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Tesi per la riforma del codice penale Colpa e pena
Intervento al convegno, Luciano Eusebi
Bergamo, Centro Congressi Giovanni XXIII, 2 maggio 2000
Prima che si ponga la questione “giustizia” credo che nella fase di riforma sia estremamente importante porre la questione politico-criminale su che cosa vuol dire oggi fare prevenzione dei reati. Troppo rapidamente corriamo a considerare lo strumento di soluzione e di risposta tradizionale, senza farci carico di una progettazione complessiva. Al mondo ogni giorno vengono commessi forse 400-450 omicidi volontari. Di essi il diritto penale si occupa, ma al mondo ogni giorno accadono quasi 150.000 morti evitabili, per ragioni d'ingiustizia, di guerra, di fame, di prevaricazione economica, di violazione pianificata di regole comportamentali finalizzate alla tutela della dignità umana. Di tutto questo settore il diritto penale si è scarsamente occupato. Allora un serio approccio al problema della criminalità – lo dobbiamo dire nella fase in cui si riforma il codice penale – esige anzitutto la progettazione di serie politiche preventive, le quali intervengano sui fattori economico-finanziari, sui fattori di disagio individuale, sui fattori sociali che determinano spazi percorribili per l’adozione di condotte offensive di beni fondamentali per la convivenza civile. Fare una simile politica preventiva deve coinvolgere tutti i settori dell’ordinamento giuridico e non limitarsi all’uso dello strumento penale. La prevenzione penale non è tanto e solo una questione di diritto penale, è una questione di diritto civile, di diritto societario, di diritto tributario, di diritto amministrativo e, naturalmente, è una questione di politiche sociali, è una questione di presenza educativa. Ciò implica che sia socialmente percepito un senso maturo di corresponsabilità circa la genesi dei fattori summenzionati. La mafia utilizza spazi ben precisi, percorribili per il conseguimento dei suoi fini. Il senso di corresponsabilità sociale, ben diversamente da quanto pare emergere nei dibattiti superficiali di questi mesi sulla questione criminale, è assolutamente essenziale per progettare una buona politica criminale, perché una buona politica criminale richiede a tutti i cittadini l’assunzione di determinati oneri e la disponibilità a tenere dei comportamenti virtuosi. Troppo spesso invece noi assistiamo ad una domanda di giustizia che non mette per nulla in gioco la disponibilità a fare qualche cosa per mantenere la tenuta dei livelli di legalità nel nostro Paese. Dunque l’interesse penalistico non va assorbito dalle figure di reato tradizionali, sulle quali invece continuamente viene stimolata l’attenzione dell’opinione pubblica, non va assorbito dalle figure di reato tradizionali consistenti nella già avvenuta lesione di un certo bene, ma l’interesse penalistico va ampiamente riferito anche al controllo delle condotte che vìolino doveri comportamentali, determinando rischi significativi diretti o indiretti di offesa dei beni giuridici. Solo tale controllo, che – si noti – può fare ampio ricorso a sanzioni di tipo innovativo, è in grado infatti di determinare un’importante contrazione complessiva, a livello globale, in tutto il mondo, delle lesioni evitabili di beni primari. Solo una politica di questo genere può far sì che le 150.000 morti evitabili al giorno diminuiscano, perché solo una politica di questo genere è in grado di incidere sui poteri reali che pianificano l’indifferenza alle esigenze di tutela dei beni primari e soprattutto dei soggetti più deboli. Queste considerazioni rimandano peraltro ad una riflessione di fondo, tanto più importante in un convegno promosso in ambito ecclesiale, sul senso della giustizia. Credo che ci sia un punto di convergenza forte tra la dimensione di riflessione morale e la consapevolezza razionale dei dati che provengono dalle scienze criminologiche nell’affermare che l’efficacia preventiva dell’ordinamento penale dipende assai di più dalla sua capacità di far leva sul fattore “consenso” che non sul fattore “forza”, vale a dire dalla sua capacità di rapportarsi al contesto sociale e all’agente di reato, tale da favorire scelte di adesione convinta al rispetto delle norme piuttosto che in termini di mera intimidazione o neutralizzazione. L’esperienza internazionale mostra del resto che i tassi migliori di prevenzione della criminalità non si riscontrano affatto nei Paesi i cui ordinamenti fondano la strategia preventiva sulla violenza, complessivamente intesa, degli apparati sanzionatori. Fa una migliore prevenzione l’ordinamento che si preoccupa di tenere alto il livello di consenso dei cittadini e perfino degli agenti di reato ai precetti normativi. Un ordinamento