasi tutti i processi penali esige, d’altra parte, il
massimo di complessità delle regole procedimentali, laddove altre forme
d’intervento, senza demolire affatto le garanzie, potrebbero avere modalità
applicative in certa misura diverse.
Infine, non è da trascurarsi la
circostanza per cui un sistema che infligge programmaticamente il male finisce
per precludersi la collaborazione all’intento preventivo di coloro che meglio
potrebbero perseguirlo, in quanto legati da vincoli ambientali (di lavoro,
amicizia, parentela) con l’agente potenziale di reato, ma non sono disposti ad
agire secondo una modalità concepita come mero danno nei confronti del
medesimo.
Con l’alternativa rappresentata dall’idea di mediazione
penale viene in gioco non la mera ricerca di spazi, sempre disponibili, per
qualche esperienza pilota, né l’emergere di un’utopia, pura quanto sterile, da
contrapporre al diritto: essa impone, piuttosto, di riconsiderare in radice il
modello corrente di giustizia, in modo da pervenire a una seria
riprogettazione complessiva della politica criminale e delle strategie
sanzionatorie.