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Giustizia penale e giustizia sociale Intervento al 33° Convegno Nazionale: “Giustizia e solidarietà” del Coordinamento Enti ed Associazioni di Volontariato Penitenziario - SEAC
Roma 15 settembre 2000
Nel
corso di questa mattinata sono previsti interventi di persone che svolgono un
ruolo fondamentale ed attivo nel dar corpo nel campo penale al binomio giustizia
e solidarietà. A me che ricopro funzioni giudiziarie nel settore civile, e
quindi non sono direttamente coinvolto in simili difficili compiti, sia
consentito tentare di interrogarsi, come giurista e come cristiano, sul rapporto
tra la giustizia penale e quella carità cristiana che, nel nostro mondo
europeo, è il principale fondamento sociologico della solidarietà. Dunque potrebbe sembrare che dalle radici greche ed ebraiche della nostra cultura, e dallo stesso mondo mussulmano, ci giunga un messaggio per la assoluta inderogabilità della pena, per la certezza delle pene. Ma così non è. Accenno solo di sfuggita ai numerosi passi coranici ove si loda e si raccomanda la misericordia, non solo come atteggiamento spirituale di rinuncia all’odio e al rancore, ma anche come istituzione giuridica di rimessione totale o parziale della pena; ed affronto l’enunciazione forse più organica è compiuta del principio del perdono, il discorso della Montagna. Le
parole di tale discorso sono note: “Avete inteso che fu detto: Occhio per
occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno
ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l`altra; e a chi ti vuol
chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se
uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti domanda
e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle. Avete inteso che fu
detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i
vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre
vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa
piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi
amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il
saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno
così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro
celeste”. La
contrapposizione con il Primo Testamento non potrebbe essere più netta ed è
aggravata da quel “fu detto odierai il tuo nemico”
che è una calcata e dura interpretazione della legge antica, che
non aveva mai esplicitamente comandato l’odio (P. Beauchamp). E’ evidente il precetto della solidarietà verso l’aggredito, ma anche verso l’aggressore, verso colui che tenta di appropriarsi, vi aut fraude di un nostro bene. E’
la risposta al male con il bene. La
prima forma di risposta al male con il bene è enunciata nella
parabola del buon Samaritano. In essa Cristo propone con chiarezza il
modello del cristiano come uomo attivo nel bene, più che come custode di una
teologia o di una morale. Il Buon Samaritano non si domanda chi sia il
colpevole, e non lo ricerca (Geschè ipotizza che a questa ricerca siano invece
intenti il prete ed il levita che passano vicino alla vittima senza
soccorrerla), il Samaritano lascia “a
Dio la vendetta” e si pone invece a fianco della vittima soccorrendola con
fraterna generosità. Ma il precetto della risposta al male con il bene non è circoscritto all'aiuto alla vittima, coinvolge anche il rapporto con l’aggressore; e non è limitato, sotto questo profilo, ad piano esclusivamente spirituale o individuale, ha anche rilevanza sul piano giuridico. Un
solido approccio ci è offerto
dall’episodio della mancata lapidazione della adultera, graziata da Cristo. La
sentenza di condanna della adultera era sicuramente
giusta dal punto di vista della legge (il Vangelo non dice affatto che
costei fosse innocente), tuttavia Gesù non si limita a dare alla donna un
conforto spirituale: si interpone nella
vicenda, in termini giuridici diremmo che vanifica un giudicato. "Allora
gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala
nel mezzo, gli dicono: 'Maestro, questa donna è stata sorpresa in
flagrante adulterio. Ora
Mosé,
nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu
che ne dici?' Questo dicevano per
metterlo alla prova e per avere di che accusarlo”. Evidentemente prevedevano
che Gesù non avrebbe avallato l’esecuzione, e da ciò contavano di trarre
elementi per accusarlo di non rispettare la legge. Non prevedevano però la
risposta: “alzò il capo e disse
loro: 'Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei'. E
chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma
quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno cominciando dai più anziani fino
agli ultimi" (Gv.8). Gli
anziani si allontanano per primi perché, più rapidamente degli altri, hanno
compreso la loro corresponsabilità nella colpa. L’insegnamento
di Cristo non suggerisce l’abbandono della giustizia, né trasforma le colpe
individuali in colpe collettive; ed infatti Gesù ammonisce l'adultera «neanch'io
ti condanno; và e d'ora in poi non peccare più». Ma rivela la
compartecipazione di tutti alla colpa di uno e manifesta che il colpevole è
portatore di una dignità che la colpa non riesce a cancellare: la possibilità
di riscatto che ne scaturisce merita, anche sul piano strettamente giuridico, di
essere perseguita. Certo
non è casuale che la rinuncia alla sanzione soccorra una adultera e non un
assassino; ma penso sarebbe riduttivo interpretare l’episodio come una
semplice abrogazione della pena i morte per i reati sessuali. O anche più
estensivamente come sola abrogazione della pena di morte. L’episodio
– a mio avviso - dimostra che si deve tentare di avvicinare la legge del
taglione (che è - lo ribadisco - giusta) alla legge dell’amore e quindi della
solidarietà Secondo un processo spirituale ed operativo che Carlo Maria Martini
vede espresso nella parabola del Figliuol Prodigo ove l’amore aiuta il
colpevole a riconoscere la realtà del mondo umano da cui si è escluso, e ad
assumere la sua responsabilità. In questa linea si colloca il messaggio del Santo Padre per il Giubileo nelle carceri. La
pena detentiva per favorire la rieducazione se non la redenzione, deve
comportare una attività lavorativa, un tenore di vita non degradante,
“regolari contatti con la famiglia”, la possibilità di un minimo di intimità
e di isolamento rispetto al resto dei condannati, in modo che –per un verso-
non sia ostacolata la socializzazione, ma – per altro verso - sia impedito il
formarsi di una comunità dominata dai più violenti e prepotenti. Ed il lavoro
e la rieducazione possono condurre a riduzioni di pena che sollevino dal
tormento del carcere coloro che non costituiscono più un pericolo, offrendo
loro nel contempo un efficace sostengo “nel nuovo inserimento sociale”.
Ad una prima lettura, il Nuovo Testamento ci appare dunque incompatibile con l’Antico; tanto da offrire qualche spunto alla tesi manichea contenuta nel vangelo apocrifo detto «libro di Giovanni Evangelista» secondo cui il Dio del Vecchio Testamento, creatore del mondo, si identifica con Satana. L’esistenza di una “quarta persona” divina Satana dio del male è del resto presente nella gnosi, e consente di risolvere il problema del male molto più facilmente della visione cattolica. Pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 30 giugno -1° luglio 2000
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