che dialoga con la cittadinanza solo in termini di forza, di minaccia intimidativa e di neutralizzazione, non è in grado di ottenere una buona prevenzione. Del resto, da Beccaria sappiamo bene che conta di più la capacità di intercettare i comportamenti criminali e di bloccare i vantaggi che derivano dai comportamenti criminali, che non l’esemplarità della pena, la quale sconta l’elevatezza della cifra oscura, cioè del numero dei reati che non vengono scoperti. D’altra parte una politica di pura neutralizzazione sconta la consapevolezza del fatto che, se sono in grado di neutralizzare la singola persona fisica, non sono in grado attraverso la neutralizzazione di questa singola persona, di incidere automaticamente sui tassi di criminalità. Se in una città in cui ci sono 100 rapinatori ne prendo 30, ma non lavoro perché nella città vengano meno le opportunità di base, le opportunità di ordine economico, di carattere sociale che danno luogo a 100 posti di rapinatori, di lì a una settimana quei 30 posti di rapinatori che sono stati liberati verranno immediatamente occupati da altri individui. La politica criminale è qualche cosa di ben più complesso. In particolare se conta di più il fattore “consenso” che il fattore “forza”, se i 2 milioni di detenuti degli Stati Uniti con pene di morte applicate in maniera indecorosa (ovviamente la pena di morte è indecorosa in quanto tale, per carità), non sono in grado di garantire una prevenzione migliore, allora dobbiamo tenere presente che l’orientamento al recupero sociale del condannato, lungi dal costituire un cedimento rispetto alle esigenze preventive, mira a un obiettivo suscettibile di consolidare in maniera rilevantissima l’autorevolezza dei precetti normativi. Nulla più che il recupero di un agente di reato conferma la vigenza di un ordinamento giuridico. Ma proseguendo in questa riflessione si deve ulteriormente affermare come sia fondamentale che l’idea di giustizia sottesa all’applicazione della pena si discosti dall’ottica secondo cui quest’ultima, al di là dei fini perseguiti, debba essere concepita come sofferenza che si oppone a sofferenza, frattura che si aggiunge a frattura, come male che risponde al male. Questo è il punto cardine, è il punto fondamentale: dal male non ci si può attendere alcun bene. Questa affermazione vale dal punto di vista etico, come dal punto di vista razionale. Sarà complesso certamente rispondere al quesito su cosa significhi agire secondo il bene nell’ambito della politica criminale; ma è un passaggio decisivo non immaginare la risposta al reato secondo la logica per la quale fini positivi di prevenzione di consolidamento dell’ordinamento giuridico siano desumibili, dal punto di vista teorico e pratico, in una logica di contrapposizione di male al male. Dunque l’idea della giustizia non deve più essere quella della bilancia, l’idea secondo la quale, chissà per quale ragione razionalmente sostenibile, può aversi un guadagno dal mero meccanismo dell’aggiunta di un male a un altro male. Certo, da più di un secolo diciamo che la pena non è inflitta in un’ottica di questo genere; si dice che la pena dovrebbe essere in grado di ottenere finalità preventive, generali e speciali, ma nei suoi contenuti questi fini dovrebbero essere il risultato pur sempre della contrapposizione di una sofferenza a un’altra sofferenza e questo è irrazionale. Piuttosto va recuperata l’idea di una risposta sanzionatoria che cerchi una composizione rispetto all’innegabile frattura dei rapporti intersoggettivi, rappresentata dal reato. Risposta che confermi la vigenza del diritto operando di conseguenza in senso preventivo. All’idea della bilancia può essere contrapposta l’idea della giustizia non della separazione ma della composizione, per quanto la lacerazione derivante dal reato possa certamente essere molto profonda; tenendo presente peraltro che nell’ambito in cui si tratti del controllo di condotte pericolose, quelle condotte sovente pianificate lucidamente, premeditatamente, in ambito economico secondo logiche di indifferenza alla tutela di beni primari, nell’ambito cioè in cui si tratti di controllo di condotte pericolose, a prescindere dalla già avvenuta causazione di un evento, appare del tutto legittimo che il diritto contrasti le medesime con sanzioni agenti sugli interessi soprattutto economici, i quali ne costituiscono il movente. Si dice sovente “Ma in un’ottica di composizione che senso ha il drastico intervento patrimoniale o pecuniario?”. Ebbene l’intervento patrimoniale o pecuniario mira a intervenire in quei settori dove siano in gioco condotte rischiose, condotte pianificate nell’ottica di cui dicevo. In questo settore è perfettamente legittimo che si contrasti il perseguimento di un interesse economico con un intervento molto efficace, molto consistente da parte dello Stato in senso preventivo. Dalla visione di una pena intesa come sofferenza, intesa come frattura che si contrappone a un’altra frattura e dunque come male che deve essere patito da una persona fisica, è derivata la centralità del carcere che tuttora caratterizza il sistema punitivo italiano e che non risulta affatto funzionale a fini preventivi. La centralità del carcere non è funzionale a fini preventivi. Questo deve essere detto con molta forza all’opinione pubblica. Tra l’altro bisogna anche ricordare che la centralità del carcere è funzionale a un’idea del diritto penale che continua a colpire gli outsider sociali. Di fatto la popolazione carceraria è tuttora formata in maniera quasi plebiscitaria da outsider sociali. Solo un diritto penale che si decide a intervenire seriamente anche in altri ambiti sociali, anche in altri ambiti del potere, anche in quegli ambiti da cui dipendono le 150.000 morti evitabili, sarà un diritto penale che – paradossalmente, se volete – coniugherà modalità diverse di risposte al reato. Perché la pena carcere non si rivela funzionale alla prevenzione? Le ragioni sono molte, possono soltanto essere sinteticamente richiamate. La più evidente forse è questa: oggi si parla di ineffettività dell’applicazione della pena e questo è per certa misura vero, ma l’ineffettività dell’applicazione della pena, soprattutto delle pene di media o breve durata che non riguardano gli outsider sociali (perché quelli per tante ragioni, poi in carcere ci vanno lo stesso, perché sono recidivi e quant’altro) si riferisce soprattutto all’ambito nuovo dei reati di natura preventiva e a tutela anticipata che caratterizzano in particolare l’intervento nel mondo dell’economia, nell’ambito dei mercati finanziari ecc.; questo tipo di intervento oggi lo Stato lo utilizza sempre, perché lo strumento a disposizione è solo questo, la pena detentiva. Ma la pena detentiva di breve o media durata non può essere eseguita, non solo per ragioni di spazio, ma perché non sarebbe utile, sarebbe controproducente da un punto di vista preventivo, visto che riporterebbe nella società un individuo che ha tutti gli effetti di desocializzazione del carcere di lì a pochi mesi, né sarebbe umana; ma il risultato di tutto ciò è che allora questo tipo di intervento preventivo che abbiamo visto essere estremamente importante per la diminuzione delle 150.000 morti evitabili finisce col non avere conseguenze sanzionatorie. Questo è molto pesante soprattutto nell’ambito economico e ci fa capire come invece l’utilizzazione di altri strumenti potrebbe essere più efficace, tenendo anche presente che, finché si applica la pena detentiva, finché c’è la possibilità che in carcere davvero si entri, non si può deflettere di uno iota dall’applicazione delle regole garantistiche. Il rischio oggi è che un sistema che conosce solo la pena detentiva porti alla tentazione di far cadere le garanzie per superare l’ineffettività. La strada deve essere un’altra: ove si usino pene più umane, maggiormente coordinate con gli interessi economici in gioco allora, rispetto a queste pene, potrebbero essere pensate modalità applicative più rapide. La centralità della pena detentiva inoltre ha portato a un disinteresse nei confronti del tema dei profitti, di quell’accumulo dei profitti che soprattutto nell’ambito della criminalità organizzata rappresenta il volano dell’agire criminale. Nell’ambito della criminalità organizzata finché non si riesce a bloccare questo volano, cioè l’efficienza del meccanismo di produzione di ricchezza illecita, il fermare la singola posizione personale rischia di essere assolutamente inutile, perché la singola posizione personale è ampiamente surrogabile, cum grano salis. Ciò ha impedito la necessaria previsione della responsabilità penale delle persone giuridiche, perché è assurdo che nel nostro Paese i vantaggi illecitamente costituiti attraverso l’attività penalmente illecita di una persona giuridica siano totalmente intangibili, creandosi anzi un interesse oggettivo dei soci della proprietà della persona giuridica così che gli amministratori compiano reati onde raggiungere comunque un risultato economico. L’amministratore in questo senso viene ovviamente tutelato dalla proprietà, è l’unico che risponde penalmente, questo sistema è un sistema criminogeno ed è un sistema che va superato. Non si vede perché, come l’investitore corra un rischio sul piano economico nel momento in cui investe i propri denari nel mercato, non debba correre anche il rischio di un’attività colpevolmente illecita posta in essere dai soggetti che hanno la rappresentanza dell’ente. Dunque se c’è colpa del rappresentante dell’ente deve esserci una responsabilità patrimoniale della persona giuridica che di fatto viene a colpire i vantaggi illecitamente costituiti attraverso l’attività criminale. Finché non si fa questo noi avremo una contraddizione patente e difficilmente giustificabile sul piano sociale nel nostro Paese. Delineando la pena come male per chi la subisce, la centralità della pena detentiva ha precluso spazi molto importanti di collaborazione con la giustizia da parte dello stesso ambiente nel quale maturano le derive criminali di certi individui. Ci potrebbe essere un’ottima collaborazione con la giustizia da parte di chi è vicino ad un certo individuo, ma qualcuno, proprio perché è vicino ad un certo individuo e vorrebbe agire in senso preventivo, non è disposto a collaborare ad un intervento che ha solo il significato di male. Ci sono altre ragioni ma credo che dobbiamo fermarci qui. Credo che sia molto importante l’input della prima bozza di principi per la riforma del codice penale, di cui ci parlerà il presidente prof. Grosso, l’input che finalmente indica la volontà di introdurre anche nel nostro Paese pene principali di carattere non detentivo, cioè l’input orientato a dilatare il ventaglio delle sanzioni nell’ottica di una sussidiarietà reale, di una estrema ratio nel ricorso a una pena detentiva. Qui si dovrà fare una verifica impegnativa, perché ci sarà da valutare se la riforma porterà semplicemente a una dilatazione del ventaglio sanzionatorio o porterà a una reale contrazione della popolazione penitenziaria. Rispetto alla bozza che è stata presentata credo che si debba avere più coraggio: non ci si deve limitare a pene nuove che consistono, pressoché esclusivamente, nella privazione di diritti (in particolare le pene di tipo interdittivo, con un ambito di detenzione domiciliare e un ambito, inevitabilmente ristretto, di lavoro libero); penso che si possa valorizzare anche il settore delle pene-prestazione, cioè l’ambito delle pene che consistono in un comportamento attivo, che può essere anche un comportamento molto significativo. Penso a sanzioni che abbiano un significato latu senso risarcitorio rispetto alla lesione arrecata. Dico latu senso, perché non si tratta di un risarcimento del danno nei confronti della vittima, la cui entità dipende da molte ragioni contingenti, ma di un risarcimento nei confronti della società nel suo complesso. In questo modo verrebbe percorsa la strada di una risposta sanzionatoria che potrebbe essere sì onerosa, ma avere un significato non in sé odioso, ristabilendo un patto con l’ordinamento giuridico. Penso anche che dovrebbero essere introdotte serie forme di probation. Noi oggi abbiamo un affidamento in prova che agisce a posteriori dopo l’inflizione della pena; nel sistema minorile abbiamo l’istituto estremamente interessante della sospensione del processo commessa la prova. Se non vogliamo cedere alla tentazione di lasciare in carcere gli outsider sociali (coloro che sono diventati criminali in forza di situazioni obiettive di disagio) non si può prescindere da percorsi seri di probation, evitando che il carcere sia l’ultima spiaggia, ove la società non abbia altri strumenti di dialogo con altri settori. Perché questo avvenga sono necessarie strutture e purtroppo queste strutture non ci sono. Oggi però la letteratura internazionale ci insegna che la pena non detentiva può essere eseguita e a costi di gran lunga inferiori rispetto a quella detentiva. Si tratta allora di operare dei trasferimenti importanti di risorse alle strutture che possano garantire una seria esecuzione delle pene non detentive. Se abbiamo i centri di servizio sociale per adulti, se abbiamo strutture amministrative che potrebbero essere coinvolte in situazioni di carenze stupefacenti di organico e di difficoltà organizzativa, noi non potremmo fare una politica criminale migliore. D’altra parte qui va educata anche l’opinione pubblica. Nella mia città, che è Brescia, c’è una grande banconota da 120 miliardi che comincia sempre più grande a sventolare nel centro cittadino: è il nuovo palazzo di giustizia. Ebbene un marziano direbbe “Caspita, nella città di Brescia la società sta investendo 120 miliardi per la giustizia, chissà fra tre anni quali livelli di giustizia avremo”; però se parliamo all’opinione pubblica di investire un miliardo e duecento milioni per migliorare i centri di servizio sociale o le strutture che possono effettivamente fare prevenzione, allora abbiamo incomprensione e magari su di questo viene anche costruita la polemica elettorale. In questo senso andrebbe usato ampiamente anche il modello della pena pecuniaria per tassi. E’ vero che in Italia non abbiamo un fisco trasparente, però siamo entrati nell’Euro e quindi sarà anche possibile, nell’arco di qualche anno, porre termine all’alibi del non poter fare cose nuove perché le strutture amministrative italiane non sono in grado di farle. L’Italia è l’unico Paese in cui la pena pecuniaria è ineffettiva. Se guardiamo i testi di criminologia stranieri vediamo che essi dichiarano che la pena pecuniaria può essere effettivissima. In Italia lo Stato riscuote meno dell’1% delle pene pecuniarie che sono inflitte, ma questo non vuol dire fare politica criminale. La pena pecuniaria risocializzativa può essere molto significativo nel contrastare condotte a rischio, ove sono in gioco interessi economici. In questo senso credo che si possa avere il coraggio di dare spazio a quella grande speranza che è la mediazione penale. Può essere pensata anche come confronto tra agente di reato e ordinamento giuridico, perché, a differenza di quanto avviene nel processo penale, ci si dica la verità, naturalmente al di fuori dell’occhio del giudice. Il processo penale, di fronte alla minaccia dell’inflizione del male, diventa spesso luogo della menzogna; il tavolo di mediazione può essere invece il luogo di un confronto reale su ciò che è avvenuto e sui problemi della persona. Bene, dal tavolo di mediazione può uscire una proposta, talvolta molto impegnativa, per la ricostituzione di un patto con l’ordinamento giuridico che può essere portata al giudice che ne tiene conto ai fini della commisurazione della pena e, perché no, in futuro si potrebbe pensare anche, in qualche caso, ai fini della rinuncia a punire o ai fini della diminuzione della pena. In Francia questo in parte avviene; negli Stati Uniti abbiamo procedure di mediazione estremamente efficaci nell’ambito della criminalità economica, quindi potrebbe essere una sperimentazione estremamente interessante. Teniamo presente che la mediazione è veramente il contraltare dell’idea della bilancia, dell’idea della pena che tutto sommato rimane orientata alla logica della vendetta. Una giustizia dunque che sia capace di dialogo e che sia capace di ricostituire determinati legami. Del resto la mediazione non va intesa come una sorta d’istituto d’immagine in qualche ambito limitato, ma dovrebbe indicare proprio l’ottica nuova, l’ottica di una nuova giustizia che non corrisponde alla prospettiva della bilancia. E credo che un altro tema sul quale deve essere prestata una certa attenzione, seppure ci sono delicati problemi di ponderazione con i diritti di difesa, è quella dell’ammissione delle responsabilità proprie. Oggi in Italia abbiamo una considerazione dell’ammissione di responsabilità sostanzialmente finalizzata in via esclusiva alla collaborazione con la giustizia. Questo è un settore a parte dei cui problemi non è questa la sede per parlare. Oggi però abbiamo una situazione assurda. Nel nostro Paese se un cittadino che ha commesso un reato decide per molte ragioni, in rapporto alla propria coscienza, alla propria famiglia, anche per ragioni d'interesse, di ricostituire un patto con l’ordinamento, ammettendo quello che è accaduto e cercando un dialogo con l’ordinamento, non lo può fare: avrà una condanna subito e per tutto, mentre se nulla riconosce e nulla ammette avrà una condanna forse tra molto tempo e per una parte. Nessun avvocato consiglierebbe ordinariamente di ammettere determinate responsabilità Questo è un nodo molto delicato sul quale bisogna tornare a riflettere. Un riconoscimento dell’ammissione di responsabilità proprie, che so bene deve essere coniugato con molta attenzione al tema del diritto della difesa e all’esigenza di non creare fraintendimenti, resta da considerare. Ecco, se questo può costituire la base di riflessione nel momento della riforma, allora anche l’ambito, si spera contenuto, dei detenuti in carcere potrebbe trarre importanti benefici: se la pena carcere non è la pena che si infligge perché si deve punire, ma è l’extrema ratio cui si fa ricorso quando c’è una pericolosità grave di reiterazione di reati importanti, allora anche in carcere si può tentare un percorso riabilitativo che non sia soltanto sulla carta; in questo senso però deve essere detto con molta forza che le misure alternative non devono essere abbandonate. E’ un’esigenza costituzionale. Se io condanno ad una pena detentiva, non posso non dare rilievo a ciò che accade durante l’esecuzione della pena; sarebbe condannare una persona, spesso un giovane, all’inutilità del suo presente e alla disperazione. Quello che accade durante l’esecuzione della pena deve poter avere un significato per il futuro. Mi sono soffermato sugli input di carattere tecnico, credo che sul nocciolo vero della questione giustizia, che è il significato stesso di giustizia, nessuno meglio del cardinale Martini ci possa ora dare una parola fondamentale.
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